
Nel trapianto di fegato può verificarsi il danno da riperfusione
Con danno da riperfusione (anche chiamato “danno ischemia/riperfusione“, in inglese: “reperfusion injury” o “reperfusion insult” o “ischemia-reperfusion injury” o “reoxygenation injury”) riferito ad un tessuto, in medicina si intende un tipo di danno cellulare e microvascolare che si verifica quando la circolazione sanguigna torna al tessuto dopo un periodo di ischemia, in genere abbastanza prolungato (60 minuti). La riperfusione può causare iperkaliemia.
Quando si può verificare
Situazioni in cui si può verificare un danno da riperfusione sono tutte quelle in cui – tramite una “terapia di riperfusione” – viene ripristinato il flusso ematico in una zona precedentemente ischemica, ad esempio nell’infarto del miocardio e nell’ictus cerebrale. La lesione da riperfusione è una preoccupazione primaria in chirurgia, in particolare nella neurochirurgia, nella cardiochirurgia, nella chirurgia generale e nella chirurgia dei trapianti. In particolare il danno ischemia/riperfusione rappresenta spesso un pericolo nei trapianti d’organo, dove a tale evenienza si deve sommare anche il rischio di rigetto d’organo da parte del sistema immunitario e di errore da parte del chirurgo. Per ridurre al minimo il danno da riperfusione si devono somministrare antiossidanti e corticosteroidi che rafforzino le membrane cellulari.
Terapia di riperfusione
Con “terapia di riperfusione” si intende un gruppo di trattamenti medici o chirurgici usati per ripristinare un flusso di sangue adeguato a tessuti ischemici, per impedire la necrosi del tessuto. La terapia di riperfusione comprende farmaci e chirurgia: i farmaci sono trombolitici e fibrinolitici utilizzati in un processo chiamato trombolisi (utile quando l’ostruzione al flusso sanguigno è causato appunto da trombo); gli interventi chirurgici includono procedure endovascolari mini-invasive come un intervento coronarico percutaneo (PCI), seguito da un’angioplastica coronarica. L’angioplastica utilizza l’inserimento di un palloncino per aprire l’arteria, con l’eventuale uso aggiuntivo di uno o più stent. Altri interventi chirurgici eseguiti sono gli interventi chirurgici di bypass più invasivi che innestano vasi sanguigni che “scavalcano” l’ostruzione.
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Cause
Il danno da riperfusione è il risultato di due fasi principali:
- fase di ischemia: si verifica quando il flusso sanguigno che arriva ad un organo è parzialmente o completamente impedito, rendendo difficile il trasporto di ossigeno e nutrienti al tessuto e la rimozione dei prodotti di scarto. Ciò avviene ad esempio quando c’è una interruzione di flusso ematico a causa di un trombo oppure nei trapianti d’organo in cui si possono verificare l’ischemia a freddo (che inizia dal momento in cui l’organo viene prelevato dal donatore per essere conservato in ipotermia fino al momento del trapianto) e l’ischemia a caldo che rappresenta la durata dell’operazione;
- fase di riperfusione: avviene quando il sangue torna a scorrere nell’organo.
L’assenza di ossigeno e nutrienti crea nel tessuto ischemico una serie di condizioni in cui il troppo rapido ripristino della circolazione ha come paradossale risultato NON un ritorno alla normale funzionalità del tessuto coinvolto, bensì l’infiammazione e lo stress ossidativo con conseguente danno anche grave ed irreversibile al tessuto.
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Fisiopatologia
La riperfusione dei tessuti ischemici è spesso associata a danno microvascolare, in particolare a causa dell’aumento della permeabilità dei capillari e delle arteriole che portano ad un aumento della diffusione e della filtrazione dei fluidi attraverso i tessuti. Le cellule endoteliali attivate producono più specie reattive dell’ossigeno ma meno ossido nitrico dopo la riperfusione e lo squilibrio si traduce in una successiva risposta infiammatoria, parzialmente responsabile del danno del danno da riperfusione. I globuli bianchi, trasportati nell’area dal sangue appena riperfuso, rilasciano una serie di fattori infiammatori come le interleuchine e i radicali liberi in risposta al danno tissutale. Il flusso sanguigno ristabilito reintroduce l’ossigeno all’interno delle cellule che danneggia le proteine cellulari, il DNA e la membrana plasmatica. Il danno alla membrana della cellula può a sua volta causare il rilascio di più radicali liberi. Tali specie reattive possono anche agire indirettamente per attivare l’apoptosi (cioè la morte cellulare programmata). I globuli bianchi possono anche legarsi all’endotelio di piccoli capillari, ostruendoli e portando a più ischemia.
Diversi meccanismi sono coinvolti nel danno da riperfusione:
- produzione di nitroperossido: il monossido d’azoto prodotto dalle cellule endoteliali in risposta all’ischemia si combina con l’anione superossido formando il radicale nitroperossido. Quest’ultimo, oltre ad essere un potente ossidante, può attivare direttamente l’enzima nucleare PARP-1, il quale determina la polimerizzazione dei residui di NAD+, riducendo ulteriormente le possibili fonti energetiche cellulari. Il PARP-1 è inoltre in grado di promuovere la fuoriuscita dai mitocondri di elementi pro-apoptotici (AIF);
- disfunzioni dei mitocondri: danni alla membrana mitocondriale (causati dalle fosfolipasi), sommati agli squilibri della concentrazione del calcio determinano disfunzioni alla catena di trasporto degli elettroni, con aumentata instabilità mitocondriale. Come risultato viene aumentata la produzione di ROS mentre si riduce la sintesi di ATP e viene favorita la creazione dei pori di transizione di permeabilità mitocondriale, con l’innesco della via intrinseca dell’apoptosi;
- perdita dell’omeostasi ionica: durante la fase di ischemia, a causa della deplezione di ATP, si ha una progressiva riduzione della funzionalità della pompa Na+/K+ ATPasi. In conseguenza di questo evento si ha un accumulo intracellulare di sodio che porta al rigonfiamento osmotico della cellula. Per limitare questo fenomeno, il sodio intracellulare viene scambiato con il calcio extracellulare, microsomiale e mitocondriale attraverso gli scambiatori 2Na+/Ca2+. In conseguenza di ciò viene limitato l’accumulo di osmoliti inorganici nel citosol, mentre si realizza un netto incremento del calcio citosolico;
- eccitotossicità: nel caso l’ischemia riguardi il tessuto nervoso, si può verificare un ulteriore fenomeno. Il glutammato rilasciato dai neuroni morenti può andare ad attivare i recettori NMDA del glutammato nei neuroni circostanti, incrementando ulteriormente in questi ultimi l’afflusso di calcio e potenziando gli altri meccanismi lesivi;
- richiamo di cellule infiammatorie: il danno ischemico porta all’attivazione delle cellule endoteliali che reclutano in loco cellule infiammatorie circolanti come i neutrofili e i monociti. Le cellule infiammatorie attivate a loro volta rilasciano grandi quantità di enzimi litici e possono essere esse stesse fonte di ROS a causa dell’assemblaggio del complesso della NADPH-ossidasi;
- attivazione della xantina ossidasi: l’accumulo di calcio citosolico porta all’attivazione di numerosi enzimi calcio-dipendenti come fosfolipasi, proteasi ed endonucleasi. Tra gli enzimi attivati c’è la calpaina, una proteasi che taglia l’enzima xantina-deidrogenasi trasformandolo nell’isoforma xantina-ossidasi che ossida la ipoxantina ad acido urico usando come substrato l’ossigeno e producendo nel corso della reazione anione superossido, importante fonte di radicali liberi dell’ossigeno; tale meccanismo rientra nei danni da radicali liberi, a tal proposito leggi anche: Danni da radicali liberi dell’ossigeno (ROS): significato, cause, prevenzione
Trattamento e prevenzione
Per prevenire i danni da riperfusione, sembra essere efficace l’ipotermia terapeutica: la riduzione della temperatura corporea limita infatti il rischio di lesioni ischemiche. Secondo alcuni studi, il trattamento con l’idrogeno solforato (H2S) può avere un effetto protettivo contro il danno da riperfusione. Infine, oltre alle sue ben note capacità immunosoppressive, la somministrazione una tantum di ciclosporina al momento dell’intervento coronarico percutaneo ha permesso di ottenere una riduzione del 40% delle dimensioni dell’infarto in un piccolo gruppo a dimostrazione dello studio del concetto di pazienti umani con danno da riperfusione pubblicato nel New England Journal of Medicine nel 2008.
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