Il disturbo da gioco d’azzardo (DGA), precedentemente noto come “gioco d’azzardo patologico” è un comportamento problematico legato al gioco d’azzardo caratterizzato dall’incapacità di resistere alla tentazione persistente, ricorrente e maladattiva di giocare somme di denaro, in genere sempre più elevate, per alleviare una sensazione di tensione da cui il giocatore non riesce a liberarsi. Il disturbo da gioco d’azzardo compromette sia la salute psico-fisica del giocatore sia la sfera lavorativa e relazionale dell’individuo, a causa dei problemi economici e legali conseguenti.
Il disturbo da gioco d’azzardo presenta moltissime similitudini con il disturbo da uso di sostanze, tra cui: dipendenza dalla gratificazione, comportamento edonico, impulsività nel prendere decisioni/sottovalutazione delle conseguenze, perdita di controllo, craving, ricerca del rischio e tolleranza e astinenza. Proprio per queste similitudini, il DGA è stato definito “dipendenza senza sostanza” ed è stato inserito nel DSM-5 (la quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, uscita nel 2013) nel capitolo sui disturbi correlati a sostanze e da addiction, mentre nella quarta edizione del manuale era inserito tra i “disturbi del controllo degli impulsi non altrimenti classificati”.
Introduzione alla terapia del disturbo da gioco d’azzardo
Nonostante i costi personali significativi conseguenti al disturbo da gioco d’azzardo, le ricerche evidenziano che solo una piccola percentuale dei soggetti affetti richiede formalmente il trattamento (Slutske et al., 2009; Suurvali, Hodgins, Toneatto e Cunningham, 2011). Infatti, Suurvali e colleghi (2008) hanno rilevato che meno del 6% dei giocatori d’azzardo problematici accede a un trattamento vero e proprio. Come fattori che contribuiscono alla scarsa richiesta di cure, si annoverano (Suurvali, Cordingley, Hodgins e Cunningham,2009):
- il desiderio di gestire il problema da soli;
- la mancanza di informazioni sui servizi terapeutici cui rivolgersi;
- un senso di vergogna per il proprio problema.
Il soggetto inoltre, almeno finché non arriva a perdere somme importanti, spesso non desidera curarsi perché è convinto di non avere alcun problema. Ad esempio può pensare: “Le slot machine ed i gratta e vinci sono perfettamente legali e non faccio nulla di male se ogni tanto mi diverto a giocare”. Il giocatore patologico in molti casi non si rende conto di quanto sta investendo in termini di soldi, di tempo, di perdita di relazioni umane, di perdita delle performance lavorative e di perdita della qualità della vita in generale.
Sebbene si ritenga che si possa avere una regressione spontanea del gioco d’azzardo problematico nel 35% dei soggetti (Slutske, 2006), nella maggior parte dei casi il decorso è cronico, con variazioni temporali della gravità dei sintomi (Petry, 2005). Pertanto, la maggioranza delle persone affette da disturbo da gioco d’azzardo tende a non migliorare, inoltre fallisce quando tenda una auto-cura senza l’aiuto di un professionista: risulta insomma chiara la necessità di terapie di provata efficacia svolte con l’aiuto di uno o più esperti di medicina delle dipendenze.
Fortunatamente, le ricerche hanno portato a diverse opzioni terapeutiche potenzialmente efficaci per questi pazienti, specie se messe in atto contemporaneamente. Attualmente sono disponibili diversi approcci, tra cui:
- trattamento in regime-di ricovero,
- trattamento intensivo ambulatoriale,
- terapia cognitivo-comportamentale individuale o di gruppo,
- terapia farmacologica.
Non tutti approcci appena elencati sono comprovati in modo ugualmente convincente (Hodgins, Stea e Grant, 2011; Pallesen, Mitsem, Kvale, Johnsen e Molde, 2005; Odlaug, Stinchfield, Golberstein e Grant, 2012). Ad oggi non vi sono evidenze a favore dell’utilità dei programmi terapeutici residenziali per il disturbo da gioco d’azzardo, comunque questa opzione può essere considerata nell’eventualità della coesistenza di disturbi da uso di sostanze che richiedono la disintossicazione. Esistono, invece, evidenze a favore dei trattamenti ambulatoriali per il disturbo da gioco d’azzardo.
Sebbene attualmente non vi sia accordo su un trattamento standard, quelli più studiati sono stati la terapia cognitivo-comportamentale (TCC) e la terapia con farmaci antagonisti degli oppioidi, come il naltrexone (approvato dalla FDA nel trattamento della dipendenza da alcol e nella dipendenza da oppiacei) e il nalmefene, che bloccano i recettori mu (μ) oppioidi e modulano la trasmissione dopaminergica nelle vie mesocorticolimbiche.
Sebbene non vi sia comune accordo sugli interventi standard psicoterapici o farmacologici per il disturbo da gioco d’azzardo, le evidenze disponibili indicano che esistono diversi approcci efficaci. Poiché sia i farmaci sia la psicoterapia non funzionano in tutti i pazienti, rimane aperto il dibattito sul trattamento migliore per ciascun paziente specifico. Ad esempio, una domanda importante che il medico deve porsi è: esistono indici predittivi, clinici, genetici o di altro tipo atti a consentire di scegliere il trattamento più idoneo? Oppure: esistono farmaci più efficaci di altri? Grant e colleghi (2008) hanno rilevato che i pazienti con disturbo da gioco d’azzardo e storia familiare di alcolismo rispondevano in modo significativamente maggiore a un’eventuale terapia con antagonisti degli oppiacei, naltrexone e nalmefene. Ciò è importante come segnale di incoraggiamento dei pazienti ad accedere al trattamento, in quanto nel disturbo da gioco d’azzardo sono bassi sia la richiesta di trattamento sia il mantenimento della risposta. L’identificazione di altri indici predittivi e la loro divulgazione potrebbero spingere più soggetti con gioco d’azzardo problematico a chiedere aiuto.
Analogamente, un’altra domanda da farsi è: quale forma di psicoterapia ha fatto registrare gli esiti migliori e per quante sedute ci si può attendere che i pazienti rimangano in terapia? Mentre alcuni studi hanno indicato che sono necessarie almeno venti sedute per trattare il disturbo da gioco d’azzardo, in altri gli interventi brevi sono risultati ugualmente efficaci. L’identificazione delle componenti più efficaci della TCC (terapia cognitivo-comportamentale) e dei pazienti che più potrebbero rispondere
sarebbe auspicabile in quanto gli interventi brevi (cioè a breve termine), rispetto a quelli protratti (TCC standardizzata in molte sedute) potrebbero invogliare più pazienti al trattamento e ridurre contemporaneamente i costi.
Un altro importante problema irrisolto è il ruolo delle malattie psichiatriche o generali coesistenti spesso osservate nel disturbo da gioco d’azzardo. Dopo tutto, la comorbilità psichiatrica è la norma, non l’eccezione, nel disturbo da gioco d’azzardo, ma le conseguenze della presa in carico di una malattia concomitante sugli esiti della terapia e sulla gravità dei sintomi variano ampiamente. Ad esempio, per quanto riguarda 1’efficacia del trattamento, la dipendenza da nicotina risulta influenzata negativamente in alcuni studi (Grant, Donahue, Odlaug e Kim, 2011), ma non in altri (Odlaug, Stin-
chfield, Golberstein Grant, 2013). Lo stesso si può dire di pazienti con disturbo da gioco d’azzardo affetti anche da un disturbo da uso di sostanze (Champine e Petry, 2010; Hodgins e el-Guebaly, 2000). La valutazione degli effetti reali della comorbilità sull’impegno al trattamento, sulla sua efficacia e sulla persistenza dei risultati positivi è di importanza vitale e riguarda un settore della ricerca relativamente nuovo nel disturbo da gioco d’azzardo.
L’ultimo problema, e anche il più controverso, circa il disturbo da gioco d’azzardo, è se l’astensione debba essere l’obiettivo primario del trattamento per tutti i pazienti. Piuttosto, non sarebbe preferibile prospettare ad alcuni pazienti la possibilità di controllare e ridurre il gioco d’azzardo? La ricerca sulla dipendenza da alcol ha dimostrato una crescente accettazione della riduzione del consumo di alcol a livello nazionale in Europa, tanto che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene valida l’idea della riduzione del danno (e non del totale azzeramento del danno) come un obiettivo primario del trattamento (OMS, 2001).
Di conseguenza, prospettare flessibilità (cioè riduzione e maggior controllo del gioco d’azzardo, al posto della totale astensione) ad alcuni pazienti affetti dal disturbo che chiedono di essere trattati, potrebbe, ipoteticamente, aumentare tali richieste e allo stesso tempo ridurre lo stress da trattamento. Ladouceur e colleghi (2009) hanno riportato che il 66% dei soggetti trattati con quattordici sedute di TCC standard per il disturbo da gioco d’azzardo cambiava il proprio obiettivo dal controllo del gioco all’astensione nel corso delle 12 settimane di terapia (Ladouceur, Lachance e Fournier, 2009). Comunque, le rinunce al trattamento e i successi del trattamento erano simili sia nei soggetti che ottenevano il controllo che in quelli che si astenevano dal comportamento. Ciò mantiene aperta la
questione, anche se – intuitivamente – alcuni pazienti, probabilmente quelli con gravità del comportamento da lieve a moderata, potrebbero trarre maggior beneficio dal controllo o dalla riduzione del gioco d’azzardo, mentre nel caso di una sintomatologia più grave (con comorbilità associata significativa) sia preferibile mirare all’astensione totale. Sono necessarie ulteriori ricerche per trovare risposte a questo e ad altri quesiti che ancora restano insoluti, per approfondire le nostre conoscenze sul disturbo da gioco d’azzardo e per migliorare qualità e tempestività del trattamento.
Servizi per le Dipendenze patologiche (SerD)
In Italia sono presenti i SerD (acronimo di Servizi per le Dipendenze patologiche), servizi pubblici del Sistema Sanitario Nazionale dedicati alla prevenzione, alla cura e al recupero delle persone che hanno problemi vari di dipendenza senza sostanza (dipendenze comportamentali), compreso il gioco d’azzardo patologico. Nei SerD (similarmente a quello che avviene nei SerT, Servizi per le Tossicodipendenze) operano professionisti qualificati e specializzati nelle dipendenze come medici, infermieri, sociologi, educatori, assistenti sanitari, assistenti sociali, psicologi e personale OTA (Operatore Tecnico per l’Assistenza). I servizi offerti non sono a pagamento.
Terapie psicosociali per il disturbo da gioco d’azzardo
Per il trattamento del disturbo da gioco d’azzardo sono stati sperimentati vari approcci psicosociali, come:
- la terapia cognitivo-comportamentale e quella cognitiva motivazionale comportamentale,
- l’esposizione a segnali evocati,
- il colloquio motivazionale,
- le terapie familiari.
Di questi approcci, probabilmente i più studiati sono alcune forme di terapia cognitiva e comportamentale. Le strategie cognitive comprendono classicamente ristrutturazione cognitiva, psicoeducazione, interpretazione delle pulsioni al gioco d’azzardo e facilitazione della presa di coscienza del fondamento irrazionale del comportamento. Gli approcci comportamentali si focalizzano su attività alternative da sostituire al gioco d’azzardo e sull’identificazione di ciò che spinge a giocare.
In questo articolo ci occuperemo della terapia cognitiva/cognitivo-comportamentale per la cura del disturbo da gioco d’azzardo.
Terapia cognitivo-comportamentale (TCC)
Vari studi controllati hanno valutato gli effetti della ristrutturazione cognitiva sul disturbo da gioco d’azzardo. In uno di essi (n = 40) sono state utilizzate, in associazione, la terapia cognitiva individuale e alcune strategie di prevenzione delle recidive (Sylvain, Ladouceur e Boisvert, 1997). A 12 mesi, il gruppo trattato presentava una riduzione significativa della frequenza del gioco d’azzardo e un aumento del controllo autopercepito sul proprio comportamento. Le stesse tecniche di terapia cognitiva associata alla prevenzione delle recidive sono state confrontate in un gruppo di 88 giocatori d’azzardo patologici e in soggetti di controllo in lista di attesa per 3 mesi. Il gruppo trattato presentava un miglioramento dei sintomi a 3 mesi e lo manteneva dopo un follow-up di 12 mesi (Ladouceur et al., 2001). Inoltre, è stata valutata una versione della terapia cognitiva di gruppo (due ore la settimana) in 71 soggetti con disturbo da gioco d’azzardo rispetto a pazienti con la stessa condizione e in lista di attesa (Ladouceur et al., 2003). Dopo dieci sessioni, 1’88 dei soggetti in TCC non soddisfaceva più i criteri per gioco d’azzardo patologico rispetto al 20 dei soggetti affetti e in lista di attesa. Dopo un follow-up di 24 mesi, il 68 dei soggetti del gruppo originariamente in TCC ancora non soddisfaceva i criteri diagnostici. Sebbene la terapia cognitiva, sia individuale sia di gruppo, si sia dimostrata promettente nel trattamento del disturbo da gioco d’azzardo, in questi studi le percentuali di uscita dal trattamento sono risultate elevate (fino al
47%).
Gli studi più comuni e quelli disegnati con maggiore rigore hanno valutato la TCC associata ad altri interventi. Uno studio randomizzato sulla TCC in giocatori di slot machine ha suddiviso i pazienti in quattro gruppi (Echeburùa, Baez e Fernàndez-Montalvo, 1996):
- controllo-individuale della pulsione al gioco ed esposizione diretta con prevenzione della risposta;
- ristrutturazione cognitiva di gruppo;
- un’associazione di (1) e (2);
- assegnazione alla lista di attesa.
Dopo un follow-up di 12 mesi, le percentuali di astensione dal gioco d’azzardo o minima frequenza del comportamento erano più alte nei soggetti in terapia individuale (69%) rispetto a quelli in ristrutturazione cognitiva di gruppo (38%) e in terapia di associazione (38%). Gli stessi ricercatori hanno anche valutato la prevenzione individuale e di gruppo delle recidive in soggetti che avevano portato a compimento un programma terapeutico individuale di 6 settimane. A 12 mesi, 1’86% dei soggetti in prevenzione individuale delle recidive e il 78% di quelli in prevenzione di gruppo non avevano avuto recidive rispetto al 52% dei soggetti senza terapia nel follow-up (Echeburùa, Femàndez-Montalvo e Baez, 2001).
Milton e colleghi (2002) hanno confrontato la TCC con la TCC associata a interventi volti a migliorare l’adesione al trattamento in quaranta soggetti partecipanti a otto sessioni di terapia individuale rigorosamente standardizzata. Gli interventi comprendevano:
- rinforzo positivo,
- identificazione degli ostacoli al cambiamento,
- tecniche applicate di risoluzione dei problemi.
Solo il 35% del gruppo in sola TCC ha portato a termine il trattamento rispetto al 65% del gruppo in TCC associata agli altri interventi. Dopo un follow-up di 9 mesi non sono state rilevate differenze negli esiti dei due gruppi (Milton, Crino, Hunt e Prosser, 2002).
Melville e colleghi (2004) hanno pubblicato due studi su approcci mirati a tre aspetti specifici (interpretazione della casualità, risoluzione dei problemi e prevenzione delle recidive) per migliorare gli esiti. Nel primo studio, 13 pazienti sono stati assegnati per 8 settimane al gruppo in TCC, al gruppo in TCC mirata agli aspetti specifici o al gruppo in lista di attesa. Nel secondo studio 19 pazienti sono stati assegnati per 8 settimane al gruppo in terapia mirata agli aspetti, specifici o al gruppo in lista di attesa. Nei soggetti in TCC mirata agli aspetti specifici si è avuto un miglioramento significativo sia dopo il trattamento sia dopo un follow-up di 6 mesi (Melville, Davis, Matzenbacher e Clayborne, 2004).
Un altro studio ha valutato otto sessioni di TCC rigorosamente standardizzata assegnando casualmente 231 pazienti a sedute settimanali con un terapeuta individuale, alla terapia di auto-aiuto mediante un testo di esercizi o al riferimento all’Anonima Giocatori d’azzardo (Petry et al., 2006). Sebbene in tutti i gruppi sia stata rilevata una riduzione del gioco d’azzardo, i soggetti assegnati alla terapia individuale o all’auto-aiuto mediante il testo di esercizi presentavano una riduzione del comportamento maggiore
rispetto a quelli riferiti all’ Anonima Giocatori d’Azzardo (Petry et al., 2006).
Uno studio condotto sulla TCC di gruppo a breve termine ha evidenziato, in quattordici pazienti, che 1’85,7% del gruppo trattato presentava miglioramenti significativi dei sintomi legati al gioco d’azzardo dopo il trattamento, rispetto al 42,9% del gruppo di controllo in lista di attesa (Myrseth, Litlerè, Steylen e Pallesen, 2009). L’altra variabile dipendente, il dispendio di denaro per giocare d’azzardo nell’ultima settimana, non ha però indicato differenze significative tra i gruppi, con miglioramenti del 28,6% in
entrambi, sia in quello dei soggetti in TCC, sia in quello di controllo in lista di attesa.
Uno studio eseguito su 471 giocatori d’azzardo, sebbene non controllato, ha valutato l’esecuzione della TCC tramite Internet in un programma di 8 settimane. Dopo il programma terapeutico, sono stati osservati cambiamenti significativi nei problemi correlati al gioco d’azzardo, nella pulsione a giocare, nel ridotto controllo del gioco e nei pensieri distorti legati alla cognizione del problema (Castrén et al., 2013).
Sebbene i risultati di questo studio siano promettenti, la ricerca evidenzia che vi è un effetto “placebo” piuttosto importante nel trattamento del disturbo da gioco d’azzardo. Questo effetto può spiegare il motivo per cui i risultati a breve termine di questi studi sembrano più incoraggianti dei benefici a lungo termine. Una revisione Cochrane (Cowlishaw et al., 2012) ha valutato 14 studi (n = 1245), di cui 11 confrontavano la TCC con soggetti in lista di attesa o inviati all’Anonima Giocatori d’Azzardo.
La TCC a zero e tre mesi dal trattamento ha presentato effetti terapeutici favorevoli da medi a elevati. Comunque, gli studi che esaminavano i benefici a lungo termine (cioè follow-up di 9 e 12 mesi) derivanti dalla TCC, hanno dimostrato effetti minori, non significativi. La review concludeva che vi è una certa efficacia della TCC nel ridurre il comportamento del gioco d’azzardo immediatamente dopo la terapia, ma la durata dell’ effetto terapeutico non è nota.
Terapia cognitiva motivazionale comportamentale (CMBT)
In uno studio pilota che valutava la terapia cognitiva motivazionale comportamentale (Cognitive Motivational Behavior Therapy, da cui l’acronimo CMBT), un metodo che associa la TCC specifica per il gioco d’azzardo e tecniche di colloquio motivazionale come ausilio nella risoluzione dell’ambivalenza al trattamento e per migliorare le percentuali di permanenza in terapia, 9 soggetti sono stati sottoposti a un trattamento rigorosamente standardizzato e sono stati confrontati con un gruppo di controllo costituito da 12 pazienti in trattamento secondo la prassi comune (Treatment As Usual, TAU). Tutti i 9 soggetti (100%) del gruppo in CMBT hanno portato a termine il trattamento, rispetto a solo
8 soggetti (66,7) del gruppo in TAU. Inoltre, sono stati osservati miglioramenti significativi nel follow-up a 12 mesi nel gruppo in CMBT (Wulfert, Blanchard, Freidenberg e Martell, 2006).
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine
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