La funzione sociale del crimine. Abbiamo bisogno del crimine?
Disprezziamo e temiamo il crimine. Ma non può essere un caso che i mass media dedichino tanto spazio a delitti, il più delle volte, terribili. Le “storie vere” di figli che uccidono i genitori, la carriera dell’assassino di professione che “elimina” decine di persone, gli atti di un serial killer… Perché permettiamo che ci vengano proposti racconti e immagini legati a tali casi? Probabilmente esistono delle spiegazioni psicologiche di questo fatto. Forse cerchiamo di dominare le nostre paure contemplando con debita distanza ciò che l’essere umano è capace di fare. Tuttavia, quello che si vede in televisione è pubblico e il coinvolgimento va ben oltre la contemplazione e il sollievo o lo stupore consumati tra le mura domestiche. Per strada; sui mezzi, negli uffici parliamo dei delitti, commentiamo, mentre tutti scuotono la testa, diciamo frasi del tipo: “Ma io, proprio, queste cose… non le capisco, non le posso e non le voglio accettare.” Perché lo diciamo?
Insieme, si afferma e riafferma che un omicida, un terrorista, che qualcuno ha varcato un limite e che occorre ristabilire l’ordine punendolo. Mentre ci ripetiamo, evidenziamo e confermiamo un consenso che esiste tra noi e gli altri. Tale idea comune riguarda il limite di ciò che è lecito e, dal lato opposto, anche i comportamenti che giudichiamo accettabili. Nella vita normale, spesso ci facciamo concorrenza, a volte ci odiamo anche. Ma abbiamo qualcosa in comune, esiste un legame tra di noi. Per esserne consapevoli, insegna il sociologo francese Émile Durkheim (Épinal, 15 aprile 1858 – Parigi, 15 novembre 1917), ci “servono” i criminali. Ovviamente, tale constatazione non significa che i delitti non debbano essere puniti. Anche la condanna formale da parte un giudice o di una giuria e l’espiazione contribuiscono a tener viva la coesione (o “solidarietà”, come dice Durkheim) dei membri di una società.
Causale o funzionale?
Durkheim discute il ruolo della criminalità dal punto di vista funzionale: si chiede quale sia l’apporto di questo fenomeno sociale alla sopravvivenza della società. Occorre distinguere tale tipo di ragionamento, che mira ad analizzare lo scopo a cui un determinato fatto o evento possa servire, dalla spiegazione causale. Quest’ultima risponde alla domanda: da che cosa è stato causato il fatto in questione? Nella sua opera sulla divisione del lavoro, Durkheim distingue meticolosamente tra i due tipi di spiegazione. Il processo della divisione del lavoro è stato causato da un aumento della popolazione che conviveva in territori ristretti. La funzione di tale tendenza, invece, è quella di rendere le modalità della produzione dei beni più efficace. La funzionalità può costituire un vantaggio per la diffusione di un fenomeno, ma non lo può creare. Nel caso della criminalità, la teoria di Merton (vedi paragrafo “I crimini della società”) rappresenta un esempio di analisi causale.
Il consenso
Se tutti condividono certi giudizi, la convivenza è facilitata. Tuttavia, tale senso comune può creare anche un’atmosfera soffocante, dominata dal disprezzo del nuovo e di quello che è “inudito”. In questo caso, il legame sociale diventa un limite per l’evoluzione della società. Qualcuno, ogni tanto, deve spezzare il consenso, introducendo dei modi di agire o di pensare nuovi.
Dal momento che non può esserci società laddove gli individui non divergono più o meno dal tipo collettivo, è inevitabile che alcune di queste divergenze presentino un carattere criminale.
(Émile Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Edizioni di Comunità, Torino 2001)
Gli individui divergenti, dal punto di vista del sentire comune, facilmente vengono
visti come devianti e, secondo Durkheim, anche come criminali.
Quante volte il reato non è altro che l’anticipazione della morale futura, il primo passo verso ciò che sarà! Secondo il diritto ateniese, Socrate era un criminale e la sua condanna non aveva nulla di men che giusto; eppure il suo reato – vale a dire la sua indipendenza di pensiero – è stato utile non soltanto all’umanità, ma anche alla sua patria. [ … ] La libertà di pensiero della quale godiamo attualmente non avrebbe mai potuto venir proclamata se le regole che la vietavano non fossero state violate prima di venire solennemente abrogate. Tuttavia, in quei tempi, tale violazione costituiva un reato, essendo un’offesa arrecata a sentimenti ancora vivissimi nella generalità delle coscienze. [ … ] La libera filosofia ha avuto come precursori gli eretici di ogni specie, che il braccio secolare ha giustamente colpito durante tutto il corso del Medioevo e fino alla vigilia dell’epoca contemporanea.
(Émile Durkheim, op. cit.)
Il punto di vista del sociologo
Le affermazioni di Durkheim presentano il mondo criminale da un punto di vista insolito e anche molto astratto. Perseguendo il suo scopo teorico, il sociologo non vuole soffermarsi sulla sofferenza reale delle persone coinvolte nella criminalità. In ogni caso, scrive Durkheim, “dal fatto che il reato rientra nell’ambito della sociologia normale non consegue però che non si debba odiarlo”. Lo studioso cerca un punto di vista esterno e in questo modo riesce a mettere in chiaro un fatto che, anche nelle discussioni quotidiane sulla criminalità, non dovremmo dimenticare.
Contrariamente alle idee correnti, il criminale non appare più come un essere non socievole, una specie di elemento parassita, di corpo estraneo e non assimilabile introdotto in seno alla società; egli è invece un agente regolare della vita sociale. Quando il tasso di criminalità scende sensibilmente al di sotto del suo livello ordinario, questo fatto non deve essere per noi un motivo di soddisfazione, perché questo apparente progresso è certamente contemporaneo e solidale a qualche perturbamento sociale. Per questo motivo la cifra dei ferimenti non è mai così bassa come nei periodi di carestia.
(Émile Durkheim, op. cit.)
I crimini della società
Per esplorare la natura del crimine, non occorre inoltrarsi in un mondo oscuro, lontano dall’umanità normale. I criminali, sostiene Durkheim, costituiscono una parte della società da cui sono, nel contempo, rifiutati. Ma forse il nesso tra la coscienza collettiva dominante che condanna e il reato è ancora più stretto. In alcuni paesi certi tipi di criminalità sono più diffusi che non in altri. Viene da sospettare che certi sistemi culturali inducano al delitto. Tra questi paesi si trovano gli Stati Uniti, afferma il sociologo statunitense Robert King Merton (pseudonimo di Meyer R. Schkolnick) (Filadelfia, 5 luglio 1910 – New York, 23 febbraio 2003), e aggiunge: “Ogni società ha la criminalità che si merita”. Per sviluppare la sua tesi, Merton utilizza un altro concetto durkheimiano: l’anomia. Tale concetto si riferisce a una situazione in cui l’individuo non sa come comportarsi perché si trova di fronte a norme in contraddizione tra di loro, oppure perché è del tutto sprovvisto di regole da seguire.
Non si sa più ciò che è possibile e ciò che non lo è, ciò che è giusto che è ingiusto, quali sono le rivendicazioni e le speranze legittime, quali quelli che passano la misura.
(Emile Durkheim, Il suicidio. Studio di sociologia, Rizzoli, Milano 1997)
Nel suo studio di sociologia del 1897, Il suicidio, Durkheim annovera l’anomia come
“fattore regolare e specifico” che porta all’atto autodistruttivo. Merton, invece, indaga sulla criminalità come risultato di uno stato di anomia causato da un conflitto all’interno della società americana.
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine
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