Le scoperte sul suo funzionamento hanno fruttato quest’anno il premio Nobel per la Medicina a tre ricercatori americani: Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young. Ma che cos’è davvero l’orologio biologico, come funziona e in che modo influisce sulla nostra vita e il nostro benessere? Risponde Roberto Manfredini, cronobiologo e professore di Medicina Interna all’Università di Ferrara, tra i massimi esperti dell’argomento in Italia.
Il ritmo arcaico che prevede il futuro
Racconta Manfredini che l’essere vivente più antico del mondo, un’ameba che ha 1,8 miliardi di anni, è costituita da un’unica cellula e ha tre ritmi circadiani: uno per la fotosensibilità, uno per la luminescenza e uno per la riproduzione cellulare. “Se una monocellula che ha quasi due miliardi di anni ha tre ritmi circadiani e questa capacità di essere ritmici è arrivata fino a noi, evidentemente comporta un vantaggio selettivo, e questo vantaggio è chiamato anticipazione. Se una funzione è ritmica, ha un massimo e un minimo prevedibili, si sa che si ripeteranno. Se ho questa conoscenza e so prima cosa avverrà in futuro, so per esempio quando aspettarmi il cibo e il mio organismo organizzerà tutto ciò che serve in funzione di quel momento. Solo così si spiega perché questo sistema di segnalazione è rimasto, ed è arrivato fino a noi”.
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Le origini della cronobiologia
“Mike Young e colleghi hanno fatto senz’altro un gran lavoro, ma il papà mondiale della cronobiologia è Franz Halberg”, austriaco, trasferitosi negli Stati Uniti per fuggire alle persecuzioni naziste, a Minneapolis cominciò a studiare i ritmi circadiani negli anni 50. “All’epoca era come parlare di oroscopo, la comunità scientifica non ti prendeva seriamente”, racconta Manfredini, che ancora negli anni ’80, ai suoi esordi, quando parlava di come le patologie hanno punte di frequenza legate al ritmo circadiano ricorda di essere stato deriso da platee di medici che a questo cosa del ritmo biologico proprio non credevano.
Che cos’è il ritmo circadiano?
“Ogni cellula ha una determinata serie di geni, che sintetizzano proteine le quali, quando raggiungono il massimo di produzione si autobloccano, si degradano e quando toccano il valore minimo sbloccano di nuovo il meccanismo facendo ricominciare il ciclo”. Questo è il meccanismo di base. Nella pratica abbiamo il sincronizzatore principale dell’organismo che è l’alternanza luce-buio. “La luce arriva alla retina, e oltre a consentirci di vedere, imbocca anche un’autostrada molto rudimentale, detta fascio retino ipotalamico diretto, che porta solo l’informazione sulla luminosità e fa scattare nell’ipotalamo un interruttore che dice ‘luce, blocco la melatonina, stai sveglio’ oppure ‘buio, aumento la melatonina, riposa’”.
Quindi l’orologio biologico principale, il master clock, si trova all’interno dell’ipotalamo, nel nucleo soprachiasmatico. “Si tratta di un pugno di neuroni, appena 20.000, capaci di fare da pace maker, cioè di dettare il ritmo alle cellule di tutto l’organismo. “Questo orologio biologico è indipendente dal tempo esterno, si tratta di un ritmo endogeno legato al movimento di rotazione terrestre di circa 24 ore. Il termine circadiano deriva proprio da questo: circa diem, all’incirca 24 ore, ma in realtà dura un po’ di più. La giornata per il nostro organismo sarebbe più lunga”, precisa Manfredini, “e questo spiega perché quando prendiamo un volo verso ovest, direzione nella quale allunghiamo la giornata, soffriamo meno di quando andiamo verso est, accorciandola. E lo stesso vale per ora solare e ora legale. I non vedenti totali, mancano della possibilità di sincronizzazione luce-buio e soffrono infatti spesso della cosiddetta ‘sindrome non 24’. Potendo contare solo sull’orologio endogeno, che ha un ciclo un po’ più lungo delle 24 ore, sono perennemente desincronizzati e in 10 giorni possono accumulare anche un giorno di distacco da tutte le altre persone”.
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Non c’è un solo orologio, ma tanti
“Circa il 20% dei geni umani, cioè uno su 5, è circadiano-dipendente. Quando cala il buio assistiamo un calo di attività di tutti i geni che lavorano di giorno ed entra in azione la squadra di geni notturni”, semplifica il cronobiologo. A partire dai primi anni 2000 si è cominciato a identificare il meccanismo dell’orologio biologico prima in ogni apparato, poi in ogni cellula. In parte prendono ordini dal master clock, ma gli organi periferici hanno anche altri sincronizzatori. Per il tratto gastrointestinale, per esempio, un orologio importante è costituito dal cibo”. Luce e buio, attività e riposo, ritmo e tipo dei pasti, ogni orologio funzione in base a meccanismi propri. E ci sono fattori destabilizzanti per ciascuno. “L’alcol è un importante desincronizzatore dell’orologio biologico del fegato: in dosi massicce non solo intossica, ma modifica i geni orologio del fegato”.
Fuori sincrono
Ogni organo può perdere il proprio ritmo, il che lo rende più vulnerabile alle malattie. “Il cardiocito, la cellula del cuore, si nutre di acidi grassi e si attiva alle ore dei pasti. Se faccio un carico di lipidi la sera tardi, confondo il suo ritmo normale, l’enzima specifico non è pronto per lavorare i grassi in quel momento. A lungo andare questo può causare una desincronizzazione”.
C’è poi la possibilità di una perdita di ritmo generalizzata di tutto l’organismo. Questo può avvenire in maniera rapida o lenta. “La desincronizzazione rapida avviene con il jet lag”, spiega Manfredini. “Parti da Milano e vai a New York in aereo, otto ore di volo e sei di fuso. Arrivi che per te è sera ma lì è pomeriggio, tu hai fame e tra un po’ avrai sonno, non sei sincronizzato con l’orario di lì. Non tutti patiscono il jet lag allo stesso modo. Un terzo delle persone lo soffre pesantemente, un terzo in maniera media e un terzo non avverte nessun fastidio”. Sono tanti gli elementi che concorrono a far sentire di più o di meno il jet lag: dipende dalla lunghezza del volo, dal cronotipo, dall’età e dalla maggiore o minore abitudinarietà. Per chi ne soffre gli effetti sono disturbi del sonno, disorientamento, poco appetito, deconcentrazione.
Vi è poi una forma di desincronizzazione generale lenta, quella legata al lavoro su turni. “Si calcola che dal 20 al 30% della forza lavoro nei paesi industrializzati lavori di notte. Ci vogliono anni, ma alla lunga il turno desincronizza l’orologio biologico e molti studi hanno suggerito che possa per esempio provocare il cancro. Attenzione però”, mette in guardia il cronobiologo. “Molti dei lavori scientifici sull’argomento fatti sulle infermiere si basano su una coorte che parte molto indietro nel tempo, da un’epoca in cui i turni erano molto peggiori di quelli attuali, molto più nocivi. Uno schema classico di lavoro per le infermiere era: una settimana di mattina, una settimana di pomeriggio, una settimana di notte e una di riposo. Abituarsi a un ritmo e poi cambiarlo è in assoluto la cosa peggiore. La medicina del lavoro ha attinto a piene mani alla cronobiologia e i turni moderni sono molto diversi. Ora si alternano giornalmente pomeriggio, mattino, notte e riposo: più il turno è veloce, meno l’organismo soffre del cambiamento”.
La perdita di ritmo comunque può causare malattie. Tipicamentesindrome metabolica, diabete, ipertensione e anche neoplasie. L’aumento dell’illuminazione notturna della Terra contribuisce a sfasare i ritmi, per non parlare della luce blu, quella emessa da smartphone, tablet e pc, che ha un effetto di blocco della melatonina molto maggiore rispetto a tutta l’altra luce artificiale.
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Ognuno ha il suo ritmo
“Ognuno ha il suo cronotipo”, conferma Manfredini. “C’è chi funziona meglio al mattino, chi meglio alla sera, i famosi gufi e allodole. Prima si pensava che questo dipendesse da una variante veloce o lenta del gene Clock, in realtà oggi sappiamo che i geni coinvolti sono ameno 80”. Ma nel corso della vita si può anche cambiare cronotipo, in funzione dei sincronizzatori ambientali, dell’età, dell’attività lavorativa. Il meccanismo è dinamico e dipende da tante variabili: un chiaro esempio del mix di genetica e ambiente. Esistono su internet dei test, detti MEQ (Morningness-Eveningness Questionnaire), che sono questionari volti a stabilire che cronotipo siete. Cercateli su Google.
A che ora ci ammaliamo?
Ci sono momenti della giornata in cui alcuni organi sono più suscettibili ad avere problemi. “Tutte la variabili biologiche hanno un ritmo”, spiega Manfredini. “Se una serie di variabili sfavorevoli per l’organismo, che singolarmente non sono pericolose né mortali, accadono tutte nella stessa finestra temporale, possono comportare problemi seri. Parliamo del cuore. Al risveglio si verificano un picco della pressione arteriosa, c’è un tono coronarico maggiore quindi il flusso di sangue è ridotto, abbiamo il picco del cortisolo, l’ormone dello stress, una maggiore vasocostrizione, il picco di adrenalina e noradrenalina, la frequenza cardiaca più alta, le piastrine aderiscono maggiormente quindi è più facile che si formino trombi. Il risveglio è un evento stressante, e in chi è già a rischio (classico uomo sopra i 50, cicciottello con la pressione alta) è molto più probabile che nelle prime ore della giornata si verifichino infarto e ictus”.
C’è un momento d’oro per ogni cosa
Cominciamo dal sonno. “L’ora ideale per andare a letto è tra le 23 e le 24. È stata individuata con una serie di studi svolti negli anni ‘80-’90, verificando la qualità della performance dopo il sonno ma anche attraverso questionari soggettivi. Se si dorme da quell’ora per 7-8 ore, alla mattina ci si sente perfettamente riposati perché si sono rispettati i ritmi dell’organismo”. L’uomo è un animale diurno, di notte l’organismo va a scartamento ridotto. Non bisogna fare grandi mangiate la sera, per esempio, perché l’organismo si mette in stand-by e non consuma.
“La mattina è il momento migliore dal punto di vista delle performance psicofisiche, l’apprendimento, la memoria a breve termine, l’attenzione. Quindi l’orario scolastico in fondo è giusto. Dopo un calo nel primo pomeriggio, indipendente da quanto e cosa si mangia, ma che certo è più intenso se si è mangiato pesante, c’è di nuovo un altro momento buono intorno alle 15-16”. Il pomeriggio è il momento migliore per le prestazioni sportive: “la temperatura si alza, i muscoli danno prestazioni migliori”.
Cronoterapia: curarsi in base all’ora
Franz Halberg usava dire che non è solo la dose di un farmaco ma anche l’ora in cui lo assumi può far diventare una sostanza benefica o malefica. Ogni sostanza deve essere lavorata da enzimi, che dipendono da attività cellulari che hanno un massimo e un minimo. Ci sono, insomma, momenti migliori di altri anche per curarsi. “Ora noi sappiamo che alcune patologie hanno momenti di maggior rischio e vogliamo essere efficaci nel proteggerci dal quel rischio. C’è un picco di pressione alta la mattina, ma proprio la mattina è il momento in cui spesso si prende la pillola per la pressione, cioè ad almeno 23 ore di distanza da quando ne avremmo bisogno. Prima di tutto allora dobbiamo essere certi che la pastiglia copra efficacemente le 24 ore. In certi pazienti ipertesi, la cui pressione di notte non si abbassa, potrebbe aver senso dare almeno un farmaco alla sera”.
E poi ci sono i tumori. “Molti oncologi fanno la cronoterapia in diversi centri italiani: cercano di dare la chemio nel momento in cui la cellula tumorale si moltiplica per essere più efficaci sulle cellule malate e meno aggressivi con quelle sane. In Francia ci sono ospedali in cui sono stati modificati i turni di lavoro per fare la chemio ai pazienti di notte dato che in quel momento si uccidono più cellule maligne risparmiando le altre. I tassi di sopravivenza sono simili a quelli della somministrazione classica, ma gli effetti collaterali sono molti meno e la qualità di vita del paziente è perciò assai più alta”.
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Lo Staff di Medicina OnLine
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