Immunità specifica (acquisita): linfociti, T killer, T helper, T γδ, B ed anticorpi

MEDICINA ONLINE SISTEMA IMMUNITARIO IMMUNITA INNATA ASPECIFICA SPECIFICA ADATTATIVA PRIMARIA SECONDARIA  DIFFERENZA LABORATORIO ANTICORPO AUTO ANTIGENE EPITOPO CARRIER APTENE LINFOCITI B T HELPER KILLER MACROFAGI MEMORIAIl sistema immunitario adattativo (noto anche come “immunità specifica” o “immunità acquisita”) si è evoluto nei primi vertebrati e consente una risposta immunitaria più forte, così come la memoria immunologica, in cui ogni agente patogeno viene “ricordato”. La risposta immunitaria adattativa è antigene-specifica e richiede il riconoscimento di specifici antigeni “non-self” nel corso di un processo chiamato di presentazione dell’antigene. La specificità antigenica consente la generazione di risposte che sono su misura per specifici agenti patogeni o per le cellule dell’organismo infettate dal patogeno. La possibilità di intraprendere queste risposte adeguate, viene mantenuto nel corpo grazie a “cellule di memoria”. Se un agente patogeno infetta l’organismo più di una volta, queste cellule di memoria specifiche vengono utilizzate per eliminarlo rapidamente.
Il sistema immunitario adattativo è costituito prevalentemente da cellule della linea linfoide (della serie T e B) e da cellule accessorie. I linfociti T si suddividono in linfociti T helper CD4+ e linfociti T citotossici (CTL) CD8+. La funzione effettrice dei primi è quella di coordinare il complesso della risposta immunitaria attivando linfociti CD8+ e macrofagi (T-helper 1) o linfociti B (T-helper 2) e di sostenere il processo infiammatorio. Tale attività è svolta attraverso interazioni cellula-cellula o mediante rilascio di particolari fattori solubili detti citochine.

La funzione effettrice dei linfociti CD8+ è quella di lisare le cellule infette grazie alla produzione delle linfochine. I linfociti B attivati si specializzano invece in cellule secernenti anticorpi (plasmacellulle). Le cellule accessorie sono le cellule reclutate dal compartimento innato del sistema immunitario. A differenza dell’immunità aspecifica o innata l’immunità specifica o acquisita è stata selezionata dall’evoluzione per la sua capacità di adattarsi dinamicamente alla variabilità di agenti ambientali riconosciuti come un pericolo per l’organismo. Tale variabilità è ovviamente una caratteristica peculiare di molti microrganismi infettivi in continua co-evoluzione con il sistema immunitario che cerca di distruggerli.

L’immunità specifica deve dunque essere in grado di rispondere a tutte le possibili combinazioni molecolari presenti in natura e in grado di interagire con l’organismo. Poiché si stima che il numero di queste combinazioni si aggiri intorno a 1010, l’immunità adattativa deve dotarsi di un numero altrettanto vasto di strutture cellulari capaci di legare specificatamente ad ogni singolo antigene. Dato che però il genoma umano comprende complessivamente solo 30.000 geni è impossibile che ciascuna struttura di presentazione e riconoscimento antigenico sia codificata da un singolo gene. Questo paradosso può essere sciolto analizzando la composizione molecolare degli anticorpi, dei recettori dei linfociti T (TCR) e dei complessi MHC: si tratta infatti in tutti i casi di complessi proteici costituiti dalla combinazione di più strutture modulari codificate da molteplici (ma comunque numericamente limitate) varianti di geni dello stesso tipo. Ogni cellula del sistema immunitario adattativo nel corso della sua maturazione opera un riarrangiamento casuale del repertorio genetico ereditato dal soggetto in linea germinale generando una combinazione unica di MHC, TCR o anticorpi.

Un ulteriore raffinato meccanismo di generazione della diversità del patrimonio anticorpale (inteso in senso lato come il complesso delle strutture deputate al riconoscimento dell’antigene) è dato dall’inserimento di piccole mutazioni puntiformi all’interno dei geni che codificano per i moduli delle strutture di riconoscimento antigenico. Quest’ultimo fenomeno è particolarmente accentuato nei linfociti B in fase di maturazione tardiva (ipermutazione somatica).

Il riarrangiamento somatico delle strutture anticorpali è ovviamente un processo estremamente dispendioso, poiché determina la produzione di numerose varianti non funzionali. In altri termini ciascun individuo sviluppa autonomamente dal momento della nascita un sistema immunitario basato sui determinanti genetici ereditati in linea germinale, ma dotato di caratteristiche uniche e irripetibili dovute alla casualità degli eventi di ricombinazione e alla pressione selettiva dell’ambiente esterno. L’adozione di una forma di riconoscimento antigenico non precostituita e in grado di evolversi con la storia biologica dell’individuo pone il sistema immunitario nella necessità di dotarsi di alcune funzioni particolarmente evolute normalmente proprie di sistemi superiori come il sistema nervoso centrale.

Linfociti

Le cellule del sistema immunitario adattativo sono speciali tipi di leucociti, chiamati linfociti. I linfocita B e i linfociti T sono i principali tipi e derivano dalle cellule staminali ematopoietiche del midollo osseo. I linfociti B sono coinvolte nella risposta immunitaria umorale, mentre i linfociti T sono coinvolti nella risposta immunitaria cellulo-mediata.

Si i linfociti B che T possiedono molecole recettoriali che riconoscono obiettivi specifici. I linfociti T riconoscono un bersaglio “non-self”, come un agente patogeno, solo dopo che gli antigeni (piccoli frammenti del patogeno) sono stati elaborati e presentati in combinazione con un recettore “self” chiamato complesso maggiore di istocompatibilità (MHC). Esistono due principali sottotipi di linfociti T: i T killer e i T helper. In aggiunta vi sono le cellule T regolatorie che hanno un ruolo nella modulazione della risposta immunitaria. I linfociti T killer riconoscono solo gli antigeni accoppiati alle molecole MHC di classe I, mentre le cellule T helper e i linfociti T regolatori riconoscono solo gli antigeni accoppiati a molecole MHC di classe II. Questi due meccanismi di presentazione dell’antigene riflettono i diversi ruoli dei due tipi di linfociti T. Un terzo, sottotipo minore sono le linfociti T γδ che riconoscono gli antigeni intatti che non siano vincolati ai recettori MHC.

Al contrario, il recettore antigene-specifico dei linfociti B è una molecola anticorpale presente sulla loro superficie in grado di riconoscere patogeni interi, senza che vi sia la necessità della processazione dell’antigene. Ogni stirpe di linfociti B esprime un anticorpo diverso, in modo che il set completo dei recettori per l’antigene dei linfociti B rappresentino tutti gli anticorpi che il corpo può produrre.

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Linfociti T killer

I linfociti T Killer sono un sottogruppo di linfociti T in grado di uccidere le cellule infettate da virus (e altri agenti patogeni) o altrimenti che risultino danneggiate o disfunzionali. Come con i linfociti B, ciascun tipo di T riconosce un antigene diverso. I linfociti T killer vengono attivati quando il loro recettore (TCR) si lega a questo antigene specifico in un complesso con il recettore per l’MHC di classe I di un’altra cellula. Il riconoscimento del complesso MHC-antigene viene aiutato da un co-recettore posto sul linfocita T e chiamato CD8. Il linfocita T viaggia attraverso il corpo alla ricerca di cellule dove i recettori MHC I portano questo antigene. Quando il linfocita viene attivato dal contatto con tali cellule, rilascia citochine, come la perforina che ha come bersalgi i pori della membrana plasmatica della cellula bersaglio, permettendo così agli ioni, all’acqua e alle tossine di entrare. L’ingresso di un’altra tossina, chiamata granulisina (una proteasi). induce la cellula bersaglio a ricorrere all’apoptosi (una sorta di “suicidio cellulare”). L’uccisione delle cellule infettate da parte dei linfociti T risulta particolarmente importante per prevenire la replicazione del virus. L’attivazione dei linfociti T è strettamente controllata e in genere richiede un molto forte segnale di attivazione MHC/antigene, o segnali di attivazione aggiuntivi forniti dai linfociti T “helper” (vedi in seguito).

Linfociti T helper

I linfociti T helper regolano sia la risposta immunitaria innata che qualla adattativa, oltre a promuovere la risposta stessa ad un particolare agente patogeno.[55] Queste cellule non hanno alcuna attività citotossica e non uccidono le cellule infette o gli agenti patogeni direttamente; agiscono invece controllando l’azione immunitaria dirigendo gli altri linfociti ad eseguire queste attività.

I T helper esprimono i recettori delle cellule T (T cell receptors – TCR) che riconoscono l’antigene legato alle molecole MHC di classe II. L’antigene viene riconosciuto anche dal corecettore CD4 presente sui linfociti helper, che recluta le molecole all’interno del linfocita responsabili per l’attivazione dei linfociti T. In generale si può dire che lo scopo dei linfociti T helper è quello di secernere citochine in seguito a stimolazione antigenica fungendo da “aiutanti” sia nella risposta immunitaria adattativa che innata, in aperta contrapposizione ai CD8 citotossici che svolgono un’azione diretta nell’uccisione delle cellule. A partire dai linfociti T helper si sviluppano diverse sottopopolazioni in risposta alle citochine prodotte durante le fasi precoci della risposta. I linfociti T differenziati poi producono citochine che li caratterizzano, favorendo la propria popolazione e inibendo le altre. Questo differenziamento fa parte della specializzazione dell’immunità adattativa dal momento che, sottotipi diversi possiedono funzioni effetrici ben diverse. I segnali delle citochine migliorano la funzione microbicida dei macrofagi e l’attività delle cellule T killer. Inoltre, l’attivazione dei linfociti T helper provoca una sovraregolazione di molecole espresse sulla superficie del linfocita T, come il CD40 ligando, che forniscono segnali supplementare stimolatori necessari per attivare i linfociti B produttrici di anticorpi.

Linfociti T γδ

I linfociti T γδ costituiscono un’esigua minoranza dei linfociti T ed esprimono un recettore alternativo TCR di tipo γδ riseptto ai linfociti T (αβ) CD4+ e CD8+, ma condividono le caratteristiche dei T helper, dei T citotossici e dei linfociti NK. A differenza degli altri linfociti possono attivarsi e rispondere direttamente, senza ulteriori segnali costimolatori. Questi linfociti non riconoscono complessi peptide-MHC, ma fosfantigeni, delle molecole a 5 atomi di carbonio contenenti residui di fosfato, fondamentali in quanto consentono il riconoscimento, da parte del recettore, del fosfantigene. La produzione dei fosfantigeni avviene nella via del mevalonato; essi sono degli intermedi, come il colesterolo e l’IPP (isopentenil pirofosfato). I linfociti T γδ sono relativamente più frequenti a livello del tratto gastroenterico, dove si suppone che svolgano un’attività di regolazione della risposta immunitaria (tale funzione sembra essere persa in corso di malattie come la celiachia). I T γδ si trovano a cavallo del confine tra immunità innata e adattativa. Da un lato, le cellule T γδ sono una componente dell’immunità adattativa essendo in grado di modificarsi per produrre una diversità del recettore e possono anche sviluppare una memoria fenoripica; d’altra parte, i vari sottogruppi fanno anche parte del sistema immunitario innato. Un anticorpo è costituito da due catene pesanti e due catene leggere. La regione variabile unica permette ad un anticorpo di riconoscere il suo antigene corrispondente.

Linfociti B e anticorpi

Un linfocita B è in grado di identificare gli agenti patogeni, quando gli anticorpi si legano sulla sua superficie di un antigene specifico estraneo al corpo. Questo complesso antigene/anticorpo viene attaccato dal linfocita B e viene degadato in peptidi da parte della proteolisi. I linfociti B, quindi, mostrano questi peptidi antigenici sulla sua superficie delle molecole MHC di classe II. Questa combinazione tra MHC e antigene attira il linfocita T helper corrispondente, che rilascia linfochine e attiva il linfocita B. Quando il linfocita B viene attivato, esso inizia a dividersi e la sua prole (plasmacellule) secerne milioni di copie dell’anticorpo che riconosce questo antigene. Questi anticorpi circolano nel plasma sanguigno e nel sistema linfatico, si legano agli agenti patogeni che esprimono l’antigene e li segnano per la distruzione grazie all’attivazione del complemento o per l’assorbimento e la distruzione da parte dei fagociti. Gli anticorpi possono neutralizzare gli agonisti direttamente, legandosi alle tossine batteriche o interferendo con i recettori che i virus e i batteri utilizzano per infettare le cellule.

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Anticorpi: (immunoglobuline): tipi, caratteristiche e funzioni

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La struttura di un anticorpo

Un anticorpo (immunoglobulina nel caso fosse su un Linfocita B vergine) è una proteina con una peculiare struttura quaternaria che le conferisce una forma a “Y”. Gli anticorpi hanno la funzione, nell’ambito del sistema immunitario, di neutralizzare corpi estranei come virus e batteri, riconoscendo ogni determinante antigenico o epitopo legato al corpo come un bersaglio. In maniera schematica e semplificata si può dire che ciò avviene perché al termine dei bracci della “Y” vi è una struttura in grado di “chiudere” i segmenti del corpo da riconoscere. Ogni chiusura ha una chiave diversa, costituita dal proprio determinante antigenico; quando la “chiave” (l’antigene) è inserita, l’anticorpo si attiva. La produzione di anticorpi è la funzione principale del sistema immunitario umorale.

Caratteristiche generali

Gli anticorpi sono una classe di glicoproteine del siero, il cui ruolo nella risposta immunitaria specifica è di enorme importanza. Hanno la capacità di legarsi in maniera specifica agli antigeni (microorganismi infettivi come batteri, tossine o qualunque macromolecola estranea che provochi la formazione di anticorpi). Negli organismi a sangue caldo vengono prodotte dai linfociti B, trasformati per adempiere a questo compito, in seguito a stimoli specifici, in plasmacellule. Le immunoglobuline, insieme ai recettori dei linfociti T TCR(T Cell Receptors) e alle molecole del complesso maggiore di istocompatibilità MHC (Major Histocompatibility Complex) sono le uniche molecole capaci di legare l’antigene in misura altamente specifica. La storia degli anticorpi nasce nel 1890 con la scoperta da parte di Emil von Behring e Shibasaburo Kitasato dell’immunità umorale per la quale usarono il siero di animali immunizzati per trattare la difterite in alcuni pazienti. La componente proteica di questo siero venne chiamata inizialmente antitossina per l’azione rivolta verso le tossine batteriche. Con la scoperta che le immunoglobuline potevano reagire con molte altre sostanze, presero il nome attuale di anticorpi e le molecole in grado di legarli antigeni. Le immunoglobuline fanno parte delle gammaglobuline facenti parte a loro volta delle globuline uno dei due gruppi di proteine plasmatiche (insieme alle albumine).

Struttura degli anticorpi

I primi studi sugli anticorpi analizzavano immunoglobuline presenti nel sangue di soggetti immunizzati. Questa metodica, tuttavia, non condusse a grandi conclusioni per la presenza di moltissimi anticorpi differenti fra loro e specifici per porzioni diverse di un antigene (anticorpi policlonali). Notevoli progressi furono effettuati esaminando il sangue di pazienti affetti da mieloma multiplo, un tumore delle plasmacellule, che porta alla formazione di grandi quantità di anticorpi uguali.

Gli anticorpi sono complessi proteici a struttura modulare che condividono una struttura di base ma che presentano notevoli variabilità in specifiche regioni capaci di legarsi a particelle strutturalmente complementari denominate antigeni. In maniera molto grossolana, sono paragonabili a delle Y, costituite da un gambo centrale e due bracci laterali. Le immunoglobuline sono simmetriche e composte da 4 catene: due leggere e due pesanti legate covalentemente da ponti disolfuro presenti tra residui di cisteine le cui posizioni variano a seconda del tipo di anticorpo. Ogni catena contiene una serie di unità costituite da circa 110 amminoacidi formanti una struttura globulare chiamata dominio Ig. Il dominio è contenuto anche in altre proteine che, per la presenza di questa particolare struttura, vengono accomunate sotto il nome di superfamiglia delle Ig. Nello specifico il dominio Ig è costituito da due foglietti β tenuti insieme da un ponte disolfuro composti da 3-5 “nastri” ad andamento antiparallelo collegati da anse le cui sequenze amminoacidiche possono essere importanti per il riconoscimento dell’antigene.

Sia le catene pesanti che leggere sono formate da una regione variabile (V) aminoterminale ed una regione costante (C) carbossiterminale. Le regioni variabili di una catena pesante (VH) e di una leggera (VL) formano il sito di legame per l’antigene, dove le anse dei domini Ig contengono la variabilità che rende specifico il legame con l’antigene. Poiché ogni immunoglobulina è composta da due catene leggere e due pesanti, saranno presenti due siti di legame. Le regioni costanti non partecipano al riconoscimento dell’antigene ma alle funzioni effettrici degli anticorpi.

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Organizzazione delle Immunoglobuline

Alcuni esperimenti condotti da Rodney Porter servirono a capire le associazioni tra le catene e parte della struttura delle immunoglobuline. Essendo proteine, esse possono andare incontro a digestione proteolitica se trattate con specifici enzimi. Usando la papaina le immunoglobuline vengono tagliate in 3 frammenti costituiti dai due bracci e dal gambo. Due di questi sono identici e costituiti dalla catena leggera ancora legata ad un pezzo di catena pesante. Dal momento che la capacità di legare l’antigene è mantenuta vengono chiamati frammenti con sito di legame per l’antigene (FAB = Fragment, Antigen Binding). Il terzo frammento è composto dalle parti restanti delle catene pesanti che tendono ad aggregarsi e a cristallizzare. Viene per questo chiamato frammento cristallizzabile (FC = Fragment, crystallizable). L’uso della pepsina, invece, genera un solo frammento F(ab’)2 costituito dai due FAB legati insieme. La restante parte dell’immunoglobulina non genera un Fc, ma piccoli frammenti peptidici.

Regione variabile (V) e ipervariabile

Le regioni variabili, costituite da un dominio Ig per entrambe le catene contengono le cosiddette regioni ipervariabili: tratti della catena polipeptidica dove si riscontrano le maggiori variabilità amminoacidiche che donano a ciascun anticorpo la specificità unica verso un antigene. Tali regioni sono costituite dalle 3 anse che collegano i nastri adiacenti dei foglietti β costituite ciascuna da 10 amminoacidi. Dal momento che sono presenti due domini per ogni regione variabile (VH e VL) ci saranno complessivamente 6 regioni ipervariabili per ogni braccio dell’immunoglobulina. Queste sequenze formano una superficie complementare all’antigene e sono pertanto chiamate anche regioni determinanti la complementarità(Complementarity-Determining Regions, CDR’) e sono numerate a partire dall’estremità N-terminale di ogni dominio in CDR1CDR2 e CDR3. Quest’ultimo si è scoperto essere sensibilmente più variabile rispetto agli altri due ed è quello che effettua più contatti con l’antigene. Le 6 CDR presenti in ciascun braccio sono esposte a formare un’ampia superficie in maniera simile ai recettori per i linfociti T. La caratteristica di variabilità solo in specifiche regioni consente alle immunoglobuline di avere una struttura di base costante.

Regione costante (C)

La regione costante, costituita da un dominio Ig nelle catene leggere (CL) e da 3-4 domini in quelle pesanti (CH1,2,3,4), permette alle immunoglobuline di avere peculiarità che si ripercuotono nella funzione effettrice delle stesse. Anzitutto, gli anticorpi possono essere prodotti in forma secreta o legati alla membrana: ciò dipende da differenze presenti nella regione costante delle catene pesanti. Nella forma di membrana, infatti, sono presenti una regione idrofobica ad α-elica (che sarà la parte transmembranale) e una regione carica positivamente (che sarà situata all’interno della cellula). La regione compresa fra i domini CH1 e CH2, detta regione cerniera, di tutte le immunoglobuline ha la particolarità di essere flessibile e di permettere un diverso orientamento (fino a 90° gradi) dei bracci in modo da poter legare più antigeni contemporaneamente. Infine, differenze presenti nella sequenza amminoacidica della regione costante conferiscono una distinzione delle immunoglobuline in classi (denominate anche isotipi) in base alle differenze presenti.

Classi delle catene pesanti

Esistono 5 tipi di catene pesanti, il cui nome è caratterizzato da alcune lettere greche (α, δ, ε, γ e μ), che danno vita a diverse classi di immunoglobuline denominate con la corrispondente lettera dell’alfabeto latino: IgAIgDIgEIgG e IgM. Alcune sono ulteriormente suddivise in sottoclassi. Anticorpi appartenenti ad uno stesso isotipo condividono essenzialmente la sequenza amminoacidica della regione costante che è diversa da quella delle altre classi. La maggior parte delle funzioni effettrici è mediata dal legame con un recettore; la sequenza amminoacidica diversa presuppone recettori diversi e conseguentemente funzioni diverse.

Isotipo Catena H (sottoclasse) Domini Ig nella catena H Emivita (giorni) Concentrazione nel siero (mg/ml) Forma secreta Presenza Funzioni Altro
IgA α (IgA1 e IgA2) 3 6 3,5 Monomero, dimero, trimero Secrezioni mucose (principalmente), sangue, latte materno Immunità e protezione delle mucose, debole opsonizzante e attivatore del complemento La presenza nel latte materno permette il trasferimento di protezione dalla madre al figlio, resistenti alla proteolisi
IgD δ 3 3 Tracce Nessuna Sangue Recettore per i linfociti (BCR) Sensibili alla digestione proteolitica
IgE ε 4 2 0,05 Monomero Sangue, tessuti Difesa contro gli elminti e ipersensiblità immediata (reazioni allergiche)
IgG γ (IgG1, IgG2, IgG3 e IgG4) 3 23 13,5 Monomero Sangue, tessuti, placenta Opsonizzazione, attivazione del complemento, citotossicità cellulare anticorpo-dipendente (ADCC), inibizione dei linfociti B, immunità neonatale (fino a 6-12 mesi dalla nascita) È la principale Ig del siero (80% ca.), sono i soli anticorpi che passano attraverso la placenta
IgM μ 4 5 1,5 Pentamero Sangue (a causa delle grosse dimensioni) Attivazione del complemento, attività agglutinante, recettore per i linfociti B (BCR) Sono i principali anticorpi durante la prima settimana d’infezione

Classi delle catene leggere

Nelle catene leggere le regioni costanti sono formate da un solo dominio Ig. In questa regione costante possono esserci differenze sequenziali che dividono le catene in due grandi classi: κ e λ. Ogni imunoglobulina può avere due catene per tipo e mai di due tipi diversi. Il 60% degli anticorpi contiene κ e solo il 40% λ, nell’uomo. Detto rapporto viene alterato in presenza di tumori dei linfociti B in quanto porteranno alla produzione di un elevato numero di anticorpi uguali.

Organizzazione genica

Le immunoglobuline sono codificate in 3 loci disposti su 3 cromosomi diversi (catene pesanti nel cromosoma 14, catene leggere di tipo κ nel cromosoma 2 e di tipo λ nel cromosoma 22). In ogni locus, l’estremità 5′ è occupata da un cluster di segmenti genici V (di 300 bp ca. ciascuno) che occupa una regione di circa 2000 kb. In posizione 5′ di ogni gene V è presente un esone leader (L) che codifica per gli ultimi amminoacidi N-terminali. Questa sequenza serve a indirizzare correttamente le proteine durante la sintesi e viene rimossa nella proteina matura. Ancor più a monte, naturalmente, c’è il promotore del gene V. In posizione 3′ si trovano i segmenti J(da “joining”) (di 30-50 bp ca.), separati da sequenze non codificanti e associati con i geni della regione costante a valle. Nel locus H (delle catene pesanti) tra i geni V e J si trovano ulteriori sequenze chiamate segmenti D. Nelle catene leggere il dominio variabile è codificato dai geni V e J, mentre nelle catene pesanti dai geni V, D e J. Le regioni ipervaribili 1 e 2 (CDR1 e CDR2) sono codificate da un segmento presente in ogni gene V, mentre la CDR3 è codificata dalle sequenze poste fra le regioni (tra V e J per le leggere, tra V e D e D e J per le pesanti) e dalle regioni stesse (J per le leggere, D e J per le pesanti). Le sequenze non codificanti, qui come in tutto il DNA, non svolgono alcun ruolo che si concretizzi nella produzione di proteine, ma sono fondamentali per regolare l’espressione dei geni adiacenti e la loro ricombinazione.

Numero di geni

Nell’uomo i segmenti V sono costituiti da circa 100 geni per la catena pesante, 35 geni per la catena leggera κ e 30 per quella λ. I segmenti costanti sono costituiti da 9 geni per le catene pesanti, 1 gene per le catene leggere κ e 4 per la λ. I geni delle catene leggere sono formati da un singolo esone, mentre quelli delle catene pesanti da 5-6 esoni di cui 3-4 codificano per la catena e gli altri 2 per la regione C-terminale che deve percorrere la membrana (inclusa la coda citoplasmatica). Anche i segmenti D e J sono costituiti da un numero variabile di geni.

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Sintesi ed assemblaggio

Le immunoglobuline, essendo proteine, vengono prodotte, assemblate ed espresse come comuni proteine. Le tappe prevedono una trascrizione, una traduzione e dunque una rifinitura che le porta alla secrezione o all’espressione sulla membrana. Nel caso specifico degli anticorpi le tappe più importanti e che determinano l’estrema diversità tra di essi sono gli avvenimenti portanti alla produzione di un mRNA maturo e pronto alla traduzione. Prima della traduzione, difatti, vi sono modificazioni post-trascrizionali quali l’editing o semplicemente il processamento, ma soprattutto gli eventi pre-trascrizionali: la ricombinazione. Ciò che determina effettivamente la diversità è la capacità delle cellule che producono anticorpi di riarrangiare le sequenze geniche contenenti i loci per le Ig così da creare un’ampia varietà di regioni variabili leganti antigeni.

Ricombinazione

E’indubbiamente la tappa più importante ed è condivisa anche con il recettore dei linfociti T. Questa avviene solo nelle cellule in grado di esprimere gli enzimi che la permettono (Rag-1 e Rag-2), e di fatto gli unici tipi sono proprio i linfociti B e i linfociti T. L’espressione di suddetti enzimi è tra i caratteri che permettono di osservare, durante la maturazione, la differenziazione verso la linea linfocitaria delle cellule staminali emopoietiche (vedi maturazione dei linfociti B e dei linfociti T). I loci delle immunoglobuline sono caratterizzati da diversi segmenti, V, J, C e, per le catene pesanti, anche D. La ricombinazione consiste in un “taglia-incolla” di segmenti diversi. Tutto inizia dal riarrangiamento DJ (se presente D), e il conseguente V(D)J. Viene perciò creato un trascritto primario che contiene anche sequenze non codificanti fra J e C. Il successivo processamento porta alla formazione di un mRNA maturo pronto per la traduzione.

Scambio di classe

Lo scambio di classe delle catene pesanti avviene durante l’attivazione dei linfociti B nei centri germinativi ad opera dei linfociti T-follicolari e, in porzione minore, nei foci extrafollicolari. Questa capacità di cambiare classe fornisce una versatilità maggiore dal momento che classi diverse svolgono al meglio funzioni effettrici diverse garantendo una alla risposta immunitaria migliore. Il processo è noto come ricombinazione per scambio nella quale un esone V(D)J già riarrangiato ricombina con la regione C di un gene più a valle. Questo processo richiede le sequenze note come regioni di scambio presenti all’estremità 5′ di ogni gene C e precedute da un iniziatore della trascrizione chiamato esone I a sua volta preceduto da una sequenza promotrice. Il tutto prende inizio con CD40 e alcune citochine che attivano la trascrizione dell’esone I, della regione di scambio e dell’esone C del loci μ e della classe interessata allo scambio. Si forma il cosiddetto trascritto germinativo (che non codifica per nessuna proteina) che si lega al filamento codificante del DNA generando un loop R, cioè un’ansa del filamento opposto (non codificante). In quest’ansa agisce l’enzima AID che catalizza la deaminazione delle citosine trasformandole in uracile. Un secondo enzima, la uracil-N-glicosilasi, rimuove i residui di uracile lasciando regioni prive di basi azotate che vengono rimossi da un terzo enzima, ApeI generando dei tagli nel filamento. Questi tagli si ripercuotono anche nel filamento codificante. Le regioni di scambio dei due loci ora possono essere avvicinate ed unite tramite la riparazione delle rotture della doppia elica. L’esone V(D)J viene quindi portato in prossimità della C finale e il tutto viene trascritto e tradotto, formando le Ig volute.

Ipermutazione somatica

Durante la proliferazione dei linfociti B che producono anticorpi avviene una maturazione dell’affinità delle immunoglobuline verso gli antigeni. Nei geni V del locus, infatti, è presente una frequenza di mutazione pari a 1 su 1000 paia di base, circa un migliaio di volte superiore a qualsiasi altro gene del genoma. Questa caratteristica è detta ipermutazione somatica. Questo porta ad una mutazione per ogni mitosi che si estrinseca in un accumulo di mutazioni che portano ad un aumento dell’affinità verso l’antigene. Queste mutazioni sono principalmente concentrate nelle regioni che determinano la complementarità e sono maggiormente presenti nelle IgG che nelle IgM. Uno degli agenti di questa alta frequenza di mutazioni è proprio AID, l’enzima coinvolto nello scambio di classi. La sua capacità di deaminazione delle citosine causa l’eliminazione dell’uracile formato e la sua sostituzione con una base azotata qualsiasi. Tutto ciò è poi controllato da una selezione dei linfociti per impedire che mutazioni errate portino a sviluppare anticorpi inutili o potenzialmente dannosi.

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Legame con gli antigeni

Un antigene è una qualsivoglia sostanza in grado di legarsi ad un anticorpo (zuccheri, lipidi, ormoni o peptidi di qualsiasi grandezza), mentre un immunogeno è qualcosa in grado di attivare i linfociti B. Nella realtà solo le macromolecole (quindi non tutti gli antigeni) sono in grado di stimolare i linfociti B, dal momento che è necessaria l’aggregazione di più recettori per l’antigene (cross-linking) o antigeni proteici che attivino i linfociti T-helper (che poi attiveranno i B stessi). Molti piccoli antigeni (apteni) non sono immunogeni, ma lo diventano se legati con delle macromolecole (carrier) formando il complesso aptene-carrier. Gli anticorpi si legano solo a specifiche parti degli antigeni denominati determinanti o epitopo. Nel caso delle proteine, costituite da più livelli di organizzazione, esistono due tipi di determinanti: determinanti lineari , che riconoscono la struttura primaria e determinanti conformazionali per la struttura terziaria. Le macromolecole possono contenere più determinanti, anche ripetuti, e la presenza di tali epitopi uguali viene definita polivalenza. La natura dei legami anticorpo-antigene è non covalente e di tipo reversibile. La forza di questo legame è chiamata affinità dell’anticorpo. Una maggiore affinità (espressa in termini della costante di dissociazione) significa che basta una bassa concentrazione dell’antigene perché il legame avvenga. Questo è un concetto importante, perché durante la risposta immunitaria vi è una produzione continua di anticorpi con un’affinità sempre maggiore. Antigeni polivalenti permettono più legami con lo stesso anticorpo. Il legame di IgG e IgE interessa al massimo due siti combinatori, vista la natura monomerica dell’immunoglobulina. Per le IgM, invece, la natura pentamerica permette un legame di un singolo anticorpo con 10 epitopi differenti. La forza del legame con l’anticorpo non dipende solo dall’affinità verso il singolo antigene, ma dalla somma di tutti i legami che possono essere effettuati. Questa forza “multipla” è nota come avidità. In questo modo una Ig a bassa affinità, ma che può effettuare più legami, presenta un’avidità elevata. Questo ha un’importanza funzionale dal momento che si è vista una maggiore efficienza di attivazione della risposta da parte di anticorpi legati a molti antigeni rispetto che una singola Ig con due siti combinatori. L’anticorpo e l’antigene legati insieme formano un immunocomplesso. Esiste una precisa concentrazione detta zona di equivalenza in cui quasi tutti gli anticorpi sono legati con la quasi totalità degli antigeni. Si viene a formare un grosso reticolo molecolare che se accade in vivo può portare a pesanti reazione infiammatorie dette malattie da immunocomplessi. Naturalmente aumentando le molecole di antigeni o anticorpi si sposta l’equilibrio e i grossi complessi si rompono.

Anticorpi come antigeni

Essendo proteine le immunoglobuline, o porzioni di esse, possono essere viste come antigeni. Ogni anticorpo presenta una specifica combinazione di isotipi, allotipi e idiotipo. Si definisce allotipo la variante polimorfica di anticorpi presente in ogni individuo, idiotipo le differenze tra le regioni variabili fra immunoglobuline diverse, isotipo la classe dell’immunoglobulina stessa. L’allotipo è la conseguenza dell’elevato polimorfismo dei geni che codificano per le immunoglobuline ed è quindi possibile riscontrare differenze anche fra anticorpi di individui di una stessa specie. L’idiotipo rappresenta l’individualità dell’anticorpo in sé, dal momento che coincide con il repertorio di antigeni che può legare. L’idiotipo può essere anche definito come la somma di tutti gli idiotopi individuali di una molecola anticorpale, cioè con i determinanti antigenici che possono associarsi con una regione variabile. Ogni anticorpo ha idiotopi multipli. Queste tre caratteristiche possono comportarsi da determinanti antigenici e quindi essere riconosciuti da altre immunoglobuline (rete idiotipica). Esistono anticorpi antiallotipo ed entrano in gioco specialmente quando si inocula in una specie del siero contenente anticorpi prelevati da una specie diversa (e va sotto il nome di malattia da siero), ma anche anticorpi anti-idiotipo.

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Funzioni e correlazioni strutturali

Specificità e diversificazione

La prima caratteristica che rende gli anticorpi importanti nell’immunità è la specificità con cui riconoscono l’antigene. Sono in grado, infatti, di distinguere tra frammenti proteici che differiscono anche per un solo amminoacido, ma anche di legare più antigeni diversi nel fenomeno conosciuto come cross-reattività. La specificità, però, deriva dalla capacità di creare anticorpi sempre diversi che possano legare antigeni differenti capaci di costituire un repertorio anticorpale estremamente ampio. Questa diversificazione è frutto dei passaggi che portano alla formazione delle immunoglobuline a partire da un ridotto numero di geni (vedi sopra o ricombinazione V(D)J. L’estrema specificità, inoltre, non nasce subito con la produzione del primo anticorpo, ma deriva da una serie di generazioni che portano a miglioramenti successivi e ad una maturazione dell’affinità.

Legame con l’antigene

Le funzioni effettrici delle immunoglobuline entrano in gioco solo dopo il legame con l’antigene. Prima, infatti, non sarebbero in grado di attivare la fagocitosi dei macrofagi (opsonizzazione, da parte delle IgG), la degranulazione di mastociti (IgE) o di attivare il complemento.

Il tipo di classe

È già stato detto come le differenze presenti nelle regioni costanti delle catene pesanti possano costituire classi diverse di immunoglobuline. L’appartenenza ad una classe rispetto che ad un’altra permette agli anticorpi di reagire meglio verso i patogeni per dislocazione (le IgA agiscono prevalentemente nelle mucose), per funzione (solo le IgE possono indurre risposte efficienti verso gli elminti) e per durata (le IgG hanno un’emivita molto più elevata). Ad ogni modo, i linfociti B possono produrre tutti i tipi di classi a partire da IgM o IgD attraverso il fenomeno di switching isotipico (o scambio di classe).

Anticorpi naturali

Gli anticorpi naturali sono un particolare tipo di immunoglobuline che vengono prodotte fisiologicamente senza un’esposizione all’antigene. Questi anticorpi sono per lo più agenti contro carboidrati, antigeni di membrana; prodotti dai linfociti B della zona marginale o linfociti B-1 e dotati di una bassa affinità.

Risposta anticorpale

Gli anticorpi sono i principali protagonisti della risposta immunitaria umorale insieme alle cellule che li producono, i linfociti B. Durante la risposta immunitaria i linfociti B vengono attivati dai linfociti T helper a produrre grandi quantità di anticorpi sempre più efficienti per rispondere al meglio all’ antigene. La principale funzione degli anticorpi è quella di opsonizzare i microbi, cioè legarsi a loro e facilitare la loro distruzione (attraverso fagocitosi o lisi cellulare). Le diverse classi (interscambiabili fra loro) permettono una risposta più efficiente rispetto alla natura e alla localizzazione del patogeno. La risposta primaria si concentra sulla produzione di IgM, mentre successivamente agiscono le IgG.

Neutralizzazione

Il solo legame con l’antigene può impedire diverse funzionalità patogene. Ne sono esempi l’anticorpi contro l’emoagglutina, una proteina usata dal normale virus dell’influenza che legandosi impedisce che infetti altre cellule dell’organismo o i cambiamenti della superficie batterica conseguenti al legame che inibiscono di interagire con i recettori. In altri casi, come i batteri che causano tetano e difterite, gli anticorpi si legano alle tossine che producono impedendo il loro legame su proteine del nostro organismo. La maggior parte degli anticorpi neutralizzanti nel siero è composta da IgG e IgA, sebbene tutte le immunoglobuline possano legare antigeni con la regione variabile.

Opsonizzazione

Come sopra citato, gli anticorpi svolgono la funzione di opsonizzare i patogeni e sono quindi delle opsonine. Questa funzione è svolta dalle IgG. A tal fine macrofagi e neutrofili (altre cellule fagocitarie) sono provvisti di recettori che legano le porzioni Fc. Questo legame causa l’attivazione della fagocitosi e la seguente trasduzione del segnale che porta ad attività microbicida e al processo infiammatorio. Sono stati identificati recettori per le IgG, per IgE, per gli anticorpi polivalenti e il recettore Fc neonatale (FcRn).

Recettori per le IgG

recettori Fc per le IgG o FcγR sono tutti, salvo per un caso di inibitore, attivatori cellulari. Ne esistono 3 tipi (FcγRI, FcγRII, FcγRIII) con le relative isoforme, ma tutti possiedono una catena α responsabile del legame con le immunoglobuline e della diversa affinità nel legarla. La catena α è quasi sempre associata con delle catene deputate alla trasduzione del segnale. Per il FcγRI sono due catene γ strutturalmente omologhe alle catene ζ del TCR, per il FcγRIII possono essere sia le catene γ che le stesse ζ dei TCR. FcγRII è in grado di trasdurre il legame da sé.

FcR Affinità per Ig Domini Ig Catene di trasduzione associate Distribuzione Funzioni
FcγRI (CD64) Elevata 3 catene γ Macrofagi, neutrofili, linfociti B (debolmente) Attivazione della fagocitosi
FcγRIIA/C (CD32) Bassa 2 nessuna Macrofagi, neutrofili, eosinofili e C anche sui linfociti NK Attivazione cellulare e della fagocitosi
FcγRIIB (CD32) Bassa 2 nessuna Leucociti, linfociti B Inibizione dei linfociti B nelle fasi terminali della risposta
FcγRIIIA (CD16) Bassa 2 catene γ e ζ Linfociti NK Citotossicità cellulare anticorpo-dipendente
FcγRIIIB (CD16) Bassa 2 nessuna Neutrofili Sconosciute

Dettagli molecolari dell’attivazione

La trasduzione dei segnali è iniziata dal cross-linking delle catene α. Le tappe prevedono:

  • fosforilazione dei residui di tirosina nelle sequenze ITAM presenti in tutti i FcγR (tranne FcγRIIB);
  • reclutamento di chinasi della famiglia Syk sulle sequenze fosforilate;
  • attivazione della PI3 chinasi;
  • arrivo di molecole adattatrici come SLP-76 e BLNK, di enzimi e membri della famiglia delle chinasi Tec.

Questi eventi portano alla formazione in grandi quantità di inositolo trifosfato, diaciglicerolo e spostamento di ioni calcio. Il fine ultimo di tutto questo, naturalmente, è la trascrizione dei geni che permettono di effettuare la fagocitosi. Tra questi si annoverano: ossidasi fagocitica (responsabile del burst respiratorio), sintasi dell’ossido nitrico inducibile, enzimi idrolitici. Dopo l’attivazione i fagociti possono anche secernere tutti questi enzimi, indispensabili per l’uccisione di microbi di grandi dimensioni, danneggiando, in minor misura, anche i tessuti stessi.

FcRn

Il recettore Fc neonatale è un recettore legato alla lunga emivita che presentano le IgG rispetto alle altre classi. Il FcRn è inizialmente coinvolto nel trasporto di IgG dalla placenta all’intestino del feto. Nella vita adulta, si posizionano sulla superficie delle cellule endoteliali. Ha una struttura simile alle MHC, ma senza tasca leganti il peptide. Sembra che la principale funzione sia quella di legare le IgG entrate nelle cellule a livello degli endosomi. Qui le trattiene impedendo che vengano degradate e poi rilasciate non appena il recettore viene riespresso sulla membrana. Questa funzione viene usata in terapia per bloccare l’attività di alcune molecole infiammatorie.

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Recettori per le IgE

Le IgE sono una particolare classe di immunoglobuline implicata soprattutto nelle risposte contro gli elminti e nel causare l’ipersensibilità immediata comunemente nota semplicemente come allergia. Le IgE, a differenza delle IgG, non agiscono opsonizzando e poi legando il recettore Fc, ma prima legando il recettore e successivamente l’antigene. Le principali classi di cellule presentanti recettori per le IgE, detti Fcε, sono i mastociti, granulociti basofili ed eosinofili.

Il recettore espresso da mastociti e basofili ha un’elevata affinità per le catene pesanti ε ed è definito “FcεRI” ed è questo il motivo per cui queste cellule hanno i recettori completamente saturati di anticorpi. FcεRI è stato anche trovato sulle cellule di Langerhans nella cute e su alcuni macrofagi e monociti attivati, sebbene non sia ancora chiaro il loro ruolo.

Esiste anche un altro recettore, definito “FcεRII” o CD23, la cui struttura proteica è molto simile a quello delle lectine di tipo C e presenta un’affinità per le immunoglobuline molto inferiore rispetto all’altro recettore. La sua funzione non è ancora stata chiarita.

Il legame degli antigeni (detti anche allergeni in questo caso) con le IgE già legate ai recettori causa l’attivazione di mastociti e basofili con conseguente rilascio del contenuto dei loro granuli citoplasmatici. Nel caso specifico dei mastociti l’attivazione prevede anche la produzione e secrezione di mediatori lipidici e di citochine.

Struttura di FcεRI

Ogni recettore è composto da 4 catene distinte: una catena α, una β e due catene γ. Ogni catena α comprende due domini Ig responsabili del legame con le IgE. La catena β attraversa 4 volte la membrana cellulare e presenta un solo dominio ITAM (Immunoreceptor Tyrosine-base Activating Motif) e un sito di legame per Lyn nella regione citoplasmatica. Una singola catena γ presenta un dominio ITAM e una corta regione N-terminale extracellulare. Le catene γ sono omologhe alla catena ζ del recettore dei linfociti T e presenta la stessa funzionalità di subunità di trasduzione del segnale delle catene γ degli altri FcR. Gli eosinofili esprimono FcεRI privi della catena β che, partecipando alla trasduzione, risultano quindi meno efficienti.

Dettagli molecolari dell’attivazione dei mastociti

La trasduzione dei segnali è iniziata dal cross-linking delle catene. Le tappe prevedono:

  • fosforilazione dei residui di tirosina nelle sequenze ITAM da parte delle proteina Fyn e Lyn associate alle catene β;
  • relutamento di chinasi della famiglia Syk sulle sequenze fosforilate;

Questo causa:

  1. attivazione della PI3 chinasi con conseguente aumento di calcio intercellulare e attivazione della proteina chinasi c;
  2. attivazione delle chinasi Ras-MAP che attivano la fosfolipasi A2 citoplasmatica che trasforma la fosfatidilcolina in acido arachidonico;

Gli eventi 1. portano sia alla trascrizione di citochine che alla fusione delle membrane dei granuli con il plasmalemma dei mastociti con conseguente rilascio del loro contenuto, mentre gli eventi 2. causano la produzione dei mediatori lipidici.

Attivazione del sistema del complemento

Tra le tre vie di attivazione del sistema del complemento due, la classica e la lectinica, utilizzano gli anticorpi legati ad antigeni per attivarsi. Il complesso C1 e MBL legata alle MASP si legano alle immunoglobuline leganti l’antigene e vanno ad attivare C4 iniziando la cascata del complemento.

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Patologie del sistema immunitario: immunodeficienze, autoimmunità ed ipersensibilità

MEDICINA ONLINE SISTEMA IMMUNITARIO IMMUNITA INNATA ASPECIFICA SPECIFICA ADATTATIVA PRIMARIA SECONDARIA  DIFFERENZA LABORATORIO ANTICORPO AUTO ANTIGENE EPITOPO CARRIER APTENE LINFOCITI B T HELPER KILLER MACROFAGI MEMORIAIl sistema immunitario è un insieme di processi notevolmente efficace che incorpora specificità, inducibilità e adattamento. Tuttavia possono verificarsi dei malfunzionamenti ed essi si possono dividere in tre grandi categorie: immunodeficienze, malattie autoimmuni e ipersensibilità.

Immunodeficienze

L’immunodeficienza si verifica quando uno o più componenti del sistema immunitario risultano inattivi. Sia nella popolazione pediatrica che in quella geriatrica, la capacità di rispondere agli agenti patogeni è minore rispetto al normale. Nei paesi sviluppati, l’obesità, l’alcolismo e l’uso di droga sono le cause più comuni di una scarsa funzione immunitaria, tuttavia, nei paesi in via di sviluppo la malnutrizione è la causa più comune di immunodeficienza. Le diete prive di un sufficiente apporto di proteine, sono correlate con un’alterata immunità cellulo-mediata, con una diminuzione dell’attività del complemento, della funzione dei fagociti, della concentrazioni di anticorpi IgA e della produzione di citochine. Inoltre, la perdita del timo, in giovane età, per via di mutazioni genetiche o come risultato di una resezione chirurgica, comporta una grave immunodeficienza e una elevata suscettibilità alle infezioni.

Le immunodeficienze possono essere ereditate o “acquisite”. La malattia granulomatosa cronica, dove i fagociti hanno una ridotta capacità di distruggere i patogeni, è un esempio di un malattia ereditaria o congenita. L’AIDS e alcuni tipi di tumore sono causa dell’immunodeficienza acquisita.

Autoimmunità

Nella risposta autoimmune, una cellula normale può presentare un complesso proteico, prodotto dai geni MHC, e contenere una piccola sequenza aminoacidica, (8-11 aminoacidi) di natura estranea al genoma originario ereditato dai propri genitori. La sequenza aminoacidica estranea può derivare dalla sintesi proteica trascritta da geni virali integrati nel genoma stesso, o da plasmidi o da oncogeni. Questa sequenza estranea, non self, viene rilevata e segnalata alle cellule Natural Killer. I linfociti NK si attivano per la distruzione dell’intera cellula che contenendo dei geni estranei è diventata essa stessa alterata e non più self. Le cellule normali del corpo sono riconosciute e non vengono mai attaccate da macrofagi o da cellule LNK, poiché esse esprimono frammenti proteici, col MHC, sani e intatti. Ossia esprimono solo frammenti di proteine “figlie” del DNA trasmesso dai genitori. Il sistema immunitario distingue correttamente tra self e non self. In caso di presenza di proteine anomale il sistema di difesa distrugge qualunque cellula “alterata”, in qualunque organo. Distrugge le cellule “infette” cercando di ottenere un così detto male minore per l’intero organismo.

Nessun anticorpo può penetrare all’interno di una cellula intatta. Solo dopo la rottura della membrana cellulare, operata dai LNK, gli anticorpi (autoanticorpi) legano ogni componente cellulare per una mera operazione di pulizia. Per esempio, il sistema immunitario può eliminare parzialmente o totalmente la tiroide dando luogo a noduli degenerativi solidi o colliquativi, può distruggere le articolazioni (artrite reumatoide), può distruggere la cute (psoriasi), può distruggere le pareti arteriosecon formazione di placche aterosclerotiche (che potranno evolvere in infarti cardiaci, ictus cerebrale…), può distruggere gli epiteli intestinali (come nella malattia di Crohn, la malattia celiaca, la colite ulcerosa)…

Sono note circa 70 malattie autoimmuni. Se l’organismo non riuscisse a distruggere le proprie cellule “non più self” potrebbe dover accettare un male maggiore: il rischio di sviluppare un cancro. Infatti i geni estranei, oltre alla capacità di trascrivere per sintetizzare proteine, hanno la possibilità di usare il loro macchinario replicativo attivando la topoisomerasi e a seguire l’elicasi e i propri primer per duplicare l’intero genoma cellulare e di conseguenza l’intera cellula, questo dopo aver paralizzato gli ‘oncosopressori’ interni, in primis i geni p53, BRCA1 e BRCA2, Rb,…

Un trattamento solo sintomatico nelle malattie autoimmuni si avvale di farmaci immunosoppressivi e cortisonici, mentre alcuni farmaci antivirali potrebbero costituire una terapia causale.

Ipersensibilità

Le reazioni di ipersensibilità sono una risposta immunitaria che danneggia i tessuti del corpo. Esse sono suddivise in quattro classi (dal tipo I al tipo IV) basate sui meccanismi coinvolti e dal loro decorso. L’ipersensibilità di tipo I è una reazione immediata o anafilattica, spesso associata con l’allergia. I sintomi possono variare da un leggero fastidio fino al decesso. L’ipersensibilità di tipo I è mediata dgli IgE, che innescano la degranulazione dei mastociti e dei basofili, quando sono legate ad un antigene. L’ipersensibilità di tipo II si verifica quando gli anticorpi si legano agli antigeni sulle cellule del paziente, contrassegnandoli per la distruzione. Questa viene chiamata anche ipersensibilità anticorpo-dipendente (o citotossica), ed è mediata dagli anticorpi IgG e IgM. I complessi immuni (aggregazioni di antigeni, proteine del complemento e anticorpi IgG e IgM) depositati nei vari tessuti innescano reazioni di ipersensibilità di tipo III. L’ipersensibilità di tipo IV (nota anche come cellulo-mediata o ipersensibilità di tipo ritardato) di solito impiega tra due e tre giorni di tempo per svilupparsi. Le reazioni di tipo IV sono coinvolte in molte malattie autoimmuni e infettive, ma può anche comportare una dermatite da contatto. Queste reazioni sono mediate dai linfociti T, dai monociti e dai macrofagi.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Intolleranza al glutine e sport: gestione dell’atleta celiaco

MEDICINA ONLINE PALESTRA MUSCOLI IPERTROFIA ALLENAMENTO FIBRE MUSCOLARI ROSSE BIANCHE POTENZIALE GENETICO PESI PESISTICA WORKOUT PRE POST INTEGRATORI PROTEINE AMINOACIDI RAMIFICATI BCAA WHEY CASEINE CREATINA CARNITINA FISICOLa diagnosi di celiachia è diventata sempre più frequente negli ultimi anni. E anche una percentuale di atleti ne è affetta. D’altro canto la demonizzazione del glutine e il nuovo concetto di “sensibilità”, nel caso in cui non si possa parlare propriamente di malattia celiaca, hanno complicato non poco il modo di guardare a questo problema nel mondo dello sport. Quindi indagheremo in che misura il glutine incida sulla vita o la performance di un atleta, e se una dieta priva di glutine determina vantaggi reali in chi non è malato di celiachia.

Cenni sulla celiachia
Il morbo celiaco è un disordine autoimmune che causa malassorbimento dei macronutrienti da parte dell’intestino. Il sistema immunitario reagisce in maniera abnorme ai cibi conteneti glutine o gliadina (frumento, orzo, segale). Quando un individuo affetto da celicachia ingerisce un cibo contenente glutine, il suo sistema immunitario determina una reazione infiammatoria tale da causare il danneggiamento della mucosa dell’intestino tenue, esitando nell’atrofia dei villi intestinali, che sono quei rilievi digitiformi con la funzione di assorbire i macronutrienti e veicolarli nel circolo ematico. Questa riduzione dell’assorbimento provoca un aumento di concentrazione dei nutrienti nel lume dell’intestino, alcuni con effetto osmotico, che stimolano la peristalsi (i movimenti spontanei dell’intestino dallo stomaco verso il colon); questo fluido contenente acqua e macronutrienti non assorbiti si dirige quindi verso il colon dove, superatane la capacità di assorbimento, provoca diarrea. Tutto ciò conduce ai sintomi tipici della malattia.
L’infiammazione dei villi determina l’appianamento, la totale o subtotale atrofia, la iperplasia delle cripte e un infiltrato di linfociti sotto alla mucosa, nella lamina propria, chiaramente visibile alla biopsia. Sebbene i danni maggiori procurati dalla malattia siano a carico del tratto gastrointestinale, la celiachia è una malattia multisistemica proprio a causa del malassorbimento dei macronutrienti, con effetti sull’osso, sul sangue, sul sistema nervoso, sulla pelle.

Come si sviluppa la malattia?
Sono necessari 2 fattori: la predisposizione genetica e l’esposizione all’antigene. Si crede che la predisposizione genetica sia presente nel 30% circa della popolazione, data dagli antigeni leucocitari (HLA)-DQ2 e DQ8. Questi markers sono stati rinvenuti nel 99.6% degli individui affetti da celiachia. Tuttavia solo l’1% circa della popolazione manifesta la malattia. Perché? Non si sa ancora con certezza, ma ci sono delle cause scatenanti che causano l’espressione dei markers e quindi lo sviluppo della malattia.

Diagnosi
La diagnosi avviene per step successivi e deve soddisfare almeno 4 dei seguenti 5 criteri (1):

  1. Sintomi tipici della malattia
  2. Autoanticorpi anti-gliadina e anti-transglutamminasi ad alto titolo, testati con un banale prelievo ematico;
  3. Presenza di HLA-DQ2 o DQ8
  4. Biopsia della mucosa duodenale tramite EDGS (esofago-duodeno gastroscopia), che dimostra l’appianamento dei villi e/o l’ipertrofia delle cripte e l’infiltrato linfocitario nella lamina basale
  5. Remissione di malattia alla dieta priva di glutine

Atleti affetti da celiachia: valutazione iniziale
Forse non immaginate quanti atleti d’elite famosi a voi tutti siano celiaci. Djokovic e la Lisicki, per fare solo due esempi eclatanti nel mondo del tennis e noti anche in Italia, ma ci sono alcuni giocatori di baseball e football americano molto noti, nonché atleti olimpici. Uno dei motivi per cui spesso ci vuole molto prima di giungere alla diagnosi di celiachia è l’ampia varietà dei sintomi: diarrea cronica, sintomi da malnutrizione, gonfiore addominale, astenia e facile faticabilità, anemia, vomito, crampi addominali, dolore addominale, mialgia, artralgia, osteoporosi, irregolarità mestruali, irritabilità, stipsi, dermatite erpetiforme.
Sono un valanga di sintomi che si riscontrano nella diagnosi differenziale di decine di altre patologie. Tanto basta per confondere il medico più scaltro. Soprattutto nell’atleta giovane e sano la diagnosi differenziale dovrebbe includere mononucleosi infettiva, l’intolleranza al lattosio, dispepsia, malattie del colon irritabile, disturbi alimentari, depressione, malattia diverticolare, morbo di Crohn, la fibromialgia, la carenza di ferro, allergie, anemia, ipo / ipertiroidismo. Una anamnesi dettagliata dovrebbe essere sempre raccolta dal medico, con particolare attenzione alla storia familiare. La prevalenza della malattia celiaca è del 4-12% nei soggetti con parenti di primo grado che hanno celiachia. L’anamnesi familiare dovrebbe anche includere domande riguardanti la statura dei genitori e fratelli (la bassa statura è associata con la malattia celiaca), storia di problemi gastrointestinali in famiglia, diabete di tipo I, anemia, ipotiroidismo, o osteopenia.
L’anamnesi dell’atleta invece dovrebbe includere la stanchezza, il livello di energia, la tolleranza all’esercizio, sintomi gastrointestinali come diarrea, gonfiore, e dolore addominale. Bisogna indagare su eventuali fratture da stress da stress, anemia, e anamnesi nutrizionali sull’uso di alimenti contenenti glutine.

Gestione dell’atleta con diagnosi recente di celiachia
Per un atleta, una diagnosi di celiachia rappresenta un cambiamento di stile di vita totale. Serve quindi un approccio multidisciplinare per gestire l’atleta in questa fase rivoluzionaria della sua vita. Poiché cambiare totalmente la propria alimentazione e nello stesso tempo mantenere le performance precedenti può essere una cosa molto stressante a livello psicologico, occorre anche la presenza di uno psicologo dello sport a supporto.
Mangiare rigorosamente senza glutine è l’unico trattamento conosciuto per la celiachia. Di conseguenza, subentra il nutrizionista. Eliminare tutte le fonti di grano, segale e orzo significa che l’atleta dovrà trovare fonti alternative di carboidrati e non è una cosa così facile e immediata, soprattutto se le abitudini alimentari erano ormai consolidate. Fagioli, riso, farina di mais, patate, tapioca, e quinoa, insieme a frutta e verdura fresca, sono eccellenti fonti di carboidrati per l’atleta celiaco.
Di fondamentale importanza è inoltre educare l’atleta, il personale che si occupa della preparazione atletica, gli allenatori e compagni di squadra dell’atleta, sulla celiachia e su ciò che comporta una dieta priva di glutine: è importante per “normalizzare” la vita dell’atleta e non farlo sentire diverso dagli altri. Inoltre bisognerà adeguare le strutture che si occupano di preparare il cibo in modo da evitare la contaminazione da glutine negli alimenti cucinati per quell’atleta, anche quando si affrontano trasferte, scegliere ristoranti che abbiano nel loro menu dei piatti gluten-free.
I compagni di squadra dell’atleta dovrebbero essere educati a capire quanto sia facile cross-contaminare gli alimenti senza glutine con quelli contenenti glutine. Un esempio: spalmare burro di arachidi senza glutine su una fetta di pane (contenente glutine) con un coltello e poi infilare il coltello usato di nuovo nel burro di arachidi senza glutine: abbiamo cross-contaminato l’intero vasetto di burro d’arachidi quasi inconsciamente.
Poiché l’anemia da carenza di ferro (sideropenica) si riscontra in una percentuale che va dal 10 al 70% nella nuove diagnosi di celiachia, bisogna valutare la carenza di ferro nell’atleta e la possibile anemia già instauratasi. Questa si ha a causa della distruzione dei villi duodenale che contengono i carriers deputati all’assorbimento del ferro contenuto negli alimenti. Negli atleti, per correggere questa situazione, potrebbero essere necessari da 2 a 18 mesi. Inoltre il nutrizionista ha il compito di spiegare e guidare l’atleta verso la scelta di cibi privi di glutine e ricchi di ferro. Anche nell’uso di multivitaminici ed altri integratori si dovrebbe avere sempre l’accortezza di utilizzare prodotti senza glutine, come pure l’uso eventuale di farmaci, soprattutto antinfiammatori, largamente usati dagli atleti.
La malattia celiaca altera l’assorbimento delle sostanze nutritive, dicevamo, e quindi potremo reperatare nell’atleta diversi deficit, soprattutto di micronutrienti. La carenza di vitamina D e il conseguente malassorbimento del calcio sono comuni. Dal 10% al 20% dei pazienti con malattia celiaca ha osteopenia o osteoporosi al momento della diagnosi, di conseguenza la MOC con DEXA in un paziente celiaco è tassativa, soprattutto per evitare fratture da stress. Inoltre va valutata la concentrazione ematica di vitamina D ed eventualmente corretta con somministrazione integrativa di calcio e vitamina D. Molti pazienti con nuova diagnosi di celiachia sono anche temporaneamente intolleranti al lattosio, perché la malattia, distruggendo i villi, ha distrutto le lattasi (enzima che degrada il lattosio). Quindi bisognerebbe evitare in un primo periodo anche il latte e i suoi derivati.
Alimenti come succo d’arancia, broccoli, spinaci e pesci possono servire, in quanto sono ricchi di calcio, a sostituire la limitazione. Anche cereali come amaranto, quinoa, teff e sono ricchi di calcio. Ci possono essere carenze di altri nutrienti, compresa la vitamina B12, acido folico, zinco e rame. Non c’è consenso nella comunità scientifica sul controllo di questi livelli. Forse sarebbe comunque sempre bene controllarli.

Gestione dell’atleta con una lunga storia di malattia celiaca
Per l’atleta a cui è stata diagnosticata la malattia celiaca da più di un anno, la stretta aderenza ad una dieta priva di glutine è il fattore più importante nel trattamento e nel controllo a lungo termine della malattia. Al contrario dell’atleta con diagnosi recente, l’atleta con una lunga storia di malattia ha ormai superato le sfide sociali ed emotive, però deve ancora affrontare quotidianamente le sfide nella gestione della malattia. I pasti di viaggio e di squadra sono questioni ricorrenti che richiedono una costante vigilanza e attenzione, uno stress non da poco che agli altri viene risparmiato.

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Segno della fovea in medicina: cos’è e cosa indica

MEDICINA ONLINE MEDICO EDEMA SEGNO FOVEA ESAME OBIETTIVO ANAMNESI PATOLOGICA FISIOLOGICA FAMIGLIARE VISITA MEDICA GENERALE AUSCULTAZIONE ISPEZIONE PERCUSSIONE PALPAZIONE DIFFERENZA FONENDOSCOPIO TORACE ADDOME SUONI  SEMEIOTICA.jpgCon il termine segno della fovea ci si riferisce alla formazione, in seguito a digitopressione, di una fossetta o di una depressione transitoria. È un segno di tessuto edematoso con edema di recente insorgenza. Il termine italiano “fovea” deriva dall’analogo termine della lingua latina avente il significato di depressione, fossa o buca. Il termine fovea a sua volta deriva dal latino fodere, cioè scavare.

Esecuzione

Per ricercare la fovea è necessario comprimere con la punta di un dito sulla regione oggetto di esame. A seguito della digitopressione può permanere un’impronta, più o meno profonda, detta fovea. Tale fossetta si viene a determinare per lo spostamento di liquido interstiziale dalla zona compressa alle zone circostanti. La presenza del segno della fovea sta ad indicare che la tumefazione che si sta indagando è dovuta ad edema e che quest’ultimo è probabilmente recente e facilmente reversibile. L’impronta lasciata dalla digitopressione tende a regredire lentamente nel giro di alcuni minuti.

DOTT. EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO CHIRURGO PSICHIATRIA DIPENDENZE DIRETTORE MEDICINA ONLINE SEGNO DELLA FOVEA PRESSIONE DITO SU GAMBA EDEMA LIQUIDO IMPRONTA DIGITOPRESSIONE ACCUMULO LIQUIDI ARTI INFERIORI

Regioni oggetto di indagine

Il segno della fovea è più facilmente riscontrabile in quelle regioni corporee nelle quali al di sotto della cute vi è la presenza di un piano osseo duro. Nei pazienti che sono in grado di deambulare il segno può essere individuato premendo sulla regione pretibiale od a livello dei malleoli della caviglia. Nei pazienti allettati il segno è più facilmente apprezzabile in regione sacrale.

Significato clinico

Clinicamente questo segno semeiotico riveste una scarsa importanza. La prova viene in genere eseguita durante un esame obiettivo per valutare l’accumulo di liquidi negli arti inferiori dei pazienti con scompenso cardiaco o renale. Gli edemi linfatici in una prima fase (fase acuta) tendono a dare un segno della fovea positivo. Con edema linfatico si intende un eccessivo accumulo nei tessuti del liquido che circola nei vasi linfatici (la linfa). Non potendo defluire, la linfa ristagna nel tessuto cutaneo, ostruendo il circolo linfatico e provocando gonfiore (edema). Successivamente con il cronicizzarsi della patologia, gli edemi linfatici vanno incontro a degenerazione fibrotica assumendo una consistenza dura, a seguito della quale il segno della fovea diventa difficilmente o per nulla apprezzabile.

Per approfondire:

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Pelle secca e desquamata su gambe, mani e piedi: cause e cure naturali e farmacologiche

MEDICINA ONLINE PELLE CUTE DONNA COSMESTICI CREMA TRUCCO FEMMINA DERMATITE ATOPICA ALLERGIA RUGHE VISO OCCHI LABBRA BELLEZZA CURA COSMESI BELLALa pelle diventa squamosa quando le cellule dello strato più superficiale (strato corneo) si seccano e si staccano, determinando un accumulo di scaglie scarsamente aderenti di cheratina, come la forfora nel caso del cuoio capelluto, però talora si tratta non di processi normali ma di processi patologici.

Normalmente, la perdita cellulare cutanea è impercettibile; la comparsa di squame indica un aumento della proliferazione cellulare, secondaria ad alterazioni del processo di cheratinizzazione. Le squame si differenziano in base alla conformazione da fini e delicate, a medie, grossolane o stratificate.Le squame sono solitamente secche, fragili e lucenti, ma possono anche essere grasse e opache. Il loro colore varia dal grigio-biancastro al giallo o dal marrone all’argentato. Le affezioni più frequenti sono le infezioni fungine della pelle, dette “micosi”, fra cui la tinea capitis, tinea corporis, tinea cruris, tinea versicolor. Ancora ricordiamo la psoriasi ed il lichen planus. Solitamente benigna, la cute squamosa si sviluppa nelle infezioni micotiche, batteriche e virali (cutanea o sistemica ), nei linfomi e nel lupus eritematoso. E’ anche comune nelle malattie infiammatorie della cute. Una forma di cute squamosa, con fine desquamazione generalizzata, è di solito conseguente a una forma febbrile prolungata, all’ustione da esposizione al sole e a ustioni termiche. Chiazze rosse di pelle squamosa, che compaiano o peggiorano durante l’inverno, possono derivare da disidratazione cutanea (o da cheratosi attinica, frequente negli anziani). Anche alcuni farmaci possono causare pelle squamosa. I fattori aggravanti includono freddo, calore, immobilità e bagni frequenti.

Le cause: cosa rende disidratata la pelle?

Le cause all’origine della secchezza della pelle possono essere di varia natura:

  • Fisiologiche, tipo l’età avanzata. La cute subisce, come ogni altro organo, dei mutamenti col passare degli anni, con l’età essa si assottiglia e perde il film superficiale idrolipidico che rende la pelle ben idratata. Allo stesso tempo le variazioni ormonali legate a fasi della vita della donna quali gravidanza e menopausa, possono influenzare il contenuto lipidico dell’epidermide e causare eccessiva secchezza.
  • Ambientali. L’esposizione prolungata al vento, al sole, ad ambienti eccessivamente riscaldati, all’aria condizionata rende la pelle rugosa e secca a causa della riduzione di umidità dell’ambiente.
  • Prodotti professionali o per l’igiene e la cura della persona come saponi, creme o trucchi troppo aggressivi.Questi penetrando nella cute, alterno il film idrolipidico causando la progressiva disidratazione.
  • Farmaci quali diuretici, contraccettivi orali, farmaci chemioterapici alterano lo strato lipidico della pelle e provocano tra gli effetti collaterali secchezza e desquamazione.
  • Alimentazione. Una dieta povera di liquidi comporta una disidratazione generale dell’organismo che si riflette sulla cute. Inoltre, poichè una buona idratazione cutanea è dovuta anche alla presenza di lipidi, è opportuno osservare un’alimentazione ricca di acidi grassi insaturi ed aminoacidi.
  • Patologie: esistono, infine alcune patologie quali carenze vitaminiche, psoriasi, allergie, ipotiroidismo, cirrosi, diabete, insufficiena renale che alterano la struttura stessa della pelle e che possono comportare secchezza.

Qualunque siano le cause, la pelle secca comporta conseguenze non solo a livello estetico, ma anche per la salute. La pelle secca e disidrata, infatti, si assottiglia e riduce quella che è la funzione fondamentale dell’epidermide e cioè prevenire la penetrazione nell’organismo di batteri, virus ed altre sostanze estranee.

Prodotti per la cura della pelle irritata
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Cause mediche

Malattia di Bowen

Questa forma di carcinoma intraepidermico determina la comparsa di lesioni indolori eritematose, rialzate e coriacee, con una squama spessa, ipercheratotica e, spesso, ulcerata al centro.

Dermatite

La dermatite esfoliativa inizia con un eritema diffuso che si sviluppa rapidamente. La desquamazione di elementi fini o a foglie piuttosto ampie, che interessa gran parte della superfìcie corporea, può provocare un’ipotermia potenzialmente letale. Altre possibili complicanze includono insufficienza della gittata cardiaca e setticemia. Le manife-stazioni sistemiche e i sintomi possono includere febbre di grado lieve, brividi, malessere, linfadenopatie e ginecomastia. Pelle squamosaNella dermatite nummulare, le lesioni circolari, pustolose con stillicidio di essudato purulento, fortemente pruriginose diventano in poco tempo crostose e squamose. Le lesioni compaiono sulla superficie estensoria degli arti, tronco posteriore e natiche. La dermatite seborroica inizia con delle papule eritematose, squamose, che si evolvono in placche squamose più grandi. Questa patologia interessa soprattutto il centro del volto, il petto e il cuoio capelluto ed eventualmente i genitali, le ascelle e la regione perianale. Con la desquamazione si ha prurito.

Dermatofitosi

La tinea capitis (tricofizia del capo) provoca lesioni con bordi arrossati, lievemente sollevati e un’area centrale di densa desquamazione; queste lesioni possono infiammarsi e sovrainfettarsi (Kerion). Si può anche avere alopecia a chiazze e pruriginosa. La tinea pedis determina desquamazione e bolle fra le dita. Il tipo squamoso determina la produzione di elementi lini, medi. Squame aderenti e bianco argentato, sono più evidenti nelle pieghe cutanee e possono interessare l’intero dorso del piede. La tìnea corporìs provoca lesioni crostose. Man mano che aumentano di volume il centro guarisce, causando la comparsa della classica lesione a bersaglio.

Lupus eritematoso discoide

Questa forma cutanea di lupus può presentarsi in completa assenza di interessamento sistemico. Lesioni separate o coalescenti (macule, papule o placche), variabili dal rosa al purpureo, sono ricoperte da materiale crostoso giallastro o marrone scuro. I follicoli piliferi ingrossati si riempiono di squame e si può sviluppare teleangectasia. Dopo questa fase infiammatoria, le lesioni guariscono e si possono sviluppare ipopigmentazione o iperpigmentazione, cicatrici e atrofia non retraenti. Il lupus discoide interessa solitamente volto o aree fotoesposte di collo, orecchie, cuoio capelluto, labbra e mucosa orale. Può lichen planusanche svilupparsi alopecia.

Lichen planus

In questa patologia, si hanno lesioni viola con desquamazione fine, solitamente in sede lombare, su genitali, caviglie e superficie anteriore degli arti inferiori.

Linfomi

La malattia di Hodgkin e i linfomi non Hodgkin causano solitamente eruzioni cutanee squamose. Il linfoma di Hodgkin può causare dermatiti pruriginose con desquamazione, che si originano negli arti inferiori e si estendono all’intera superficie corporea. Frequentemente si hanno fasi di remissione e riacerbazioni. Segni associati sono piccoli noduli e pigmentazione diffusa. Questa patologia determina, solitamente, l’ingrandimento non doloroso dei linfonodi superficiali. Altri segni e sintomi includono febbre, astenia, calo ponderale, malessere ed epatosplenomegalia. Il linfoma non-Hodgkin provoca inizialmente chiazze eritematose con desquamazione che più tardi si intervallano a noduli. Prurito e disagio sono frequenti; tardivamente, tumori e forme ulcerative. Con la progressione della malattia, si ha linfoadenopatia non dolente.

Parapsoriasi (cronica)

Questa patologia provoca la comparsa di papule di piccola o media grandezza, con squama sottile e ade-rente su tronco, mani e piedi. L’asportazione della squama rivela una superficie lucida marrone.

Pitiriasi

La pitirìasi rosea, è una patologia benigna, acuta e autolimitante che provoca desquamazione diffusa. Inizia con una macchia ovale eritematosa. sollevata su ogni parte del corpo. Pochi giorni o settimane più tardi, erompono su tronco e arti e, a volte, su volto, mani e piedi, delle chiazze giallo-bruno o eritematose con bordi squamosi. Si ha sempre prurito.  psoriasiLa pitirìasi rubra pilare, patologia rara, inizialmente causa desquamazione seborroica del cuoio capelluto, progredendo fino al volto e alle orecchie. Successivamente, si sviluppano chiazze rosse sul palmo delle mani e sulle piante dei piedi, che divengono diffuse, dense, fissurate, ipercheratotiche e dolorose. Le lesioni compaiono anche su mani, dita, polsi, avambracci e su vaste aree di tronco, collo e arti.

Psoriasi

Squame bianco-argentate e friabili ricoprono placche eritematose che presentano bordi nettamente delineati. La psoriasi si presenta generalmente su cuoio capelluto, torace, gomiti, ginocchia, schiena, natiche e genitali. Segni e sintomi associati comprendono unghie putate, prurito, artrite e, talvolta, dolore da lesioni secche, screpolate e crostose.

Sifilide (secondaria)

Questa patologia è caratterizzata dall’insorgenza di un’eruzione cutanea lievemente desquamante, papulo-squamosa. Solitamente si ha la comparsa di papule disposte ad anello, rossastre su volto, arti, palmo delle mani, piante dei piedi, torace, schiena e addome. Si possono avere anche papule anulari. Reperti sistemici possono includere linfadenopatia, malessere, calo ponderale, anoressia, nausea, vomito, cefalea, mal di gola e febbre lieve.

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Lupus eritematoso sistemico

Questa patologia causa un’eruzione maculopapulosa rossa, talvolta con desquamazione. Le squame sono nettamente definite e interessano il naso e le regioni malari del volto, delineando l’eritema a farfalla, uno dei segni principali. Eruzioni con caratteristiche simili compaiono su altre superfici corporee; la desquamazione si verifica lungo il labbro inferiore o lungo l’attaccatura anteriore dei capelli. Altre caratteristiche cliniche fondamentali includono fotosensibilità, dolore e rigidità alle articolazioni. Può verificarsi anche vasculite (che determina l’insorgenza di lesioni infartuali, ulcere necrotiche degli arti inferiori o gangrena delle dita), fenomeno di Raynaud. alopecia a chiazze e ulcere delle mucose.Tinea versicolor

Tinea versicolor

Questa micosi benigna della cute porta solitamente alla comparsa di lesioni ipopigmentate maculari, brune o di colore marrone, di varie forme e dimensioni. Tutte presentano una desquamazione fine. Le lesioni riguardano di solito la parte superiore del tronco, gli arti, l’addome inferiore, talvolta il collo e, raramente, il volto.

Altre cause

Farmaci

Molti farmaci, compresi penicilline, sulfamidici, barbiturici, chinidina, diazepam, fenitoina e isoniazide. possono provocare lesioni desquamarne.

Cosa fare per prevenire la disidratazione dell’epidermide?

Individuare il fattore scatenante che porta alla disidratazione della pelle è il primo fondamentale passo per intraprendere la giusta terapia, infatti mettere in pratica dei rimedi senza correggere il comportamento dannoso può essere utile per attutire temporaneamente il problema, mentre per restituire alla pelle la sua naturale e normale idratazione è necessario intervenire in modo mirato sulla causa principale.

Ad ogni modo per prevenire la disidratazione è opportuno prendersi cura della pelle in modo intelligente:

  • Evitare tutte le situazioni potenzialmente dannose e quindi non esporsi al freddo o al sole senza l’adeguata protezione.
  • Detergere con cura la pelle, soprattutto nelle zone in cui questa è più delicata come ad esempio il viso, e rimuovere le cellule morte superficiali con scrub e peeling.
  • Applicare almeno due volte al giorno una crema idratante scelta in base alle caratteristiche qualitative della propria pelle, che restituisca acqua ed oli all’epidermide.
  • Usare almeno una volta a settimana maschere nutrienti ed idratanti.
  • Seguire una alimentazione sana. Non bisogna, infatti, dimenticare che il nutrimento più importante per la pelle arriva comunque dall’interno dell’organismo, per cui uno dei rimedi migliori per a pelle secca è seguire un alimentazione che contenga molti alimenti ricchi d’acqua, vitamine ed antiossidanti, come le zucchine, i cetrioli e tutti gli altri tipi di verdura e frutta, senza dimenticare le proteine ed i grassi, soprattutto omega3 ed omega 6 contenuti nel pesce e nella frutta secca e tutti gli altri micro e macro nutrienti fondamentali
  • Bere molti liquidi per assicurare una corretta idratazione dell’organismo in generale
  • Evitare il fumo che rallenta tutti i processi metabolici e quindi anche la perdita di elasticità del tessuto connettivo che invecchia precocemente e quindi appare secca e screpolata.

Se la disidratazione è persistente può essere utile chiedere consiglio al proprio medico o dermatologo di fiducia, come già accennato, infatti, vi sono dei casi in cui la disidratazione è legata a fattori interni che difficilmente possono essere identificati con certezza da un occhio poco esperto.

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I rimedi naturali per combattere la pelle secca.

Fortunatamente la natura ci viene in aiuto con molti rimedi per contrastare la disidratazione della pelle, molti dei quali vengono utilizzati dalla moderna cosmetica, ma molti sono rimedi antichi conosciuti già dalle nostre nonne e semplici da preparare anche in casa senza spendere una fortuna.

Le preparazioni cosmetiche per mantenere il giusto grado di idratazione della pelle, in modo che essa si mantenga sana ed elastica, non devono solo idratare e nutrire ma fare attivare i processi fisiologici capaci di mantenere lo stato di idratazione. Un perfetto trattamento cosmetico prevede l’utilizzo di diverse categorie di prodotti sovrapponibili:

  • Detergenti; servono a pulire la pelle dallo sporco e dalle sostanze che si accumulano. I prodotti migliori devono essere poco aggressivi ed avere una base cremosa idratante in modo da eliminare lo sporco ma non il fisiologico film lipidico della pelle. Ottimi sono i saponi naturali a base di olio di argan o olio di cocco dalle proprietà idratanti ed antiossidanti.
  • Creme idratanti: sono creme che restituiscono acqua ed oli alla pelle da applicare quando la cute è già umida per esempio dopo la doccia. Le ultime ricerche hanno sostituito i classici idratanti con prodotti con proprietà igroscopiche, che aiutano cioè la pelle a trattenere l’acqua, come dimostra il successo di tutte le creme che contengono acido ialuronico, acido lattico ed acido glicolico, ed altri aminoacidi con caratteristiche simili.
  • Creme protettive: servono a potenziare la barriera protettiva e quindi a proteggere la pelle dagli agenti atmosferici mantenendola idratata. Esse devono contenere filtri contro i raggi UVA ed UVB a base di ossido di zinco o talco che riflettono i raggi del sole prima di raggiungere l’epidermide ma anche sostanze nutritive ed idratanti come l’aloe vera o l’olio di cocco.
  • Creme nutrienti: la pelle, infatti non ha bisogno solo di acqua, ma anche di sostanze nutritive che mantengono compatta la struttura cellulare. Tali creme ricche di oli e sostanze naturali come miele, cera d’api, burro di karitè o altri oli vegetali sono a lento rilascio e quindi vanno applicate di notte affichè la pelle possa assorbirle.

Cure farmacologiche per pelli secche e disidratate.

Quando la cattiva idratazione cutanea è causata da patologie è necessario intervenire con farmaci appropriati, naturalmente da assumere sotto stretto controllo medico.

Se la causa del disturbo è dovuta a malattie metaboliche è chiaro che bisogna curare e rimuovere la patologia, se invece, la secchezza cutanea è legata a patologie della pelle, è possibile utilizzare trattamenti topici che possono alleviare il disturbo.

  • In caso di ittiosi, che è un disordine genetico della pelle che provoca un’eccessiva cheratizzazione con conseguente presenza di squame spesse e secche, la pelle deve essere profondamente nutrita ed idratata con creme a base di vasellina o acido salicilico.
  • In caso di psoriasi che è una patologia infiammatoria della pelle è possibile utilizzare prodotti emollienti a base di mandorle, catrame, ittiolo per contrastare l’eccessiva secchezza e la desquamazione della pelle.

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Preparazioni casalinghe: rimedi naturali fai da te per una pelle idratata.

Ed infine ecco alcuni rimedi naturali per mantenere la pelle giustamente idrata e nutrita e quindi dall’aspetto più sano e luminoso.

Partiamo dalla detersione, una validissima soluzione naturale è il sapone di Aleppo composto di olio di oliva ed olio alloro, che disinfetta e nutre e pulisce la pelle senza eliminare i grassi fisiologici.

Come preparare il sapone di Aleppo:

Ingredienti:

  • 1 kg di olio di oliva,
  • 200 g di infuso di foglie di alloro.
  • 150 g di soda caustica
  • 10/15 foglie di alloro

Preparazione:

  1. Metti le foglie di alloro in un barattolo con circa 500 g di olio di oliva e fai macerare al caldo per circa 15 giorni.
  2. Mescola l’infuso di foglie di alloro con la soda caustica portando ad una temperatura di circa 40 gradi.
  3. Riscalda gli altri 500 g di olio a bagnomaria fino a portarlo ad una temperatura di circa 40 gradi.
  4. Unisci i due composti e frulla il tutto con un frullatore ad immersione fino ad ottenere un composto dremoso.
  5. Cuoci il composto per circa due ore a fuoco lento e poi versalo negli stampi.
  6. Lascia riposare il sapone per almeno due mesi prima di utilizzarlo.

Una pelle pulita necessita poi di una maschera idratante e nutriente: ecco come prepararla sfruttando i molteplici benefici del miele che ha proprietà emollienti e lenitive.

Maschera nutriente

Ingredienti:

  • 1 rosso di uovo,
  • 2 cucchiai di latte,
  • 1 cucchiaino di miele
  • 1 cucchiaino di farina di mandorle.

Preparazione:

  1. Unisci il tuorlo sbattuto con latte, miele e la farina di mandorla fino ad ottenere un composto denso e corposo. Applico sul viso e fai agire per circa 15 minuti.
  2. Risciacqua prima con acqua tiepida per eliminare il composto e poi con acqua fredda per tonificare la pelle.

Durante il giorno la pelle secca va poi protetta con una crema idratante a base di oli soprattutto contro i rigori della stagione invernale

Crema idratante e nutriente

Ingredienti:

  • 30 grammi di olio di mandorle
  • 20 grammi di burro di karitè
  • 50 g di acqua
  • 1 cucchiaino di cera d’api
  • 10 gocce di olio essenziale al limone

Preparazione:

  1. Unisci l’olio di mandorle, il burro di karitè e la cera disciolta a bagnomaria.
  2. Frulla il tutto aggiungendo l’acqua intiepidita lentamente fino ad ottenere una crema densa.
  3. Conserva (per circa due mesi) in un barattolo chiuso.
  4. Applica ogni mattina dopo aver lavato la pelle.

Anche il corpo ha bisogno di prodotti idratanti ed ammorbidenti! Per una pelle liscia e perfettamente idrata un bagno all’avena è l’ideale! Essa ha infatti, proprietà antinfiammatorie e rinfrescanti ed inoltre grazie alle saponine è un ottimo detergente.

Bagno al latte di avena

Preparazione:

  • Metti 100 g di fiocchi d’avena in un panno legato ben stretto
  • Riempi la vasca con acqua calda ed immergi i fiocchi d’avena premendo per far uscire il latte.
  • Immergiti nella vasca per 10 minuti ed utilizza il panno con i fiocchi come detergente.

La pelle secca va anche contrasta dall’interno, un ottimo rimedio è assumere più volte al giorno una tisana rinfrescante ed idratante a base di malva, che, come sostengono i naturopati, ha proprietà emollienti grazie alle mucillagini, soprattutto durante i mesi estivi o in caso di allenamenti prolungati per contrastare la disidratazione dovuta all’eccessiva sudorazione

Tisana alla malva:

10 foglie di malva fresca

500 g di acqua

Preparazione:

Fai bollire le foglie di malva nell’acqua per circa 10 minuti, aggiungi un cucchiaino di miele e bevi ben fresca.

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Sistema immunitario, immunità innata e specifica: riassunto, schema e spiegazione

MEDICINA ONLINE SISTEMA IMMUNITARIO IMMUNITA INNATA ASPECIFICA SPECIFICA ADATTATIVA PRIMARIA SECONDARIA SCHEMA DIFFERENZA ANTICORPO AUTO ANTIGENE EPITOPO CARRIER APTENE LINFOCITI B T HELPER KILLER MACROFAGI MEMORIA HIV AIDS.jpgIl sistema immunitario è una complessa rete integrata di mediatori chimici e cellulari, di strutture e processi biologici, sviluppatasi nel corso dell’evoluzione, per difendere l’organismo da qualsiasi forma di insulto chimico, traumatico o infettivo alla sua integrità. Per funzionare correttamente, un sistema immunitario deve essere in grado di rilevare un’ampia varietà di agenti, noti come agenti patogeni, dai virus agli elminti e distinguerli dal proprio tessuto sano dell’organismo.

Il sistema immunitario protegge gli organismi dalle infezioni grazie ad una difesa a più livelli di crescente specificità. In termini semplici, le barriere fisiche impediscono agli agenti patogeni, come batteri e virus, di entrare nell’organismo. Se un patogeno supera queste barriere, il sistema immunitario innato fornisce una risposta immediata, ma non specifica. Il sistema immunitario innato si trova in tutte le piante e gli animali. Se patogeni eludono con successo anche la risposta innata, i vertebrati possiedono un secondo livello di protezione, il sistema immunitario adattativo, che viene attivato dalla risposta innata. Qui, il sistema immunitario adatta la sua risposta durante l’infezione migliorando il riconoscimento del patogeno. Questa migliore risposta viene poi mantenuta dopo che il patogeno è stato eliminato, in forma di una memoria immunologica, permettendo così al sistema immunitario adattativo di rispondere più velocemente e più efficacemente ogni volta che incontrerà nuovamente questo patogeno.

Componenti del sistema immunitario innato

Sistema immunitario innato

Sistema immunitario adattativo

La risposta è non specifica Risposta specifica ai patogeni e antigeni
L’esposizione porta all’immediata risposta massima Intervallo di tempo tra l’esposizione e la risposta massima
Immunità umorale e cellula madiata Immunità umorale e cellula madiata
Nessuna memoria immunologica L’esposizione porta alla memoria immunologica
Trovato in quasi tutte le forme di vita Trovato solo nei gnatostomi

Sia l’immunità innata che quella adattativa, dipendono dalla capacità del sistema immunitario di distinguere tra molecole self e non-self. Nell’immunologia, le molecole self sono quelle che compongono l’organismo e che possono essere distinte dalle sostanze estranee dal sistema immunitario. Al contrario, le molecole non-self, sono quelle riconosciute come molecole estranee. Una classe di molecole non-self sono chiamate “antigeni” (abbreviazione di generatori di anticorpi) e sono definite come sostanze che si legano a specifici recettori immunitari suscitando una risposta immunitaria.

Una caratteristica fondamentale del sistema immunitario è quindi la capacità di distinguere tra le strutture endogene o esogene che non costituiscono un pericolo e che dunque possono o devono essere preservate (self) e le strutture endogene o esogene che invece si dimostrano nocive per l’organismo e che devono quindi essere eliminate (non-self). In alcuni casi il sistema immunitario “confonde” le strutture self con quelle non-self, col risultato di attaccare parti dell’organismo stesso, a tal proposito leggi: Che significa malattia autoimmune? Spiegazione ed esempi

Secondo le più recenti teorie il sistema immunitario distingue dunque un non-infectious self (self non infettivo) da un infectious self (self infettivo). La discriminazione tra self e non self avviene a livello molecolare ed è mediata da particolari strutture cellulari (Toll-like receptor, recettori dei linfociti T, complessi MHC, anticorpi), che consentono la presentazione ed il riconoscimento di componenti dell’agente lesivo definite antigeni (letteralmente induttori di anticorpi).

A seconda delle modalità di riconoscimento degli antigeni si possono distinguere due aree del sistema immunitario:

  • immunità aspecifica o innata: comprende mediatori chimici (responsabili dell’infiammazione) e cellulari responsabili di una prima linea di difesa contro le aggressioni. È evolutivamente più antica e consente il riconoscimento di un repertorio limitato di antigeni. Riconosce una generica condizione di pericolo e pone il sistema immunitario in una condizione di “allarme”, che favorisce lo sviluppo dell’immunità specifica
  • immunità specifica o acquisita o adattativa: comprende mediatori chimici e cellulari responsabili di una risposta difensiva più potente e mirata (virtualmente in grado di riconoscere qualunque forma di antigene), ma più lenta. È evolutivamente più recente e poggia sulla risposta aspecifica per numerose funzioni di presentazione e distruzione degli antigeni. Si divide a sua volta in:
    • immunità specifica umorale (cioè mediata da anticorpi).
    • immunità specifica cellulo-mediata.

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Differenza tra granulomi asettici (da corpo estraneo) e settici

MEDICINA ONLINE CELL CELLULA LABORATORIO MEMBRANA ORGANULI MORTE APOPTOSI BLOOD TEST INFIAMMAZIONE GRANULOMA SANGUE ANALISI GLOBULI ROSSI BIANCHI PIATRINE VALORI ERITROCITI ANEMIA TUMORE CANCRO LEUCEMIA FERRO.jpgIl granuloma è una reazione immunitaria a lesioni tipiche delle infiammazioni croniche, non solo di natura infettiva (streptococchi, per esempio nella febbre reumatica si formano i noduli di Aschoff, tubercolosi, sifilide, actinomiceti, ecc.), ma anche da corpi estranei.

Cause di granuloma

Tra le cause di granuloma si annoverano:

  • Corpi estranei endogeni (cheratina, colesterolo);
  • Corpi estranei esogeni (adiuvanti vaccinali, spine, spighe, fili di sutura, latte in caso di neonati con palatoschisi, pulviscolo in caso di antracosi);
  • Virus (Come nel caso della peritonite infettiva felina);
  • Batteri (Come nel caso di granuloma tubercolare da micobatterio, granuloma morvoso);
  • Protozoi (Come nel caso di leishmaniosi o infestazione da encephalitozoon cuniculi).

Granulomi da corpo estraneo

Detti anche granulomi asettici per l’assenza di agenti biologici al loro interno, si sviluppano quando il materiale è troppo massiccio per poter essere fagocitato oppure quando la sua composizione non permette ai macrofagi di eliminarlo mediante i loro sistemi di degradazione (per esempio, in caso di inalazione di particelle di asbesto, quarzo o limatura di ferro). Le cellule epitelioidi e le cellule giganti di Langhans circondano il corpo estraneo aderendo alla sua superficie e isolandolo dall’ambiente circostante, pur non riuscendo ad eliminarlo.

Granulomi immunologici

Detti anche granulomi settici, sono caratterizzati dalla persistenza dell’organismo o di

sue parti non digerite e da una risposta immunitaria mediata da linfociti T. L’esempio più comune consiste nel granuloma tubercolare, dovuto ad infezione da parte di Mycobacterium tuberculosis: questo batterio è in grado infatti di sfuggire ai meccanismi di killing intracellulare dei macrofagi grazie alla sua spessa parete cellulare, comune a tutti i micobatteri, e di provocare la lisi dei fagociti. L’attivazione macrofagica, e le sostanze citosoliche che vengono liberate nell’alveolo polmonare dopo la lisi della cellula, forniscono un fortissimo richiamo chemiotattico verso i linfociti T, che giungono in loco causando lo sviluppo del granuloma. Questo si manifesta morfologicamente con:

  • una parte centrale in necrosi caseosa, costituita da quel che rimane dei macrofagi lisati e dai micobatteri;
  • un anello più esterno di cellule epitelioidi e cellule giganti di Langhans;
  • un ultimo anello di linfociti e plasmacellule; più esternamente si può talvolta riscontrare la presenza di una capsula connettivale secreta dai fibroblasti attivati dall’infiammazione.

L’aspetto morfologico non segue sempre questi canoni e, pertanto, può essere necessaria l’identificazione dell’agente eziologico mediante esami di laboratorio ai fini di una corretta diagnosi. Il granuloma può rimanere silente per molti anni, ma si riattiva immediatamente in conseguenza di fenomeni di immunodepressioneanche lievi, estendendosi sempre più nel parenchima polmonare e causando la comparsa di grosse caverne. L’evoluzione più frequente è verso la necrosi, mentre la guarigione comporta sclerosi con formazione di cicatrici deturpanti.

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