Figlio di un pastore, lavorava come agente di polizia per mantenere la famiglia, ma di sogni nel cuore Abebe Bikila ne aveva molti, primo tra tutti quello di portare sul tetto del mondo la sua Africa, la sua Etiopia. Non basta però ricordare che nell’Olimpiade del 1960 corse in terra romana conquistando il podio più alto; non basta dire che fu il primo africano di colore ad aggiudicarsi un oro olimpico; Abebe Bikila vinse in un modo tutto suo, un modo che l’ha reso, agli occhi di tutti, il simbolo di libertà per quella terra lontana, schiava del colonialismo europeo: correndo 42 chilometri scalzo, senza le “scomode scarpe” consegnategli prima della gara.
Ricorda un po’ l’impresa di quel Filippide che corse da Maratona ad Atene per annunciare la vittoria dei Greci contro i Persiani. Dopo più di 2000 anni da quell’evento il mondo è tornato a stupirsi di fronte ad un epilogo che ha dell’incredibile. Abebe Bikila non era tra i favoriti: correva nelle competizioni di atletica da soli 4 anni; prese parte alla nazionale olimpica in sostituzione di un compagno, Wami Biratu, ritiratosi per un infortunio. Nessuno avrebbe mai immaginato che un giovane sconosciuto ventottenne potesse resistere alla fatica per 2 ore, 15 minuti e 16 secondi correndo a piedi nudi, superando per primo l’Arco di Costantino, traguardo di quella XVII edizione dei Giochi.
Corse di nuovo quattro anni dopo, nell’Olimpiade di Tokyo, nonostante l’operazione di appendicite a quaranta giorni dalla gara, e per la prima volta un atleta vinse due ori consecutivi nella maratona olimpica.
Pare quasi che le disgrazie piombino su coloro che hanno il coraggio, la forza e la volontà di affrontarle. E Abebe di animo ne aveva tanto quanti i sogni che alla fine raggiunse. Nel 1969, a pochi anni da quando gli invincibili piedi nudi solcarono l’arrivo di un lungo viaggio verso la libertà, la vittoria, la storia divenuta leggenda, un incidente d’auto privò Abebe Bikila proprio di quelli, di quelle gambe d’oro, ma non certo della grinta che le faceva correre. E così partecipò ad un’altra Olimpiade, questa volta un’Olimpiade con un para davanti, questa volta gareggiando nel tiro con l’arco, correndo, anche questa volta, anche se in un modo diverso.
“Se sono libero è perché continuo a correre”, diceva Jimi Hendrix, e l’emorragia che colpì Abebe Bikila l’anno seguente fermò il suo respiro, non la sua corsa. Tutti, guardando la sfida della vita di quel giovane etiope, hanno sudato insieme a lui, poggiato i piedi sull’asfalto rovente, lottato, sognato la libertà che Abebe, a piedi nudi e con un cuore vestito di un sogno, raggiunse.
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