The Assessment – La valutazione: il test etico dell’umanità sotto osservazione

Nell’universo narrativo di The Assessment – La valutazione, l’ultimo film diretto da Fleur Fortuné, la domanda “Cosa significa essere un buon genitore?” viene progressivamente decostruita fino a fondersi con un quesito più ampio e disturbante: “Cosa significa essere una buona persona?”. Il film esplora il confine poroso tra etica privata e morale pubblica, ponendo il giudizio genitoriale come dispositivo biopolitico, strumento di controllo e selezione sociale.

Ambientato in un futuro prossimo, il film immagina un sistema in cui il pericolo della sovrappopolazione impone che la procreazione sia subordinata ad un processo di autorizzazione statale. L’idoneità genitoriale diviene un parametro misurabile, sottoposto a una “valutazione” istituzionalizzata. La funzionaria Virginia (Alicia Vikander) è incaricata di convivere per una settimana con la coppia candidata – Mia (Elizabeth Olsen) e Aaryan (Himesh Patel) – per testarne la compatibilità morale, emotiva e sociale. È un protocollo che ricorda un esperimento psicologico travestito da routine amministrativa, dove la supervisione assume i tratti del voyeurismo etico.

La premessa richiama Kafka e Black Mirror, ma anche l’astrazione psico-sociale di Dogtooth, The Lobster e Never Let Me Go. Eppure, pur evocando i codici di un cinema della sorveglianza e dell’alienazione, The Assessment sembra incapace di formulare una vera ipotesi etica. La sua distopia si configura come un ambiente di simulazione più che come un mondo coerente: una scenografia mentale in cui la psicologia dei personaggi è osservata ma mai realmente compresa.

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Sul piano formale, l’opera è impeccabile. La regia di Fortuné e la fotografia di Magnus Jønck costruiscono un ecosistema visivo rarefatto, fatto di geometrie sterili e palette neutre, dove la simmetria architettonica diventa dispositivo di tensione. La casa, laboratorio claustrofobico del test, agisce come estensione del controllo: ogni angolo è un campo di osservazione, ogni gesto una variabile comportamentale. Il minimalismo tecnologico – in cui gli strumenti di monitoraggio restano invisibili – accentua il senso di disumanizzazione, lasciando che la violenza emerga nella forma, non nel contenuto.

La struttura narrativa si regge in larga parte sulla performance attoriale. Alicia Vikander incarna una Virginia ambigua, oscillante tra autoritarismo clinico e fragilità emotiva. La sua presenza funziona come un catalizzatore di instabilità, rivelando come il potere di giudicare corroda prima di tutto chi lo esercita. Olsen e Patel, più trattenuti, restituiscono l’ansia di una coppia che subisce un esame di laboratorio morale, ma il copione non offre loro sufficiente profondità per un’autentica evoluzione drammatica. La crisi della coppia rimane fenomenologica, non ontologica.

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Sul piano teorico, The Assessment si propone come un thriller psico-sociale e bioetico, ma si arresta alla superficie. Il tema della genitorialità non diventa mai oggetto di analisi psicosociale o antropologica: è piuttosto una metafora della selezione morale, della normatività del comportamento, della paura di non essere “sufficientemente umani” per meritare di generare. Tra riferimenti all’incesto e ospiti sopra le righe, la pellicola accenna a un sistema di disuguaglianze e controllo riproduttivo, ma non articola i meccanismi politici o simbolici che lo sostengono, lasciando il regime distopico in uno stato di indeterminatezza concettuale, il che non è neanche necessariamente un male.

Il risultato è un’opera esteticamente sofisticata ma, per molti, teoricamente incompleta: un esperimento visivo che adotta la forma di un test psicologico senza possedere l’analisi cognitiva necessaria a sostenerlo. La tensione tra osservatore e osservato non evolve mai in un vero processo di conoscenza o rivelazione. Il film affascina per la sua compostezza visiva, ma resta un esercizio di stile in cerca di un’anima.

The Assessment è una riflessione elegante ma incompiuta sull’umanità sotto sorveglianza. Il suo rigore formale si traduce in una forma di anestesia narrativa: un’estetica del controllo che osserva tutto senza mai davvero comprendere. Un test psicologico che, paradossalmente, fallisce nella sua stessa valutazione dell’umano.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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