Un film di Sidney Lumet. Con Peter Finch, William Holden, Faye Dunaway, Robert Duvall, Ned Beatty. Titolo originale Network. Drammatico, durata 121 min. – USA 1976
A guardare oggi il nostro mondo, tra Brexit, paura del futuro, borse a picco, banche sull’orlo della detronizzazione, popolo senza neanche più la capacità di incazzarsi, delusione, abbindolamento delle tv, “Network” di Sidney Lumet è un film di grottesca realtà che fa più male di molti drammoni che arrivano al cinema negli ultimi tempi.
Nella personale follia di Howard Beale (un monumentale Peter Finch) c’è l’attaccamento da “alienato” al lavoro. Non c’è vita oltre quello, oltre lo schermo, oltre le cazzate da sparare in tv. Nella grigia monotonia di Max (William Holden) c’è la fragilità del matrimonio e la consapevolezza di vivere nella realtà che ci circonda, quella dove Diana (una splendida Faye Dunaway) non riesce ad esistere se non dietro le percentuali di pubblico, ascolto e quattrini, unico vero obiettivo di Frank (Robert Duvall) simbolo della “scalata al potere”, dell’egoismo individualistico della società del business.
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Lumet prende il microcosmo della televisione e lo trasforma nel macromondo degli States degli anni ’70 che uscivano dalla controcultura, dal Watergate, dal disastro del Vietnam, dalla crisi petrolifera del 1973. La televisione è illusione, non informa e non ha voglia di farlo e quando può spettacolarizza ogni evento, perchè prima di tutto “la tv è spettacolo”. Quest’America senza Dio, in preda al panico e alla povertà, non ha più la forza di incazzarsi e Howard è l’emblema di un paese ormai folle, confuso, privo di qualsiasi identità. Dietro, a manovrare i fili del gioco, a sfruttare uno squilibrato (Howard) per il solo riscontro di pubblico, ci sono i dirigenti della UBS, viscidi esseri che guardano alle statistiche e alle percentuali come l’ultima goccia d’acqua nel deserto, che vivono in una realtà fittizia come mero prolungamento dell’altrettanta fittizia realtà televisiva.
In “Network” (titolo originale) il senso del grottesco diventa malsano realismo e ogni parola che viene pronunciata sembra quasi una profezia sul futuro del nostro mondo: dai monologhi di Howard nel suo “Mao Tse Tung show” al deflagrante discorso di Arthur (Ned Beatty) sull’inesistenza dell’America e della democrazia, perchè il mondo è business, affari e sottomissione al grande sistema dei dollari. Una propaganda del “pensiero unico” che abbiamo ben visto affermarsi nei decenni successivi. “Lei si mette sul suo piccolo schermo da 21 pollici e sbraita parlando d’America e di democrazia…Non esiste l’America, non esiste la democrazia! Esistono solo IBM, ITT, AT&T, Dupont, DOW, Union Carbide ed Exxon. Sono queste le nazioni del mondo, oggi.”
Oggi siamo nell’era di internet e per fortuna la tv inizia a perdere parte della sua forza propagandistica, non prima di aver svolto per decenni il lavaggio del cervello a parte della popolazione, convincendo gli ignari fruitori che il giusto sia sbagliato e viceversa. Manipolazione e trionfo del sistema corporativistico basato sul fine ultimo degli affari, del denaro che tutto può e tutto domina.
“Quinto potere” è uno dei diversi capolavori di Lumet, regista gigantesco che ha attraversato oltre 50 anni di cinema americano, denunciando le storture di un paese meno scintillante di quanto fosse raccontato dalla grande vulgata nazionale e internazionale. Il film è forse eccessivamente verboso in alcune sue divagazioni, ma a 40 anni dalla sua uscita emana ancora una forza profetica che lo rende di un’attualità lacerante.
“Abbiamo una crisi. Molti non hanno un lavoro, e chi ce l’ha vive con la paura di perderlo. Il potere d’acquisto del dollaro è zero. Le banche stanno fallendo, i negozianti hanno il fucile nascosto sotto il banco, i teppisti scorrazzano per le strade e non c’è nessuno che sappia cosa fare e non se ne vede la fine. Sappiamo che l’aria ormai è irrespirabile e che il nostro cibo è immangiabile. Stiamo seduti a guardare la TV mentre il nostro telecronista locale ci dice che oggi ci sono stati 15 omicidi e 63 reati di violenza come se tutto questo fosse normale, sappiamo che le cose vanno male, più che male. È la follia, è come se tutto dovunque fosse impazzito così che noi non usciamo più. Ce ne stiamo in casa e lentamente il mondo in cui viviamo diventa più piccolo e diciamo soltanto: “Almeno lasciateci tranquilli nei nostri salotti, per piacere! Lasciatemi il mio tostapane, la mia TV, la mia vecchia bicicletta e io non dirò niente ma…ma lasciatemi tranquillo!”
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