Michele Alboreto e l’incidente al pit stop nel GP di Imola 1994

MEDICINA ONLINE GP IMOLA MICHELE ALBORETO PIT STOP MINARDI INCIDENTE FOTO DIED DEATH PICTURES ROSSI WALLPAPER MOTO GP GRAN PREMIO PILOTE MORT PICTURES HI RES PHOTO LOVE MEMORY REST IN PEACE RIP HEART CASCO TESTA TRAUMA.jpgGran Premio di Imola 1994, quello maledetto. Quello che tutti ricorderemo per Ayrton Senna che sopraggiunge alla curva del Tamburello, teatro in passato degli incidenti di Piquet e di Berger, e va dritto senza correggere minimamente la traiettoria sbattendo a 211 km/h contro il muretto di delimitazione della pista. Tutti sappiamo come è andata a finire, come tutti ci ricordiamo anche della morte di Roland Ratzenberger su Simtek Ford il giorno prima.

Ma non tutti forse si ricordano di quello che, a undici giri dall’epilogo, successe all’ex ferrarista Michele Alboreto con la sua Minardi. Entra ai box per effettuare rifornimento ed il cambio gomme. I regolamenti, al contrario di ora, non prevedono limiti di velocità da tenere nella pit lane e le vetture vi sfrecciano a circa 200 km/h a stretto contatto con i meccanici.

Alboreto entra nello stallo a lui riservato e riparte a velocità sostenuta a operazioni compiute. Innesta la seconda marcia, quando d’improvviso, a circa 150 km/h, a causa del mal funzionamento della pistola utilizzata per stringere i dadi delle gomme, il pneumatico posteriore destro si stacca dall’alloggio e balzella in aria falciando tre meccanici della Ferrari, uno della Lotus e uno della Benetton.

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Alboreto, con grande abilità, riesce a mantenere il controllo della vettura, nonostante si trovi a marciare su tre ruote, ed evita una strage per un soffio intraversando la proprio autovettura. Il pneumatico, intanto, passa sopra la testa del pilota milanese e attraversa la pista proprio mentre sta sopraggiungendo Damon Hill, il compagno di squadra di Ayrton Senna. Per poco l’inglese non centra in pieno la gomma (in una circostanza del genere, nel 2009, perderà la vita il giovane Henry Surtees impegnato nel campionato di Formula 2).

I box vengono inondati subito dai soccorritori, mentre i telecronisti restano ammutoliti e basiti. Non si è mai visto un week-end del genere negli ultimi anni. A terra ci sono altri cinque feriti con fratture agli arti e traumi vari. I commissari però non interrompono la corsa che prosegue imperterrita nonostante la grossa situazione di pericolo.

Alboreto, a fine corsa, si farà sentire protestando per la mancanza di un limite massimo di velocità da tenere nei box. La sua denuncia sarà ascoltata e dal successivo gran premio, a Monaco, sarà previsto un limite da rispettare per tutti i piloti, pena penalizzazioni.

Il gran premio finalmente volge al termine in un clima da tragedia. Sul podio non si festeggia la terza vittoria consecutiva di Michael Schumacher, né l’inaspettato secondo posto del ferrarista, sostituto di Jean Alesì, Nicola Larini al suo unico podio in carriera e, di fatto, al termine della sua esperienza in Formula 1 (correrà un pugno di gran premi tre anni dopo sulla Sauber).  Quel giorno non sarà mai dimenticato ed entrerà a far parte delle pagine più tragiche di questo meraviglioso sport.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Quali sono i 5 piloti italiani più forti di tutti i tempi?

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Riccardo Patrese al GP di San Marino nel 1990

Quali sono stati i piloti italiani più forti di tutti i tempi? Senza nulla togliere al grandissimo Fisichella, assente in questa classifica, ecco la nostra top five:

Nino Farina

Gli anni Cinquanta furono anni importantissimi per l’automobilismo italiano, segnati da grandi vittorie e anche grandi lutti. La prima generazione dei campioni che aveva combattuto nelle epiche sfide anteguerra, guidata da quel Tazio Nuvolari che scomparve per un ictus proprio nel 1953, aveva ceduto il posto a un gruppo di nuovi piloti, in parte cresciuti in quelle stesse gare – dalla Mille Miglia ai primi Gran Premi – e in parte emersa dopo la fine del conflitto. All’inaugurazione del Campionato mondiale di Formula 1, nel 1950, si presentava così una pattuglia di piloti italiani ben agguerrita: per l’Alfa Romeo correvano Giuseppe Farina, Luigi Fagioli, Piero Taruffi e Consalvo Sanesi, ai quali si deve aggiungere l’argentino, ma figlio di italiani, Juan Manuel Fangio, forse il più talentuoso pilota di tutti i tempi; per la Maserati c’era Franco Rol, per la Achille Varzi c’era Nello Pagani, per la Milano c’erano Felice Bonetto e Franco Comotti mentre Clemente Biondetti correva per conto proprio; infine, ovviamente, ai nastri di partenza c’era pure la Ferrari con Luigi Villoresi, Alberto Ascari e Dorino Serafini. Il campionato lo vinse Nino Farina, un pilota che aveva già 44 anni e una solida esperienza alle spalle: alla Mille Miglia era arrivato secondo nel ’36, nel ’37 e nel ’40, prima che la Seconda guerra mondiale bloccasse tutto, segnalandosi comunque in tutte le gare disponibili all’epoca. Con l’Alfa aveva un lungo e proficuo rapporto, rafforzato già all’esordio nel Mondiale grazie alla conquista, a Silverstone, della pole position, del Gran Premio e del giro più veloce della corsa; vinse poi anche in Svizzera e in Italia, diventando il primo campione del Mondo della categoria, davanti solo di tre punti al compagno di scuderia Fangio, che vinse lo stesso numero di Gran Premi ma fu costretto più spesso al ritiro (sorte che gli toccò anche nell’ultima gara, a Monza, quella decisiva). Farina corse anche nelle sei stagione successive, arrivando a concludere la sua carriera in Formula 1 a cinquant’anni suonati, incamerando ancora qualche vittoria e sfiorando nuovamente il titolo nel 1952, quando, passato alla Ferrari anche per il ritiro dell’Alfa, si piazzò dietro al dominatore assoluto di quegli anni, Alberto Ascari, del quale parleremo a breve. Il suo stile di guida era arrembante e sfacciato, espressione di un carattere altrettanto sfrontato che veniva messo in mostra anche dai rotocalchi dell’epoca, che sottolineavano la sua passione per le belle donne e il vezzo di correre con un sigaro cubano in bocca. Erano altri tempi, insomma, in cui il fascino personale del pilota superava di gran lunga la tecnologia delle automobili, ed in cui si rischiava veramente la vita ad ogni corsa. Una vita che comunque Farina avrebbe perso poco dopo il ritiro dalle corse: nel giugno del 1966, non ancora sessantenne, infatti prese a velocità troppo alta una curva nei pressi di Aiguebelle, in Francia, mentre si recava ad assistere al Gran Premio di Reims, finendo fuori strada e morendo a bordo della sua Ford Cortina Lotus.

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Alberto Ascari

Nato a Milano nel 1918, essendo figlio d’arte aveva esordito già negli anni Trenta guidando soprattutto motociclette, tanto che nel ’38 era già stato messo sotto contratto dalla Bianchi, decidendo poi due anni dopo di passare alle quattro ruote, esordendo nel 1940 nella Mille Miglia. Passò la guerra a riparare veicoli militari e a rifornire di benzina l’esercito italiano in nord Africa, ma nel 1947 – grazie soprattutto alle insistenze di Gigi Villoresi, amico e socio d’affari nonché suo futuro compagno di squadra in Formula 1 – decise di tornare alle corse accettando un contratto con la Maserati. Già sul finire del decennio era ritenuto il principale antagonista di Nino Farina, pilota più navigato e maturo, e quando il Mondiale prese il via nel 1950 aveva ormai firmato per la Ferrari, casa in forte ascesa anche se per il momento lontana dalla forza dell’Alfa Romeo, che con la sua Alfa 158 stava dominando le corse a ruote scoperte. Fu così solo a partire dal 1951 che il pilota milanese iniziò ad avvicinarsi agli alfisti, prima vincendo i Gran Premi al Nürburgring e a Monza, poi conquistando nel 1952 un titolo che ha qualcosa di leggendario: facilitato dal ritiro dell’Alfa Romeo e dall’infortunio a Fangio, che non disputò alcuna gara nel Mondiale, Ascari vinse tutte le gare alle quali partecipò tranne quella di Indianapolis (nella quale era comunque l’unico pilota non americano e fu costretto al ritiro), facendo registrare un record. L’anno dopo Fangio ritornò – anche se per la Maserati e non per l’Alfa, che continuava a non partecipare – e provò a dar battaglia, ma Ascari trionfò in quattro dei primi sei GP della stagione e mise la vittoria in tasca, confermando anche quello che era il suo tipico stile di guida che lo vedeva scattare subito in testa nei primi giri, imponendo un alto ritmo alla corsa, salvo poi gestire il vantaggio accumulato. Nel 1954, ormai appagato dei successi con la Ferrari, firmò per la Lancia, che era quasi un’esordiente nel settore corse: si impose subito nella Mille Miglia, mentre per quanto riguarda la Formula 1 fu dato inizialmente in prestito alla Maserati, con la quale però fu vittima di due rotture che lo portarono al ritiro; fu poi prestato – mentre la Lancia affinava la propria vettura – alla stessa Ferrari, ma anche qui, pur lottando per la prima posizione a Monza, fu costretto al ritiro; infine esordì con la stessa Lancia, finalmente pronta, nell’ultimo GP della stagione, facendo registrare il giro più veloce ma anche qui non arrivando al traguardo. Nel 1955, infine, tutto sembrava finalmente pronto per far tornare Ascari a lottare per il titolo, visto anche che in alcune gare extracampionato la Lancia si era comportata ottimamente; la stagione però si rivelò subito sfortunata, prima, a Monaco, con una terribile uscita di strada a causa di una macchia d’olio che portò la vettura addirittura ad inabissarsi in mare, poi con l’incidente che costò la vita al pilota: quattro giorni dopo Monte Carlo, infatti, Ascari decise di raggiungere Villoresi ed altri amici a Monza, dove stavano testando una nuova Ferrari, la stessa auto che Ascari chiese di provare e che, capovolgendosi, finì per schiacciarlo al terzo giro di pista, procurandone la morte sul colpo. La Lancia decise, subito dopo quella morte, di cedere tutto il suo materiale alla Ferrari e ritirarsi dalle corse.

Riccardo Patrese

Dopo i fasti degli anni Cinquanta, per i tifosi italiani arrivarono anni di magra. Le scuderie della nostra penisola si ridussero progressivamente, fino a rimanere in corsa solo Maserati e Ferrari, con la prima relegata comunque a posizioni di rincalzo; soprattutto, mancavano i piloti tricolori che potessero lottare per il titolo: dopo il 1960 l’unico italiano che si avvicinò alla vetta della classifica finale fu Lorenzo Bandini, che nel ’64 arrivò quarto dietro a tre piloti britannici, tanto è vero che molti si consolarono tifando per Clay Regazzoni, svizzero di lingua italiana, secondo al Mondiale del ’74, o per l’italoamericano Mario Andretti, terzo nel 1977 e campione del Mondo nel 1978. Qualcosa iniziò a cambiare nei primissimi anni ’80, quando nella classifica finale cominciarono a emergere tre giovani piloti italiani, Elio De Angelis, Riccardo Patrese e Michele Alboreto, con il primo che proprio nel 1980 riusciva a salire sul podio a Interlagos e il secondo faceva lo stesso a Long Beach. Ma partiamo da Patrese, che, più vecchio di qualche anno, aveva esordito prima degli altri in Formula 1: padovano, classe 1954, Patrese arrivò nella massima categoria nel 1977, ad appena ventitré anni, dopo un ottimo percorso che dai kart l’aveva portato alla Formula 3, dove si era diplomato campione europeo. Dotato di un forte temperamento, aveva una guida molto aggressiva e sfrontata, che gli attirò simpatie tra i tifosi ma anche antipatie tra i colleghi; qualche anno fa, a tal proposito, ha fatto il giro del mondo il video, registrato all’interno di una Honda Civic, in cui si vedevano le reazioni esterrefatte della moglie Francesca Accordi portata da lui in giro lungo un circuito, senza tanti riguardi per la paura di lei e per le promesse fatte in precedenza. In Formula 1 arrivò grazie alla Shadow, team statunitense da poco attivo nella categoria da una costola del quale sarebbe nata poi la Arrows, seconda scuderia dello stesso Patrese. Proprio nella sua seconda stagione iniziarono ad arrivare i primi risultati, con un secondo posto in Svezia e un quarto a Montreal; dopo altri tre podi, la prima vittoria in un GP arrivò nel 1982 con il passaggio alla Brabham, quando sembrava finalmente arrivato l’anno giusto per il pilota padovano visto che vinse anche l’importante Gran Premio di Monaco (in una gara caratterizzata da numerosi ritiri a causa della pioggia) e si piazzò pure secondo in Canada e terzo negli Stati Uniti. Si trovò così a metà stagione in buona posizione in classifica generale, salvo poi incappare in una serie di ritiri che lo riportarono distante dalla vetta. Una seconda vittoria la ottenne l’anno successivo in Sudafrica, mentre ben poco fortunato fu il momentaneo passaggio all’Alfa Romeo nel 1984 e 1985. La sorte cominciò finalmente a girare solo nel 1989, quando era ormai un veterano dei Gran Premi con più di dieci anni di esperienza alle spalle: la Williams, che l’aveva messo sotto contratto l’anno prima, trovò finalmente l’assetto giusto grazie al motore Renault e, dopo le poco proficue prime tre gare, proiettò il padovano in lotta per il titolo con quattro podi consecutivi e cinque in sei gare; purtroppo per l’italiano, però, il Mondiale si rivelò presto una gara a due tra Prost e Senna, entrambi alla McLaren Honda, col secondo più vincente ma il primo più continuo e campione alla fine della stagione. Patrese ci riprovò comunque di nuovo nel 1991 e nel 1992, ormai quasi quarantenne: nel primo caso vinse due Gran Premi ma non riuscì a tenere testa allo strapotere di Senna, piazzandosi terzo dietro al compagno di scuderia Mansell; l’anno dopo, con la McLaren in calo e la crescita non ancora completa della Benetton, la Williams finalmente ebbe l’occasione di vincere, ma tutte le innovazioni vennero date prima a Mansell, di fatto la prima guida, e Patrese non andò oltre il titolo di vicecampione del Mondo. L’ultima annata prima del ritiro, corsa con la Benetton, lo vide infine chiudere al quinto posto assoluto.

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Elio De Angelis

Meno fortunata rispetto a quella di Patrese fu la carriera del quasi coetaneo Elio De Angelis, nato a Roma nel 1958 e purtroppo scomparso prima di poter raggiungere il traguardo dei trent’anni. Il suo percorso fu però, almeno all’inizio, simile a quello del compatriota di cui abbiamo appena finito di parlare: dopo essersi fatto le ossa nelle competizioni minori e aver conquistato nel 1977 il titolo di campione nazionale di Formula 3, approdò in Formula 1 sempre grazie alla Shadow, costantemente alla ricerca di nuovi talenti da lanciare nel panorama dell’automobilismo mondiale; già dal suo primo anno mise in mostra promettenti qualità, passando poi nel 1980 alla Lotus e ottenendo il suo primo podio in Brasile, alla seconda gara con la nuova scuderia. I primi anni alla casa britannica – con l’eccezione dell’annata nera 1983, in cui riuscì a concludere solo due GP – furono caratterizzati da buoni piazzamenti, coronati dalla vittoria del Gran Premio d’Austria nel 1982 (in un fotofinish memorabile con il finlandese Keke Rosberg, all’interno di una gara comunque caratterizzata da molti ritiri); ma dal 1984 De Angelis sembrò in grado di poter correre per le prime posizioni, visto che era maturato lui come pilota ed era cresciuta anche la sua vettura. Il 1984 infatti partì molto bene, col pilota italiano capace di conquistare subito la pole position nella prima prova in Brasile, poi conclusa al terzo posto; fino a metà campionato De Angelis continuò ad accumulare punti, salendo sul podio anche a Imola e nei due GP statunitensi di Detroit e Dallas, ma nella seconda parte della stagione la superiorità tecnica della McLaren emerse in maniera indiscutibile, soprattutto per la capacità dei tecnici della Porsche di gestire meglio le limitazioni al carburante imposte da regolamento in quella stagione. De Angelis concluse comunque terzo assoluto, anche se molto staccato da Lauda e Prost, che si contesero il titolo fino all’ultimo giro dell’ultima corsa. L’anno dopo l’inizio fu ancora incoraggiante, con la vittoria a Imola, tanti piazzamenti tra i primi cinque e un momentaneo primo posto nella classifica generale, ma lo strapotere di Prost e della sua McLaren furono ancora una volta troppo netti per tutti. Nel 1986 De Angelis cambiò quindi scuderia, passando alla Brabham, dove trovò anche Patrese; la macchina però non riuscì ad ingranare e non si dimostrò nemmeno troppo sicura: durante una sessione di prove private a Marsiglia infatti si staccò l’alettone posteriore dell’auto, facendo cappottare più volte l’auto, che prese pure fuoco: gli insufficienti mezzi di soccorso e l’arrivo tardivo dell’elicottero condannarono De Angelis a non salvarsi. La sua morte fece scalpore e destò commozione, oltre a spingere i piloti a minacciare la FIA di sciopero se non si fossero migliorate immediatamente le condizioni di sicurezza delle piste e delle prove. De Angelis, assieme al Michele Alboreto di cui parleremo subito, era in quel momento la miglior promessa dell’automobilismo italiano, come non se ne vedevano da anni.

Michele Alboreto

Coetaneo di De Angelis era anche l’altra grande promessa della Formula 1 di quegli anni, quel Michele Alboreto che fu l’ultimo pilota italiano a vincere una gara di Formula 1 a bordo di una Ferrari, e quello che andò più vicino a un titolo di Campione del Mondo che manca ai nostri concittadini dai tempi proprio di Ascari, il pilota a cui più spesso Alboreto è stato paragonato per stile di guida. Nato a Milano nel 1956, aveva seguito un cursus honorum simile a quello di Patrese e De Angelis, passando dalle formule minori – ma anche correndo in endurance, a volte in coppia proprio con Patrese – prima di approdare nella categoria principale nel 1981 grazie alla Tyrrell, che comunque non passava un buon momento. Già dal 1982, comunque, cominciò a mettersi in mostra, soprattutto nell’ultima gara di Las Vegas, in un circuito a lui congeniale che gli permise di ottenere il terzo posto in qualifica e poi superare Prost durante la corsa, aggiudicandosi la gara; il buon risultato fu poi ripetuto anche l’anno seguente, quando Alboreto portò la sua Tyrrell a vincere a Detroit, approfittando del ritiro di Arnoux e di una tattica di gara molto accorta. Questi buoni risultati conquistati a 26 e 27 anni d’età gli permisero di stuzzicare l’interesse della Ferrari: fu ingaggiato nel 1984, ma la prima stagione – nonostante la vittoria con pole in Belgio e i due secondi posti a Monza e al Nürburgring – fu nel complesso deludente, con la McLaren dominatrice e Alboreto superato alla fine in classifica generale anche da De Angelis, alla guida della Lotus. L’anno giusto sarebbe dovuto essere, però, il 1985, visto che la Ferrari sembrava in grado di colmare il gap rispetto alla casa automobilistica rivale: la partenza del campionato fu infatti incoraggiante, con Alboreto vincente in Canada e soprattutto sul podio in otto delle prime dieci gare, tanto da diventare il primo pilota italiano a guidare la classifica generale dai tempi del 1958. Anche la seconda parte di stagione si aprì benissimo, con una vittoria in Germania ottenuta rimontando addirittura dall’ottavo posto, ma quello fu probabilmente il canto del cigno del pilota italiano e della sua Ferrari: nella quintultima prova, a Monza, chiuse solo tredicesimo e nelle ultime quattro gare dovette sempre ritirarsi a causa dell’introduzione di un nuovo motore non affidabile quanto il precedente, lasciando di fatto via libera a Prost, che andò a conquistare il titolo. Le tre stagioni successive, tutte affrontate alla guida della Ferrari, furono deludenti soprattutto per problemi di prestazione della monoposto, che non riuscì a risultare competitiva, tanto è vero che la casa di Maranello scese spesso e volentieri al quarto posto nel Mondiale costruttori, sopravanzata da Williams, McLaren e Lotus. L’addio con la Ferrari si consumò così nel 1988, con Alboreto costretto a trovarsi una nuova squadra e a firmare prima per la Tyrrell e poi per la Arrows, con vetture che però non erano per nulla competitive e non gli permettevano di correre neppure per la zona punti. Ritiratosi nel 1994 – dopo due stagioni incolori alla Scuderia Italia e alla Minardi -, si spostò a correre gare a ruote coperte, sia nel campionato DTM che in altre manifestazioni prestigiose come la 24 Ore di Le Mans; fu proprio mentre si preparava a una nuova edizione di quella corsa, nel 2001, che morì mentre stava effettuando dei collaudi sulla sua Audi a causa di un pneumatico forato e di un successivo schianto con capovolgimento della vettura, a tal proposito: L’incidente e la morte del grande Michele Alboreto

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L’incidente e la morte del grande Michele Alboreto

Michele Alboreto è stato forse il più grande pilota italiano degli ultimi decenni, assieme a Patrese, Farina ed Ascari. Era nato a Milano il 23 dicembre del 1956. Aveva esordito in Formula Uno nel 1981, al Gran Premio di San Marino, al volante della Tyrrel-Ford. Con la scuderia britannica aveva ottenuto anche due vittorie, entrambe negli Stati Uniti, che lo avevano portato alla ribalta internazionale.
Campione europeo di Formula 3 nel 1980, trascorse buona parte della propria carriera automobilistica in Formula 1, categoria in cui vinse cinque Gran Premi ed in cui sfiorò la conquista del titolo mondiale nel 1985, con la grandissima Ferrari 156-85. Gli appassionati ricorderanno sicuramente di come quella stagione si caratterizzò per il lungo ed appassionante testa a testa con Prost, concluso a favore del francese anche a causa di un calo di affidabilità della Ferrari nelle ultime gare.
Nel corso della sua carriera nella massima categoria il pilota milanese gareggiò, oltre che con la Tyrrel e la Ferrari, anche con Arrows, Lola e Minardi. Ancora oggi rimane l’ultimo pilota italiano ad avere vinto una gara in Formula 1 alla guida di una vettura Ferrari. Spesso paragonato al prima citato Alberto Ascari, era famoso per il suo carattere riservato ma grintoso e per la sua abilità nella messa a punto: sapeva fornire – meglio di altri piloti – precise e dettagliate indicazioni per migliorare le prestazioni della vettura ad ingegneri e meccanici all’interno del suo team.

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La Ferrari e la stagione 1985

Su quel ragazzo dalle enormi potenzialità – che nel tempo libero suonava il basso ed era appassionato di blues e fantascienza – aveva subito messo gli occhi Enzo Ferrari, che lo aveva voluto con sé a Maranello. Erano gli anni in cui le Rosse sembravano proibite ai piloti italiani, e proprio l’arrivo di Alboreto portò nella scuderia del Cavallino una ventata di ritrovato entusiasmo e di orgoglio nazionale.
Come già prima accennato, la sua migliore stagione con la Ferrari è stata quella del 1985, anno in cui per noi appassionati vedere correre la Ferrari 156-85 era veramente uno spettacolo, specie nelle prime fasi del campionato. In quell’anno Michele aveva toccato anche il vertice della classifica iridata, per cedere nel finale del campionato il posto ad Alain Prost su McLaren – TAG Porsche: il francese totalizzò 73 punti mentre Michele, con le vittorie in Canada ed in Germania, si fermò 20 punti più in basso, superando il finlandese Keke Rosberg su Williams – Honda che aveva raccolto 40 punti.

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Carriera successiva

Dopo la parentesi ferrarista Alboreto gareggiò ancora con la Tyrrel, poi con la Lola, con la Footwork e la Minardi fino al 1994, senza però ottenere grandi risultati. In Formula Uno ha disputato 194 Gran Premi, ottenendo cinque vittorie, due pole position, 23 podi, cinque giri veloci, nove secondi posti e nove terzi posti. Parallelamente alle gare in Formula 1 partecipò anche a molte competizioni riservate alle vetture a ruote coperte aggiudicandosi, oltre a diverse altre gare di minore importanza, la 24 Ore di Le Mans del 1997 e la 12 Ore di Sebring del 2001.

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L’incidente mortale

Michele Alboreto morì a 44 anni il 25 aprile 2001, in un incidente al Lausitzring, mentre effettuava i collaudi delle nuove Audi R8 Sport in preparazione della 24 Ore di Le Mans del 2001. Alboreto era alla guida lungo un rettilineo, quando la sua auto uscì dal tracciato, colpì una recinzione sulla destra e si capovolse oltre, dopo un volo di un centinaio di metri. Secondo l’inchiesta il pilota italiano morì sul colpo a causa dello schianto, provocato dalla foratura dello pneumatico posteriore sinistro con perdita graduale di pressione fino al cedimento; l’Audi comunicò agli investigatori che il prototipo (distruttosi nell’impatto) aveva già completato migliaia di chilometri su molti circuiti, preparandosi per la stagione 2001, senza alcun problema.

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Le responsabilità

Dai fatti, gli investigatori supposero che né il pilota, né il circuito fossero responsabili per l’incidente. Il manager del Lausitzring, Hans-Jorg Fischer, comunicò infatti che le ambulanze di stanza presso il tracciato impiegarono solo due minuti per raggiungere la scena dell’incidente; un elicottero arrivò tre minuti più tardi, ma i medici dichiararono che non avrebbero potuto far nulla per salvarlo.

I funerali

Rimpatriata la salma in Italia, i funerali si svolsero dopo tre giorni a Basiglio alla presenza della moglie Nadia Astorri, delle due figlie e di circa altre 1500 persone, tra cui diversi ex piloti e personaggi esterni al mondo dei motori come Adriano Galliani e Mike Bongiorno. Dopodiché il corpo venne cremato nel polo crematorio milanese all’interno del Cimitero di Lambrate per volontà della moglie, con la decisione di conservarne privatamente le ceneri. Rimane un unico grande rimpianto: se quel maledetto pneumatico si fosse forato in un punto più lento della pista, probabilmente il grande pilota italiano sarebbe ancora con noi.

Ciao Michele, grazie per le emozioni che ci hai regalato…

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