
“Con una dieta vegana si potrebbe risparmiare circa una tonnellata e mezzo di CO₂ a persona all’anno”. Lo sostiene la Vegan Society. Il dato è ricondotto a studi dell’Università di Chicago e viene inserito in un confronto con altri settori, sottolineando che l’allevamento animale genererebbe un impatto climatico persino superiore a quello dei trasporti. Questo tipo di affermazione si inserisce nel più ampio dibattito sull’impatto ambientale dell’alimentazione, un campo che negli ultimi due decenni ha ricevuto crescente attenzione da parte della comunità scientifica e delle istituzioni internazionali.
Prima di assumere il valore di 1,5 tonnellate come conclusione definitiva, è fondamentale definire alcuni concetti chiave. Quando si parla di emissioni si utilizza il termine “gas serra” per riferirsi non solo all’anidride carbonica, ma anche al metano e al protossido di azoto, che vengono convertiti in valori comparabili attraverso l’unità CO₂ equivalente. Inoltre, per stimare l’impatto di una dieta non basta considerare il cibo in sé, ma anche i confini del sistema analizzato: produzione agricola, trasformazione, trasporto, distribuzione e gestione dei rifiuti possono modificare significativamente le stime.
Il messaggio centrale dell’articolo è che la sostituzione degli alimenti animali con equivalenti vegetali determinerebbe un risparmio netto di emissioni su scala individuale. Nei capitoli successivi occorre comprendere se tale cifra sia realistica, in quali condizioni lo sia e quali limiti metodologici possono modificarne l’interpretazione.
Evidenze scientifiche, limiti e variabilità
Una delle fonti più citate nel dibattito è il rapporto FAO del 2006 “Livestock’s Long Shadow”, che stimava nel settore zootecnico circa il 18 per cento delle emissioni antropogeniche di gas serra a livello globale. Questo dato ebbe un impatto notevole sul discorso pubblico, anche perché risultava superiore a quello attribuito al settore dei trasporti. Studi successivi hanno però rivisto queste percentuali, spesso ridimensionandole intorno al 14–15 per cento, a seconda della metodologia adottata e del perimetro di analisi. Ciò dimostra quanto il risultato dipenda dalle assunzioni di partenza e dai criteri di calcolo.
La letteratura comparativa sulle diverse diete mostra che regimi a prevalenza vegetale comportano riduzioni sostanziali delle emissioni pro capite. Analisi condotte su ampi campioni in Europa e Nord America hanno documentato come vegetariani e vegani abbiano un’impronta carbonica inferiore del 25–50 per cento rispetto agli onnivori, con valori assoluti che in alcuni casi raggiungono proprio la riduzione di 1–1,5 tonnellate di CO₂ equivalente per anno. Lo studio di Poore e Nemecek pubblicato su Science nel 2018 rappresenta una delle sintesi più complete, dimostrando che la produzione di carne e latticini è mediamente molto più impattante rispetto a legumi, cereali e ortaggi, pur con ampie differenze tra tipologie di allevamento e contesti produttivi.
Le differenze osservate sono dovute a molteplici fattori. Un sistema agricolo intensivo in Europa non è paragonabile a un sistema estensivo in Sud America legato alla deforestazione. L’efficienza tecnologica, la gestione dei fertilizzanti, l’origine geografica dei prodotti, la stagionalità e persino lo spreco alimentare influenzano il bilancio finale. Inoltre la sostituzione di alimenti non è mai puramente quantitativa: eliminare la carne e introdurre legumi o cereali implica variazioni di apporto calorico e proteico che incidono sui calcoli finali. In definitiva, il valore di 1,5 tonnellate rappresenta un ordine di grandezza plausibile in condizioni ottimali, ma non è applicabile in modo uniforme a tutte le popolazioni e a tutti i sistemi produttivi.
Implicazioni, prospettive e raccomandazioni
Il significato di questa stima è importante perché consente di comunicare al grande pubblico l’idea che le scelte individuali possano avere un impatto ambientale non marginale. In termini aggregati, se intere popolazioni riducessero significativamente il consumo di carne e derivati animali, il risparmio complessivo di emissioni sarebbe paragonabile a quello ottenibile da politiche energetiche di vasta portata. Tuttavia presentare un valore unico come se fosse valido ovunque e comunque rischia di semplificare eccessivamente una questione complessa.
Le implicazioni pratiche non riguardano soltanto il clima. L’adozione di una dieta vegana richiede attenzione nutrizionale, ad esempio per garantire un adeguato apporto di vitamina B12, ferro e proteine di qualità, aspetti che devono essere affrontati con educazione sanitaria e con il supporto di professionisti. Esistono inoltre barriere culturali ed economiche che rendono difficile una transizione radicale, soprattutto in contesti dove la carne ha un forte valore identitario o dove i prodotti vegetali ad alto contenuto proteico non sono facilmente accessibili.
Dal punto di vista della ricerca è fondamentale sviluppare studi più localizzati, capaci di valutare l’impatto delle diete nelle specifiche filiere agricole di ciascun Paese. Politiche pubbliche mirate potrebbero incoraggiare una riduzione graduale del consumo di carne, promuovere sistemi di allevamento più efficienti e valorizzare pratiche agricole sostenibili. Allo stesso tempo è importante monitorare i risultati reali di tali interventi e non solo basarsi su stime teoriche.
In conclusione, l’affermazione che una dieta vegana possa ridurre di circa una tonnellata e mezzo le emissioni annuali di una persona trova fondamento in diversi studi, ma va letta con cautela e contestualizzata. È più corretto considerarla una stima di potenziale beneficio, utile per orientare le scelte collettive e individuali, piuttosto che un valore fisso e universale.
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine