Ipotesi di Sapir-Whorf e determinismo linguistico: esempi e spiegazione

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO CHIRURGO Ipotesi di Sapir-Whorf e determinismo linguisticoIn linguistica, l’ipotesi di Sapir-Whorf (in inglese “hypothesis of linguistic relativity” o “Whorfianism” o “Sapir-Whorf hypothesis“, da cui l’acronimo SWH), conosciuta anche come “ipotesi della relatività linguistica” o semplicemente “relatività linguistica“, afferma che lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla. Nella sua forma più estrema, questa ipotesi assume che il modo di esprimersi determini il modo di pensare e vedere il mondo e l’esistenza, un po’ come dire – semplificando – che due persone ipoteticamente dotate di identico cervello (ad esempio due gemelli omozigoti) potrebbero avere modi di pensare/ragionare diversi se uno imparasse ad esempio a parlare in tedesco e l’altro in giapponese, oppure se uno dei due parlasse il dialetto siciliano e l’altro il sardo. La relatività linguistica è stata intesa in molti modi diversi, spesso contraddittori, nel corso della sua storia ed è ancora fonte di acceso dibattito tra i linguisti. L’idea è spesso espressa in due forme: l’ipotesi di Sapir-Whorf forte, ora denominata determinismo linguistico, era sostenuta soprattutto in passato, da alcuni dei primi linguisti prima della Seconda Guerra Mondiale; l’ipotesi di Sapir-Whorf debole è invece sostenuta principalmente da alcuni dei linguisti moderni. L’ipotesi forte asserisce che la lingua determini il pensiero e che le categorie linguistiche limitino e determinino le categorie cognitive: questa versione è generalmente considerata falsa dai linguisti moderni. L’ipotesi debole afferma invece che le categorie linguistiche influenzano solo il pensiero e le decisioni.

Eponimo e storia

L’ipotesi di Sapir-Whorf deve il suo nome al linguista, etnologo e antropologo polacco naturalizzato statunitense Edward Sapir (Lębork, 26 gennaio 1884 – New Haven, 4 febbraio 1939) che per primo la descrisse insieme al suo discepolo e linguista statunitense Benjamin Lee Whorf (Winthrop, 24 aprile 1897 – Hartford, 26 luglio 1941). L’origine di questa ipotesi può essere però fatta risalire al lavoro dell’antropologo tedesco naturalizzato statunitense Franz Boas (Minden, 9 luglio 1858 – New York, 21 dicembre 1942), tra i pionieri dell’antropologia moderna negli Stati Uniti e maestro di Edward Sapir. Il termine “ipotesi Sapir-Whorf” è comunque considerato una espressione impropria dai linguisti per diversi motivi: di fatto Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf non sono mai stati coautori di alcun lavoro e non hanno mai affermato le loro idee in termini di ipotesi. Sapir e Whorf, inoltre, non hanno mai effettuato una distinzione tra una versione debole e una versione forte di questa ipotesi, come è stato invece fatto dai linguisti successivi. Ad ogni modo, lo stesso Boas non fu esattamente il primo ad occuparsi del fenomeno. Nel diciannovesimo secolo studiosi come Wilhelm von Humboldt e Johann Gottfried Herderche notarono come il linguaggio potesse essere l’espressione dello spirito di una nazione. All’inizio del XX secolo, la scuola statunitense, guidata da Franz Boas e Edward Sapir, abbracciarono forme dell’idea in una certa misura, come risulta da una riunione del 1928 della Società linguistica d’America, ma Sapir in particolare scrisse più spesso contro che a favore del determinismo linguistico. Lo studente di Sapir, Benjamin Lee Whorf, divenne poi il principale sostenitore dell’idea. Harry Hoijer, un altro studente di Sapir, introdusse il termine “ipotesi Sapir-Whorf”, anche se – come già prima accennato – i due studiosi non avanzarono mai formalmente tale ipotesi. La versione forte della teoria fu sviluppata dalla fine degli anni ’20 dal linguista tedesco Leo Weisgerber. Il principio di relatività linguistica di Whorf è stato riformulato come ipotesi verificabile da Roger Brown ed Eric Lenneberg che hanno condotto esperimenti volti a scoprire se la percezione del colore varia tra parlanti di lingue che classificavano i colori in modo diverso. Negli anni ’60, l’idea di relatività linguistica è caduta in disgrazia tra i linguisti, ma – dalla fine degli anni ’80 – una nuova scuola di studiosi di relatività linguistica esaminò gli effetti delle differenze nella categorizzazione linguistica sulla cognizione, trovando ampio sostegno per versioni non deterministiche dell’ipotesi in contesti sperimentali. Dal 2000 in poi una visione equilibrata della relatività linguistica è sposata dalla maggior parte dei linguisti che ritengono che la lingua influenzi alcuni tipi di processi cognitivi in ​​modi non banali, ma che altri processi sono visti meglio come derivanti da fattori connessionisti.

Lo stile di vita si riflette nella lingua

Negli Stati Uniti Boas si imbatté in lingue dei nativi americani appartenenti a diverse famiglie linguistiche; tutte queste erano molto diverse dalle lingue semitiche e indo-europee studiate da molti intellettuali europei. Boas si rese conto di come gli stili di vita e le categorie grammaticali variassero moltissimo da un posto all’altro; di conseguenza, arrivò a credere che la cultura e gli stili di vita di un popolo si riflettessero nella lingua che esso parlava. Sapir fu uno degli allievi più brillanti di Boas. Proseguì lo studio di Boas notando che le lingue sono sistemi organici e formalmente completi. Perciò, non era questa o quella particolare parola che esprimeva un particolare modo di pensare o di comportarsi, ma la natura coerente e sistematica della lingua interagiva ad un livello più ampio con il pensiero ed addirittura col comportamento. Mentre i suoi punti di vista cambiarono nel tempo, sembra che verso la fine della sua vita Sapir arrivò a credere che la lingua non rispecchiasse meramente la cultura e le azioni abituali, ma che la lingua e il pensiero potessero in effetti essere in un rapporto di influenza reciproca o forse persino di determinazione reciproca.

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Realtà come oggetto spaziale o come processo

L’accurata analisi condotta da Whorf sulle differenze tra l’inglese e la lingua hopi, in un esempio ormai diventato famoso, alzò gli standard per l’analisi della relazione tra lingua, pensiero e realtà, basandosi su un’analisi accurata della struttura grammaticale piuttosto che su un resoconto più impressionistico delle differenze tra, ad esempio, i morfemi in una lingua. Per esempio, lo «Standard Average European» (SAE – Europeo Standard Medio, cioè le lingue occidentali in genere) tende ad analizzare la realtà come oggetti nello spazio: il presente e il futuro vengono considerati «luoghi», e il tempo è un sentiero che li collega. Una frase come «tre giorni» è grammaticalmente equivalente a «tre mele» o a «tre chilometri». Altre lingue, tra le quali molte lingue dei nativi americani, sono invece orientate al processo. Per parlanti monoglotti di tali lingue, le metafore concrete/spaziali della grammatica SAE possono avere ben poco senso. Lo stesso Whorf sosteneva che il suo lavoro sull’ipotesi di Sapir Whorf fu ispirato dall’intuizione che un parlante Hopi troverebbe la fisica relativistica fondamentalmente più semplice da capire rispetto a un parlante europeo.

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Superare il concetto di innatismo e universalità della lingua

In conseguenza del suo status di studente e non di linguista professionista, il lavoro di Whorf sulla relatività linguistica, condotto in larga parte nella seconda metà degli anni trenta, divenne popolare solo dopo la pubblicazione postuma dei suoi scritti negli anni cinquanta. L’ipotesi di Sapir-Whorf influenzò lo sviluppo e la standardizzazione di interlingua nella prima metà dell XX secolo, ma ciò fu in gran parte dovuto alla partecipazione diretta di Sapir. Nel 1955 James Cook Brown creò la lingua artificiale loglan (di cui il lojban è una variante riformata tuttora esistente come lingua viva) per mettere alla prova l’ipotesi. Tuttavia, nessun esperimento in tal senso fu mai condotto. Le teorie linguistiche degli anni sessanta, come quelle proposte da Noam Chomsky, si focalizzarono sull’innatismo e sull’universalità della lingua; di conseguenza, il lavoro di Whorf venne messo in ombra. Alla fine degli anni ottanta – ed ancor di più all’inizio del decennio successivo – i progressi della psicologia cognitiva e della linguistica antropologica rinnovarono l’interesse per l’ipotesi di Sapir Whorf. Un esempio di un approccio chomskiano alla questione è il libro di Steven Pinker The Language Instinct, mentre un approccio più vicino a Whorf potrebbe essere rappresentato da autori come George Lakoff, che hanno ipotizzato come le argomentazioni politiche sono foggiate da una ragnatela di metafore concettuali che sono sottese nell’uso della lingua. Oggi i ricercatori sono discordi, spesso fortemente, riguardo al grado di influenza del linguaggio sul pensiero, comunque questa discordia ha sprizzato un crescente interesse nel campo e un gran numero di ricerche innovative.

La neve ed il vino

Tra gli esempi più citati del determinismo linguistico è lo studio di Whorf sul linguaggio degli Inuit, che usano differenti parole per indicare la neve. Egli deduce che questo fatto modifica la visione del mondo degli Inuit, crea una differente modalità di esistenza rispetto, per esempio, ai parlanti di lingua inglese. La nozione che i popoli artici abbiano un ampio numero di parole per indicare la neve è stata confutata dal linguista Geoffrey Pullum in un saggio intitolato La grande farsa del vocabolario eschimese (The great Eskimo vocabulary hoax): egli rintraccia l’origine della storia, attribuendola in definitiva in gran parte a Whorf. In particolare evidenzia la banalità della teoria. Il fatto che gli appassionati di vino dispongano di un ricco vocabolario per descrivere le sfumature di gusto dei vini non è considerato come prova del fatto che la loro mente funzioni diversamente, ma è solo che essi sanno di più di vino rispetto alla media. Gli sciatori anglofoni avranno probabilmente anch’essi un ampio vocabolario relativo alla neve. Al di là delle conclusioni sulla questione della neve, bisogna tenere presente che la teoria di Whorf si incentrava sulle categorie grammaticali, soprattutto quelle nascoste, presenti in ogni lingua, non su gruppi lessicali. Queste idee hanno trovato una qualche resistenza nella comunità dei linguisti. Svariati studi sulla percezione dei colori nelle diverse culture sono approdati a punti di vista contrastanti.

Critiche all’ipotesi

Una possibile argomentazione contro la versione integrale di quest’ipotesi, una visione del mondo in cui la maggior parte del pensiero sia incanalata dalla lingua, può essere scoperta tramite l’esperienza personale: tutti hanno avuto qualche volta difficoltà ad esprimersi a causa dei limiti della lingua e sono consci che la lingua non è adeguata per quel che intendono. Forse scrivono o dicono qualcosa per poi pensare “non è esattamente quello che intendo dire”, o forse non riescono a trovare una buona maniera di spiegare un concetto a un allievo. Questo chiarisce che ciò che è pensato non è una serie di parole, perché un individuo può comprendere un concetto senza essere capace di esprimerlo a parole. Inoltre, se l’ipotesi Sapir-Whorf venisse considerata vera così come è stata formulata dai due studiosi, si potrebbe affermare che i bilingui posseggano due differenti visioni del mondo derivanti dalla conoscenza di due lingue ed al loro uso per organizzare i propri ragionamenti mentali. L’estremo opposto, il fatto che la lingua non influenzi per nulla il pensiero, andrebbe però – con molta probabilità – ugualmente considerato falso. Per esempio, è stato mostrato che la distinzione di colori simili tra loro può essere influenzata da come la lingua ne organizza i nomi (ma ciò prova puramente che le abilità per segnalare la differenza di colore è legata al linguaggio: per quanto il soggetto possa percepire due colori differenti, non potrebbe, con anni di pratica, indicare che vede due colori differenti) Un altro studio mostra che i figli non udenti di genitori udenti possono risultare inabili ad alcuni compiti cognitivi non legati all’udito, diversamente dai figli sordi di genitori sordi, a causa della maggior difficoltà dei genitori udenti nella lingua dei segni.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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