L’aumento percentuale del numero degli anziani nella popolazione ha portato con sé una serie di conseguenze non soltanto d’ordine pratico, ma anche psicologico e antropologico. La senescenza, che biologicamente è ritenuta contraria alle leggi della selezione della specie, ha storicamente assunto un ruolo importante nella natura sociale dell’uomo, tuttavia la maggior diffusione di soggetti che raggiungono l’età avanzata ha “svalutato” per cosi dire la figura del “vecchio come sapiente”, cioè di un individuo che – avendo vissuto più degli altri diverse situazioni e problematiche – era visto come depositario raro e prezioso della conoscenza e della memoria del gruppo sociale. Mentre la lenta evoluzione culturale tipica della società preindustriale (rurale e pastorale) poneva il vecchio, sapiente e, spesso, padrone, in una posizione privilegiata, il radicale cambiamento avvenuto nelle società avanzate ed industrializzate ha sovvertito il precedente ordinamento gerarchico; a tali nuove regole non sono sfuggite neanche le civiltà contadine (persiste ancora in isole culturali in estinzione – ma parzialmente segregate – come i nomadi tuaregh o i Dogon del Mali e nelle società impostate su un’etica religiosa come i paesi arabi). La presenza di una rapidissima evoluzione e poco graduale della società non permette ad un individuo, in cui la recezione ed elaborazione dei dati procede più lentamente degli altri, un adattamento progressivo ed adeguato. L’acquisizione di tecniche e la proposizione del modello capitalistico fanno si che il fuoco dell’attenzione sia centrato maggiormente verso il futuro più che sul passato, ponendo sulla scena come primo attore il personaggio giovane e rampante, ricco di idee nuove, e non certo quello dell’anziano saggio e depositario di verità che vengono viste come arcaiche ed antiquate.
La condizione di anziano, cui non compete più il ruolo di pater familias all’interno del gruppo familiare, né di saggio nella società, è ulteriormente aggravata dalla maggiore brevità dei cicli culturali rispetto ai cicli vitali (attualmente circa ogni 5-10 anni avvengono modificazioni scientifiche e tecnologiche in grado di apportare importanti cambiamenti nella realtà culturale e sociale). Nonostante il fatto che l’asticella della senescenza si sia fortemente spostata più in là negli anni, anche grazie alla sempre maggiore aspettativa di vita (che in italia ha superato gli 84 anni per le donne), l’anziano si ritrova quindi in una posizione sociale progressivamente sempre più svantaggiata.
Se il fine dell’individuo è padroneggiare se stesso e l’ambiente per trarre profitto dall’ambiente stesso (ciò non solo in termini di mero benessere materiale ma anche di soddisfacimento di scelte psicologiche), la vecchiaia si presenta come diminuzione della capacità di successo. In una società tecnocratica non è più utile la conoscenza della tradizione quanto l’aggiornamento, non più l’anziano saggio ma il giovane rampante.
In un ambiente a così elevato turnover di informazioni e di modelli di vita è balzato alla ribalta, ovviamente il problema psicologico dell’identità personale, attualmente molto studiato in ambito psichiatrico per quanto riguarda le patologie dell’adolescenza, ma rilevante, per ovvi motivi anche nell’anziano per cui tale problematica andrebbe approfondita anche nella popolazione anziana seppur in altro senso e con altre prospettive, per una più efficace possibilità di intervento. La vecchiaia può risultare, così, l’età del disadattamento, sia per fattori legati alla fisicità dell’individuo (diminuzione delle capacità fisiche e mentali) sia per fattori legati all’ambiente (ed in particolare alle scarse o assenti aspettative che normalmente si hanno nei confronti della vecchiaia).
La terza età è sicuramente un momento critico nella vita dell’uomo, in cui l’evoluzione può dirigersi verso la maturità dell’esperienza, oppure tramutarsi in tragedia dolorosa, in cui il rischio è quello di una sofferenza cupa che assume le forme della depressione involutiva, se non giunge fino al suicidio attivo o al lasciarsi passivamente finire. L’indirizzare la propria vecchiaia verso una delle due vie prospettate dipende da diversi fattori di cui sicuramente rilevante è l’attuazione progressiva dell’anticipazione di sé nella condizione attesa. Cosi se l’individuo ha orientato le sue scelte verso una senescenza supportata unicamente dal dovere-riconoscenza degli altri andrà incontro con facilità a problemi connessi con l’invalidazione di tali aspettative (allontanamento dei figli, separazione dal contesto lavorativo, perdita del ruolo, oblio sociale…).
L’orientamento delle scelte verso una revisione dell’interazione con l’ambiente esterno parallelamente alla propria evoluzione personale porterà, molto probabilmente, ad un positivo adattamento personale e sociale (conservazione del ruolo sociale, rapporti affettivi e di amicizia intensi, attività compensatorie al lavoro…) .
Un approccio statistico-epidemiologico a tale problema ha spinto alla ricerca dei fattori responsabili di un “invecchiamento di successo” ed in particolare dei fattori che influenzano lo stato di salute e l’integrità funzionale dell’individuo anziano.
Riportiamo a titolo di esempio la ricerca di Guralnik et al. (1989) dove emergono, come elementi rilevanti, l’assenza di patologie organiche come ipertensione, cardiopatie, angina, broncopneumopatie, diabete, artrosi e artrite nonché l’essere normopeso, non fumatore, non consumatore/moderato consumatore di alcool, coniugato e con reddito elevato.
Le due ipotesi, psicologica la prima e socio logica la seconda, non sono, a nostro avviso, contrastanti tra di loro se si considera che i fattori riportati da Guralnik sono in pratica dei comportamenti adattativi adeguati finalizzati al controllo (coping) dello stress sulla base dell’utilizzo delle proprie potenzialità psicologiche.
La vecchiaia viene costruita dall’individuo stesso ma ciò non esclude la possibilità che la società, e noi stessi – come uomini e come medici – possiamo contribuire a favorire lo sviluppo di una senescenza serena. Basti pensare a come possiamo intervenire sull’isolamento psichico dell’anziano, presente non solo nell’anziano che vive da solo in casa, ma – forse più frequentemente – anche nell’anziano costretto a vivere insieme ad altri coetanei in un ambiente istituzionale. E intuibile come generalmente l’istituzionalizzazione di un demente – ma anche del vecchio non autonomo – sia connessa allo stress psicologico, allo scoraggiamento, all’isolamento di chi lo assiste piuttosto che alla gravità della malattia; allo stesso modo la difficoltà nel rapporto da parte del personale sanitario, con il vecchio istituzionalizzato deriva da fattori analoghi.
Solo di recente si sono sviluppati programmi di training finalizzati a ridurre lo stress psicologico ed a migliorare le capacità di coping delle persone che assistono (caregivers) il paziente anziano e/o demente; ma l’accento, purtroppo, viene posto sempre sulla famiglia o, al limite, sulla società, escludendo il medico – o forse è il medico che si esclude preferendo non affrontare il tema angosciante dell’ineluttabile procedere verso la morte dell’essere umano.
Concludiamo con una citazione che a noi appare molto significativa:
“…una psicopedagogia della vecchiaia è possibile solo dentro culture che attribuiscono alla vecchiaia un significato positivo” (Rapisarda, 1983).
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Lo Staff di Medicina OnLine
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