Malattia di Pick (demenza presenile) nell’anziano

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma MORBO ALZHEIMER CAUSE DECORSO TERAPIE Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata Macchie Capillari Ano PeneLa malattia di Pick è una rara demenza presenile differenziabile dal morbo di Alzheimer per una spiccata e Continua a leggere

Declino cognitivo: evitalo grazie a queste sette armi

MEDICINA ONLINE SESSO SESSUALITA ANZIANO 40 50 60 70 ANNI YO VECCHIO OLDIE PENE SPERMA EREZIONE RAPPORTO VIAGRA FARMACI PENETRAZIONE DISFUNZIONE ERETTILE ANSIA PRESTAZIONE IMPOTENZA LIQUIDO SEMINALE GIOVANE TESTICOLI SCROTOAttualmente in Italia vivono quasi un milione di persone affette da demenza ed il loro numero è in aumento. Anche se Continua a leggere

Demenza da corpi di Lewy: cause, decorso, Parkinson, aspettativa di vita

MEDICINA ONLINE CERVELLO BRAIN TELENCEFALO MEMORIA EMOZIONI CARATTERE ORMONI EPILESSIA STRESS RABBIA PAURA FOBIA NERVO VENTRICOLI CEREBRALI ATTACCHI PANICO ANSIA IPPOCAMPO IPOCONDRIA PSICOLOGIA DEPRESSIONE DIENCEFALOLa demenza a corpi di Lewy (pronuncia “leui”, anche chiamata DLB acronimo dall’inglese Dementia with Lewy bodies) è una malattia neurodegenerativa cronica e progressiva, strettamente correlata alla malattia di Alzheimer ed a quella di Parkinson. Resa famosa per essere stata considerata la vera causa del suicidio del celebre attore Robin Williams avvenuto l’11 agosto 2014, la Demenza da corpi di Lewy è la seconda forma di demenza per frequenza nella popolazione occidentale (costituendo il 10-15% di tutte le demenze), collocandosi dopo l’Alzheimer e prima delle demenze vascolari.

Cause di Demenza da corpi di Lewy

La causa della DLB non è stata ad oggi ancora chiarita completamente. È stato trovato un possibile legame con il gene PARK11, ma bisogna precisare che la maggioranza dei casi di DLB sono da considerarsi sporadici. Un fattore di rischio noto per lo sviluppo della DLB è la presenza dell’allele ε4 dell’apolipoproteina E (come anche per la demenza di Alzheimer).

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Demenza da corpi di Lewy e Parkinson

La DLB è strettamente correlata – ancora in modo non del tutto chiarito – con la malattia di Parkinson, con cui ha in comune alcuni aspetti anatomopatologici: infatti si definiscono corpi di Lewy dei depositi anomali di proteina fibrillare che si formano nelle cellule nervose e si localizzano prevalentemente nei nuclei del tronco encefalico (m. di Parkinson) e della corteccia cerebrale (demenza a corpi di Lewy). La Demenza da corpi di Lewy ha in comune con il Parkinson anche alcuni aspetti clinici, come i tremori e i disturbi del movimento, e ormai oggi si ritiene che le forme di malattia di Parkinson associate a (o evolute in) demenza (PDD: Parkinson Dementia Disease) altro non siano che demenze a corpi di Lewy esordite con parkinsonismo.

Clinica

La sintomatologia della Demenza da corpi di Lewy, sebbene molto varia, è caratterizzata da sintomi ricorrenti, che tipicamente sono:

  • grandi variazioni dello stato di attenzione e di allerta, con fluttuazioni presenti di giorno in giorno ed addirittura di ora in ora;
  • frequenti allucinazioni visive che spesso segnano l’esordio della malattia;
  • sogni vividi, spesso di natura terrifico;
  • disturbi della memoria;
  • disturbi del movimento indistinguibili da quelli del Parkinson, spesso più marcati ed invalidanti del Parkinson stesso;
  • decadimento cognitivo fluttuante.

I pazienti spesso sono soggetti anche ad ipercatabolismo che, se non trattato, può portare a dimagrimenti improvvisi e drastici nonostante l’alimentazione rimanga perlopiù normale. Al momento attuale, l’aspettativa di vita stimata per i pazienti affetti da questa demenza progressiva è di circa 8 anni dall’esordio dei sintomi, anche se può variare a seconda del fenotipo del paziente stesso.

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Sintomi premonitori

Fra i segni più precoci vi può essere un disordine comportamentale nel sonno, noto come “disturbo comportamentale nel sonno REM” od RBD; i sogni sono vividi e spesso a contenuto terrifico, con vocalizzi e/o segni di comportamento violento. Sempre piuttosto precocemente si può instaurare la comparsa di anosmia. I Disordini cognitivi (sia di tipo corticale che sottocorticale) comprendono

  • disturbi dell’attenzione e del richiamo della memoria (comunque di minore entità rispetto all’Alzheimer);
  • disturbo frontale sottocorticale e visuospaziale;
  • fluttuazioni della performance cognitiva e funzionale (ne soffrono dal 45 al 90% dei pazienti), consistenti in  episodi improvvisi in cui il paziente si disinteressa agli stimoli esterni o appare in condizione di sopore.

Le fluttuazioni sono variabili in durata (da minuti ad ore) e capaci di condurre il soggetto sino ad uno stato ‘pseudo-catatonico’. Tipico è il ‘closing in’ (lett. “appiccicarsici”): il soggetto, quando invitato a riprodurre un disegno,  costruisce il proprio a ridossi di  quello dell’esaminatore.

Sintomi psico-allucinatori

Comprendono:

  • allucinazioni,
  • deliri, illusioni,
  • turbe dell’umore.

Le allucinazioni visive (presenti con percentuale prossima all’80%) sono di solito extracampine, e si presentano con la percezione della figura del famoso “angelo custode” spesso vista dal paziente alla sua sinistra. Esse offrono una ‘sensazioni di passaggio’, sia di animali che di oggetti; fino alla visione di vere e proprie scene allucinatorie, semplici o tridimensionali, solitamente mute. In una fase più tardiva della malattia possono essere presenti anche allucinazioni uditive (più frequentemente che nella demenza di Alzheimer); le allucinazioni appaiono dovute ad una disfunzione presso il lobo temporale. Le illusioni si manifestano nella forma di una distorsione delle immagini reali. I deliri paranoidi e di misidentificazione sono riscontrati sino al 13-75% dei casi; essi possono spingersi fino a grosse manifestazioni isteriche, presenza di dolori diffusi transienti e segni paretici che tendono a scomparire.

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Turbe dell’umore

Si compongono di: sintomi depressivi (con prevalenza dal 14 al 50%), depressione maggiore (con prevalenza del 20%) e sintomi depressivi minori; in genere le turbe dell’umore sono presenti in maniera fluttuante.

Segni motori

sono di tipo parkinsoniano e presenti nel 40% dei casi alla diagnosi (di solito sono forme simmetriche con prevalente rigidità, e tremore a riposo ridotto). Essi sono anche più gravi che nella PD stessa. Caratteristica può essere una  ‘sindrome di Pisa’, che si presenta con una distonia assiale in avanti o laterale. Disfunzioni autonomiche severe compaiono col progressivo avanzamento della patologia: ipotensione ortostatica , ipersensibilità del seno carotideo ed incontinenza urinaria.

Anatomia patologica

La Demenza da corpi di Lewy è anatomicamente caratterizzata dalla presenza di corpi di Lewy, costituiti da aggregati di Alfa-sinucleina e di ubiquitina che si accumulano nei neuroni e che sono rinvenibili nelle biopsie post-mortem.

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Diagnosi

Caratteristica centrale (essenziale per la diagnosi di DLB possibile o probabile): una demenza, intesa come un decadimento cognitivo progressivo di entità tale da interferire con le normali attività sociali o lavorative; un marcato deficit mnesico può non essere presente nelle fasi iniziali di malattia ma è generalmente presente con la sua progressione. Può essere presente un preminente deficit attentivo, delle funzioni esecutive e delle abilità visuo-spaziali.

Caratteristiche “core”, ‘centrali (due delle seguenti caratteristiche sono sufficienti, insieme alla caratteristica centrale, per la diagnosi di DLB probabile; una è necessaria  per la diagnosi di DLB possibile):

  • Fluttuazioni cognitive, con marcate variazione di attenzione e vigilanza
  • Allucinazioni visive ricorrenti, generalmente complesse e ben strutturate
  • Parkinsonismo

Caratteristiche suggestive (in presenza di una o più di queste caratteristiche, in associazione ad una o più caratteristiche “core”, si può porre diagnosi di DLB probabile; se non sono presenti caratteristiche “core”, una o più caratteristiche suggestive permettono di porre diagnosi di DLB possibile; la diagnosi di DLB probabile non può essere posta sulla base delle sole caratteristiche suggestive):

  • Disturbi del sonno REM
  • Spiccata sensibilità ai neurolettici
  • Diminuito uptake del trasportatore della dopamina a livello dei nuclei della base, dimostrato tramite PET o SPECT

Caratteristiche di supporto (presenti frequentemente ma prive attualmente di specificità diagnostica):

  • Cadute e sincopi ricorrenti
  • Transitorie perdite di coscienza non altrimenti giustificabili
  • Disfunzione autonomica di grado severo (ipotensione ortostatica, incontinenza urinaria)
  • Allucinazioni non visive
  • Depressione
  • Relativa integrità delle strutture temporali mediali (dimostrate mediante TC o RMN)
  • Uptake di traccianti di perfusione (mediante SPECT/PET) diffusamente diminuito, con ridotta attività a livello occipitale
  • Anomalie alla scintigrafia miocardia con MIBG
  • Una ‘Prominent slow wave activity on EEG with temporal lobe transient sharp waves’; la si trova descritta nel capitolo successivo della tesi

Caratteristiche che rendono meno verosimile la diagnosi di DLB.

  • Malattia cerebrovascolare
  • Presenza di altre malattie che possano giustificare il quadro clinico
  • Comparsa dei segni extrapiramidali nelle fasi avanzate di malattia.

Diagnostica per immagini

La RM testimonia  l’atrofia delle strutture mediali del lobo temporale (e dell’ippocampo in particolare); questo reperto è meno evidente che nella demenza di Alzheimer. Infatti le funzioni mnesiche sono meno coinvolte nei pazienti affetti da LDB rispetto ai soggetti affetti da AD. Si rinvengono, invece, una maggiore atrofia presso il putamen ed il sistema nigro-striatale. Alla SPECT ed alla PET si impiegano traccianti dopaminergici e traccianti aspecifici di perfusione o metabolismo. L’utilizzo di ligandi SPECT quali 123i-FPCIT (n-fluropropyl-2β-carbomethoxy-3β-4- [123i]iodophenyl tropane, noto in termini commerciali come DAT-SCAN), 123i-β-CIT, e del  ligando PET 18F-dopa ([18F]flurodopa), permette di apprezzare nella DLB una marcata perdita di terminali pre-sinaptici dopaminergici a livello nigrostriatale, con una stretta analogia  con altre malattie extrapiramidali quali PD, PSP, Atrofia Multisistemica, ed in netta contrapposizione con la demenza di Alzheimer, in cui si osserva una pressoché  completa integrità funzionale del sistema nigrostriatale. È poi  tipica una ipoperfusione posteriore (o difetto posteriore), a “ferro di cavallo”;  studi che utilizzano SPECT con i ligandi perfusionali 99mtc-HMPAO, 99mtc-ECD  e 123iMP, mostrano infatti una minorata perfusione a  carico delle regioni occipitali nei pazienti con DLB, significativamente maggiore rispetto a quella osservata nei pazienti con AD. Risultati analoghi, si  ottengono con il tracciante PET 18F-FDG che evidenzia un quadro di netto ipometabolismo occipitale.

Terapia

Il trattamento solitamente si basa su due terapie principali: una farmacologica e una non farmacologica. La prima riguarda le manifestazioni neuropsichiatriche, quelle del deterioramento cognitivo e le alterazioni di tipo motorio. Si tratta di una terapia meramente sintomatica e senza capacità curativa caratterizzata dall’uso di due principali gruppi di farmaci: gli inibitori dell’acetilcolinesterasi e la memantina. Dall’altro lato, il trattamento non farmacologico permette di migliorare la qualità di vita della persona, grazie a una combinazione di attività fisica regolare e un programma di riabilitazione.

Trattamento farmacologico

Il trattamento della psicosi richiede una particolare attenzione; i soggetti  trattati con i neurolettici tipici mostrano un rapido peggioramento della sintomatologia extrapiramidale (con complicanze anche potenzialmente fatali:  ipertermia maligna, ‘tono ligneo’ e possibile approdo ad una disfunzione multiorgano). Ragione per la quale debbono venire impiegati i neurolettici atipici (in particolare: clozapina e quetiapina). Il trattamento dei disturbi della memoria prevede il possibile impiego di Memantina e Anticolinesterasici (rivastagmina, Exelon e il donepezil, Aricept). Il trattamento dei sintomi motori implica l’utilizzo di L-dopa. L’aggiunta di un maggiore apporto di sale da tavola o di anti-ipotensivi può essere necessaria per curare l’ipotensione ortostatica.

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Assistenza

Appare essenziale garantire al paziente un sistema di assistenza (‘caregiving’) che comprenda:  riadattamento all’ambiente familiare, cura delle sovraimposte disautonimie fisiche, e controllo della presenza di infezioni vescicali, costipazione e disidratazione. I ‘caregivres’ dovrebbero imparare ad eliminare eventuali stimoli che siano noti per scatenare fenomeni allucinatori nei soggetti affetti da DLB;  è infatti buona norma rendere l’ambiente di vita il più semplificato possibile. Il dialogo con i pazienti colpiti da DLB può essere reso difficile dal loro atteggiamento astioso; sarà quindi necessario che il badante eviti di parlare troppo a lungo o troppo poco col paziente, cercando un giusto mezzo e che si esprima sempre lentamente e in maniera chiara ed esplicita.

Aspettativa di vita

L’aspettativa di vita nel paziente con Demenza da corpi di Lewy, si stima essere di circa 8 anni dalla comparsa dei primi sintomi. Il pronostico però varia molto da persona a persona e può essere influenzato dalla presenza o meno di altre malattie concomitanti, dall’età del paziente, dall’ambiente in cui il paziente vive e dallo stato di salute generale della persona. Non va dimenticato però che si tratta di una malattia degenerativa la cui evoluzione è inevitabile. È importante perciò ricordare che una diagnosi corretta e precoce sarà l’elemento fondamentale in grado di aiutare a rallentare al più presto l’evoluzione dei sintomi conseguendo in questo modo migliore qualità di vita e prognosi più ottimistica.

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Sindrome del tramonto o del crepuscolo: cause, sintomi e cura

MEDICINA ONLINE SINDROME DEL TRAMONTO CREPUSCOLO SOLE CALANTE SUNDOWNING SYNDROME BUIO NOTTE ALZHEIMER DEMENZA ANZIANO NEONATO BAMBINO CURA THE VISIT FILM 2015 M. Night Shyamalan WALLPAPER OLD GRANDMA HORROR.jpgForse siete qui perché avete appena visto il film “The Visit” del 2015, diretto da M. Night Shyamalan (da cui è tratta la foto in alto), dove questa sindrome viene menzionata, oppure è stata diagnosticata ad un vostro caro e volete saperne di più. Cerchiamo oggi di fare chiarezza su questa patologia.

Cos’è la Sindrome del tramonto?

La sindrome del tramonto, anche chiamata sindrome del crepuscolo o sindrome crepuscolare o sindrome del sole calante, o in inglese “sundowning” o “sundown syndrome” è una condizione caratterizzata da un insieme di sintomi psichiatrici (principalmente stato confusionale, agitazione e deliri) che si verificano in soggetti anziani, specie quelli con demenza senile ed Alzheimer, nelle ore del tardo pomeriggio, serali, notture, ma anche diurne se posti in ambienti senza luce. E’ una manifestazione non certo di recente scoperta: gli effetti del calar del sole furono già descritti da Ippocrate nella teoria degli “umori” e nei quattro elementi che possono influenzare la salute dell’uomo.

Frequenza

La Sindrome del tramonto tende a colpire soprattutto soggetti anziani (circa il 10% degli anziani ne soffre), specie i soggetti con demenza senile o altra patologia neurologica progressivamente debilitante. Mediamente la sindrome del tramonto si verifica in un malato di Alzheimer su cinque. Altre stime alzano decisamente questo dato portandolo a 4 su cinque.

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Quando si verifica?

La Sindrome del tramonto compare la sera o anche prima, quando inizia a fare buio, ma anche durante il giorno se il paziente si trova in ambienti poco illuminati. Cambi repentini di ambiente possono agire negativamente sulla Sindrome del tramonto, accentuandone i sintomi.

Cause

Le cause non sono ancora chiare a questo punto, anche se il National Institutes of Health afferma che può essere causato da cambiamenti nei cicli sonno-veglia. Altre teorie sono che può dipendere da stanchezza, sete o fame, dal dolore, dalla noia o dalla depressione:

  • la stanchezza: a chiunque capita la sera di percepire una “stanchezza mentale”. Per una persona con demenza, le cui energie mentali sono ridotte, ciò è maggiormente valido e non è necessario aver lavorato per essere stanca alla sera: è sufficiente il sovraccarico di stimoli visivi e uditivi a cui giornalmente siamo tutti sottoposti, per essere stanchi e affaticati;
  • la sera c’è meno luce per cui tutto risulta meno nitido. La poca luce, infatti, agevola la perdita dei punti di riferimento dati dall’ambiente che appare come nuovo e ostile, specie per il soggetto anziano o demente;
  • la depressione: soggetti anziani con depressione hanno un rischio maggiore di sviluppare Sindrome del tramonto. I sintomi stessi della depressione tendono a peggiorare per chiunque di notte, quando si è soli con i propri pensieri, al buio e magari si soffre anche di insonnia;
  • i colori. Uno degli aspetti più particolari della demenza consiste nella perdita progressiva della vista ed in particolare della capacità di distinguere i colori. In molti casi le persone con demenza avanzata non sono in grado di percepire correttamente il colore bianco e sembra che tutte le superfici di questo colore vengano percepite come trasparenti o inesistenti. Proprio per questo motivo le pareti delle case di riposo, così come i camici degli infermieri sono colorati e non bianchi. Tale difficoltà tende ad aumentare la sera, fatto che contribuisce a creare maggiore paura e confusione nel soggetto demente;
  • stagioni: sembrerebbe esserci anche una correlazione con le stagioni, ad esempio durante l’inverno sembra che, nelle persone affette da demenza di Alzheimer, possano alterarsi i meccanismi che regolano la temperatura nell’organismo. Sicuramente la poca luce e gli ambienti poco illuminati possono influenzare pesantemente la comparsa di questa sindrome;
  • cambi repentini di ambiente: per un anziano anche cambiare residenza, come ad esempio un ricovero in ospedale o l’istituzionalizzazione, può agire negativamente e scatenare questa sindrome. I pazienti perdono i loro punti di riferimento, si ritrovano in un ambiente a loro sconosciuto e ritenuto ostile e potenzialmente pericoloso.

Le stesse manovre assistenziali la sera, i rumori notturni ed i risvegli obbligati sono molto spesso causa di deliri e confusione.

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Sintomi ed aggressività

La Sindrome del tramonto è caratterizzata dalla comparsa o dal peggioramento serale di alcuni sintomi che durante il giorno non sono presenti o sono presenti ma in modo meno marcato. I sintomi della Sindrome del tramonto, sono solitamente:

  • stato confusionale,
  • disorganizzazione del pensiero e del linguaggio,
  • disorientamento spazio-temporale,
  • agitazione,
  • inversioni dei ritmi di sonno e veglia,
  • deliri,
  • allucinazioni visive ed uditive,
  • comportamenti aggressivi.

In alcuni casi la sindrome del tramonto può portare gli anziani a comportamenti  aggressivi, determinati spesso non da una reale volontà di fare del male, bensì da un mancato controllo degli impulsi o dalla paura. Bisogna sempre ricordare che gli anziani affetti da demenza sono soggetti a un calo cognitivo e percettivo abbastanza consistente e possono interpretare male anche un gesto affettuoso.

Le persone con Alzheimer in particolare possono esibire una svolta drammatica nel tardo pomeriggio o nella prima serata. Possono diventare più confusi o agitati. Possono muoversi senza sosta o ripetere i comportamenti. Possono diventare confusi circa il tempo e il luogo, o diventare più aggressivi verso gli altri.

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A quale medico rivolgersi?

Se sospettate tale sindrome in un vostro amico o parente, potete rivolgervi al vostro medico di medicina generale, ad un geriatra, ad uno psichiatra o comunque ad un medico che abbia esperienza in questi campi.

Consigli comportamentali per ridurre i sintomi

Anche se non sappiamo esattamente cosa provochi la Sindrome del tramonto, si possono diminuire i suoi effetti sulle persone con Alzheimer, seguendo alcuni accorgimenti:

  1. Rispettare gli orari. Prevedere i tempi del sonno, della veglia e dei pasti può contribuire a ridurre gli effetti, soprattutto se sono innescati dalla stanchezza o dalla fame. Ridurre caffeina e zucchero nel pomeriggio.
  2. Andare a letto presto. E’ preferibile andare a letto prima che faccia buio.
  3. Pianificare le attività alla mattina. La sera, quando i sintomi tendono a comparire, cercare di creare un’atmosfera calma e tranquilla.
  4. Tenere le luci accese. Dal momento che la luce affievolita del sole può scatenare il sundowning, può aiutare avere una casa o una stanza illuminata: può essere utile un sistema di illuminazione che eviti zone di ombra o penombra. Una luce notturna nella camera da letto può essere utile per prevenire l’agitazione al risveglio.
  5. Controllare il tuo atteggiamento. Alcune agitazioni del soggetto possono essere una risposta ai segnali verbali e non verbali delle persone che gli sono attorno.
  6. Facilitare sempre la presenza di un familiare di riferimento;
  7. Prestare attenzione. L’insorgenza del sundowning varia per ogni persona, ma tende ad essere in qualche modo coerente per il singolo paziente. Tieni delle note su quello che riserva ogni giorno per far emergere lo schema. Riduci tali stimoli scatenanti, per alleviare i sintomi.
  8. Creare un ambiente accogliente, cercando di usare nelle stanze oggetti (quadri, bomboniere, mobili, poltrone…) che il soggetto conosce bene e riconosce come appartenenti a sé.
  9. Proporre un bagno caldo e rilassante la sera, magari sempre alla stessa ora, che possa predisporre al riposo notturno;
  10. Evitare stimoli eccessivi durante il giorno: ciò può determinare maggiore stanchezza la sera e peggiorare i sintomi.
  11. Evitare stimoli eccessivi la sera, prima di andare a dormire. Prima di andare a letto è importante evitare attività che impegnino e stanchino fisicamente e mentalmente. Sono, invece, consigliabili attività tranquille e rilassanti come, per esempio, un bagno caldo, della musica rilassante o qualsiasi cosa che rassereni la persona, tenendo conto delle sue caratteristiche personali.
  12. Evitare il cambio repentino di ambiente che, come abbiamo visto, tende a peggiorare i sintomi.
  13. Evitare riposi pomeridiani coinvolgendo il soggetto in attività semplici ma che possono comunque far rimanere sveglia la persona, in modo da limitare il rischio di insonnia;
  14. Evitare bevande eccitanti (alcol, caffè, the), specie dopo le 5 del pomeriggio, prediligendo invece bevande rilassanti come la camomilla.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Malattia di Parkinson: cause, sintomi, decorso, terapie

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma DIFFERENZA MORBO PARKINSON CAUSE SINTOMI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgLa malattia di Parkinson (in passato denominata “morbo di Parkinson“; anche chiamata Parkinson, parkinsonismo idiopatico o parkinsonismo primario; in inglese denominata “Parkinson disease” o “primary parkinsonism” o “hypokinetic rigid syndrome” o “paralysis agitans” o “shaking palsy”) è una malattia neurodegenerativa extrapiramidale caratterizzata da rigidità muscolare che si manifesta con resistenza ai movimenti passivi; tremore che insorge durante lo stato di riposo e che può aumentare in caso di stato di ansia; bradicinesia che provoca difficoltà a iniziare e terminare i movimenti.

I sintomi e segni motori tipici della condizione sono il risultato della necrosi (morte) delle cellule che sintetizzano e rilasciano la dopamina. Tali cellule si trovano nella substantia nigra, una regione del mesencefalo. La causa che porta alla loro morte è sconosciuta. All’esordio della malattia, i sintomi più evidenti sono legati al movimento, ed includono tremori, rigidità, lentezza nei movimenti e difficoltà a camminare. In seguito, possono insorgere problemi cognitivi e comportamentali, con la demenza che si verifica nelle fasi avanzate. La malattia di Parkinson è più comune negli anziani; la maggior parte dei casi si verifica dopo i 50 anni.

Leggi anche: Morbo di Alzheimer: cause, sintomi, decorso, terapie

I segni motori principali sono comunemente chiamati parkinsonismo. La condizione è spesso definita come una sindrome idiopatica anche se alcuni casi atipici hanno un’origine genetica. Molti fattori di rischio e fattori protettivi sono stati indagati: ad esempio, l’aumento del rischio di contrarre la malattia nelle persone esposte ad idrocarburi solventi e pesticidi. La patologia è caratterizzata dall’accumulo di una proteina, chiamata alfa-sinucleina, in inclusioni denominate corpi di Lewy nei neuroni e dall’insufficiente formazione di dopamina. La distribuzione anatomica dei corpi di Lewy è spesso direttamente correlata all’espressione e al grado dei sintomi clinici di ciascun individuo.

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La diagnosi nei casi tipici si basa principalmente sui sintomi, con indagini di neuroimaging come conferma. I moderni trattamenti sono efficaci per gestire i sintomi motori precoci della malattia, grazie all’uso di agonisti della dopamina e del levodopa. Col progredire della malattia, i neuroni dopaminergici continuano a diminuire di numero, e questi farmaci diventano inefficaci nel trattamento della sintomatologia e, allo stesso tempo, producono una complicanza, la discinesia, caratterizzata da movimenti involontari. Una corretta alimentazione e alcune forme di riabilitazione hanno dimostrato una certa efficacia nell’alleviare i sintomi. La chirurgia e la stimolazione cerebrale profonda vengono utilizzate per ridurre i sintomi motori come ultima risorsa, nei casi più gravi in cui i farmaci risultano inefficaci. Diverse importanti organizzazioni promuovono la ricerca e il miglioramento della qualità della vita delle persone affette dalla malattia.

Persone famose con malattia di Parkinson

Alcune persone famose con malattia di Parkinson, come il pugile Muhammad Ali e papa Giovanni Paolo II, il cantautore Bruno Lauzi, hanno fatto crescere negli ultimi anni la consapevolezza della malattia a livello mondiale e contribuito ad abbatterne i tabù ed i pregiudizi. Una delle persone più famose che soffre di malattia di Parkinson è l’attore Michael J. Fox, famoso soprattutto per l’interpretazione di Marty McFly, protagonista della trilogia cinematografica di Ritorno al Futuro. Nel 1991, all’età di appena 30 anni, gli fu diagnosticata una grave forma di malattia di Parkinson: l’aggravarsi dei sintomi lo obbligò a ritirarsi quasi del tutto dalle scene cinematografiche dal 2000, ma gli consentì anche di lottare in prima fila per la ricerca sperimentale sulle cellule staminali. L’impegno dello sfortunato attore lo ha condotto ad istituire la Fondazione Michael J. Fox, che si dedica dal 31 ottobre del 2000 alla ricerca di una cura per la malattia di Parkinson, con un patrimonio di 450 milioni di dollari. Per tale impegno il 5 marzo 2010 l’Istituto Karolinska ha conferito a Michael J. Fox una laurea honoris causa. Leggi anche: Il commovente abbraccio tra Michael J. Fox e Christopher Lloyd

Eponimo

La malattia prende il nome dal medico inglese James Parkinson, che pubblicò la prima descrizione dettagliata nel suo trattato An Essay on the Shaking Palsy nel 1817. Un tempo chiamata “morbo”, il Parkinson viene attualmente chiamata “malattia”. L’espressione “morbo di Parkinson” è comunque ancora molto usata, anche dai medici, ed è a tutti gli effetti sinonimo di “malattia di Parkinson”. A tal proprosito leggi: Differenza tra malattia, patologia, sindrome, disturbo, disordine, morbo

Epidemiologia

La malattia di Parkinson è la seconda malattia neurodegenerativa più comune dopo la malattia di Alzheimer. La prevalenza della condizione nei paesi industrializzati è di circa lo 0,3%. La malattia di Parkinson è più comune negli anziani e la prevalenza aumenta dall’1% in quelli oltre i 60 anni di età, fino al 4% della popolazione sopra gli 80 anni. L’età media di insorgenza è circa 60 anni, anche se il 5-10% dei casi, classificati come ad esordio giovane, iniziano tra i 20 e i 50 anni. La malattia risulterebbe essere meno diffusa nelle popolazioni di origine africana e asiatica, sebbene questo dato sia contestato. Alcuni studi hanno proposto che sia più comune negli uomini rispetto alle donne, ma altri non hanno rilevato particolari differenze tra i due sessi. L’incidenza della malattia di Parkinson è tra 8 e 18 per 100 000 persone-anno.

Fattori di rischio e protettivi

Molti fattori di rischio e molti fattori protettivi sono stati proposti, a volte in relazione alle teorie riguardanti i possibili meccanismi della malattia, ma nessuno è stato definitivamente individuato da prove certe; per approfondire leggi: Morbo di Parkinson: fattori di rischio e fattori di protezione

Patogenesi e anatomia patologica

I gangli basali, un gruppo di strutture cerebrali innervate dal sistema dopaminergico, sono le aree cerebrali più colpite nella malattia di Parkinson. La principale caratteristica patologica della condizione è la morte delle cellule nella substantia nigra e, più specificamente, nella parte ventrale (anteriore) della pars compacta, causando nel tempo la morte delle cellule fino al 70% del loro totale. Al taglio del tronco cerebrale, si possono notare alterazioni macroscopiche in cui la perdita neuronale si può dedurre da una riduzione della pigmentazione della melanina nella substantia nigra e nel locus coeruleus. L’istopatologia (anatomia microscopica) della substantia nigra e delle diverse regioni cerebrali, mostra una perdita neuronale e corpi di Lewy in molte delle cellule nervose rimanenti. La perdita neuronale è accompagnata da morte degli astrociti (cellule gliali a forma di stella) e l’attivazione delle microglia (un altro tipo di cellule gliali). I corpi di Lewy sono un elemento patologico chiave nella malattia di Parkinson.

Fisiopatologia

I sintomi principali della malattia di Parkinson sono il risultato di una attività molto ridotta delle cellule secernenti dopamina, causata dalla morte cellulare nella regione pars compacta della substantia nigra. Nel cervello vi sono cinque circuiti principali che collegano le aree cerebrali ai gangli basali. Questi circuiti sono noti come: circuito motorio, circuito oculomotore, circuito associativo, circuito limbico e circuito orbitofrontale, con nomi che indicano le principali aree che vengono servite da ogni circuito. Nella malattia di Parkinson, tutti i circuiti elencati possono venire influenzati e ciò spiega molti dei sintomi. Infatti, una varietà di funzioni sono controllate da questi circuiti, tra le quali quelle del movimento, dell’attenzione e dell’apprendimento. Dal punto di vista scientifico, il circuito motorio è quello che è stato studiato con maggiore attenzione.
Un particolare modello concettuale del circuito motorio e del suo coinvolgimento nella malattia è stato, a partire dal 1980, di grande influenza, anche se nel tempo sono stati sollevati alcuni dubbi che hanno portato a modificarlo. In questo modello, i gangli della base normalmente esercitano una costante influenza inibitoria su una vasta gamma di sistemi motori, impedendo loro di attivarsi nei momenti inopportuni. Quando si decide di effettuare una determinata azione, l’inibizione viene ridotta. La dopamina agisce per facilitare questo cambiamento nell’inibizione: livelli elevati di dopamina tendono a promuovere l’attività motoria, mentre bassi livelli, come avviene nella malattia, richiedono maggiori sforzi per compiere un dato movimento. Così l’effetto reale della deplezione di dopamina è il verificarsi dell’ipocinesia, una riduzione complessiva dell’uscita dei segnali motori. I farmaci che vengono usati per trattare la malattia di Parkinson, viceversa, tendono a produrre una quantità troppo elevata di dopamina, portando i sistemi motori ad attivarsi nel momento non appropriato e causando pertanto discinesia.

Morte delle cellule cerebrali

Vi sono diversi meccanismi proposti per cui le cellule cerebrali, nella malattia, vanno incontro alla morte. Uno di questi prevede che un accumulo anomalo della proteina alfa-sinucleina, legata alla ubiquitina, danneggi le cellule. Questa proteina insolubile si accumula all’interno dei neuroni formando delle inclusioni, chiamate corpi di Lewy. Secondo la stadiazione di Braak, una classificazione della malattia sulla base del quadro patologico, i corpi di Lewy prima appaiono nel bulbo olfattivo, nel midollo allungato e nel tegmento pontino, con i pazienti che risultano asintomatici. Col progredire della malattia, i corpi di Lewy si sviluppano nella substantia nigra, nelle aree del mesencefalo e prosencefalo basale e, nell’ultima fase, nella neocorteccia. Queste zone del cervello sono le aree principali della degenerazione neuronale nella malattia di Parkinson. Tuttavia, i corpi di Lewy non possono essere la causa diretta della morte delle cellule. Nei pazienti con demenza una presenza generalizzata dei corpi di Lewy è comune nelle aree corticali. Ammassi neurofibrillari e placche senili, riscontrabili caratteristicamente nella malattia di Alzheimer, non sono comuni a meno che il paziente non presenti una forma di demenza.
Altri meccanismi che portano alla morte cellulare includono la disfunzione dei sistemi lisosomiali e proteosomiali e una ridotta attività mitocondriale. L’accumulo di ferro nella substantia nigra si osserva tipicamente in combinazione con le inclusioni proteiche. Ciò può essere correlato allo stress ossidativo, all’aggregazione proteica e alla morte neuronale, ma i meccanismi che regolano questo fenomeno non sono pienamente compresi.

Cause

La maggior parte delle persone con malattia di Parkinson presenta una condizione idiopatica (che non ha una causa specifica nota). Una piccola percentuale di casi, tuttavia, può essere attribuita a fattori genetici conosciuti. Altri fattori sono stati associati con il rischio di sviluppare la malattia, ma non sono state dimostrate relazioni causali.
La malattia di Parkinson è stata tradizionalmente considerata una malattia non genetica. Tuttavia, circa il 15% degli individui con malattia di Parkinson ha un parente di primo grado con la stessa condizione. Almeno il 5% delle persone è ormai noto per avere forme della malattia che si verifica a causa di una mutazione di uno dei numerosi geni specifici.
È stato dimostrato in modo definitivo che le mutazioni in geni specifici possono essere causa della malattia. Questi geni codificano per alfa-sinucleina (SNCA), parkina (PRKN), dardarina (LRRK2), PTEN chinasi indotta putativo 1 (PINK1), DJ-1 e ATP13A2. Nella maggior parte dei casi, le persone con queste mutazioni svilupperanno la malattia di Parkinson. Con l’eccezione di LRRK2, tuttavia, rappresentano solo una piccola minoranza dei casi della malattia. I geni correlati alla condizione e maggiormente studiati sono SNCA e LRRK2. Le mutazioni nei geni tra cui SNCA, LRRK2 e glucocerebrosidasi (GBA) sono stati individuati come fattori di rischio nello sviluppo della malattia di Parkinson. Le mutazioni in GBA sono note per causare la malattia di Gaucher.
Il ruolo del gene SNCA è importante in quanto l’alfa-sinucleina alfa è il componente principale dei corpi di Lewy. Mutazioni missenso del gene (in cui un singolo nucleotide viene cambiato) e duplicazioni e triplicazioni del locus che lo contiene, sono state trovate in diversi gruppi aventi familiari affetti dalla malattia di Parkinson. Le mutazioni missenso sono rare, tuttavia, moltiplicazioni del locus SNCA rappresentano circa il 2% dei casi familiari.
Il gene LRRK2 (PARK8) codifica per una proteina chiamata dardarina. Il nome dardarina è stato coniato da una parola basca che sta per tremore, poiché questo gene è stato identificato in famiglie provenienti dall’Inghilterra e dal nord della Spagna. Le mutazioni nel LRRK2 sono la causa più comune conosciuta di malattia di Parkinson famigliare e sporadica, esse rappresentano circa il 5% degli individui con una storia familiare della malattia e il 3% dei casi sporadici. Vi sono molte differenti mutazioni descritte in LRRK2, la prova inequivocabile di causalità esiste, tuttavia, solo per un piccolo numero.

Segni e sintomi

La malattia di Parkinson colpisce prevalentemente ma non esclusivamente il movimento, producendo sintomi (più propriamente “segni”) motori e non motori, a tal proposito leggi: Morbo di Parkinson: sintomi motori e non motori, iniziali e tardivi

Diagnosi e diagnosi differenziale

La malattia di Parkinson può essere diagnosticata partendo dalla storia clinica e da un esame neurologico. Non esiste attualmente un test che identifichi chiaramente la malattia, ma scansioni tomografiche cerebrali sono a volte utilizzate per escludere patologie che potrebbero dare luogo a sintomi simili; per approfondire leggi: Diagnosi e diagnosi differenziale del morbo di Parkinson

Terapia farmacologica

Attualmente non esiste una terapia definitiva per la malattia di Parkinson. I farmaci principalmente utilizzati nel trattamento di sintomi motori sono la levodopa, gli agonisti della dopamina e gli inibitori MAO-B (Inibitore della monoamino ossidasi). Per approfondire leggi: Levodopa ed altri farmaci usati nella terapia del morbo di Parkinson

Terapia chirurgica

Attualmente la tecnica più utilizzata è la chirurgia stereotassica che permette di trattare punti in profondità nel parenchima cerebrale con precisione millimetrica, grazie all’ausilio di dispositivi radiologici. Per approfondire leggi: Terapie chirurgiche nel paziente con morbo di Parkinson

Riabilitazione

I problemi di linguaggio e di mobilità, pur se irreversibili, sono in grado di migliorare parzialmente grazie alla riabilitazione, a tal proposito leggi: Riabilitazione e fisioterapia nel paziente con morbo di Parkinson

Alimentazione e disfagia

I muscoli e i nervi che controllano la digestione possono essere influenzati dalla malattia, con conseguente costipazione e gastroparesi, una alimentazione equilibrata è consigliata e deve essere finalizzata ad evitare la perdita o il guadagno di peso; a tal proposito leggi: Alimentazione e disfagia nel paziente con morbo di Parkinson

Le cure palliative

Il ricorso alle cure palliative è spesso richiesto nelle fasi finali della malattia, quando tutte le altre strategie di trattamento sono diventate inefficaci. Lo scopo delle cure palliative è quello di ottimizzare la qualità della vita, sia per il paziente che per tutti quelli che lo circondano. Alcuni obiettivi centrali delle cure palliative sono: cure adeguate nella propria comunità, riduzione o sospensione dell’assunzione dei farmaci per ridurre gli effetti collaterali, prevenzione delle piaghe da decubito nei pazienti allettati, supporto per il paziente e per le persone a lui vicine.

Altri trattamenti

È stato dimostrato che la stimolazione magnetica transcranica migliora temporaneamente la discinesia indotta dalla levodopa. La sua utilità nel trattamento della malattia di Parkinson è un argomento di ricerca ancora aperto, anche se studi recenti non hanno dimostrato alcun effetto. Diversi principi nutritivi sono stati proposti come possibili trattamenti, ma non vi sono prove che le vitamine o gli additivi alimentari siano in grado di migliorare i sintomi. Non vi sono prove a sostegno che l’agopuntura e la pratica del Qigong o del Tai chi abbiano alcun effetto sul decorso della malattia o sulla presentazione dei sintomi. Tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche sul Tai chi quando viene utilizzato al fine di migliorare la capacità di equilibrio. La mucuna pruriens e la vicia faba sono fonti naturali di levodopa e sono assunte da molte persone con la malattia. Sebbene in alcuni studi clinici si sia dimostrata una certa efficacia, la loro ingestione non è esente da rischi. Sono state, infatti, riportate delle reazioni avverse letali, come la sindrome neurolettica maligna.

Prognosi

La malattia di Parkinson progredisce sempre con il tempo. La scala di Hoehn e Yahr, che definisce cinque stadi di progressione, è comunemente usata per stimare l’avanzamento della malattia (vedi prossimo paragrafo).
I sintomi motori, se non trattati, progrediscono in modo aggressivo nelle fasi iniziali della malattia e più lentamente in seguito. Se non trattati, si può prevedere che i pazienti vadano incontro ad una perdita della deambulazione indipendente in media dopo otto anni e siano costretti a letto dopo dieci anni. Tuttavia, è raro, al giorno d’oggi, trovare persone che non ricevano un trattamento. I farmaci hanno migliorato la prognosi dei sintomi motori, mentre allo stesso tempo vi è una nuova fonte di disabilità a causa degli effetti indesiderati della levodopa, che si verificano dopo anni di utilizzo. Per le persone che assumono levodopa, il tempo di progressione dei sintomi – dall’esordio ad una fase di completa non autosufficienza – può essere di oltre i 15 anni. Tuttavia, è difficile prevedere il decorso della malattia per un dato paziente. L’età è il miglior predittivo della progressione della malattia. Il deficit cognitivo è più frequente in coloro che hanno più di 70 anni di età all’insorgenza dei sintomi.
Dal momento che le attuali terapie sono in grado di migliorare i sintomi motori, la disabilità è principalmente collegata alle caratteristiche non-motorie della malattia. Tuttavia, il rapporto tra la progressione della malattia e la disabilità non è lineare. Inizialmente la disabilità è legata ai sintomi motori, con l’avanzare della malattia essa risulterà più correlata con i sintomi che non rispondono adeguatamente al trattamento farmacologico, come ad esempio la deglutizione, la difficoltà di parola e di equilibrio. Inoltre vi è da tener conto delle complicanze relative al movimento, che appaiono nel 50% degli individui dopo 5 anni di utilizzo di levodopa. Infine, dopo dieci anni, la maggior parte dei pazienti sperimenta dei disturbi autonomici (ovvero del sistema nervoso autonomo), disturbi del sonno, alterazioni dell’umore e declino cognitivo. Tutti questi sintomi, in particolare il declino cognitivo, aumentano notevolmente la disabilità.

Scala di Hoehn e Yahr ed aspettativa di vita

La scala di Hoehn e Yahr è comunemente usata per descrivere i sintomi della progressione della malattia di Parkinson. L’aspettativa di vita del paziente con Parkinson è ridotta rispetto alla popolazione sana, a tale proposito leggi anche: Scala di Hoehn e Yahr e aspettativa di vita nel morbo di Parkinson

Conseguenze psicologiche

Nonostante gli enormi progressi fatti nel campo della ricerca e nelle terapie che sono in grado di rallentare la progressione della malattia, la diagnosi di Parkinson rimane attualmente una notizia estremamente shockante per i pazienti, che cambia completamente la visione sul resto della loro vita. Soprattutto quando i segni motori diventano invalidanti, il soggetto non si sente più autosufficiente, in alcuni casi deve abbandonare il lavoro e può succedere che venga lasciato dal partner. Il sentirsi un “peso” per la società e per i famigliari, unita alla vergogna per la malattia, può determinare una situazione di progressivo isolamento sociale. Non di rado il paziente può soffrire di depressione e di ideazioni suicidarie. La terapia della malattia di Parkinson deve quindi tener conto di questo fattore ed includere un eventuale intervento farmacologico psichiatrico con supporto di psicoterapia.

Costi per la società

La malattia di Parkinson costituisce un costo sanitario e sociale molto elevato a livello globale, ma è difficile determinare dati precisi sia per problemi metodologici nella stima che per le differenze esistenti tra i vari paesi. Il costo annuale nel Regno Unito è stimato tra i 449 milioni e i 3,3 miliardi di sterline, mentre il costo annuale per paziente negli Stati Uniti si aggira intorno ai $ 10 000, per un totale di circa 23 miliardi di dollari. Nonostante non esista alcuna analisi dell’impatto economico diretto ed indiretto della malattia in Italia, si può stimare una spesa annuale totale che oscilla tra i 2 ed i 3 miliardi di euro. La quota maggiore del costo diretto viene dai ricoveri e dai soggiorni nelle case di cura, mentre la parte proveniente dai farmaci è sostanzialmente inferiore. Oltre ai costi diretti, hanno un peso importante i costi indiretti, che sono elevati per via della riduzione della produttività (il malato ad un certo punto della progressione della malattia potrebbe essere costretto ad abbandora il lavoro a causa dei suoi sintomi e segni) e degli oneri che ricadono su chi assiste i pazienti. Oltre ai costi economici, la malattia riduce enormemente la qualità della vita di coloro che ne soffrono e di chi li assiste, non solo a livello di salute del corpo, ma anche a livello psicologico.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Morbo di Alzheimer: cause, sintomi, decorso, terapie

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma MORBO ALZHEIMER CAUSE DECORSO TERAPIE Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgIl morbo di Alzheimer, detta anche malattia di Alzheimer o semplicemente Alzheimer, è la forma più comune di demenza degenerativa progressivamente invalidante con esordio prevalentemente in età presenile (oltre i 65 anni, ma può manifestarsi anche in epoca precedente). Si stima che circa il 60-70% dei casi di demenza sia dovuta a tale condizione. Il sintomo precoce più frequente è la difficoltà nel ricordare eventi recenti. Con l’avanzare dell’età possiamo avere sintomi come: afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento. Ciò porta il soggetto inevitabilmente a isolarsi nei confronti della società e della famiglia. A poco a poco, le capacità mentali basilari vengono perse. Anche se la velocità di progressione può variare, l’aspettativa media di vita dopo la diagnosi è dai tre ai nove anni. La patologia è stata descritta per la prima volta nel 1906, dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer. Nel 2006 vi erano 26,6 milioni di malati in tutto il mondo e si stima che ne sarà affetta 1 persona su 85 a livello mondiale entro il 2050.

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La causa e la progressione della malattia di Alzheimer non sono ancora ben compresi. La ricerca indica che la malattia è strettamente associata a placche amiloidi e ammassi neurofibrillari riscontrati nel cervello, ma non è nota la causa prima di tale degenerazione. Attualmente i trattamenti terapeutici utilizzati offrono piccoli benefici sintomatici e possono parzialmente rallentare il decorso della patologia; anche se sono stati condotti oltre 500 studi clinici per l’identificazione di un possibile trattamento per l’Alzheimer, non sono ancora stati identificati trattamenti che ne arrestino o invertano il decorso. Circa il 70% del rischio si ritiene sia genetico con molti geni solitamente coinvolti. Altri fattori di rischio includono: traumi, depressione o ipertensione. Il processo della malattia è associata a placche amiloidi che si formano nel SNC.
Una diagnosi probabile è basata sulla progressione della malattia, test cognitivi con imaging medico e gli esami del sangue per escludere altre possibili cause. I sintomi iniziali sono spesso scambiati per normale invecchiamento. È necessaria la biopsia del tessuto cerebrale per una diagnosi definitiva. L’esercizio mentale e fisico possono diminuire il rischio di AD. Non esistono farmaci o integratori che scientificamente possano diminuire il rischio di AD.
A livello preventivo, sono state proposte diverse modificazioni degli stili di vita personali come potenziali fattori protettivi nei confronti della patologia, ma non vi sono adeguate prove di una correlazione certa tra queste raccomandazioni e la riduzione effettiva della degenerazione. Stimolazione mentale, esercizio fisico e una dieta equilibrata sono state proposte sia come modalità di possibile prevenzione, sia come modalità complementari di gestione della malattia.
La sua ampia e crescente diffusione nella popolazione, la limitata e, comunque, non risolutiva efficacia delle terapie disponibili e le enormi risorse necessarie per la sua gestione (sociali, emotive, organizzative ed economiche), che ricadono in gran parte sui familiari dei malati, la rendono una delle patologie a più grave impatto sociale del mondo.
Anche se il decorso clinico della malattia di Alzheimer è in parte specifico per ogni individuo, la patologia causa diversi sintomi comuni alla maggior parte dei pazienti. I primi sintomi osservabili sono spesso erroneamente considerati problematiche “legate all’età”, o manifestazioni di stress. Nelle prime fasi, il sintomo più comune è l’incapacità di acquisire nuovi ricordi e la difficoltà nel ricordare eventi osservati recentemente. Quando si ipotizza la presenza di una possibile malattia di Alzheimer, la diagnosi viene di solito confermata tramite specifiche valutazioni comportamentali e test cognitivi, spesso seguiti dall’imaging a risonanza magnetica.
Con l’avanzare della malattia, il quadro clinico può prevedere confusione, irritabilità e aggressività, sbalzi di umore, difficoltà nel linguaggio, perdita della memoria a breve e lungo termine e progressive disfunzioni sensoriali.
Poiché per la malattia di Alzheimer non sono attualmente disponibili terapie risolutive e il suo decorso è progressivo, la gestione dei bisogni dei pazienti diviene essenziale. Spesso è il coniuge o un parente stretto (caregiver), a prendersi in carico il malato, compito che comporta notevoli difficoltà e oneri. Chi si occupa del paziente può sperimentare pesanti carichi personali che possono coinvolgere aspetti sociali, psicologici, fisici ed economici.

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La malattia di Alzheimer è definibile come un processo degenerativo che pregiudica progressivamente le cellule cerebrali, rendendo a poco a poco l’individuo che ne è affetto incapace di una vita normale e provocandone alla fine la morte. In Italia ne soffrono circa 492 000 persone e 26,6 milioni nel mondo secondo uno studio della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, Stati Uniti, con una netta prevalenza di donne (presumibilmente per via della maggior vita media delle donne rispetto agli uomini).
Definita anche “demenza di Alzheimer”, viene appunto catalogata tra le demenze, essendo un deterioramento cognitivo cronico progressivo. Tra tutte le demenze quella di Alzheimer è la più comune, rappresentando, a seconda della casistica, l’80-85% di tutti i casi di demenza.
A livello epidemiologico, tranne che in rare forme genetiche familiari “early-onset” (cioè con esordio giovanile), il fattore maggiormente correlato all’incidenza della patologia è l’età. Molto rara sotto i 65 anni, la sua incidenza aumenta progressivamente con l’aumentare dell’età, per raggiungere una diffusione significativa nella popolazione oltre gli 85 anni.
Da rilevazioni europee, nella popolazione generale l’incidenza (cioè il numero di nuovi casi all’anno) è di 2,5 casi ogni 1 000 persone per la fascia di età tra i 65 e i 69 anni; sale a 9 casi su 1 000 persone tra i 75 e i 79 anni, e a 40,2 casi su 1 000 persone tra gli 85 e gli 89 anni.

Fasi e sintomi delle varie fasi
Il decorso della malattia è diviso in quattro fasi, con un modello progressivo deterioramento cognitivo e funzionale; per approfondire leggi: Morbo di Alzheimer: sintomi delle fasi iniziali e tardive

Cause
La causa per la maggior parte dei casi di Alzheimer è ancora in gran parte sconosciuta, ad eccezione che per casi dall’1% al 5% in cui sono state individuate le differenze genetiche esistenti. Diverse ipotesi cercano di spiegare la causa della malattia; per approfondire leggi: Morbo di Alzheimer: le cause della malattia

Decorso
Il decorso della malattia può essere diverso, nei tempi e nelle modalità sintomatologiche, per ogni singolo paziente; esistono comunque una serie di sintomi comuni, che si trovano frequentemente associati nelle varie fasi con cui, clinicamente, si suddivide per convenzione il decorso della malattia. A una prima fase lieve, fa seguito la fase intermedia, e quindi la fase avanzata/severa; il tempo di permanenza in ciascuna di queste fasi è variabile da soggetto a soggetto, e può in certi casi durare anche diversi anni.
La malattia viene spesso anticipata dal cosiddetto mild cognitive impairment (MCI), un leggero calo di prestazioni in diverse funzioni cognitive in particolare legate alla memoria, all’orientamento o alle capacità verbali. Tale calo cognitivo, che è comunque frequente nella popolazione anziana, non è necessariamente indicativo di demenza incipiente, ma può in alcuni casi essere seguito dall’avvio delle fasi iniziali dell’Alzheimer.
La malattia inizialmente si manifesta spesso come demenza caratterizzata da amnesia progressiva e altri deficit cognitivi. Il deficit di memoria è prima circoscritto a sporadici episodi nella vita quotidiana, ovvero disturbi di quella che viene chiamata on-going memory (ricordarsi cosa si è mangiato a pranzo, cosa si è fatto durante il giorno) e della memoria prospettica (che riguarda l’organizzazione del futuro prossimo, come ricordarsi di andare a un appuntamento); poi man mano il deficit aumenta e la perdita della memoria arriva a colpire anche la memoria episodica retrograda (riguardante fatti della propria vita o eventi pubblici del passato) e la memoria semantica (le conoscenze acquisite), mentre la memoria procedurale (che riguarda l’esecuzione automatica di azioni) viene relativamente risparmiata fino alle fasi intermedio-avanzate della malattia.
A partire dalle fasi lievi e intermedie possono poi manifestarsi crescenti difficoltà di produzione del linguaggio, con incapacità nella definizione di nomi di persone od oggetti, e frustranti tentativi di “trovare le parole”, seguiti poi nelle fasi più avanzate da disorganizzazione nella produzione di frasi e uso sovente scorretto del linguaggio (confusione sui significati delle parole, ecc.). Sempre nelle fasi lievi-intermedie, la pianificazione e gestione di compiti complessi (gestione di documenti, attività lavorative di concetto, gestione del denaro, guida dell’automobile, cucinare, ecc.) cominciano a diventare progressivamente più impegnative e difficili, fino a richiedere assistenza continuativa o divenire impossibili.
Nelle fasi intermedie e avanzate, inoltre, possono manifestarsi problematiche comportamentali (vagabondaggio, coazione a ripetere movimenti o azioni, reazioni comportamentali incoerenti) o psichiatriche (confusione, ansia, depressione e, occasionalmente, deliri e allucinazioni). Il disorientamento nello spazio, nel tempo o nella persona (ovvero la mancata o confusa consapevolezza di dove si è situati nel tempo, nei luoghi e/o nelle identità personali, proprie o di altri – comprese le difficoltà di riconoscimento degli altri significativi) è sintomo frequente a partire dalle fasi intermedie-avanzate. In tali fasi si aggiungono difficoltà progressive anche nella cura della persona (lavarsi, vestirsi, assumere farmaci, ecc.).
Ai deficit cognitivi e comportamentali, nelle fasi più avanzate si aggiungono infine complicanze mediche internistiche, che portano a una compromissione progressiva della salute. Una persona colpita dalla malattia può vivere anche una decina di anni dopo la diagnosi clinica di malattia conclamata.
Come sottolineato, col progredire della malattia le persone non solo presentano deficit di memoria, ma risultano deficitarie nelle funzioni strumentali mediate dalla corteccia associativa, e possono pertanto presentare afasia e aprassia, fino a presentare disturbi neurologici e poi internistici; pertanto i pazienti, nelle fasi intermedie e avanzate, necessitano di continua assistenza personale (solitamente erogata da familiari e badanti, i cosiddetti caregiver, che sono a loro volta sottoposti ai forti stress tipici di chi assiste i malati di Alzheimer).

Diagnosi
La malattia di Alzheimer è di solito diagnosticata clinicamente dalla storia del paziente, da osservazioni cliniche, dalla presenza di particolari caratteristiche neurologiche e neuropsicologiche e per l’assenza di condizioni alternative.
Sistemi avanzati di imaging biomedico, come la tomografia computerizzata (TC), la risonanza magnetica (MRI), la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) o la tomografia ad emissione di positroni (PET) possono essere utilizzate per aiutare a escludere altre patologie cerebrali o altri tipi di demenza. Inoltre, si possono prevedere il passaggio da fasi prodromiche (decadimento cognitivo lieve) alla malattia di Alzheimer.
Gli assessment neuropsicologici e cognitivi, inclusi i test di memoria ed esecutivi, possono ulteriormente caratterizzare lo stato della malattia. Diverse organizzazioni mediche hanno creato i criteri diagnostici per facilitare e standardizzare il processo diagnostico. La diagnosi clinica viene confermata a livello patologico solo con l’analisi istologica del cervello post-mortem.

Criteri diagnostici
Lo statunitense National Neurological Disorders and Stroke (NINCDS) e l’Associazione dei Malati di Alzheimer ha istituito il criterio diagnostico NINCDS-ADRDA nel 1984, in seguito aggiornato nel 2007. Questo criterio richiede che la presenza di deficit cognitivi e una sospetta sindrome di demenza debbano essere confermati da test neuropsicologici per porre la diagnosi clinica di Alzheimer. Una conferma istopatologica, tra cui un esame al microscopio del tessuto cerebrale (eseguibile solo post-mortem) è necessaria per una conferma della diagnosi definitiva a posteriori.
Sono otto gli ambiti funzionali cognitivi più comunemente compromessi: memoria, linguaggio, abilità percettiva, attenzione, abilità costruttiva, orientamento, risoluzione dei problemi e capacità funzionali. Questi ambiti cognitivi sono equivalenti ai criteri della NINCDS ADRDA, come elencati nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) pubblicato dalla American Psychiatric Association.

Tecniche diagnostiche, screening e diagnostica per immagini
Alcuni test di screening neuropsicologico e la diagnostica per immagini possono essere utili nella diagnosi di Alzheimer; per approfondire leggi: Morbo di Alzheimer: screening e diagnosi nelle fasi iniziali della malattia

Terapia
Anche se al momento non esiste una cura efficace, sono state proposte diverse strategie terapeutiche per tentare di influenzare clinicamente il decorso della malattia di Alzheimer; tali strategie puntano a modulare farmacologicamente alcuni dei meccanismi patologici che ne stanno alla base. È inoltre opportuno integrare interventi psicosociali, cognitivi e comportamentali. Per approfondire i farmaci usati nel morbo di Alzheimer: Morbo di Alzheimer: cura farmacologica

Intervento psicosociale e cognitivo
Nel paziente con morbo di Alzheimer, oltre al trattamento farmacologico, esistono interventi comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo che possono aiutare il soggetto; per approfondire leggi: Intervento psicosociale e cognitivo nel paziente con morbo di Alzheimer

Prognosi
Le fasi iniziali della malattia di Alzheimer sono difficili da diagnosticare. Una diagnosi definitiva è posta solitamente una volta che si verifica una significativa compromissione cognitiva e una percepibile riduzione di capacità di svolgere le attività della vita quotidiana, anche se la persona è ancora in grado di gestirsi autonomamente. Il deterioramento della memoria e il peggioramento dei disturbi cognitivi e non cognitivi, associati alla malattia, riducono progressivamente l’autonomia nella vita quotidiana.
L’aspettativa di vita della popolazione con la malattia si riduce, con un tempo di vita media di circa sette anni dopo la diagnosi. Meno del 3% della popolazione vive più di quattordici anni. Malattie caratteristiche significativamente associate alla ridotta sopravvivenza sono un aumento della gravità del deficit cognitivo, diminuzione del livello funzionale, diverse cadute e disturbi neurologici. Altre patologie concomitanti, come problemi cardiaci, diabete o storia di abuso di alcool sono correlate con una sopravvivenza più breve. L’aspettativa di vita è particolarmente ridotta rispetto alla popolazione sana quando la malattia di Alzheimer colpisce coloro che sono più giovani. Gli uomini hanno una prognosi di sopravvivenza meno favorevole rispetto alle donne.
La malattia è la causa di morte nel 70% dei casi. La polmonite e la disidratazione sono le cause immediate più frequenti di morte, mentre il cancro è meno frequente rispetto alla popolazione generale.

Prevenzione
Al momento non ci sono prove definitive per sostenere l’efficacia di una qualsiasi misura preventiva per la malattia di Alzheimer. Studi per identificarle hanno spesso prodotto risultati incoerenti. Tuttavia, studi epidemiologici hanno proposto correlazioni tra alcuni fattori modificabili (come la dieta, il rischio cardiovascolare, l’utilizzo di prodotti farmaceutici o lo svolgimento di attività intellettuali) e la probabilità per una popolazione di sviluppare la malattia. Solo ulteriori ricerche, tra cui gli studi clinici, riveleranno se questi fattori possono aiutare a prevenire o ritardare l’insorgenza della malattia di Alzheimer.

Quadro clinico e dieta
Sebbene i fattori di rischio cardiovascolari, come l’ipercolesterolemia, l’ipertensione, il diabete e il fumo, siano associati con un rischio maggiore di insorgenza della malattia, le statine, che sono farmaci per l’abbassamento del colesterolo, non si sono dimostrate efficaci nel prevenire o migliorare il decorso. I componenti di una dieta mediterranea, che comprendono frutta e verdura, pane, grano e altri cereali, olio d’oliva, pesce e vino rosso, possono singolarmente o tutti insieme ridurre il rischio e ritardare il decorso della malattia di Alzheimer. I loro benefici effetti cardiovascolari sono stati proposti come meccanismo di azione. Esistono prove limitate che un consumo, da lieve a moderato, di alcool, soprattutto vino rosso, sia associato a un minor rischio di Alzheimer.
Ipotesi sull’uso di vitamine non hanno trovato prove sufficienti di efficacia per raccomandare la vitamina C, E, acido folico, con o senza vitamina B12, come agenti di prevenzione o per il trattamento dell’Alzheimer. Inoltre, la vitamina E, è associata a rischi per la salute. Studi compiuti esaminando la somministrazione di acido folico (B9) e di altre vitamine B non hanno mostrato alcuna correlazione significativa con il declino cognitivo.
L’utilizzo a lungo termine di farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) è associato a una ridotta probabilità di sviluppare Alzheimer. Studi post-mortem umani, studi su modelli animali, o in studi in vitro, supportano l’ipotesi che i FANS possano ridurre l’infiammazione correlata alle placche amiloidi. Tuttavia, studi riguardanti il loro uso come trattamento palliativo non sono riusciti a dimostrare risultati positivi, mentre nessun processo di prevenzione è stato realizzato. La curcumina del curry ha mostrato una certa efficacia nel prevenire i danni cerebrali, nei modelli di topo, in virtù delle sue proprietà anti-infiammatorie. La terapia ormonale sostitutiva, anche se utilizzata in passato, non è più ritenuta efficace per prevenire la demenza e in alcuni casi può anche esserne ritenuta responsabile.

Stile di vita
Esistono studi che mostrano correlazioni tra determinati stili di vita e l’incidenza del rischio di contrarre la patologia o con la sua progressione.
Le persone che si impegnano in attività intellettuali, come la lettura, i giochi da tavolo, i cruciverba, l’esecuzione con strumenti musicali, o che hanno una regolare interazione sociale, mostrano una riduzione del rischio di sviluppo della malattia di Alzheimer. Questo è compatibile con la teoria della riserva cognitiva, in cui si afferma che alcune esperienze di vita forniscono all’individuo una riserva cognitiva che ritarda l’insorgenza di manifestazioni di demenza. L’apprendimento di una seconda lingua, anche in tarda età, sembra ritardare la malattia di Alzheimer. La pratica di attività fisica è anch’essa un comportamento associato a un ridotto rischio di Alzheimer.
Alcuni studi hanno mostrato un aumentato rischio di sviluppare la malattia nel caso di assunzione di metalli, e, in particolare, alluminio, o in caso di esposizione a particolari solventi. La qualità di alcuni di questi studi è stata però criticata, e altri studi hanno concluso che non vi è alcuna relazione tra questi fattori ambientali e lo sviluppo di Alzheimer.
Mentre alcuni studi suggeriscono che l’esposizione a campi elettromagnetici a bassa frequenza può aumentare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, i revisori hanno rilevato che sono necessari ulteriori indagini epidemiologiche e di laboratorio per poter avvalorare tale ipotesi. Il fumo è un importante fattore di rischio per l’Alzheimer.
Alcuni studi compiuti presso il National Institute on Ageing di Baltimora ipotizzano che il digiuno a intervalli regolari (1 o 2 giorni a settimana) potrebbe avere un ruolo palliativo alle forme più gravi della malattia.

Costi economico-sociali
La crescente incidenza di questa patologia nella popolazione generale in tutto il mondo è accompagnata da una crescita equivalente del suo enorme costo economico e sociale: allo Stato, secondo Lancet, il costo economico per la cura dei pazienti affetti da demenza a livello mondiale è di circa 600 miliardi di dollari all’anno, con un trend di crescita che lo porterà nel 2030 ad aumentare dell’85% (e con un carico crescente anche per i Paesi in via di sviluppo), facendolo divenire uno degli oneri con maggior impatto economico per i sistemi sanitari nazionali e le comunità sociali dell’intero pianeta.
Nonostante questo, la ricerca scientifica e clinica sulla demenza è ancora gravemente sottofinanziata: in Inghilterra, ad esempio, si calcola che il costo economico complessivo della cura dei pazienti affetti da demenza superi quello per i tumori e per le malattie cardiovascolari messe insieme, ma la ricerca sulle demenze riceve solo un dodicesimo dei finanziamenti di quella per i tumori.

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Demenza senile: cause, sintomi, decorso, cure, differenza con il normale invecchiamento

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma DEMENZA SENILE CAUSE DECORSO SINTOMI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgCon “demenza senile” si indica una patologia neurodegenerativa dell’encefalo, tipica dell’età avanzata e caratterizzata da una riduzione graduale ed irreversibile delle facoltà cognitive di una persona. La demenza senile rientra nella più ampia categoria delle demenze le quali sono patologie neurodegenerative dell’encefalo che possono colpire persone anziane ma non solo, e che determinano un progressivo declino delle facoltà cognitive di un individuo. E’ importante ricordare che non tutte le demenze sono irreversibili, sono reversibili ad esempio alcune forme di demenza da idrocefalo normoteso o da cause metaboliche. Un tempo “demenza senile” era sinonimo di malattia di Alzheimer. Successivamente, con la scoperta di altre forme di demenza tipiche dell’età avanzata, e con l’individuazione di una forma di Alzheimer giovanile, la dicitura demenza senile ha assunto un significato leggermente diverso, riportato nella definizione iniziale. Pur non essendo la demenza una causa diretta di morte, nella maggior parte dei casi sono i disturbi della deglutizione ad essa associata ad essere fatali per l’anziano. Tali disturbi, infatti, concorrono allo sviluppo di polmoniti da inalazione (o da aspirazione).
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Demenza senile o fisiologico invecchiamento?
Nonostante determinino manifestazioni simili, la demenza senile e il cosiddetto declino cognitivo legato all’età avanzata sono due condizioni mediche differenti.
Infatti, il declino cognitivo legato all’età avanzata – noto anche come deterioramento cognitivo dell’età avanzata – è un normale processo involutivo a cui va incontro il cervello di una persona sana, durante l’invecchiamento. Tale normale processo involutivo interessa tutte le persone anziane e comporta una graduale riduzione del volume cerebrale, la perdita di diversi neuroni e un’inefficiente trasmissione dei segnali nervosi; ovviamente questi processi possono essere più o meno gravi in funzione di molti fattori: un anziano in peso forma, che svolge attività fisica regolare, si alimenta bene e continua a mantenersi attivo (ad esempio leggendo libri, avendo hobby ed amici con cui parlare), avrà un declino più lento di un anziano obeso, pigro e sedentario, a parità di età biologica. Al contrario del fisiologico deterioramento cognitivo legato all’età avanzata, la demenza senile è una vera e propria patologia. Mentre tutti noi da anziani andremo incontro ad un deterioramento cognitivo, non tutti noi avremo la demenza senile.

TIPI DI DEMENZA SENILE
Le principali malattie neurodegenerative dell’encefalo, che fanno capo alla voce “demenza senile”, sono:

  • Il morbo di Alzheimer o malattia di Alzheimer. Il morbo di Alzheimer può colpire anche adulti giovani, trentenni. In questi frangenti, la malattia è nota come Alzheimer giovanile, ha probabilmente cause di tipo genetico e non rientra tra le forme di demenza senile.
  • La demenza vascolare.
  • La demenza a corpi di Lewy.

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EPIDEMIOLOGIA
Dati epidemiologici relativi, specificatamente, alla demenza senile non esistono.
Tuttavia, è possibile trarre alcune conclusioni interessanti dai numerosi studi statistici riguardanti la più ampia categoria delle demenze
Secondo tali studi, datati 2010, le persone dementi sparse in tutto il mondo sarebbero circa 36 milioni.
Di questi 36 milioni:

  • Il 3% ha tra i 65 e i 74 anni, il 19% ha tra i 75 e gli 84 anni e più della metà ha dagli 85 anni in su.
  • 6,8 milioni vivono negli Stati Uniti. Più della metà di queste persone con demenza è ultraottantenne.
  • 750.000-800.000 vivono nel Regno Unito.
  • Il 50-70% soffre di morbo di Alzheimer, il 25% di demenza vascolare, il 15% di demenza a corpi di Lewy e la restante percentuale è affetta dalle altre forme di demenza esistenti.

Per effetto dell’allungamento delle vita media dell’essere umano, gli esperti ritengono che il numero di persone con demenza senile sarà destinato ad aumentare progressivamente.
Per quanto concerne le demenze in generale, alcune previsioni sostengono che, nel 2020, il numero mondiale di dementi raggiungerà i 48 milioni circa.
In Italia, le persone con una forma di demenza sono circa l’1,5% della popolazione sopra i 65 anni e più del 30% della popolazione sopra gli 80 anni.

Cause
Le precise cause di demenza senile sono ancora poco chiare. A renderne difficile lo studio e la comprensione è la complessità strutturale dell’encefalo.
Al momento, il solo dato certo, in merito ai fattori scatenanti, è che la demenza senile è la conseguenza di due eventi: la morte delle cellule nervose cerebrali e/o un loro malfunzionamento a livello di comunicazione intercellulare (cioè la comunicazione esistente tra cellula e cellula).

CAUSE IPOTETICHE: AGGREGATI PROTEICI E  PROBLEMI CEREBROVASCOLARI
Studiando i vari tipi di demenza senile sopraccitati, i ricercatori hanno fatto alcuni importanti ritrovamenti e hanno ipotizzato, per questi, un possibile ruolo causale.
Per quanto concerne il morbo di Alzheimer e la demenza da corpi di Lewy, questi ritrovamenti consistono nei cosiddetti aggregati proteici, ossia aggregati di proteine con sede all’esterno e/o all’interno dei neuroni cerebrali.
L’idea degli studiosi è che questi aggregati vadano a interferire con il normale funzionamento dei neuroni, determinandone, in alcuni frangenti, anche la morte.
Tra le proteine costituenti gli aggregati proteici, rientrano: l’APP (o proteina precursore della beta amiloide), la proteina tau e l’alfa-sinucleina. L’APP e la proteina tau caratterizzano il morbo di Alzheimer, mentre l’alfa-sinucleina contraddistingue la demenza a corpi di Lewy.
Per quanto concerne invece la demenza vascolare, i ritrovamenti che potrebbero in qualche modo spiegare l’insorgenza della malattia consistono nelle alterazioni vascolari (cioè a carico dei vasi sanguigni), rinvenute in sede cerebrale. Secondo gli studiosi, queste alterazioni andrebbero a pregiudicare il normale flusso sanguigno cerebrale, il tutto con serie conseguenze a carico del tessuto nervoso del cervello.
All’origine delle alterazioni vascolari cerebrali possono esserci episodi di ictus omini-ictus, la cosiddetta malattia dei piccoli vasi sanguigni o l’aterosclerosi.

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Sintomi
I sintomi e i segni della demenza senile subiscono un peggioramento graduale, che è strettamente dipendente dalla progressiva morte delle cellule nervose cerebrali.
In genere, l’evoluzione sintomatologica della demenza senile è un percorso a tre stadi: iniziale, intermedio e avanzato.
Allo stadio iniziale, le manifestazioni più caratteristiche consistono in:

  • Piccoli problemi di memoria a breve termine (in genere amnesie);
  • Sporadici cambiamenti di personalità;
  • Occasionale mancanza di giudizio;
  • Lievi difficoltà di linguaggio, calcolo, ragionamento e comprensione di nuovi concetti;
  • Tendenza alla passività e alla mancanza d’iniziativa.

Allo stadio intermedio, i sintomi e i segni più comuni sono:

  • Perdita evidente di parte delle abilità cognitive, dalle capacità di ragionamento e apprendimento a quelle di giudizio;
  • Peggioramento dei problemi di memoria a breve termine;
  • Problemi di memoria a lungo termine;
  • Aggravamento delle difficoltà di linguaggio;
  • Problemi visivi, dall’incapacità di riconoscere i colori e leggere a quella di quantificare approssimativamente una distanza;
  • Confusione (o disorientamento) spazio-temporale, con il paziente che fatica a realizzare dove si trova, a dire con certezza il giorno della settimana ecc;
  • Difficoltà nel quotidiano, anche nelle attività più banali;
  • Lieve instabilità emotiva.

Infine, allo stadio avanzato, i disturbi tipici consistono in:

  • Perdita totale o quasi totale delle capacità cognitive;
  • Incapacità di accudire alla propria persona, quindi problemi nel mangiare, lavarsi ecc;
  • Incapacità di riconoscere le persone care;
  • Difficoltà di deglutizione;
  • Perdita di controllo della funzione intestinale e vescicale (incontinenza);
  • Perdita del controllo motorio, con il paziente che cammina sempre meno.

È importante precisare che ciascun tipo di demenza senile presenta alcune particolarità sintomatologiche.
Per esempio, chi soffre di morbo di Alzheimer può manifestare anche: aggressività insolita, agitazione, depressione, insonnia e/o delusione.
Chi è affetto da demenza vascolare può manifestare allucinazioni e una serie di disturbi dipendenti dall’area cerebrale interessata dalle alterazioni vascolari.
Infine, i malati di demenza a corpi di Lewy possono evidenziare problematiche analoghe alle persone con morbo di Parkinson (quindi andatura ricurva, passo strascicato ecc).

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DURATA DEL DECLINO COGNITIVO
La durata del graduale declino cognitivo dipende dal tipo di demenza senile in atto.
Ad esempio, la malattia di Alzheimer impiega, tipicamente, tra i 7 e i 10 anni per pregiudicare del tutto le capacità cognitive; dopodiché causa la morte.
La demenza vascolare agisce in maniera differente da paziente a paziente: in alcuni soggetti, il declino è molto rapido (pochi anni); in altri soggetti, invece, è decisamente più lento.
Infine, la demenza a corpi di Lewy presenta un declino cognitivo che raggiunge il suo apice nel giro di 7 anni.

Diagnosi
Non potendo contare su un test specifico per diagnosticare le demenze, i medici ricorrono a una lunga serie di esami molto diversi tra loro, che valutano le condizioni in cui versa il paziente e permettono l’esclusione di malattie differenti ma dai sintomi analoghi (N.B: questo modo di procedere, per esclusione, è noto come diagnosi differenziale).

Tra le valutazioni diagnostiche utilizzate, rientrano:

  • Un esame obiettivo accurato.
    Consiste nell’analisi dei sintomi e dei segni, riportati o manifestati dal paziente. Nonostante non fornisca alcun dato certo, rappresenta un passaggio obbligato e spesso ricco di informazioni diagnostiche utili.
  • L’analisi della storia clinica.
    Consiste nell’indagare: come e quando i sintomi hanno fatto la loro prima comparsa; se il paziente soffre o ha sofferto in passato di altre particolari patologie; se il paziente assume farmaci ecc.
  • Un esame neurologico completo.
    Consiste nell’analisi dei riflessi tendinei, delle abilità motorie (equilibrio ecc) e delle funzioni sensoriali.
  • Un esame cognitivo e neuropsicologico.
    Consiste nello studio del comportamento, delle capacità di memoria, delle abilità di linguaggio e della facoltà di ragionamento.
  • La risonanza magnetica nucleare (RMN) e la tomografia assiale computerizzata (TAC), entrambe riferite all’encefalo.
    Sono due procedure di diagnostica per immagini che permettono di valutare lo stato di salute dell’encefalo. Infatti, sono in grado di evidenziare eventuali processi di atrofia della corteccia cerebrale (tipici del morbo di Alzheimer) o eventuali alterazioni cerebrovascolari (tipiche della demenza vascolare).
  • Esami di laboratorio.
    Consistono in: analisi del sangue, misura della glicemia, analisi delle urine, test tossicologici, analisi del liquido cerebrospinale e, infine, misura degli ormoni tiroidei.
    La loro esecuzione è importante dal punto di vista della diagnosi differenziale.

Trattamento
Allo stato attuale, la demenza senile è una condizione che è possibile curare soltanto sotto il profilo dei sintomi, in quanto non è stato ancora trovato un trattamento specifico in grado di arrestare la neurodegenerazione e far regredire le sue conseguenze (ossia la riduzione delle facoltà cognitive).
Tra i vari tipi di terapia sintomatica a disposizione dei pazienti con demenza senile, rientrano:

  • Farmaci. I più noti e prescritti sono gli inibitori dell’acetilcolinesterasie la memantina, un preparato farmacologico che agisce sul sistema glutamminergico.
    La somministrazione di altri medicinali dipende dal tipo di demenza senile in atto.
    Per esempio, la demenza vascolare prevede l’impiego di antipertensivi e anticoagulanti (per far fronte ai problemi di natura cerebrovascolare), mentre la demenza a corpi di Lewy prevede l’uso di levodopa (per contrastare i problemi di natura parkinsoniana).
    Altri farmaci e preparati farmaceutici potenzialmente utili sono: gli antidepressivi, gli antipsicotici e le vitamine antiossidanti.
  • Fisioterapia
  • Terapia occupazionale
  • Terapia comportamentale
  • Terapia del linguaggio
  • Stimolazione cognitiva.

DIETA E STILE DI VITA
Diversi team di ricerca stanno cercando di capire se la dieta e lo stile di vita influiscano sulla demenza senile.
Nella fattispecie, stanno testando se, in qualche modo, il tipo di alimentazione e una regolare attività fisica siano capaci di rallentare il processo neurodegenerativo, indotto dal morbo di Alzheimer.

Prognosi e prevenzione
Date l’impossibilità di curarla in maniera specifica e l’inesorabile neurodegenerazione che provoca, la demenza senile ha, inevitabilmente, una prognosi negativa. Svariati studi scientifici hanno dimostrato che esistono alcune strategie per posticipare la comparsa della demenza senile.

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Differenza tra morbo di Alzheimer e morbo di Parkinson: sintomi comuni e diversi

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma DIFFERENZA MORBO ALZHEIMER PARKINSON SIN Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgIl morbo di Alzheimer ed il morbo di Parkinson sono patologie spesso confuse tra i meno esperti, anche perché possono effettivamente avere sintomi simili, specie nelle fasi terminali, tuttavia eziologia, zona colpita, trattamenti e sintomi caratteristici sono diversi.

Morbo di Alzheimer

Il morbo di Alzheimer è la forma più comune di demenza degenerativa progressivamente invalidante con esordio prevalentemente in età presenile, oltre i 65 anni ed è caratterizzato da accumulo di materiale inerte tra le cellule nervose, che vengono compresse e distrutte. Questo materiale è costituito da placche amiloidi e ammassi neurofibrillari riscontrati nel cervello, anche se non è ancora del tutto chiara la causa primaria della loro formazione. Il sintomo precoce più frequente è la difficoltà nel ricordare eventi recenti, successivamente possiamo avere sintomi come: afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento. Ciò porta il soggetto inevitabilmente a isolarsi nei confronti della società e della famiglia. A poco a poco, le capacità mentali basilari vengono perse. La patologia di Alzheimer determina quindi disturbi soprattutto comportamentali e compromette le attività corticali più complesse: parola, ragionamento, memoria.

Morbo di Parkinson

Il morbo di Parkinson è dato dalla morte – causata da fattori eziologici ancora non del tutto chiari – delle cellule non corticali che sintetizzano e rilasciano la dopamina e che si trovano nella substantia nigra, una regione del mesencefalo, facendo parte di un complesso circuito di nuclei nervosi che prende il nome di “sistema dei gangli della base”.  Mentre la malattia di Alzheimer determina disturbi soprattutto comportamentali , il morbo di Parkinson determina disturbi soprattutto motori: all’esordio della malattia, i sintomi più evidenti sono legati al movimento, ed includono tremori, rigidità, lentezza nei movimenti e difficoltà a camminare.

Sintomi comuni

Nelle fasi avanzate della patologia, nel soggetto affetto da Parkinson possono insorgere problemi cognitivi e comportamentali che si manifestano nella comparsa di demenza: in questo caso Alzheimer e Parkinson possono avere dei sintomi effettivamente sovrapponibili.

Età di esordio diverse

Entrambe le patologie sono diffuse negli anziani, tuttavia, mentre l’Alzheimer colpisce specialmente (ma non esclusivamente) dopo i 65 anni, invece la malattia di Parkinson tende a verificarsi prima: la maggior parte dei casi si verifica a partire dai 50 anni di età.

Terapie diverse

I sintomi legati al morbo di Parkinson vengono trattati con l’uso di agonisti della dopamina e di levodopa. Col progredire della malattia, i neuroni dopaminergici continuano a diminuire di numero, e questi farmaci diventano inefficaci nel trattamento della sintomatologia e, allo stesso tempo, producono una complicanza, la discinesia, caratterizzata da movimenti involontari. Una corretta alimentazione e alcune forme di riabilitazione hanno dimostrato una certa efficacia nell’alleviare i sintomi. La chirurgia e la stimolazione cerebrale profonda vengono utilizzate per ridurre i sintomi motori come ultima risorsa, nei casi più gravi in cui i farmaci risultano inefficaci. I sintomi dell’Alzheimer sono invece trattati farmaci inibitori reversibili dell’acetilcolinesterasi, che hanno una bassa affinità per l’enzima presente in periferia, e che sono sufficientemente lipofili da superare la barriera emato-encefalica (BEE), e agire quindi di preferenza sul sistema nervoso centrale. Tra questi, la tacrina, il donepezil, la fisostigmina, la galantamina e la neostigmina sono stati i capostipiti, ma l’interesse farmacologico è attualmente maggiormente concentrato su rivastigmina e galantamina, il primo perché privo di importanti interazioni farmacologiche, il secondo poiché molto biodisponibile e con emivita di sole sette ore, tale da non causare facilmente effetti collaterali. Un’altra e più recente linea d’azione prevede il ricorso a farmaci che agiscano direttamente sul sistema glutamatergico, come la memantina. La memantina ha dimostrato un’attività terapeutica, moderata ma positiva, nella parziale riduzione del deterioramento cognitivo in pazienti con Alzheimer da moderato a grave. In entrambe le patologie è sicuramente utile un approccio parallelo non-farmacologico, che consiste prevalentemente in interventi comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo e motorio.

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