Addio a Niki Lauda, leggenda della Formula 1

MEDICINA ONLINE NIKI LAUDA MORTO MORTE DEAD DEATH F1 FORMULA 1 PILOTA FERRARI MERCEDES INCIDENTE MORTALE USTIONI VISO ANZIANO TRAPIANO POLMONE COMA CAMPIONE DEL MONDO TITOLI CORSA GP GRAN PREMIO.jpgE’ morto a 70 anni l’ex pilota austriaco Niki Lauda, tre volte campione del mondo di Formula 1 e considerato una leggenda dagli appassionati di corse. Lo Continua a leggere

Niki Lauda è gravissimo: sottoposto ad un trapianto di polmone

MEDICINA ONLINE NIKI LAUDA 1 AUG 1976 NURBURGRING INFERNO VERDE Großer Preis von Deutschlan GERMANIA WIN WINNER RACE MARANELLO PROFESSORE crash INCIDENTE IMOLA SAN MARINO GP GRAN PREMIONiki Lauda, l’ex pilota Ferrari e campione del mondo di Formula 1, si trova in questo momento ricoverato in condizioni estremamente critiche all’ospedale viennese Continua a leggere

Quali sono i 5 piloti italiani più forti di tutti i tempi?

MEDICINA ONLINE RICCARDO PATRESE PILOTA FOTO GP SAN MARINO IMOLA ITALIA 1990

Riccardo Patrese al GP di San Marino nel 1990

Quali sono stati i piloti italiani più forti di tutti i tempi? Senza nulla togliere al grandissimo Fisichella, assente in questa classifica, ecco la nostra top five:

Nino Farina

Gli anni Cinquanta furono anni importantissimi per l’automobilismo italiano, segnati da grandi vittorie e anche grandi lutti. La prima generazione dei campioni che aveva combattuto nelle epiche sfide anteguerra, guidata da quel Tazio Nuvolari che scomparve per un ictus proprio nel 1953, aveva ceduto il posto a un gruppo di nuovi piloti, in parte cresciuti in quelle stesse gare – dalla Mille Miglia ai primi Gran Premi – e in parte emersa dopo la fine del conflitto. All’inaugurazione del Campionato mondiale di Formula 1, nel 1950, si presentava così una pattuglia di piloti italiani ben agguerrita: per l’Alfa Romeo correvano Giuseppe Farina, Luigi Fagioli, Piero Taruffi e Consalvo Sanesi, ai quali si deve aggiungere l’argentino, ma figlio di italiani, Juan Manuel Fangio, forse il più talentuoso pilota di tutti i tempi; per la Maserati c’era Franco Rol, per la Achille Varzi c’era Nello Pagani, per la Milano c’erano Felice Bonetto e Franco Comotti mentre Clemente Biondetti correva per conto proprio; infine, ovviamente, ai nastri di partenza c’era pure la Ferrari con Luigi Villoresi, Alberto Ascari e Dorino Serafini. Il campionato lo vinse Nino Farina, un pilota che aveva già 44 anni e una solida esperienza alle spalle: alla Mille Miglia era arrivato secondo nel ’36, nel ’37 e nel ’40, prima che la Seconda guerra mondiale bloccasse tutto, segnalandosi comunque in tutte le gare disponibili all’epoca. Con l’Alfa aveva un lungo e proficuo rapporto, rafforzato già all’esordio nel Mondiale grazie alla conquista, a Silverstone, della pole position, del Gran Premio e del giro più veloce della corsa; vinse poi anche in Svizzera e in Italia, diventando il primo campione del Mondo della categoria, davanti solo di tre punti al compagno di scuderia Fangio, che vinse lo stesso numero di Gran Premi ma fu costretto più spesso al ritiro (sorte che gli toccò anche nell’ultima gara, a Monza, quella decisiva). Farina corse anche nelle sei stagione successive, arrivando a concludere la sua carriera in Formula 1 a cinquant’anni suonati, incamerando ancora qualche vittoria e sfiorando nuovamente il titolo nel 1952, quando, passato alla Ferrari anche per il ritiro dell’Alfa, si piazzò dietro al dominatore assoluto di quegli anni, Alberto Ascari, del quale parleremo a breve. Il suo stile di guida era arrembante e sfacciato, espressione di un carattere altrettanto sfrontato che veniva messo in mostra anche dai rotocalchi dell’epoca, che sottolineavano la sua passione per le belle donne e il vezzo di correre con un sigaro cubano in bocca. Erano altri tempi, insomma, in cui il fascino personale del pilota superava di gran lunga la tecnologia delle automobili, ed in cui si rischiava veramente la vita ad ogni corsa. Una vita che comunque Farina avrebbe perso poco dopo il ritiro dalle corse: nel giugno del 1966, non ancora sessantenne, infatti prese a velocità troppo alta una curva nei pressi di Aiguebelle, in Francia, mentre si recava ad assistere al Gran Premio di Reims, finendo fuori strada e morendo a bordo della sua Ford Cortina Lotus.

Leggi anche:

Alberto Ascari

Nato a Milano nel 1918, essendo figlio d’arte aveva esordito già negli anni Trenta guidando soprattutto motociclette, tanto che nel ’38 era già stato messo sotto contratto dalla Bianchi, decidendo poi due anni dopo di passare alle quattro ruote, esordendo nel 1940 nella Mille Miglia. Passò la guerra a riparare veicoli militari e a rifornire di benzina l’esercito italiano in nord Africa, ma nel 1947 – grazie soprattutto alle insistenze di Gigi Villoresi, amico e socio d’affari nonché suo futuro compagno di squadra in Formula 1 – decise di tornare alle corse accettando un contratto con la Maserati. Già sul finire del decennio era ritenuto il principale antagonista di Nino Farina, pilota più navigato e maturo, e quando il Mondiale prese il via nel 1950 aveva ormai firmato per la Ferrari, casa in forte ascesa anche se per il momento lontana dalla forza dell’Alfa Romeo, che con la sua Alfa 158 stava dominando le corse a ruote scoperte. Fu così solo a partire dal 1951 che il pilota milanese iniziò ad avvicinarsi agli alfisti, prima vincendo i Gran Premi al Nürburgring e a Monza, poi conquistando nel 1952 un titolo che ha qualcosa di leggendario: facilitato dal ritiro dell’Alfa Romeo e dall’infortunio a Fangio, che non disputò alcuna gara nel Mondiale, Ascari vinse tutte le gare alle quali partecipò tranne quella di Indianapolis (nella quale era comunque l’unico pilota non americano e fu costretto al ritiro), facendo registrare un record. L’anno dopo Fangio ritornò – anche se per la Maserati e non per l’Alfa, che continuava a non partecipare – e provò a dar battaglia, ma Ascari trionfò in quattro dei primi sei GP della stagione e mise la vittoria in tasca, confermando anche quello che era il suo tipico stile di guida che lo vedeva scattare subito in testa nei primi giri, imponendo un alto ritmo alla corsa, salvo poi gestire il vantaggio accumulato. Nel 1954, ormai appagato dei successi con la Ferrari, firmò per la Lancia, che era quasi un’esordiente nel settore corse: si impose subito nella Mille Miglia, mentre per quanto riguarda la Formula 1 fu dato inizialmente in prestito alla Maserati, con la quale però fu vittima di due rotture che lo portarono al ritiro; fu poi prestato – mentre la Lancia affinava la propria vettura – alla stessa Ferrari, ma anche qui, pur lottando per la prima posizione a Monza, fu costretto al ritiro; infine esordì con la stessa Lancia, finalmente pronta, nell’ultimo GP della stagione, facendo registrare il giro più veloce ma anche qui non arrivando al traguardo. Nel 1955, infine, tutto sembrava finalmente pronto per far tornare Ascari a lottare per il titolo, visto anche che in alcune gare extracampionato la Lancia si era comportata ottimamente; la stagione però si rivelò subito sfortunata, prima, a Monaco, con una terribile uscita di strada a causa di una macchia d’olio che portò la vettura addirittura ad inabissarsi in mare, poi con l’incidente che costò la vita al pilota: quattro giorni dopo Monte Carlo, infatti, Ascari decise di raggiungere Villoresi ed altri amici a Monza, dove stavano testando una nuova Ferrari, la stessa auto che Ascari chiese di provare e che, capovolgendosi, finì per schiacciarlo al terzo giro di pista, procurandone la morte sul colpo. La Lancia decise, subito dopo quella morte, di cedere tutto il suo materiale alla Ferrari e ritirarsi dalle corse.

Riccardo Patrese

Dopo i fasti degli anni Cinquanta, per i tifosi italiani arrivarono anni di magra. Le scuderie della nostra penisola si ridussero progressivamente, fino a rimanere in corsa solo Maserati e Ferrari, con la prima relegata comunque a posizioni di rincalzo; soprattutto, mancavano i piloti tricolori che potessero lottare per il titolo: dopo il 1960 l’unico italiano che si avvicinò alla vetta della classifica finale fu Lorenzo Bandini, che nel ’64 arrivò quarto dietro a tre piloti britannici, tanto è vero che molti si consolarono tifando per Clay Regazzoni, svizzero di lingua italiana, secondo al Mondiale del ’74, o per l’italoamericano Mario Andretti, terzo nel 1977 e campione del Mondo nel 1978. Qualcosa iniziò a cambiare nei primissimi anni ’80, quando nella classifica finale cominciarono a emergere tre giovani piloti italiani, Elio De Angelis, Riccardo Patrese e Michele Alboreto, con il primo che proprio nel 1980 riusciva a salire sul podio a Interlagos e il secondo faceva lo stesso a Long Beach. Ma partiamo da Patrese, che, più vecchio di qualche anno, aveva esordito prima degli altri in Formula 1: padovano, classe 1954, Patrese arrivò nella massima categoria nel 1977, ad appena ventitré anni, dopo un ottimo percorso che dai kart l’aveva portato alla Formula 3, dove si era diplomato campione europeo. Dotato di un forte temperamento, aveva una guida molto aggressiva e sfrontata, che gli attirò simpatie tra i tifosi ma anche antipatie tra i colleghi; qualche anno fa, a tal proposito, ha fatto il giro del mondo il video, registrato all’interno di una Honda Civic, in cui si vedevano le reazioni esterrefatte della moglie Francesca Accordi portata da lui in giro lungo un circuito, senza tanti riguardi per la paura di lei e per le promesse fatte in precedenza. In Formula 1 arrivò grazie alla Shadow, team statunitense da poco attivo nella categoria da una costola del quale sarebbe nata poi la Arrows, seconda scuderia dello stesso Patrese. Proprio nella sua seconda stagione iniziarono ad arrivare i primi risultati, con un secondo posto in Svezia e un quarto a Montreal; dopo altri tre podi, la prima vittoria in un GP arrivò nel 1982 con il passaggio alla Brabham, quando sembrava finalmente arrivato l’anno giusto per il pilota padovano visto che vinse anche l’importante Gran Premio di Monaco (in una gara caratterizzata da numerosi ritiri a causa della pioggia) e si piazzò pure secondo in Canada e terzo negli Stati Uniti. Si trovò così a metà stagione in buona posizione in classifica generale, salvo poi incappare in una serie di ritiri che lo riportarono distante dalla vetta. Una seconda vittoria la ottenne l’anno successivo in Sudafrica, mentre ben poco fortunato fu il momentaneo passaggio all’Alfa Romeo nel 1984 e 1985. La sorte cominciò finalmente a girare solo nel 1989, quando era ormai un veterano dei Gran Premi con più di dieci anni di esperienza alle spalle: la Williams, che l’aveva messo sotto contratto l’anno prima, trovò finalmente l’assetto giusto grazie al motore Renault e, dopo le poco proficue prime tre gare, proiettò il padovano in lotta per il titolo con quattro podi consecutivi e cinque in sei gare; purtroppo per l’italiano, però, il Mondiale si rivelò presto una gara a due tra Prost e Senna, entrambi alla McLaren Honda, col secondo più vincente ma il primo più continuo e campione alla fine della stagione. Patrese ci riprovò comunque di nuovo nel 1991 e nel 1992, ormai quasi quarantenne: nel primo caso vinse due Gran Premi ma non riuscì a tenere testa allo strapotere di Senna, piazzandosi terzo dietro al compagno di scuderia Mansell; l’anno dopo, con la McLaren in calo e la crescita non ancora completa della Benetton, la Williams finalmente ebbe l’occasione di vincere, ma tutte le innovazioni vennero date prima a Mansell, di fatto la prima guida, e Patrese non andò oltre il titolo di vicecampione del Mondo. L’ultima annata prima del ritiro, corsa con la Benetton, lo vide infine chiudere al quinto posto assoluto.

Leggi anche:

Elio De Angelis

Meno fortunata rispetto a quella di Patrese fu la carriera del quasi coetaneo Elio De Angelis, nato a Roma nel 1958 e purtroppo scomparso prima di poter raggiungere il traguardo dei trent’anni. Il suo percorso fu però, almeno all’inizio, simile a quello del compatriota di cui abbiamo appena finito di parlare: dopo essersi fatto le ossa nelle competizioni minori e aver conquistato nel 1977 il titolo di campione nazionale di Formula 3, approdò in Formula 1 sempre grazie alla Shadow, costantemente alla ricerca di nuovi talenti da lanciare nel panorama dell’automobilismo mondiale; già dal suo primo anno mise in mostra promettenti qualità, passando poi nel 1980 alla Lotus e ottenendo il suo primo podio in Brasile, alla seconda gara con la nuova scuderia. I primi anni alla casa britannica – con l’eccezione dell’annata nera 1983, in cui riuscì a concludere solo due GP – furono caratterizzati da buoni piazzamenti, coronati dalla vittoria del Gran Premio d’Austria nel 1982 (in un fotofinish memorabile con il finlandese Keke Rosberg, all’interno di una gara comunque caratterizzata da molti ritiri); ma dal 1984 De Angelis sembrò in grado di poter correre per le prime posizioni, visto che era maturato lui come pilota ed era cresciuta anche la sua vettura. Il 1984 infatti partì molto bene, col pilota italiano capace di conquistare subito la pole position nella prima prova in Brasile, poi conclusa al terzo posto; fino a metà campionato De Angelis continuò ad accumulare punti, salendo sul podio anche a Imola e nei due GP statunitensi di Detroit e Dallas, ma nella seconda parte della stagione la superiorità tecnica della McLaren emerse in maniera indiscutibile, soprattutto per la capacità dei tecnici della Porsche di gestire meglio le limitazioni al carburante imposte da regolamento in quella stagione. De Angelis concluse comunque terzo assoluto, anche se molto staccato da Lauda e Prost, che si contesero il titolo fino all’ultimo giro dell’ultima corsa. L’anno dopo l’inizio fu ancora incoraggiante, con la vittoria a Imola, tanti piazzamenti tra i primi cinque e un momentaneo primo posto nella classifica generale, ma lo strapotere di Prost e della sua McLaren furono ancora una volta troppo netti per tutti. Nel 1986 De Angelis cambiò quindi scuderia, passando alla Brabham, dove trovò anche Patrese; la macchina però non riuscì ad ingranare e non si dimostrò nemmeno troppo sicura: durante una sessione di prove private a Marsiglia infatti si staccò l’alettone posteriore dell’auto, facendo cappottare più volte l’auto, che prese pure fuoco: gli insufficienti mezzi di soccorso e l’arrivo tardivo dell’elicottero condannarono De Angelis a non salvarsi. La sua morte fece scalpore e destò commozione, oltre a spingere i piloti a minacciare la FIA di sciopero se non si fossero migliorate immediatamente le condizioni di sicurezza delle piste e delle prove. De Angelis, assieme al Michele Alboreto di cui parleremo subito, era in quel momento la miglior promessa dell’automobilismo italiano, come non se ne vedevano da anni.

Michele Alboreto

Coetaneo di De Angelis era anche l’altra grande promessa della Formula 1 di quegli anni, quel Michele Alboreto che fu l’ultimo pilota italiano a vincere una gara di Formula 1 a bordo di una Ferrari, e quello che andò più vicino a un titolo di Campione del Mondo che manca ai nostri concittadini dai tempi proprio di Ascari, il pilota a cui più spesso Alboreto è stato paragonato per stile di guida. Nato a Milano nel 1956, aveva seguito un cursus honorum simile a quello di Patrese e De Angelis, passando dalle formule minori – ma anche correndo in endurance, a volte in coppia proprio con Patrese – prima di approdare nella categoria principale nel 1981 grazie alla Tyrrell, che comunque non passava un buon momento. Già dal 1982, comunque, cominciò a mettersi in mostra, soprattutto nell’ultima gara di Las Vegas, in un circuito a lui congeniale che gli permise di ottenere il terzo posto in qualifica e poi superare Prost durante la corsa, aggiudicandosi la gara; il buon risultato fu poi ripetuto anche l’anno seguente, quando Alboreto portò la sua Tyrrell a vincere a Detroit, approfittando del ritiro di Arnoux e di una tattica di gara molto accorta. Questi buoni risultati conquistati a 26 e 27 anni d’età gli permisero di stuzzicare l’interesse della Ferrari: fu ingaggiato nel 1984, ma la prima stagione – nonostante la vittoria con pole in Belgio e i due secondi posti a Monza e al Nürburgring – fu nel complesso deludente, con la McLaren dominatrice e Alboreto superato alla fine in classifica generale anche da De Angelis, alla guida della Lotus. L’anno giusto sarebbe dovuto essere, però, il 1985, visto che la Ferrari sembrava in grado di colmare il gap rispetto alla casa automobilistica rivale: la partenza del campionato fu infatti incoraggiante, con Alboreto vincente in Canada e soprattutto sul podio in otto delle prime dieci gare, tanto da diventare il primo pilota italiano a guidare la classifica generale dai tempi del 1958. Anche la seconda parte di stagione si aprì benissimo, con una vittoria in Germania ottenuta rimontando addirittura dall’ottavo posto, ma quello fu probabilmente il canto del cigno del pilota italiano e della sua Ferrari: nella quintultima prova, a Monza, chiuse solo tredicesimo e nelle ultime quattro gare dovette sempre ritirarsi a causa dell’introduzione di un nuovo motore non affidabile quanto il precedente, lasciando di fatto via libera a Prost, che andò a conquistare il titolo. Le tre stagioni successive, tutte affrontate alla guida della Ferrari, furono deludenti soprattutto per problemi di prestazione della monoposto, che non riuscì a risultare competitiva, tanto è vero che la casa di Maranello scese spesso e volentieri al quarto posto nel Mondiale costruttori, sopravanzata da Williams, McLaren e Lotus. L’addio con la Ferrari si consumò così nel 1988, con Alboreto costretto a trovarsi una nuova squadra e a firmare prima per la Tyrrell e poi per la Arrows, con vetture che però non erano per nulla competitive e non gli permettevano di correre neppure per la zona punti. Ritiratosi nel 1994 – dopo due stagioni incolori alla Scuderia Italia e alla Minardi -, si spostò a correre gare a ruote coperte, sia nel campionato DTM che in altre manifestazioni prestigiose come la 24 Ore di Le Mans; fu proprio mentre si preparava a una nuova edizione di quella corsa, nel 2001, che morì mentre stava effettuando dei collaudi sulla sua Audi a causa di un pneumatico forato e di un successivo schianto con capovolgimento della vettura, a tal proposito: L’incidente e la morte del grande Michele Alboreto

Leggi anche:

Lo staff di Medicina OnLine

Se ti è piaciuto questo articolo e vuoi essere aggiornato sui nostri nuovi post, metti like alla nostra pagina Facebook o seguici su Twitter, su Instagram o su Pinterest, grazie!

Gerhard Berger, gli anni in Ferrari e non solo: dalle gioie ai dolori

MEDICINA ONLINE Gerhard Berger's crash at Tamburello INCIDENTE IMOLA SAN MARINO GP GRAN PREMIO FORMULA 1 1989 FERRARI FIRE FUOCO USTIONIGerhard Berger è stato senza dubbio l’uomo dei ritorni, quello che lasciava le squadre in ottimi rapporti e alla prima occasione vi tornava. E’ stato un pilota che ha lasciato sempre un buon ricordo nelle formazioni in cui ha militato e come pochi altri ancora, dopo essere uscito dalla Ferrari, vi è tornato concludendo un cammino che avrebbe potuto avere ben altro successo. La storia di Gerhard Berger in rosso comincia un giorno d’aprile del 1986. Siamo a Imola e Marco Piccinini, DS della Ferrari, avvicina Gerhard e gli fa una proposta di collaborazione per i tre anni successivi. In quella stagione Gerhard è un pilota Benetton-BMW. Col motorista bavarese ha debuttato due anni prima, nel GP d’Austria, su una Arrows BMW Turbo concludendo 4 GP e assicurandosi il sedile anche per la stagione.

Quando il motorista tedesco stringe il rapporto di collaborazione con la Benetton, Berger segue la BMW nel team trevigiano. Dall’Austria all’Italia il passo è breve e Gerhard, come tanti suoi connazionali, trascorre le vacanze e i weekend sulla riviera romagnola. Muove i primi passi nel Trofeo Alfasud con una vettura gestita da Trivellato, che ha sede in Veneto. Passare a una scuderia che la base amministrativa a Treviso e il team in Inghilterra, non è altro che un modo per continuare le scorrazzate estive e rinsaldare i legami coi suoi amici italiani. Quando Piccinini chiede a Berger la disponibilità a correre col team di Maranello è perché Enzo Ferrari era rimasto impressionato dall’abilità di pilotaggio di Gerhard, ma soprattutto dalla fama di donnaiolo impenitenteche lo accompagna. Siamo solo alla terza gara della stagione e fino a quel momento Berger ha concluso le prime due corse in sesta posizione.

La proposta di Piccinini colpisce nel profondo Gerhard che la domenica va sul podio, il primo della sua lunga carriera di F.1 che alla fine lo vedrà al via in 210 GP. Il destino di Johansonn è segnato, la Ferrari per il 1987 schiererà Michele Alboreto e Gerhard Berger. Arrivato a Maranello con l’entusiasmo del giovane pronto a sfondare, ma anche con un palmares di tutto rispetto, al punto che in Messico, penultima gara della stagione 86, Berger vince il suo primo GP, la realtà è quella di una squadra in fase di ricostruzione. Il titolo mondiale, sfiorato nel 1985 da Alboreto, nell’86 è solo un ricordo a fronte del potere della McLaren TAG di Prost e delle Williams Honda di Piquet e Mansell. A Maranello si rimboccano le maniche e si affidano alla grinta di Berger, ma gli inizi non saranno affatto facili né felici. Se Berger è il giovane promettente, Michele ha in mano le chiavi della squadra. E’ veloce nei test, è veloce in gara, è ascoltato dal Grande Vecchio. Berger, umilmente, capisce che deve applicarsi di più e rubare il mestiere al più esperto compagno di squadra. La prima metà stagione è un disastro: Michele sale sul podio due volte, Gerhard non va oltre due quarti posti e un ritiro.

Leggi anche:

I primi guai

Dopo quell’avvio stentato, cominciano i guai. Ritiri a ripetizione, guasti, turbine che saltano, manicotti che cedono. La chiave di volta di quella stagione arriva nel GP d’Austria, gara di casa di Gerhard Berger. Non sarà tanto per il quarto posto finale, quanto perché la Ferrari ha ritrovato il bandolo della matassa. Nei ricordi di Berger la Ferrari di quel periodo è l’emblema dell’italianità. E’ una squadra caciarona, dove l’improvvisazione e i colpi di genio sopperiscono alla ricerca metodica e scientifica. In un ambiente del genere Gerhard va a nozze e si integra perfettamente nella squadra, diventa più attento e preciso, il confronto con Michele Alboreto viene spesso vinto in pista. Emerge l’indole politica di Gerhard che riesce ad amalgamarsi con le diverse anime della rossa. Ormai è uno dei loro, fa comunella coi meccanici e quando va a colloqui con Enzo Ferrari, spesso il Drake oltre a chiedere come va la macchina, gli domanda anche di qualche nuova conquista di cui ha sentito parlare nei corridoi della squadra.

E Berger risponde, sempre e diverte il Grande Vecchio di Maranello. L’apice viene raggiunto sul finire di stagione. In Portogallo Berger fa la pole position, scatta al comando ma ha alle costole un mastino come Alain Prost che lo pressa e lo costringe alla difesa della prima posizione. Fino a quando Berger non va in testacoda e lascia la vittoria al pilota della McLaren. Gerhard finisce al secondo posto, teme un rimbrotto da parte di Enzo Ferrari, che domenica sera non telefona alla squadra. Invece, con grande sorpresa, appena giunto a Fiorano, per dei test privati, Gerhard si vede recapitare un bigliettino scritto a mano dallo stesso Enzo Ferrari: “Grazie per tutto quello che ha fatto, peccato per come è finita, andrà meglio la prossima volta”. Firmato Enzo Ferrari, col caratteristico inchiostro viola. Quel bigliettino, e gli altri, Gerhard li ha messi in fila in una bacheca nel suo ufficio in Austria e li conserva gelosamente. Ma quel bigliettino è anche il via libera alla gara seguente, a quel finale di stagione in cui Berger in Giappone e Australia segna la pole position. A Suzuka la rossa vince, e rompe un digiuno che durava dal GP del Nurburgring del 1985, quando vinse Michele Alboreto.

Leggi anche:

La Ferrari torna a vincere

E’ il segnale che la Ferrari è tornata competitiva, che si può lottare ancora per il mondiale. Ma, anche se la vittoria in Giappone è importante per statistiche, quella seguente in Australia è per Berger la consacrazione a grande campione. Ancora oggi, a distanza di anni, quando Gerhard ricorda gli eventi di quella lotta, si infiamma, si agita e non crede a quanto messo in scena. Basta poco per ricordarlo: in prova Berger fa la pole, Alain Prost è al suo fianco ma la sorpresa sarà Ayrton Senna con la Lotus Renault Turbo. Il brasiliano è scatenato, si esalta e parte alla caccia di Berger. E’ un duello fatto di giri veloci, di sorpassi mozzafiato, di una bagarre corsa sul filo dei nervi. A ogni giro veloce di Berger, che pensa di aver messo un margine sufficiente fra sé e Ayrton, il brasiliano risponde e riprende la caccia. E via così fino a quando la bandiera a scacchi non sancisce la seconda vittoria consecutiva della Ferrari in quella stagione. Poi, la doccia fredda: Senna verrà squalificato per una presa d’aria dei freni ritenuta irregolare. Al secondo posto sale Michele Alboreto: è una doppietta rossa che fa ben sperare per la stagione 1988.

E’ l’ultimo anno dei motori turbo, la pressione viene limitata con una valvola pop-off che impedisce l’overboost, quell’eccesso di pressione che negli anni precedenti aveva permesso al motore della BMW Turbo della Brabham di Nelson Piquet di arrivare alla soglia incredibile di 1430 CV. La Ferrari sa di avere una gran macchina, bilanciata e dall’aerodinamica quasi perfetta per le monoposto dell’epoca. Ma commette un errore di presunzione. I tecnici prendono sotto gamba la limitazione a 4 bar dei motori turbo con una valvola pop-off e svolgono tutti i test invernali limitando solo la pressione con il manettino di regolazione. Invece alla prima sessione ufficiale, con le valvole fornite dalla federazione, si scopre che il margine di tolleranza mantenuto in inverno, nelle prove private, di fatto non esiste con la valvola e la potenza risulta essere molto inferiore a quella in teoria disponibile. La McLaren, che è passata ai motori Honda Turbo, ha provato e messo a punto i propulsori con questo sistema e in gara le monoposto anglo-nipponiche dispongono della potenza massima mentre le Ferrari si “bloccano”. Quando si capisce il motivo per le mancate prestazioni, ormai è troppo tardi. Berger, però, a fine anno sarà il primo degli inseguitori dietro al due Senna e Prost.

A Silverstone segna una pole position che fa sperare, ma in gara c’è poco da fare contro le monoposto biancorosse dirette da Ron Dennis. L’unico spiraglio di luce arriva a Monza. Ayrton Senna comanda la gara senza problemi, ma in fase di doppiaggio urta alla prima chicane Jo Schlesser. La corsa di Ayrton finisce contro il rail con una sospensione rotta, la folla esulta: in testa ci sono le due Ferrari di Gerhard Berger e Michele Alboreto. Quasi un mese prima, il 15 agosto, è morto Enzo Ferrari. Le tribune di Monza vengono avvolte da una sorta di misticismo quando Gerhard e Michele salgono sul gradino più alto del podio, migliaia di bandiere rosse col cavallino rampante sventolano al grido di “Ferrari, Ferrari”. Dal podio Gerhard e Michele si stringono e applaudono la folla. Ai box Ayrton Senna è colpito dal clima e commenta con una frase sola: “Si vede che qualcuno, da lassù, voleva che oggi andasse così”. E perdona Schlesser che lo ha messo fuori gara.

Arriva il 1989, il regolamento tecnico dei motori cambia: solo aspirati di 3 litri, bando ai motori turbo. A Maranello guardano perplessi la scocca della nuova 639/40, detta anche la papera per via del musetto schiacciato. Ma a destare perplessità non è tanto la forma della macchina, molto lunga, con una coda rastremata, quando l’adozione di un cambio a comando elettroidraulico coi comandi al volante tramite due levette. Sotto al cofano, inoltre, questa Ferrari rivoluzionaria adotta le molle a barra di torsione invece delle classiche molle elicoidali. E’ una rivoluzione per la F.1 che ha segnato tutte le monoposto moderne, eredi di quella Ferrari. Ma gli inizi, anche delle rivoluzioni, non sono dei migliori. Il cambio spesso si blocca, gli attuatori non reggono la pressione e i piloti restano per strada col cambio inutilizzabile. Addirittura a Maranello l’allora responsabile della Fiat, l’ingegner Ghidella, prova a far passare un manico di bastone nella scocca per vedere se c’è un modo per tornare alla classica leva del cambio invece che usare la “diavoleria” voluta da John Barnard. Niente da fare: lo spazio per far passare la leva, non c’è. Bisogna sviluppare questa trasmissione.

Leggi anche:

La breve parentesi in McLaren

E all’inizio le cose non vanno nemmeno male. Nigel Mansell ha sostituito Michele Alboreto e nel GP inaugurale della stagione, in Brasile, vince cambiando pure il volante coi comandi del cambio durante una sosta ai box. Dopo quell’exploit eccezionale, per Berger e la rossa saranno dolori. Anche l’aerodinamica darà dei grattacapi, tanto che a Imola Gerhard va a muro per il cedimento di uno spoiler anteriore. La Ferrari prende fuoco, i commissari della CEA compiono un miracolo di efficienza salvando Berger dalle fiamme, che se la cava con poche ustioni alle mani. Incredibile, specie se si pensa che in Portogallo Berger vince, riprendendosi quella vittoria sfumata solo due anni prima. Ma questa è anche l’ultima vittoria in questa prima fase da ferrarista. Dopo una parentesi alla McLaren al fianco di Senna, a fine 92 la Ferrari decide di chiamare ancora a Maranello Gerhard Berger. Quella che trova l’austriaco è una Ferrari profondamente diversa: è molto più inglese, schematica, in piena fase di ristrutturazione sotto la presidenza di Luca di Montezemolo. Ci sono da mettere a punto le sospensioni attive per la stagione 93, a capo c’è l’ingegner Harvey Postletwaite, detto amichevolmente Postalmarket dai meccanici che non riescono a pronunciare bene il nome del simpatico tecnico inglese. Le sospensioni faticano a funzionare, la F93A non è un fulmine di guerra, erede della disgraziata F92A dell’anno prima, ma priva del doppio fondo, anche se i pesi e il baricentro sono più alti rispetto alle monoposto della concorrenza.

Con questa monoposto Berger colleziona uscite di pista, ritiri e rabbia a ripetizione. In Portogallo si sfiora la tragedia: uscendo dai box, le sospensioni reagiscono mandando contro il guard rail Gerhard, che esce indenne dall’incidente, ma molto provato. Il 94 si presenta meglio. La macchina, tanto per cominciare, è nuova. La 412 T1 va bene sulle piste veloci, manca però di affidabilità. Un sensore del motore, infatti, provoca ritiri a ripetizione a Berger, che a fine stagione conta solo sulla vittoria in Germania sul veloce tracciato di Hockenheim. La rossa non vinceva un GP da Jerez 1990, ovvero quasi quattro anni prima. Dopo Suzuka 87, è sempre Berger a rompere un digiuno ancora più lungo del precedente. Nel 1995 la Ferrari sta preparando la rivoluzione del futuro: per l’anno seguente, infatti, è previsto l’arrivo di Michael Schumacher e di alcuni tecnici di valore dalla Benetton. Berger potrebbe essere riconfermato, ma preferisce seguire Jean Alesi, col quale ha fatto coppia dal 93, nella formazione di Flavio Briatore.

Un latin lover incontenibile

L’anno si chiude per la rossa con la sola vittoria di Jean Alesi in Canada, Berger finisce sei volte terzo e va sul podio, ma conclude il mondiale al sesto posto, dietro al compagno di squadra e senza vittorie. La Ferrari riparte da zero, Gerhard affronta le sue ultime due stagioni. Tornando praticamente alle origini, a quella Benetton che lo aveva lanciato dieci anni prima nell’olimpo della F.1 e gli aveva aperto le porte della Ferrari. Ed è qui che conclude la carriera, con una ultima vittoria e la salute claudicante che gli consiglia di smetterla con la F.1. Questa la carriera agonistica di Berger, se si dovesse parlare di quella da latin lover, non basterebbe un libro. Per tutte, una scommessa fatta con i meccanici: quella di portare a letto le fidanzate, bellissime, di alcuni colleghi in pista durante il week end di gara. Ce la fece con tutte tranne una, che fu beccata dal fidanzato, giovane pilota sostituto di un grande campione appena scomparso. La scommessa di Berger però non fu persa. Solo spostò i termini della… consegna.

Infatti vinse anche questa ma fuori dalle gare, in un posto riservato. E conosciuto solo a chi doveva testimoniare l’avvenuto incontro. Mica come quella volta ad Aida, sabato pomeriggio dopo le qualifiche, quando con una scusa fece arrivare la fidanzata brasiliana e formosa di un giovane pilota. La fece sedere sul divano dell’ufficio di Ecclestone. E mentre operava con la ragazza sul divano, con un piede teneva aperta la porta per fare in modo che i testimoni potessero prendere nota dell’evento. Peccato che se ne accorse anche il fidanzato tradito. Che non gradì e dopo aver mollato una sberla alla fedifraga, la rimandò in Brasile col primo volo disponibile. E Gerhard? Lo invitò a bere qualcosa: se una così ti tradisce, non ti merita. Ti ho fatto un favore, pagami da bere. Unico Berger, anche per questo!

Leggi anche:

Lo staff di Medicina OnLine

Se ti è piaciuto questo articolo e vuoi essere aggiornato sui nostri nuovi post, metti like alla nostra pagina Facebook o seguici su Twitter, su Instagram o su Pinterest, grazie!

I 5 piloti della Ferrari più forti e vincenti della storia: siete d’accordo?

MEDICINA ONLINE 1996 Ferrari F310 piloti_della_Ferrari_Eddie_Irvine__Nicola_Larini_e_Michael_Schumacher_con_Luca_Cordero_di_Montezemolo WALLPAPER PICS PHOTO HD

I piloti della Ferrari Eddie_Irvine, Nicola Larini e Michael Schumacher con Luca Cordero di Montezemolo nel 1996, accanto alla F310

Quali sono i più forti e vincenti piloti della storia del Cavallino? Ecco i primi cinque per noi:

Alberto Ascari

Partiamo dagli albori della Formula 1. Il primo Campionato mondiale piloti di categoria si svolse nel 1950 con monoposto che oggi apparirebbero assai spartane ma sicuramente molto affascinanti e altrettanto pericolose. I costruttori e i piloti in gara erano molti: l’Alfa Romeo, che avrebbe dominato il campionato, faceva correre addirittura sei piloti, compresi il vincitore finale Nino Farina e il leggendario Juan Manuel Fangio; c’erano poi varie Maserati, varie Talbot-Lago e soprattutto le Ferrari, una delle quali era guidata da Alberto Ascari, trentaduenne figlio di un celebre pilota degli anni ’20 che ben aveva impressionato prima della guerra e nelle varie gare non ufficiali disputate tra il 1947 e il 1950, sia con le monoposto da corsa che nelle gare a ruote coperte.
Quel primo campionato non andò benissimo – Ascari conquistò solo un paio di secondi posti, a Montecarlo e Monza – ma a partire dall’anno successivo il pilota italiano poté rivaleggiare per le prime posizioni, dando vita a una storica rivalità con l’argentino Fangio: l’Alfa infatti si aggiudicò le prime tre gare abbastanza facilmente, ma poi cominciò la rimonta delle auto di Maranello, con la prima vittoria assoluta in un Gran Premio per la monoposto dell’argentino José Froilán González, poi replicata da Ascari.
Si arriva così all’ultimo Gran Premio con Fangio e Ascari a pari punti: in Spagna l’italiano conquistò la pole e pareva avviato al primo titolo iridato, ma un’errata scelta dei pneumatici gli costò cara e la vittoria di Fangio gli fece perdere il titolo.
L’anno dopo, però, Ascari si rifece subito: un incidente capitato a Fangio impedì infatti al suo principale avversario di partecipare al Mondiale e l’Alfa Romeo decide pure di rinunciare; la Ferrari ebbe così vita facile, col suo pilota vincente in tutte le gare da lui disputate (6 su 8) e capace di aggiudicarsi il campionato con un punteggio record, dando alla scuderia di Enzo Ferrari il primo dei suoi titoli.
L’anno dopo Fangio tornò in corsa, questa volta con la Maserati, ma alcuni problemi nelle prime gare permisero ad Ascari di accumulare di nuovo sufficiente vantaggio e conquistare il secondo titolo consecutivo. Nel 1954 Ascari passò quindi alla Lancia, non riuscendo però a ripetersi né con la nuova auto, né con la Maserati, né infine con la Ferrari (che tornò a guidare in chiusura di campionato), stante il dominio della Mercedes di Fangio.
Il 1955 fu però l’anno purtroppo decisivo nella vita del pilota milanese: il campionato decise di disputarlo ancora con la Lancia, ma fu costretto al ritiro sia all’esordio in Argentina che, soprattutto, a Monaco, dove finì addirittura in acqua a causa di una macchia d’olio; la tragedia arrivò pochi giorni dopo, quando Ascari decise quasi all’ultimo momento di uscire di casa per andare a provare la nuova Ferrari 750 che si stava testando a Monza: voleva fare solo tre giri di prova, ma la macchina sbandò e si capovolse, vedendolo morire sul colpo. A tutt’oggi è l’ultimo italiano ad aver vinto un campionato di Formula 1.

Leggi anche:

Mike Hawthorn

Poco più giovane di Ascari, ma tra quelli divenuti famosi più o meno negli stessi anni ci fu anche il britannico Mike Hawthorn, altra leggenda delle vetture col motore anteriore e le piste prive di sistemi di sicurezza. Dopo un esordio sulla Cooper, nel 1953 approdò infatti in Ferrari, dove dimostrò sia nel 1953 che nel 1954 una buona continuità di rendimento, classificandosi quarto e terza nella classifica finale.
Per un paio d’anni passò in altre scuderie, ma nel ’57 rientrò a Maranello, dove nel 1958 poté finalmente gareggiare per il titolo iridato: il campionato si rivelò pericoloso e spettacolare come i precedenti (durante le gare trovarono la morte quattro piloti, tra cui i ferraristi Musso e Collins, con i quali Hawthorn aveva uno strano legame di amicizia e rivalità) e vedeva per la prima volta favoriti i piloti britannici, a causa della ormai digerita scomparsa di Ascari e del calo di Fangio, che alla fine di quella stagione si sarebbe definitivamente ritirato dalla categoria.
Fin da subito la lotta per il titolo parve infatti una questione tra Sterling Moss – che guida prima una Cooper-Climax e poi una Vanwall – e Hawthorn, mentre alle loro spalle ben impressionavano gli altri britannici Tony Brooks, Roy Salvadori e lo stesso Peter Collins. Alla penultima gara, a Monza, Moss si presentò davanti ad Hawthorn in classifica, ma il pilota della Vanwall, che partiva in pole position, ruppe il cambio e lasciò via libera alla vittoria del compagno di scuderia Brooks, mentre il secondo posto del pilota Ferrari consentì a quest’ultimo di balzare in testa al campionato prima dell’ultima gara in Marocco (tra l’altro, l’unica mai disputata in quel circuito).
In Africa, ad ottobre, Hawthorn partì addirittura in pole, ma Moss tentò il tutto per tutto per rincorrere il titolo, vincendo la gara; il secondo posto del ferrarista, comunque, bastò per aggiudicarsi il campionato, facendo così di Hawthorn il primo britannico a salire sul tetto del mondo.
Da vincitore, decise però subito di ritirarsi dalla Formula 1: la scomparsa dell’amico Peter Collins infatti l’aveva molto scosso e forse si riteneva in parte responsabile pure della morte di Luigi Musso, come avrebbe poi spiegato tempo dopo l’allora fidanzata di Musso, Fiamma Breschi, affermando che Hawthorn aveva rifiutato di concedere un prestito al pilota italiano poco prima che questi, a causa dei propri debiti, spingesse troppo sull’acceleratore per aggiudicarsi il ricco premio del Gran Premio di Francia.
Pochi mesi dopo il ritiro, nel gennaio del ’59, anche Hawthorn trovò la morte: mentre stava correndo con la sua Jaguar a velocità elevata su una strada verso Londra (e, probabilmente, mentre stava facendo una corsa clandestina con Rob Walker, erede della dinastia di produttori di whisky della Johnnie Walker e capo del team di F1 per cui correva proprio Sterling Moss), uscì di strada in circostanze mai del tutto chiarite, forse a causa dell’asfalto sdrucciolevole in un punto particolarmente pericoloso o di uno di quei black-out che stavano diventando sempre più frequenti e dovuti a problemi ai reni che secondo i medici l’avrebbero comunque condannato a una morte per malattia nel giro di pochi anni. Morì sul colpo, a 29 anni d’età.

Leggi anche:

Niki Lauda

Se i piloti di cui vi abbiamo parlato finora sono vissuti agli albori della Formula 1 e il loro ricordo, forse, è in parte sbiadito, lo stesso non può dirsi per quello di Niki Lauda, grande pilota degli anni Settanta e Ottanta il cui mito è stato di recente ravvivato grazie al film Rush di Ron Howard.
Rampollo di una ricca famiglia viennese, Lauda arrivò alla massima categoria nel 1971 con la March, passando due anni dopo alla Brown e poi tentando il grande salto già nel 1974, con la firma per la Ferrari: dopo i fasti di Ascari e più in generale degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta, la casa di Maranello non era riuscita più a ripetersi, mancando da dieci anni il titolo piloti e quello costruttori, e sperava quindi di rifarsi presto col promettente austriaco.
Lauda, soprattutto a partire dal suo secondo anno in rosso, invertì infatti completamente la tendenza, riuscendo, prima in coppia con Clay Regazzoni e poi con Gilles Villeneuve, a conquistare due titoli personali (gli ultimi, se si esclude quello del ’79 di Jody Scheckter, prima dell’avvento di Schumacher vent’anni dopo) e tre per il mondiale costruttori.
Nel ’75, dopo un inizio fiacco che invece aveva visto primeggiare i brasiliani Emerson Fittipaldi – campione in carica che correva per la McLaren – e José Carlos Pace (della Brabham), Lauda ingaggiò una serie di quattro vittorie e un secondo posto in cinque gare, distanziando Fittipaldi e arginandone il successivo tentativo di rimonta.
L’anno dopo, nel ’76, si verificarono i fatti raccontati in Rush, con Lauda che fu vittima di un terribile incidente al Nürburgring (che gli fece seriamente rischiare la vita) e con il pilota della McLaren, James Hunt, che poté così recuperare molti dei punti che lo separavano dal leader della classifica; il campionato si decise comunque all’ultima corsa, in Giappone, quando Lauda decise di ritirarsi per le pericolose condizioni della pista – dovute alla pioggia battente – mentre Hunt riuscì ad arrivare sul podio, sopravanzando l’avversario di un solo punto nella classifica finale.
L’anno successivo, però, Lauda tornò rapidamente ad imporsi, conquistando con due gare d’anticipo il suo secondo mondiale (e non disputando nemmeno gli ultimi due GP, ufficialmente per indisposizione ma in realtà per la rottura dei rapporti con la Ferrari). Nel 1978, così, passò alla Brabham, senza ottenere i successi sperati, e nel 1979, a trent’anni, decise di ritirarsi per dedicarsi alla sua nuova compagnia aerea, la Lauda Air.
Rientrò in Formula 1 nel 1982, guidando per quattro anni una McLaren e conquistando un ulteriore titolo iridato, nel 1984. Per il suo stile gelido e meticoloso era soprannominato il computer (in tempi in cui i computer non erano ancora un oggetto di largo consumo) e, pur concedendo molto poco allo spettacolo, è ancora oggi considerato uno dei piloti più efficaci della storia, sia per la capacità di dare consigli ai tecnici su come migliorare le prestazioni della vettura, sia per la sicurezza con cui chiudeva le gare a proprio vantaggio.

Gilles Villeneuve

Avremmo potuto creare questa classifica solo sulla base delle vittorie conseguite in carriera, ma, ci sembrava, non avremmo reso giustizia ai piloti; perché vincere un Gran Premio o un campionato del mondo non è solo questione di talento, ma anche di vettura, ed è innegabile che ci siano state stagioni in cui vincere con la Ferrari era più facile ed altre in cui anche solo piazzarsi sul podio era praticamente un’impresa. Per questo, abbiamo cercato di individuare cinque piloti andando almeno in parte al di là delle vittorie, ma scegliendo quelli che ci sembravano più talentuosi e amati.
E uno di questi, e forse il più sfortunato di tutti, è stato indubbiamente Gilles Villeneuve, il pilota canadese classe 1950 dotato di uno stile di guida molto spettacolare che trovò la morte proprio alla guida di una Ferrari nel maggio del 1982, durante le qualifiche del Gran Premio del Belgio.
Alla Formula 1 era arrivato piuttosto tardi, dopo esperienze anche diversissime (per un certo periodo aveva corso anche con le motoslitte) e tra l’altro grazie alla raccomandazione del James Hunt di cui abbiamo già parlato; esordì come terza guida della McLaren nel 1977 per una sola gara e venne poi ingaggiato dalla Ferrari per disputare quelle ultime due gare che Lauda non voleva più correre.
Nonostante la stampa fosse molto dubbiosa a causa dei numerosi incidenti in cui il canadese rimaneva coinvolto, venne confermato da Enzo Ferrari e, dopo una prima stagione di assestamento, nel ’79 si rese protagonista di alcune gare memorabili, anche se più per i sorpassi arditi che non per i punti conquistati, arrivando comunque a fine stagione secondo dietro al compagno di squadra Scheckter.
Il 1980 e il 1981 furono annate sfortunate soprattutto per l’incapacità della Ferrari di fornirgli una monoposto competitiva, anche se leggendarie furono le prestazioni di Villeneuve a Montecarlo e in Canada, quando chiuse la gara al terzo posto nonostante il piegamento e infine il distaccamento di un alettone.
Nel 1982, dopo due ritiri e una squalifica, Villeneuve arrivò secondo a San Marino (dietro al compagno di squadra Didier Pironi, in una gara colma di polemiche visto che i due piloti Ferrari avevano avuto l’ordine di rallentare e non disturbarsi, mentre Pironi superò Villeneuve all’ultimo giro) e si presentò in Belgio, per il GP successivo, colmo di rabbia verso il compagno di scuderia e lo stesso team Ferrari.
Un’incomprensione col tedesco Jochen Mass durante le prove – con Villeneuve che tentava di sorpassarlo a destra e il tedesco che contemporaneamente si spostava proprio a destra per lasciargli spazio a sinistra – però provocò uno spaventoso incidente, dal quale il pilota canadese uscì profondamente ferito e in fin di vita. Sarebbe morto poche ore dopo, quando la moglie, viste le condizioni ormai disperate, decise di far staccare le macchine che lo tenevano in vita artificialmente.

Leggi anche:

Michael Schumacher

Dei quattro piloti che abbiamo presentato finora, tre hanno trovato la morte alla guida di un volante in età ancora molto giovane, mentre uno – Lauda – ha rischiato fortemente di aggiungersi alla lista. Purtroppo, in passato correre per le prime posizioni significava anche rischiare costantemente la vita, e bisogna essere altamente soddisfatti per i progressi che hanno fatto la Formula 1 e più in generale la FIA per migliorare la sicurezza dei piloti (e degli spettatori, visto che negli anni ’50 di Ascari non era raro che fossero anche loro a morire in pista).
Purtroppo però a volte non è solo la velocità in automobile a colpire duramente i piloti, ma anche una sorta di bizzarra maledizione, com’è accaduto a Michael Schumacher, che dopo una carriera ricca di successi in Formula 1 è stato vittima di un incidente sugli sci lo scorso dicembre che l’ha indotto in coma per vari mesi; nonostante le sue condizioni di salute non siano chiare, le notizie ci riferiscono che da pochi giorni abbia quantomeno iniziato un percorso di riabilitazione che speriamo sia pienamente fruttuoso.
Per quanto riguarda la carriera automobilistica di Schumacher ci sarebbe tantissimo da dire, ma ci limiteremo, per ragioni di spazio, a qualche dato: attualmente il pilota tedesco è infatti il più vincente della storia della Formula 1, detenendo il record di sette titoli mondiali (due con la Benetton e cinque, consecutivi, con la Ferrari), di maggior numero di vittorie nei Gran Premi, di Gran Premi corsi e di Gran Premi vinti con la stessa scuderia (e cioè con la Ferrari).
Al team del cavallino rampante arrivò nel 1996 dopo i due titoli vinti con la Benetton, ma il primo anno non riuscì ad andare oltre il terzo posto in graduatoria dietro a Damon Hill e Jacques Villeneuve della Williams, mentre in quello successivo una lunga battaglia punto a punto con Villeneuve vide il tedesco presentarsi da primo in classifica all’ultimo GP, quello di Jerez de la Frontera, dove però una sua manovra azzardata per bloccare il sorpasso dell’avversario gli costò la gara, il titolo e la successiva squalifica da parte della FIA.
Nel 1998 poi il testa a testa fu invece con Häkkinen della McLaren, che comunque nell’ultima gara del campionato ebbe vita facile a causa di vari problemi, meccanici e non, occorsi a Schumacher. Nel 1999 infine fu di nuovo la sfortuna ad impedire al tedesco di lottare per il titolo, visto che si ruppe una gamba nel GP di Gran Bretagna, saltando così sei gare e dicendo addio ad ogni velleità di titolo.
Tutto cambiò, però, come detto a partire dal 2000, quando Schumacher, ormai alla guida di una monoposto finalmente molto competitiva, iniziò ad inanellare una serie impressionante di vittorie, superando spesso i 100 punti in classifica e conquistando decine di Gran Premi; ma il resto, come si suol dire, è storia nota, nel bene e purtroppo anche nel male

Leggi anche:

Lo staff di Medicina OnLine

Se ti è piaciuto questo articolo e vuoi essere aggiornato sui nostri nuovi post, metti like alla nostra pagina Facebook o seguici su Twitter, su Instagram o su Pinterest, grazie!

Michael Schumacher: non avremo mai più buone notizie

Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Specialista in Medicina Estetica Michael Schumacher NON MAI  BUONE NOTIZIERoma Cavitazione Pressoterapia Grasso Linfodrenante Dietologo Cellulite Calorie Pancia Sessuologia HD Sesso Pene Laser Filler Rughe

Noi medici diamo spesso brutte notizie ai nostri pazienti, tuttavia capita anche a volte – ahimè troppo raramente – di dare qualche buona nuova. Purtroppo non è questo il caso. “Temo, e ne sono quasi certo, che non avremo mai più buone notizie sullo stato di salute di Michael Schumacher”. A lanciare l’allarme è Gary Hartstein, anestesista statunitense ed ex delegato medico per la F1, parlando delle condizioni del tedesco, ancora ricoverato all’ospedale di Grenoble. “Non ho alcuna informazione diretta – precisa – ma ritengo che, se ci fossero buone notizie, saremmo stati informati. Non avrebbe senso di non dare ai fan buone notizie, se ci fossero”.

Leggi anche:

Lo staff di Medicina OnLine

Se ti è piaciuto questo articolo e vuoi essere aggiornato sui nostri nuovi post, metti like alla nostra pagina Facebook o seguici su Twitter, su Instagram o su Pinterest, grazie!