Il carcinoma papillare della tiroide (anche chiamato carcinoma papillifero della tiroide) è il tipo più comune di tumore maligno della tiroide, rappresentando circa il 75% di tutti i tumori maligni e precedendo di gran lunga il carcinoma follicolare (15% dei casi). Sia il carcinoma papillare che quello follicolare fanno parte del gruppo dei tumori differenziati della tiroide. Presenta una crescita lenta e seppur generalmente sia circoscritto alla tiroide (“carcinoma intratiroideo”), può dare luogo a metastasi che interessano i linfonodi del collo. In alcuni pazienti il tumore è multifocale e può interessare entrambi i lobi della tiroide. In fase molto precoce può presentarsi sotto forma di un unico focolaio inferiore al centimetro (“microcarcinoma”). Esprime la sua malignità mediante:
- invasione di strutture circostanti la tiroide (“carcinoma extratiroideo”);
- metastasi ai linfonodi del collo: questi “grappoli” di linfonodi vengono raggruppati in un compartimento centrale (più vicino alla tiroide) e in un compartimento laterale (più lontano dalla tiroide);
- metastasi ai polmoni e alle ossa (1% dei casi).
Cause e fattori di rischio
Le cause specifiche della patologia non sono ancora del tutto chiarite, tuttavia sono noti alcuni fattori di rischio, tra cui varie condizioni e patologie:
- sesso femminile;
- età > 50 anni;
- esposizione prolungata a radiazioni ionizzanti (quelli di radiografia e TAC);
- radioterapia;
- somministrazione di iodio radioattivo;
- incremento di TSH;
- mutazioni oncongene RET e RTK;
- mutazioni oncogene RAS e BRAF;
- patologie che interessano la tiroide.
Sintomi
Nelle prime fasi il tumore può risultare asintomatico o dare sintomi aspecifici. In genere un carcinoma determina la comparsa di un nodulo tiroideo che può essere riscontrato durante l’esame obiettivo, alla palpazione. Ricordiamo che però solo il 3-5% di tutti i noduli della tiroide sono forme tumorali maligne, quindi il riscontro di un nodulo in sede tiroidea non deve necessariamente il paziente di avere un cancro tiroideo. Il paziente, nei casi più gravi, potrebbe sviluppare difficoltà respiratorie, a deglutire e nell’emissione di suoni.
Diagnosi
Dopo anamnesi ed esame obiettivo, in cui viene accertata la presenza di noduli tiroidei, vengono effettuati varie analisi, tra cui:
- esami di laboratorio con particolare attenzione agli ormoni tiroidei, TSH, TRH, anticorpi anti tireoglobulina e anti tireoperossidasi;
- ecografia tiroidea;
- agoaspirato con ago sottile: è indicato in presenza di un nodulo singolo o di un nodulo sospetto in un gozzo multinodulare. Il campione viene analizzato dal patologo e ciò permette di distinguere un nodulo benigno da uno maligno;
- scintigrafia tiroidea;
- misurazione dei livelli di calcitonina (marker specifico del carcinoma midollare della tiroide);
- test genetici: il tumore può far parte di sindromi genetiche quali la sindrome neoplastica endocrina tipo 2 (MEN2);
- TAC, RMN e PET/CT: consentono la stadiazione del tumore identificando le possibili sedi di diffusione della malattia e consentendo di progettare un eventuale intervento chirurgico.
L’unica diagnosi di certezza è quella istologica definitiva (postoperatoria), ma sia la citologia (preoperatoria) che l’istologia intraoperatoria (o estemporanea) sono diventate talmente attendibili, da costituire il principale strumento per decidere la terapia chirurgica di tali noduli. Ciò non esclude al 100% che le diagnosi citologica e istologica intraoperatoria, siano esse benigne o maligne, vengano confermate o sconfessate dall’esame istologico:
- citologia preoperatoria: esame eseguito su un ago aspirato di un nodulo tiroideo. Data la bassa percentuale di errore (in “mani” esperte), una citologia “maligna” papillare è sufficiente per decidere di asportare tutta la tiroide;
- istologia intraoperatoria: lobectomia parziale comprendente il nodulo sospetto, eseguito durante l’intervento chirurgico, di cui si attende il risultato mentre il paziente è in anestesia al tavolo operatorio. In caso di diagnosi di malignità si asporta la tiroide residua e si esegue linfadenectomia delle stazioni laterocervicale; in caso di benignità, l’intervento ha termine;
- istologica postoperatoria: viene effettuata sul campione chirurgico per stabilire le caratteristiche istomorfologiche della lesione. Esistono numerose varianti del carcinoma papillare: classica, follicolare, solida, tall cell, a cellule oncocitarie, intestinal-type. Le caratteristiche morfologiche nucleari, comuni a tutte le varianti, sono caratteristiche e distintive di tale lesione e permettono da sole di fare diagnosi di carcinoma papillare. Il nucleo presenta un aspetto a vetro smerigliato con rarefazione della cromatina, irregolarità della membrana nucleare (grooves ed incisure “a chicco di caffe”) e soprattutto pseudonucleoli, che rappresentano invaginazioni citoplasmatiche che sul piano morfologico bidimensionale ricordano i nucleoli. Le varianti tall-cell e intestinal type presentano una prognosi più sfavorevole.
Terapia farmacologica
Nelle forme che presentano mutazione di BRAF V600E è in fase avanzata di studio, con risultati decisamente promettenti, l’utilizzo del farmaco VEMURAFENIB inibitore specifico della chinasi BRAF portatrice della specifica mutazione (V600E).
Terapia chirurgica
Il carcinoma papillare intratiroideo viene trattato con una tiroidectomia totale, cioè asportando tutta la tiroide senza lasciare residui. Le strutture invase dai carcinomi extratiroidei vanno asportate assieme alla tiroide (più spesso: muscoli, nervo laringeo ricorrente). In caso di diagnosi postoperatoria dopo emitiroidectomia, il paziente deve essere rioperato per asportare l’altra metà tiroide, fatta eccezione per alcuni casi selezionati di microcarcinoma nei quali è sufficiente l’emitiroidectomia. La maggioranza di questi casi può essere trattata con tiroidectomia videoassistita. In caso di metastasi ai linfonodi del collo, il compartimento invaso va asportato in blocco conservando i muscoli, le arterie, le vene e i nervi (vanno asportati solo se invasi dal tumore). Viceversa se i linfonodi non sono metastatici l’atteggiamento chirurgico è controverso: alcuni asportano preventivamente il compartimento centrale (dato la tendenza a diffondere per via linfatica), altri lo conservano (affidandosi alla radioterapia e per evitare l’ipoparatiroidismo postoperatorio).
Follow up
Il paziente trattato con tiroidectomia totale viene controllato periodicamente. Per comprendere se la chirurgia ha asportato completamente il tessuto tiroideo, entro 12 settimane dall’intervento, si controlla il livello di tireoglobulina nel sangue e si esegue una scintigrafia total-body. La tireoglobulina è un marker, cioè una “spia” della presenza di cellule tiroidee. La scintigrafia total-body consente di identificare dove sono queste cellule: loggia tiroidea o altre sedi (linfonodi, fegato, ecc.). In caso la scintigrafia sospetti o evidenzi un residuo tumorale, si propone la terapia radiometabolica.
Prognosi
La prognosi di questo tumore è ottima anche in presenza di metastasi linfonodali purché trattato adeguatamente. I fattori prognostici si distinguono in: a) fattori legati al paziente (età, sesso, familiarità) b) fattori legati alla neoplasia (istologia, markers biologici, dimensioni, invasività extracapsulare, multifocalità, metastasi linfonodali e metastasi a distanza) c) fattori legati al trattamento (chirurgia, terapia radiometabolica). L’età alla diagnosi è un fattore prognostico importante, essendo considerati meno a rischio i pazienti al di sotto dei 45 anni di età. Bambini ed adolescenti presentano in genere una malattia più avanzata con maggiore rischio di recidive, mantenendo però una buona prognosi di sopravvivenza. Il peggioramento della prognosi nei soggetti anziani sembra dipendere dalla maggiore sdifferenziazione che i tumori tiroidei manifestano col passare degli anni, rendendosi così resistenti alle terapie e più aggressivi. Alcuni studi riportano il sesso maschile come fattore prognostico negativo, ma non ci sono uniformità di vedute su questo punto. Per quel che riguarda la familiarità, le rare forme familiari di carcinoma papillifero presentano prognosi peggiore rispetto a quelle sporadiche. Tali forme familiari sono la Sindrome di Gardner (poliposi intestinale associata a tumori multipli dei tessuti molli e dell’osso) e la Malattia di Codwen (amartomi multipl, fibrosi cistica polmonare e carcinoma mammario). L’istologia influenza significativamente la prognosi essendo a mortalità maggiore, nell’ambito dei carcinomi papilliferi, le varianti a cellule alte (81, 9% di sopravvivenza a 5 anni, contro il 96% nella variante classica), a cellule colonnari, follicolare solida e sclerosante diffusa, rispetto all’istotipo papillare classico. Studi sembrano dimostrare che la variante a cellule alte, se associata a tiroidite di Hashimoto, risulta meno aggressiva e con prognosi più favorevole. Inoltre la tiroidite di Hashimoto sembra avere un ruolo protettivo anche sulle altre varianti. Alcuni markers biologici come RAS, p21, p53, MMP-1, MMP-9, se identificabili condizionano negativamente la prognosi. Per quanto riguarda le dimensioni del tumore all’atto della diagnosi, numerosi studi concordano nel considerare a rischio maggiore i tumori con diametro maggiore di 4 centimetri (T3-T4). L’invasione extraghiandolare condiziona negativamente la prognosi, condizionando la radicalità dell’exeresi chirurgica e facendo salire la mortalità fino al 50%. La multifocalità, cioè il riscontro di microcarcinomi nel lobo controlaterale a quello del tumore principale, è un riscontro frequente, ma non sembrerebbe peggiorare di molto la prognosi. La presenza di metastasi linfatiche non costituisce, nel caso del carcinoma papillifero, a differenza di quanto avviene per ogni altra neoplasia epiteliale, un sicuro fattore prognostico negativo, vista anche la buona risposta che le metastasi linfatiche in genere hanno alla radioterapia metabolica con radioiodio.
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Lo Staff di Medicina OnLine
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