L’inquilino del terzo piano (1976): trama e spiegazione del film

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Chi si nasconde davvero sotto queste bende?

Un film di Roman Polanski, con Roman Polanski, Isabelle Adjani, Melvyn Douglas, Bernard Fresson, Jo Van Fleet. Titolo originale “Le locataire”, in USA conosciuto come “The Tenant”. Drammatico, thriller psicologico, durata 125 min. – Francia 1976.

Trama senza spoiler

Trelkovski, modesto ed anonimo impiegato di origini polacche, prende possesso a Parigi di un appartamento la cui inquilina precedente, Simon Chule, si è uccisa buttandosi dalla finestra. Circondato da inquietanti e grotteschi vicini, Trelkovski scopre nell’appartamento orribili tracce dell’ex-inquilina, che lo porteranno a conseguenze drammatiche e totalmente impreviste. L’inquilino del terzo piano, insieme a “Repulsion” ed a “Rosemary’s baby”, completa la trilogia dedicata da Polanski al lato oscuro, ai meandri orrorifici della mente umana, sebbene gran parte della sua produzione possa a mio avviso ricondursi ad inquietudini sottili e morbose che l’essere umano sperimenta nella propria esperienza, basti pensare al meraviglioso “Una pura formalità“.

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Spiegazioni (SPOLER)

Non esiste una spiegazione univoca e razionale a questo film veramente eccezionale di Polanski. Partiamo dal fatto che l’Inquilino del terzo piano inizia e termina con la stessa scena, un paio di occhi (vedi foto in alto) che spuntano da un corpo quasi interamente bendato e ingessato. Non sembra un grido “casuale”, bensì è il tipico urlo di chi riconosce il proprio carnefice ma non può indicarlo, oppure l’urlo terrorizzato che personalmente farei io se fossi bloccato a letto e vedessi me stesso dall’esterno del mio corpo. Quali le possibili spiegazioni a quell’urlo ed al film in generale?

1) Malattia mentale

Una delle possibili soluzioni, tra le più semplici, è che Trelkovski sia malato di una malattia mentale, ad esempio schizofrenia, che lo porta a travestirsi da donna e ad immaginare di essere Simone. La sua paranoia potrebbe essere scaturita dal suo carattere remissivo ed eccessivamente accomodante che lo espone all’aggressività degli altri: travestirsi da donna dal carattere forte potrebbe essere un sistema per sfuggire alla gabbia del suo carattere debole. La stessa malattia lo esporrebbe alle numerose scene irreali del film, che sarebbero allucinazioni, a tal proposito, leggi anche: Schizofrenia: sintomi iniziali, violenza, test, cause e terapie

2) Personalità multipla

Trelkovski è affetto da personalità multipla: dalla finestra vede sé stesso nel suo appartamento e ciò farebbe pensare ad uno sdoppiamento di personalità. Trelkovski riflette “il suo io” dall’altra parte. Ma il suo io è sé stesso o è Simone? Trelkovski vede dal suo appartamento Simone Choule che si toglie le bende perché ha una allucinazione o perché vede una delle sue personalità, quella di Simone? Ed è Simone una delle personalità di Trelkovki o è Trelkovski una delle personalità di Simone?

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3) Reincarnazione

Le innumerevoli simbologie egizie presenti nel film farebbero supporre la tematica della reincarnazione: Trelkowski e Simone sarebbero in realtà la stessa persona, l’una incarnata nell’altra, il che spiegherebbe la scena in cui Trelkowski, dalla finestra del proprio appartamento, vede una figura avvolta nelle bende (Simone e/o sé stesso nel futuro) nel bagno dello stabile; il bagno, coperto di geroglifici, rappresenterebbe una camera mortuaria egizia e Simone, in questa stanza, si toglie le bende come se fosse una mummia che si è risvegliata dalla morte.

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4) Un loop temporale

Il film inizia e termina con la stessa scena. Non una scena simile: è proprio la stessa, o almeno così ci vuole suggerire Polanski: alla fine del film siamo portati a pensare che sotto le bende di Simone, viste all’inizio del film, ci sia Trelkovski e non Simone. Questo sta forse a significare che Simone Choule è Trelkovski e che l’intera storia sia una specie di serpente che si morde la coda, come in un loop temporale senza uscita? In tal senso il film potrebbe essere inquadrato nell’ottica del loop circolare, a tal proposito, leggi: Bootstrap paradox e paradosso della predestinazione: spiegazione ed esempi nei film

5) Tutto il film è nella mente di Simone

Trelkowski sarebbe un personaggio fittizio creato dalla mente della stessa Simone quando si ritrova bloccata a letto, o una fantasia basata su un uomo che va a visitarla in ospedale. Di conseguenza, l’intera linea narrativa del film sarebbe fittizia, esclusa la breve scena introduttiva.

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6) Omosessualità latente

Simone crea Trekovski con l’immaginazione. La ragazza amava le donne e non gli uomini: lo dice Stella all’inizio del film. Per conquistare la sua amica, Simone avrebbe proiettato la sua personalità in un uomo, sentendo di possedere una identità sessuale maschile. Essendo stata respinta da Stella, si getta nel vuoto. Questo avvalora l’idea che solo Simone sia reale, mentre Trekovski – ed il suo rapporto d’amore con Stella – sarebbe solo immaginato.
Oppure il contrario: Trelkowski potrebbe essere reale e Simone la parte femminile che è sopita in lui e che lotta per manifestarsi. Il disagio mentale di Trelkowski potrebbe essere quindi il risultato della resistenza del sé uomo che cerca di evitare che la propria identità di donna esca allo scoperto oppure della insopportabile disforia di genere derivata dall’essere trans, cioè dal possedere una identità di genere (femminile) diversa dal sesso assegnato alla nascita (maschile). Ricordiamo che nella società dell’epoca, l’orientamento sessuale omosessuale ed una identità di genere diversa dal sesso descritto sui documenti, erano fonte di notevolissimo disagio e, vista la rigidità culturale, questo portava a meccanismi di difesa molto elevati che sfociavano in puro delirio. Per approfondire questi argomenti, leggi:

7) Non c’è alcuna spiegazione precisa

Questa potrebbe essere la migliore spiegazione possibile, non trovate? La vita stessa ci espone a domande a cui probabilmente non avremo mai replica del tutto certa ed i film, in quanto descrizione della nostra vita, perché dovrebbero mai darci tutte le risposte, togliendoci il gusto – tipicamente umano – di ricercarle con una curiosità mai sopita?

Il bello dell’arte

Le risposte che ha trovato il sottoscritto finiscono qui, almeno per ora. Nonostante le mie spiegazioni avete ancora la faccia di chi ha visto per la decima volta “2001 Odissea nello spazio” e non ha ancora capito cosa significano i 5 minuti finali o di chi continua a rivedere “Donnie Darko” nel tentativo di trovare una spiegazione assolutamente certa al film? Non vi preoccupate, siete in buona compagnia. Ho la vaga sensazione che neanche Roman Polanski potrebbe dare una risposta certa agli interrogativi della propria stessa opera e, almeno per quel che mi riguarda, questo è uno dei lati che amo di più in questo film e nell’arte in generale: la possibilità di interpretare, di ragionarci su, di confrontare le proprie idee con altri appassionati.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Quinto potere (1976): trama e recensione del film di Sidney Lumet

MEDICINA ONLINE network film di Sidney Lumet. Con Peter Finch, William Holden, Faye Dunaway, Robert Duvall, Ned Beatty. Titolo originale Network. Drammatico, durata 121 min. - USA 1976Un film di Sidney Lumet. Con Peter Finch, William Holden, Faye Dunaway, Robert Duvall, Ned Beatty. Titolo originale Network. Drammatico, durata 121 min. – USA 1976

A guardare oggi il nostro mondo, tra Brexit, paura del futuro, borse a picco, banche sull’orlo della detronizzazione, popolo senza neanche più la capacità di incazzarsi, delusione, abbindolamento delle tv, “Network” di Sidney Lumet è un film di grottesca realtà che fa più male di molti drammoni che arrivano al cinema negli ultimi tempi.

Nella personale follia di Howard Beale (un monumentale Peter Finch) c’è l’attaccamento da “alienato” al lavoro. Non c’è vita oltre quello, oltre lo schermo, oltre le cazzate da sparare in tv. Nella grigia monotonia di Max (William Holden) c’è la fragilità del matrimonio e la consapevolezza di vivere nella realtà che ci circonda, quella dove Diana (una splendida Faye Dunaway) non riesce ad esistere se non dietro le percentuali di pubblico, ascolto e quattrini, unico vero obiettivo di Frank (Robert Duvall) simbolo della “scalata al potere”, dell’egoismo individualistico della società del business.

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Lumet prende il microcosmo della televisione e lo trasforma nel macromondo degli States degli anni ’70 che uscivano dalla controcultura, dal Watergate, dal disastro del Vietnam, dalla crisi petrolifera del 1973. La televisione è illusione, non informa e non ha voglia di farlo e quando può spettacolarizza ogni evento, perchè prima di tutto “la tv è spettacolo”. Quest’America senza Dio, in preda al panico e alla povertà, non ha più la forza di incazzarsi e Howard è l’emblema di un paese ormai folle, confuso, privo di qualsiasi identità. Dietro, a manovrare i fili del gioco, a sfruttare uno squilibrato (Howard) per il solo riscontro di pubblico, ci sono i dirigenti della UBS, viscidi esseri che guardano alle statistiche e alle percentuali come l’ultima goccia d’acqua nel deserto, che vivono in una realtà fittizia come mero prolungamento dell’altrettanta fittizia realtà televisiva.

In “Network” (titolo originale) il senso del grottesco diventa malsano realismo e ogni parola che viene pronunciata sembra quasi una profezia sul futuro del nostro mondo: dai monologhi di Howard nel suo “Mao Tse Tung show” al deflagrante discorso di Arthur (Ned Beatty) sull’inesistenza dell’America e della democrazia, perchè il mondo è business, affari e sottomissione al grande sistema dei dollari. Una propaganda del “pensiero unico” che abbiamo ben visto affermarsi nei decenni successivi. “Lei si mette sul suo piccolo schermo da 21 pollici e sbraita parlando d’America e di democrazia…Non esiste l’America, non esiste la democrazia! Esistono solo IBM, ITT, AT&T, Dupont, DOW, Union Carbide ed Exxon. Sono queste le nazioni del mondo, oggi.”

Oggi siamo nell’era di internet e per fortuna la tv inizia a perdere parte della sua forza propagandistica, non prima di aver svolto per decenni il lavaggio del cervello a parte della popolazione, convincendo gli ignari fruitori che il giusto sia sbagliato e viceversa. Manipolazione e trionfo del sistema corporativistico basato sul fine ultimo degli affari, del denaro che tutto può e tutto domina.

“Quinto potere” è uno dei diversi capolavori di Lumet, regista gigantesco che ha attraversato oltre 50 anni di cinema americano, denunciando le storture di un paese meno scintillante di quanto fosse raccontato dalla grande vulgata nazionale e internazionale. Il film è forse eccessivamente verboso in alcune sue divagazioni, ma a 40 anni dalla sua uscita emana ancora una forza profetica che lo rende di un’attualità lacerante.

“Abbiamo una crisi. Molti non hanno un lavoro, e chi ce l’ha vive con la paura di perderlo. Il potere d’acquisto del dollaro è zero. Le banche stanno fallendo, i negozianti hanno il fucile nascosto sotto il banco, i teppisti scorrazzano per le strade e non c’è nessuno che sappia cosa fare e non se ne vede la fine. Sappiamo che l’aria ormai è irrespirabile e che il nostro cibo è immangiabile. Stiamo seduti a guardare la TV mentre il nostro telecronista locale ci dice che oggi ci sono stati 15 omicidi e 63 reati di violenza come se tutto questo fosse normale, sappiamo che le cose vanno male, più che male. È la follia, è come se tutto dovunque fosse impazzito così che noi non usciamo più. Ce ne stiamo in casa e lentamente il mondo in cui viviamo diventa più piccolo e diciamo soltanto: “Almeno lasciateci tranquilli nei nostri salotti, per piacere! Lasciatemi il mio tostapane, la mia TV, la mia vecchia bicicletta e io non dirò niente ma…ma lasciatemi tranquillo!”

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Donnie Darko (2001): trama, recensione e spiegazione del film

MEDICINA ONLINE Donnie Darko film Richard Kelly Jake Gyllenhaal, Noah Wyle Drew Barrymore Patrick Swayze Holmes Osborne Drammatico, durata 108 min. - USA 2001 WALLPAPER HI RES PICTURE MOVIE PHOTODonnie Darko un film di Richard Kelly. Con Jake Gyllenhaal, Noah Wyle, Drew Barrymore, Patrick Swayze, Holmes Osborne. Drammatico, durata 108 min. – USA 2001

Trama senza spoiler

È il 2 ottobre 1988 e il motore di un aereo precipita sulla camera di Donnie, da allora la vita del ragazzo non sarà più la stessa: inizia a vedere Frank, il coniglio che lo ha salvato da morte certa, ma che gli ha anche vaticinato la fine del mondo. 28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi, questo è il tempo che rimane per cercare di bloccare la profezia.

Recenzione

Questo film può non piacere a tutti, ma – se sei una di quelle persone a cui piace – probabilmente non ti piace soltanto: lo ami. Lo ami e lo avrai visto tante e tante volte ed in ogni volta forse ti sembra di aver colto qualcosa e di aver capito qualcosa che non eri mai riuscito a capire prima. Alla mia forse quindicesima visione del film pensai questa cosa:

Se Dio esiste, è nascosto da qualche parte in questo film.

Si, a chiunque questa può sembrare semplicemente una affermazione un po’ bizzarra, ma per me è valida ancora oggi, a distanza di anni. Donnie Darko è un mistero che nessuno può cogliere a pieno. Ha una storia davvero travagliata. Uscì nelle sale dopo gli attentati alle Twin Towers dell’11 settembre e sparì ben presto dalla circolazione, anche a causa della scena in cui è coinvolto un aereo che perde un reattore. Ma il passaparola ha fatto resuscitare questo film, che ormai conta stuoli di aficionados… Lo stato di cult di cui gode Donnie Darko è dovuto al fatto che molti giovani si sono riconosciuti nel personaggio principale. E’ il medesimo flash autoterapeutico che ha reso immortali James Dean, Il giovane Holden e Arancia Meccanica. Per un adolescente, certo, non è difficile sentirsi vicino a Donnie: in fondo il ragazzo è sì “matto”, ma appare come un matto abbastanza innocuo – oltre che quasi casto. La sua ribellione, a fronte di genitori che riescono ad esserci simpatici nonostante un modo di vivere ordinario e borghese e che dimostrano di amare i loro figli, nasce dallo scombussolamento interiore e non da una riflessione metafisica e/o sul sociale.
Alcuni critici stranamente ritengono Donnie Darko un film che mostra la protesta giovanile contro il sistema scolastico e, più in generale, contro gli adulti, ma in realtà tale presunta rivolta si limita ai soliti gesti di bullismo in classe e nel cortile scolastico, oltre che alle atroci – e sterili – mascherate di Halloween. Insomma, il telaio portante è apparentemente quello di un film sui teenagers. Viene tracciata anche una originale storia d’amore e il rischio latente era quello di creare un’ennesima fiaba moderna, imperdonabilmente stupida per via di un romanticismo sciatto e rimasticato da ragazzini stelle-e-strisce; per fortuna però Richard Kelly ha voluto rendere omaggio a Philip K. Dick e il film, dopo essere scivolato sul paludoso sentiero dell’horror (tramite le allucinazioni del protagonista borderline), si risolve in un bel rebus fantascientifico. E’ proprio la struttura narrativa ad affascinarci maggiormente. Anche se è individuabile una storyline o trama che dir si voglia, Kelly mima le acrobazie fabulanti di un Kurt Vonnegut e la vicenda finisce per rivelarsi un serpente che si mangia la coda o, per usare un termine matematico, un nastro di Möbius. Non può essere altrimenti, d’altronde, quando viene affrontato il tema dei viaggi temporali, i quali, come si sa, comportano uno o più paradossi, costringendo perciò gli scrittori a inventarsi una logica alternativa.

A questo proposito, abbiamo il sospetto che l’autore (e regista) di Donnie Darko abbia attinto da un altro maestro della fantascienza, ovvero da Murray Leinster (vedi soprattutto la “trovata” dell’Universo Tangente), che di viaggi e paradossi temporali fu uno dei primi specialisti, tanto da fondare su di essi la propria carriera scribatoria.

La recitazione di Jake Gyllenhaal è indimenticabile. Come già successe per Anthony Perkins in Psycho, Jake “è” Donnie Darko. Impossibile ormai per chiunque immaginarsi qualcun altro nello stesso ruolo. La sua addirittura non è nemmeno più un’interpretazione nel senso di “abile prestazione istrionica”, bensì una vera e propria incarnazione.

A Donnie/Jake appare un inquietante coniglio che è il capovolgimento orrifico di Harvey, la creatura che accompagna il docile matto James Stew. Ricordate? Il titolo di quella pellicola in bianco-e-nero è proprio Harvey. Là il protagonista, Elwood, alias James Stewart, è quasi uno stinco di santo e, sebbene gli manchi qualche rotella, non è privo di una certa saggezza filosofica. Ecco uno dei suoi monologhi:

Harvey e io sediamo nei bar… prendiamo un bicchierino o due, facciamo suonare il juke box. E subito tutte le facce si girano verso di me, e sorridono, e dicono ‘non sappiamo come ti chiami amico, ma sembri un tipo simpatico’. Harvey e io ci accendiamo in quei momenti d’oro. Siamo entrati come estranei… e subito abbiamo degli amici! E loro si avvicinano, e siedono con noi, e parlano con noi. Parlano delle grandi cose terribili che hanno commesso, e delle grandi cose meravigliose che faranno. Delle loro speranze, dei loro rimpianti, dei loro amori, dei loro rancori. E tutto in larga scala, perché nessuno porta mai nulla di piccolo dentro un bar. E poi io presento loro Harvey… e lui è più grande e più straordinario di qualsiasi cosa loro possano mai mostrare a me. E quando se ne vanno, se ne vanno impressionati. Le stesse persone raramente ritornano; ma questa è invidia, caro mio. C’è una piccola dose d’invidia in ciascuno di noi.

Invece Frank, la creatura dalle fattezze di coniglio in Donnie Darko, è cattivo. E’  l’antagonista dell’eroe/antieroe del film, non il suo compagno buono e comprensibile. Per Donnie, alle prese con la pazzia intus et foris, non c’è spazio per i discorsi o i gesti buonisti. Il motore di jet è precipitato sul suo letto quando lui era assente e dunque si è potuto salvare. Almeno questo è quello che vede o crede di vedere lo spettatore.

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Trama di Donnie Darko (SPOILER)

Il personaggio che dà il titolo al film, un adolescente americano con problemi psichiatrici, durante un attacco di sonnambulismo che lo porta fuori di casa si imbatte in Frank, un coniglio gigante che gli predice la fine del mondo. E’ la notte del 2 ottobre 1988. In tivù viene trasmesso il duello elettorale dei due candidati alla Casa Bianca: il repubblicano George Bush senior e il democratico Michael Dukakis. Quella stessa notte avviene uno stranissimo incidente: il motore di un aereo precipita dai cieli sulla villetta dei Darko, distruggendo la camera di Donnie, che naturalmente non era a letto. Da questi due singolari episodi (il motore che precipita e l’incontro col coniglio) prende le mosse una vicenda che non fa che complicarsi passo dopo passo; tra le altre cose Donnie s’innamora, scopre che l’anziana vicina un po’ fuori di testa ha scritto un libro sui viaggi nel tempo, allaga e vandalizza la scuola e brucia la casa di un apprezzato guru locale. Intanto, la sua schizofrenia dilaga: i suoi occhi riescono a vedere fasci trasparenti simili a lunghi lombrichi che escono dal plesso solare delle persone (i famosi wormholes), proprio come aveva predetto Mother Death (il cui nome è stato tradotto in italiano con “Nonna Morte“), un’eccentrica scrittrice ora vecchissima e semidemente, autrice del testo The Philosophy of Time Travel. La vecchia conosce bene tali prodigi. Anzi, a quanto pare, solo la pazzia consente di poter viaggiare nel tempo. La psichiatra del ragazzo è sempre più preoccupata,ma non riesce ad avvertire i genitori che lasciano Donnie in casa con la sorella la notte di Halloween. I due organizzano una festa che culmina con la morte di Gretchen, la ragazza di Donnie, investita da tale Frank, un ragazzo in costume da coniglio, che Donnie uccide con un colpo di pistola. Mentre albeggia, Donnie porta il cadavere di Gretchen sulla collina e osserva il cielo, in cui un vortice si va formando e in cui vola l’aereo che riporta la madre e la sorellina a casa. Improvvisamente, dal velivolo si stacca un motore, che precipita sulla cittadina di Middlesex e sulla casa dei Darko… uccidendo Donnie nel suo letto, ventotto giorni prima. Ma ritorniamo a questa inquietante frase:

Il mondo finirà tra 28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi

Questo l’inquietante avvertimento del coniglio. Quando Donnie si risveglia dopo aver ricevuto la previsione, scopre che la sua camera è stata devastata da un motore di aereo caduto letteralmente dal cielo. Si, ma da dove (o da quando?) arriva questo motore?

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Universo Primario e Tangente

“Alcuni nascono con la tragedia nel sangue” dice a un certo punto Gretchen, la ragazza di Donnie… Donnie Darko fa a lungo la spaccata tra horror e science fiction. Come detto, non si può non pensare a Philip K. Dick, il romanziere americano che così bene ha saputo descrivere la schizofrenia. Similmente a Dick, Richard Kelly rende “reali” le allucinazioni per poi coniugarle alla teoria della relatività (che, fino a prova contraria, è scaturita dalla mente di uno scienziato, non da quella di un appassionato di fenomeni paranormali). L’autore del film ci suggerisce che esista un Universo Primario e uno Tangente. Quando da quest’ultimo fuoriesce un artefatto (in questo caso, la turbina di un grosso velivolo), è come se si scoperchiasse il vaso di Pandora: la linea di confine spaziotemporale si spezza, le dimensioni a noi note non combaciano più… in pratica, la follia si fa normalità.
Il protagonista compie degli atti vandalici ma è, in fondo, una vittima innocente: non si può imputare a lui, difatti, la circostanza dello squilibrio chimico che avviene nel suo cervello. E, forse, il tunnel dentro cui lo ha spinto la malattia, dove il tempo si ripete uguale all’infinito e ogni cosa è già predestinata e ritorna, è l’unico luogo in cui si può arrivare veramente a comprendere la quintessenza delle cose del mondo.

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Accenni e allusioni “colte”

Oltre al richiamo al coniglio Harvey (che è una reprise di quello di Alice in Wonderland), il film è pieno di citazioni, associazioni di idee e microeventi che legano l’ieri all’oggi, un’opera letteraria e/o cinematografica all’altra. Così, uno dei personaggi è rappresentato da una vecchia pazza che risponde al nome di Roberta Sparrow. Ne abbiamo già accennato nella “Sinossi”: la Sparrow, detta “Mother Death”, è la fittizia autrice di un libro sui viaggi nel tempo.
Nel corso della campagna di pubblicità per il rilancio di Donnie Darko, deciso a distanza di un paio di anni dall’esordio fallimentare, qualcuno della produzione ha addirittura scritto il libro della Sparrow. Un altro libro, stavolta reale, di cui si parla nel film e che qualcuno vocifera sia stato tra le massime fonti d’ispirazioni di Anthony Burgess per il suo Arancia a orologeria (Arancia meccanica), è The Destructors, di Graham Green. La storia di The Destructors si svolge a Londra durante la Seconda Guerra Mondiale e tratta dell’impatto socio-psicologico che il conflitto armato ha su un gruppo di adolescenti, che scaricano le loro frustrazioni trasformandosi in vandali…

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Il sequel: S. Darko

Nel 2009, quindi 8 anni dopo il primo film, esce la “continuazione” di Donnie Darko. Il titolo è S. Darko. Nathan Atkins ne è l’autore. Ed è bravo nel suo mestiere, bisogna dirlo. Il primo film mai realizzato nato dalla sua penna è stato uno short dal titolo Cultivation (del 2003) che, guarda caso, parla di un mondo magico parallelo. Dunque, è lo sceneggiatore più qualificato per un sequel di Donnie Darko.
In S. Darko, sono trascorsi sette anni dalla morte di Donnie (7: cifra carica di significati…). Samantha, la sorellina del defunto (al suo nome si riferisce la S. del titolo), è intanto cresciuta. Ha 17 anni e, insieme al suo amico Corey, si mette in viaggio per una vacanza da trascorrere a Los Angeles. Durante il tragitto, entrambi vengono tormentati da strane visioni… Tornano qui gli wormholes o buchi di tempo.
S. Darko è stato scritto seguendo le direttive di Richard Kelly, ma questi si è dissociato dal film e la regia è stata affidata a Chris Fisher.
Impossibile dire se l’operazione-sequel sia riuscita. Diciamo semplicemente che si tratta di un  film diverso anche se bisogna ricordare al lettore che sia la critica sia il pubblico lo abbiano giudicato decisamente un brutto film. A me decisamente non ha fatto impazzire, anche perché scatta in automatico un (impietoso) paragone col primo film, paragone che – neanche a dirlo – vede il seguito pesantemente distrutto.

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Spiegazione del film… forse

Come già per Mulholland Drive, e forse anche di più in questo caso, non esiste (è questo è il bello) un’interpretazione giusta o univoca, e lo scopo del film, e del regista, è proprio quello di lasciare all’immaginazione dello spettatore la possibilità di esplorare infinite strade e teorie; ma è anche vero che lo stesso Kelly più volte negli ultimi anni, sul sito web statunitense (altro puzzle misterioso e affascinante) come nel commento audio al dvd, fino ad arrivare al recentissimo Donnie Darko – The Director’s Cut, ha tentato di offrire al vasto pubblico di cultori del film una chiave di lettura tanto precisa quanto complessa.

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Sogno… o sono in un loop?

La forza del film non è in questa charada ma altrove; si può tentare, ad ogni modo, di dare un’interpretazione di questi fatti in modo da fare tornare i conti. In realtà le intepretazioni possono essere svariate, come del resto auspicato dallo stesso regista: una molto semplice vorrebbe Donnie in preda alle risa alla fine del film come al risveglio da un lungo ed intricato sogno… che però era il presagio della sua bizzarra morte. Un’altra, molto affascinante, vuole Donnie (e tutto il mondo) prigioniero di un loop temporale della durata di ventotto giorni, al termine dei quale si torna all’inizio: in questo senso il mondo sarebbe finito, perché intrappolato per sempre tra il 2 e il 31 ottobre. Donnie ne può uscire solo sacrificandosi: per “costringersi” a farlo creerà le visioni con Frank – la sua vittima e il suo Virgilio. Frank lo indurrà ad allagare la scuola perché questo renderà possibile l’incontro con Gretchen, nonché a bruciare la villa del guru Jim Cunningham: l’incendio fa sì infatti che si scopra che l’uomo è un pedofilo, e quindi la professoressa di educazione fisica della scuola, sua amica e ammiratrice, rinunci ad accompagnare il gruppo di danza della sorellina di Donnie per stargli vicino, così che la signora Darko sia costretta a sostituirla e a lasciare Donnie ed Elizabeth soli in casa e liberi di organizzare la festa di Halloween – con tutto ciò che ne consegue.

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Roberta Sparrow e la filosofia di Richard Kelly

Benché questa sembri una chiave di lettura pienamente convincente, ha ben poco a che vedere con quella proposta dall’autore, che ruota tutta intorno il libro scritto da Roberta Sparrow “La filosofia dei viaggi nel tempo“, che nella versione Director’s Cut è recitato quasi parola per parola e sparso in varie parti del film. Questo scritto, non c’è nemmeno bisogno di specificarlo, è assolutamente fittizio (anche se liberamente ispirato a teorie esistenti del famoso scienziato Stephen Hawking) e descrive come il tempo occasionalmente possa “corrompersi” per ragioni sconosciute e dare origine a realtà parallele, chiamate Universi Tangenti. Queste realtà altre sono delle dimensioni temporanee profondamente instabili, della durata di non più di qualche settimana e destinate quindi a collassare su sé stesse provocando la distruzione dell’esistenza. Allo stesso tempo, però, formano anche una sorta di vortice spazio-temporale che permette il viaggio nel tempo e che può ricondurre al punto di origine dell’Universo Tangente. Ne La filosofia dei viaggi nel tempo viene descritto tutto questo e altro: vi sono dettagli specifici su tutti gli elementi che concorrono alla “nascita” e alla “morte” di questo strano fenomeno, come per esempio l’Artefatto (The Artifact), il Ricettore Vivente (The Living Receiver), i Viventi Manipolati (The Manipulated Living) e i Morti Manipolati(The Manipulated Dead).
L’Artefatto è il segno della “nascita” di un Universo Tangente, è solitamente in metallo e la sua improvvisa apparizione non è spiegabile dal punto di vista razionale.
Il Ricettore Vivente è un normale essere umano scelto, non si sa per quale motivo, per riportare l’Artefatto nell’Universo Principale attraverso il vortice spazio-temporale che compare quando l’Universo Tangente sta per collassare. Per fare ciò il Ricettore Vivente ha il dono della telecinesi e vari altri poteri, ma è spesso tormentato da incubi e visioni per tutta la durata della vita dell’Universo Tangente. Naturalmente è Donnie il nostro Ricettore Vivente. Il tempo è stato corrotto dalla materializzazione inspiegabile del motore del jet (l’Artefatto) che cade su casa Darko, ed il nostro giovane eroe deve porvi rimedio prima che ciò causi la distruzione dell’universo. Il Morto Manipolato è ovviamente Frank: come spiega La filosofia dei viaggi nel tempo, chiunque muoia nell’Universo Tangente può tornare, con poteri anche superiori a quelli del Ricettore, ad aiutarlo nella sua impresa; ed è per farne la sua guida, infatti, che Donnie uccide Frank. Ogni accadimento, ogni gesto delle persone che gli sono accanto (i Viventi Manipolati) deve portare Donnie a completare la sua missione creando un motivo valido per l’apparizione del motore e permettendo così la chiusura indolore dell’Universo Tangente. Per ottenere questo risultato Donnie utilizza i poteri di cui è in possesso in quanto Ricettore e approfitta del varco che si crea mentre l’Universo Tangente agonizza per mandare il motore che si stacca dall’aeroplano su cui volano Rose e Samantha Darko indietro nel tempo fino alla notte di ventotto giorni prima, per cadere sulla villetta, uccidere Donnie e cancellare l’Universo Tangente.

Un sacrificio voluto

Ma davvero tutto è stato cancellato? Quello di Donnie è un sacrificio volontario? Kelly sembra suggerire che la risposta sia negativa alla prima di queste domande e positiva alla seconda: i volti dei vari personaggi che vediamo nella sequenza finale sembrano suggerire che essi in qualche modo ricordino quanto accaduto nell’Universo Tangente, e quindi probabilmente anche Donnie avesse percepito l’avvicinarsi del pericolo, scegliendo volontariamente di non evitare il proprio tragico destino. Per andare incontro a quel mistero che nessuna “guida alla comprensione” potrà mai provarsi ad interpretare.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
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Non sai cos’è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami una cosa più di quanto ami te stesso

MEDICINA ONLINE Will Hunting - Genio ribelle Good Will Hunting 1997 Gus Van Sant  Matt Damon Robin Williams Ben Affleck Boston WALLPAPER SFONDOSean: Pensavo a quello che mi hai detto l’altro giorno, riguardo al mio dipinto.

Will: Ah.

Sean: Sono stato sveglio tutta la notte a pensarci. Poi ho capito e sono caduto in un sonno profondo, tranquillo. E da allora non ho più pensato a te. Sai cos’ho capito?

Will: No.

Sean: Sei solo un ragazzo. Tu non hai la minima idea delle cose di cui parli.

Will: Grazie tante!

Sean: Non c’è di che. Non sei mai stato fuori Boston.

Will: Nossignore.

Sean: Se ti chiedessi sull’arte probabilmente mi citeresti tutti i libri di arte mai scritti… Michelangelo. Sai tante cose su di lui: le sue opere, le aspirazioni politiche, lui e il Papa, le sue tendenze sessuali, tutto quanto vero? Ma scommetto che non sai dirmi che odore c’è nella Cappella Sistina. Non sei mai stato lì con la testa rivolta verso quel bellissimo soffitto… mai visto.
Se ti chiedessi sulle donne, probabilmente mi faresti un compendio sulle tue preferenze, potrai perfino aver scopato qualche volta… ma non sai dirmi che cosa si prova a risvegliarsi accanto a una donna e sentirsi veramente felici. Sei uno tosto. E se ti chiedessi sulla guerra probabilmente mi getteresti Shakespeare in faccia, eh? ”Ancora una volta sulla breccia, cari amici!”… ma non ne hai mai sfiorata una. Non hai mai tenuto in grembo la testa del tuo migliore amico vedendolo esalare l’ultimo respiro mentre con lo sguardo chiede aiuto.
Se ti chiedessi sull’amore probabilmente mi diresti un sonetto. Ma guardando una donna non sei mai stato del tutto vulnerabile… non ne conosci una che ti risollevi con gli occhi, sentendo che Dio ha mandato un angelo sulla terra solo per te, per salvarti dagli abissi dell’inferno. Non sai cosa si prova ad essere il suo angelo, avere tanto amore per lei, vicino a lei per sempre, in ogni circostanza, incluso il cancro. Non sai cosa si prova a dormire su una sedia d’ospedale per due mesi tenendole la mano, perché i dottori vedano nei tuoi occhi che il termine “orario delle visite” non si applica a te. Non sai cos’è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami una cosa più di quanto ami te stesso: dubito che tu abbia mai osato amare qualcuno a tal punto. Io ti guardo, e non vedo un uomo intelligente, sicuro di sé, vedo un bulletto che si caga sotto dalla paura. Ma, sei un genio Will, chi lo nega questo. Nessuno può comprendere ciò che hai nel profondo. Ma tu hai la pretesa di sapere tutto di me perché hai visto un mio dipinto e hai fatto a pezzi la mia vita del cazzo.
Sei orfano giusto? Credi che io riesca a inquadrare quanto sia stata difficile la tua vita, cosa provi, chi sei, perché ho letto Oliver Twist? Basta questo ad incasellarti? Personalmente, me ne strafrego di tutto questo, perché sai una cosa, non c’è niente che possa imparare da te che non legga in qualche libro del cazzo. A meno che tu non voglia parlare di te. Di chi sei. Allora la cosa mi affascina. Ci sto. Ma tu non vuoi farlo, vero campione? Sei terrorizzato da quello che diresti.
A te la mossa, capo.

Robin Williams interpreta il dott. Sean McGuire nel film del 1997 “Will Hunting – Genio ribelle” (Good Will Hunting) diretto da Gus Van Sant e interpretato anche da Matt Damon e Ben Affleck.

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Atto di forza – Total Recall (1990): trama e recensione del film

MEDICINA ONLINE FILM  ATTO DI FORZA TOTAL RECALL 1990 TRAMA RECENSIONE CINEMA.jpgUn film di Paul Verhoeven, con Arnold Schwarzenegger, Rachel Ticotin, Sharon Stone, Ronny Cox, Michael Ironside. Titolo originale: Total Recall. Fantascienza, durata 113 min. – USA 1990.

Ispirato dal racconto breve Ricordiamo per voi dello scrittore di culto Philip K. DickAtto di forza viene riportato sul grande schermo in modo straordinario dal regista olandese Paul Verhoven nel 1990 che, a distanza di soli tre anni dal film del 1987 Robocop, torna dietro la cinepresa per eseguire magistralmente un’altra cruenta avventura fantascientifica.

Anno 2084. Doug Quaid (Arnold Schwarzenegger) è un uomo comune, salvo qualche chilo di muscoli non tanto comuni, che sogna continuamente Marte. Sua moglie Lori (Sharon Stone) sembra non dare credito alle attività oniriche del proprio caro, così Doug si rivolge all’agenzia di viaggi virtuali Recall per provare l’esperienza di un fittizio ricordo di Marte. Durante l’innesto del ricordo però Quaid si risveglia improvvisamente convinto di essere un agente segreto, aggredisce il personale e scappa via. Una volta tornato alla propria abitazione viene violentemente aggredito dalla presunta moglie che in realtà si rivela essere a sua volta un agente sotto copertura con l’incarico di sorvegliarlo. L’uomo, una volta fuggito, riesce finalmente a raggiungere Marte dove incontra Melina (Rachel Ticotin), la donna che in modo ricorrente affollava i suoi sogni passati. Fra realtà e finzione, umani, mutanti e cospirazioni congeniate, Doug Quaid scoprirà di essere l’agente Hauser cercando così di prendere una giusta posizione nel conflitto.

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Realtà o…

I temi principali di Dick già analizzati ne Il cacciatore di androidi vengono nuovamente esposti in questo racconto: identità violate, percezione extrasensoriali, ricordi veri o indotti artificialmente. A questo subentra la bravura del regista, capace di lasciare il giusto spazio alla riflessione senza perdere di vista l’azione. Ed è proprio questo elemento unito agli ottimi effetti speciali a rendere il film scorrevole e godibile. Successivamente tali effetti hanno portato al raggiungimento di un Oscar Speciale nel settore tecnico nonché a creare un’esperienza visiva estrema, violenta, raccapricciante ma indispensabile.

Viaggio nell’ego

Lo spettatore – a lungo durante il film – non sa decidersi se quanto sta accadendo sia il viaggio nell’ego voluto dal protagonista o la sua avventura reale – un’avventura che si imprigiona e si snoda, nella migliore tradizione del film di azione, tra inseguimenti, sparatorie e disvelarsi dei personaggi. Un film stimolante, da vedere almeno due volte per apprezzarlo appieno. Un film che fa riflettere anche: dopo averci mostrato la città del futuro con i suoi comfort (gli schermi televisivi a parete, gli ologrammi per intrattenimento, i simpatici e cortesi robot taxi) ed i suoi lati oscuri (i quartieri bui, la violenza diffusa, la manipolazione delle coscienze) presenta nella colonia marziana una suggestiva riproposta futuribile delle ambite esotiche mete turistiche odierne – dalla Tunisia a Rio De Janeiro, dove – sotto il perenne controllo delle forze dell’ordine – accanto ai quartieri destinati ai “villeggianti facoltosi” convive la miseria della massa degli emarginati – nel caso specifico, dei coloni sfigurati dalle radiazioni, quasi fenomeni da baraccone per turisti in cerca di forti emozioni.

Film cult

Grazie ad una struttura a scatole cinesi, Atto di Forza è una suggestivo racconto narrativo – esplosivo. Paul Verhoven a differenza del romanzo, racconta la storia aumentandone i toni violenti, sottolineando le possibilità di un futuro artificiale, dove dei bei ricordi possono essere impiantati a pagamento e dove il povero attuale è diventato il mutante costretto a rimanere sotto terra per sopravvivere. Fino alle ultime battute il regista lascia il giusto spazio riflessivo allo spettatore, che si impersonifica nel protagonista domandandosi come lui su quale sia il vero confine fra sogno e realtà. 113 minuti di puro cult palpitante per un fanta-thriller pregno di contenuti che, grazie ai continui alleggerimenti grotteschi e talvolta erotici, non annoia mai mostrandoci uno dei migliori film sviluppati sul proibitivo pianeta rosso.

Remake

Nel 2012 ne è stato fatto un remake da Len Wiseman con Kate Beckinsale, Colin Farrell e Jessica Biel, ma al contrario di quello originale, secondo noi è da dimenticare. Due ore di azione, senza l’ironia di Arnold Schwarzenegger e con effetti speciali che – paradossalmente – sembrano più vecchi dell’originale di 22 anni prima, oltre alla presenza veramente troppo ingombrante della Beckinsale (forse perché sposata col regista?). Atto di forza, quello con Arnold, invece è assolutamente da vedere e rivedere!

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Le 5 cose che ancora non sai sul film The Martian – Sopravvissuto

MEDICINA ONLINE SOPRAVVISSUTO The Martian 2015 science fiction film directed by Ridley Scott Andy Weir's Matt Damon REVIEW RECENSIONE MOVIE CINEMA TRAMA FANTASCIENZA MARTE PIANETA SISTEMAlla domanda su cosa ci sia di peggio di rimanere soli su un pianeta ostile come Marte può rispondere solo Mark Watney, l’astronauta interpretato da Matt Damon in Sopravvissuto –The Martian. Tratto dal romanzo L’uomo di Marte di Andy Weir e diretto dal maestro del genere sci-fi Ridley ScottSopravvissuto racconta la storia di un’astronauta che, a causa di una tempesta di sabbia, viene abbandonato dal suo equipaggio sul Pianeta rosso. Dotato di scarse provviste e armato di arguzia e spirito di sopravvivenza, Watney tenta in tutti i modi di stabilire un contatto con la Nasa per far partire una missione di salvataggio ed abbandonare così lo scomodo ruolo di marziano. Il film, interpretato anche da Jessica ChastainKristen Wiig,Kate Mara e Jeff Daniels, esce il primo ottobre in Italia. Per arrivare preparati al cinema, ecco 5 cose da sapere su Sopravvissuto – The Martian.

1. Il ruolo di Sopravvissuto nel cinema di fantascienza
AlienBlade Runner e Prometheus sono alcuni dei successi fantascientifici della storia del cinema.

Il comune denominatore di queste tre opere è il regista che le ha dirette, Ridley Scott. Un autore che, se nei film citati, ha dato largo spazio all’immaginazione creando emozionanti universi paralleli, per questo atteso The Martian ha voluto seguire un approccio più radicato nella scienza e nella realtà quotidiana: “La sfida della fantascienza è per lo più la fantasia. Quello che è veramente interessante di questo film è la realtà totale della situazione – ha dichiarato il regista Scott – c’è un film che amo molto, The Right Stuff di Philip Kaufmann, che racconta la vera storia dei primi astronauti“. Un obiettivo di estremo realismo che Scott ha perseguito inserendo in Sopravvissuto nove tecnologie a cui la Nasa sta già lavorando.

2. Gli errori del film
Nonostante Ridley Scott abbia fatto di tutto per rendere Sopravvissuto un film realistico, alcuni aspetti, come la rappresentazione dell’interazione con la gravità e la difficile ricerca di Watney dell’acqua, sono lontani dalla realtà.

La gravità su Marte è infatti solo il 40% di quella sulla Terra, ma i movimenti del protagonista suggeriscono un’atmosfera molto più vicina alla nostra che a quella del Pianeta rosso: “Non potevamo mostrare il 40% della gravità – ha affermato Matt Damon – ci siamo limitati a creare un effetto di leggerezza nei movimenti”. Sulla questione è intervenuto anche Ridley Scott che ha affermato che è il consistente peso della tuta a dare a Watney la possibilità di muoversi con quella facilità tanto criticata dai geek dello spazio.

Passando alla ricerca dell’acqua, il protagonista compie mille peripezie per creare la preziosa e indispensabile H₂O. Ma l’ironia della questione sta nel fatto che trovare l’acqua su Martesarebbe più facile di quello che Watney avrebbe mai immaginato: “Quando ho finito di scrivere The Martian non potevo più fare cambiamenti e aggiornare la storia – ha raccontato l’autore Andy Weir – Curiosity, analizzando dei campioni di terreno, ha scoperto che per ogni metro cubo di suolo marziano ci sono 35 litri di acqua. Watney avrebbe dovuto solo scaldare del terreno”. Ma, realismo a parte, è più divertente vedere i mille stratagemmi messi in gioco dal protagonista che immaginarlo nel suo Hab con una padella in una mano e del terreno nell’altra.

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3. Le telecamere hanno un ruolo centrale
Essere l’unico abitante di Marte comporta una serie infinita di disagi. Uno di questi è sicuramente la solitudine che, come costrinse Tom Hanks a parlare con un pallone nel Cast Away di Robert Zemeckis, porta Watney a dialogare con le piccole telecamere disposte nell’accampamento su Marte: “Le telecamere sono le sue uniche compagne di viaggio – ha spiegato Ridley Scott – parla con questo strumento come se fosse un amico. Inoltre se qualcosa è andato storto e si vuole sapere perché e come sia successo, le telecamerine sono il giusto espediente”. Ma, oltre a essere l’unica compagnia di Watney, rappresentano un ottimo stratagemma cinematografico per permettere al protagonista di parlare direttamente col pubblico in sala.

4. L’ironia è l’asse portante del film
Ridley Scott non ha mai realizzato film divertenti. Eppure Sopravvissuto grazie all’ironia del libro di Weir, ad alcune citazioni imprevedibili (Happy DaysIl Signore degli snelli e Iron Man sono le opere sbeffeggiate dal film) e a una colonna sonora che è un vero e proprio omaggio alla disco-music degli anni ’70, diverte lo spettatore come mai nessun film di genere sci-fi ha fatto: “Non avevo intenzione di fare un film simile a Interstellar – ha rivelato Matt Damon – ma Ridley mi ha assicurato che questo sarebbe stato diverso e incredibilmente divertente”. Una promessa che il regista de Il Gladiatore ha mantenuto sviluppando il primo film di fantascienza in cui l’umorismo e l’ironia prevalgono sulla drammaticità e l’epicità del cinema di genere.

5. Ispira e celebra la Mars Generation
Solitamente è la scienza ad ispirare registi e autori nella realizzazione di opere di genere fantascientifico. Ma nel caso diSopravvissuto – The Martian è avvenuto l’esatto contrario. Lo sceneggiatore Drew Goddard, oltre a voler rendere il film divertente e spettacolare, ha avuto come obiettivo principale quello di ispirare gli scienziati: “Ridley e io facciamo parte della Lunar Generation – ha raccontato Jim Green, il direttore del planetario scientifico della Nasa – ma dopo l’atterraggio di Curiosity su Marte è nata la Mars Generation. Ci serve la giusta ispirazione per spingere la nostra economia ad assumere scienziati ed ingegneri. E questo film è una grande opportunità per celebrare la Mars Generation“. Una più che valida ragione per sperare che ripeta il successo di brillanti opere che lo hanno preceduto come Interstellar e Gravity. Dopotutto, come il cinema dimostra, il Pianeta rosso è molto più vicino di quello che pensiamo.

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Enemy (2013): trama, recensione e spiegazione del film

MEDICINA ONLINE Un film di Denis Villeneuve. Con Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Isabella Rossellini, Sarah Gadon, Stephen R. Hart. Thriller psicologico, durata 90 min. - Canada, Spagna 2013.jpgUn film di Denis Villeneuve. Con Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Isabella Rossellini, Sarah Gadon, Stephen R. Hart. Thriller psicologico, durata 90 min. – Canada, Spagna 2013

Trama senza spoiler

Un inquieto ed insignificante insegnate di storia si imbatte nel suo perfetto doppione, notato casualmente nel ruolo di comparsa in un film. Dopo essersi incontrati, le vite di entrambi si avviano verso un tortuoso e terrificante incubo.

Recensione senza spoiler

Ciò che avviene per il resto del film è abbastanza enigmatico e di non facile interpretazione. Come se non bastasse, l’ultima scena arriva come un fulmine a ciel sereno: definito come “the scariest ending of any movie ever made”, il finale è di certo uno dei più grandi shock cinematografici di sempre. Non parlo del classico colpo di scena in cui, con una spiegazione sorprendente, si risolve il mistero, anzi. La situazione si complica ulteriormente, lasciando il pubblico in balia di uno dei più criptici ed inquietanti enigmi di sempre. Premetto che non si tratta di un giallo, piuttosto di un thriller psicologico: non ci sono assassini o omicidi, qui il mistero è tutto mentale. Seguendo la scia di Cronenberg, Lynch e perfino Kubrick (la scena iniziale richiama Eyes Wide Shut), Denis Villeneuve torna alla regia dopo l’acclamato “Prisoners” realizzando un film dalle tinte seppia, molto fosche e buie (sopratutto negli interni). Girato in una Toronto spettrale e solitaria (spesso immersa nella nebbia), Enemy vanta un’atmosfera angosciante e onirica di prima categoria, sostenuta da una regia davvero eccellente e da una colonna sonora sempre pronta a mantenere viva la tensione.
Nonostante il film tragga grande giovamento dalle performance di Isabella Rossellini (una delle muse di Lynch), Sarah Gadon (una delle muse di Cronenberg) e Melanie Laurent, quella che si fa davvero notare è la versatile ed indiscutibile bravura recitativa di Jake Gyllenhaal, interprete dei due antitetici personaggi principali di Adam e Anthony.

Spiegazione con spoiler

Prima di tornare al finale, è indispensabile parlare del rapporto tra i due protagonisti: quello che è sicuro (gli indizi seminati sono parecchi) è che si tratti della stessa persona. Uno dei due è la proiezione mentale dell’altro, ma quale sia “reale” e quale sia la proiezione è difficile da capire. Lo sdoppiamento psicotico da cui è affetto il personaggio di Adam/Anthony è un prodotto naturale della sua indole repressa.
Gran parte delle scene del film avvengono in realtà nel subconscio del protagonista: gli sporadici confronti tra Adam e Anthony sono da interpretare come “guerre” tra le due fazioni in cui è divisa la sua personalità (eco freudiana della teoria dell’Io, Super-Io ed Es). L’intera pellicola può essere vista come la battaglia mentale di un individuo in lotta con il suo “lato oscuro” (col suo “nemico” da cui il titolo del film), al fine di responsabilizzarsi verso gli obblighi sociali che gli spettano (la fedeltà alla moglie e i doveri di futuro padre). L’ultima scena conferma l’importanza simbolica del “ragno”, elemento ricorrente in tutto il film: lo vediamo uscire dal piatto d’argento nella sequenza iniziale, la donna nuda con la testa da ragno nell’incubo del protagonista Adam, il mastodontico aracnide che sovrasta la città, i cavi elettrici del tram e il vetro della macchina dopo l’incidente paragonati a ragnatele. E la tarantola alla fine.

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La teoria dei ragni reali

In parecchi sono dell’idea che i ragni siano effettivamente reali e non frutto dell’immaginazione contorta dei due protagonisti. Essendo l’uomo moderno distratto dal sesso e dalle pulsioni erotiche, gli aracnidi avrebbero sfruttato questa noncuranza per agire indisturbati, pianificando una silenziosa “invasione ultracorporea” che si realizza pienamente nella scena finale. Nonostante trovi solide fondamenta sul discorso che Adam tiene in classe riguardo ai totalitarismi nell’era antica, basati su un controllo delle menti instaurato tramite il famoso “panem et circensem” (che nell’era moderna è il proprio il sesso), questa prima teoria risulta troppo pretenziosa e fantascientifica, nonostante debba ammettere che riserva un certo fascino.

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Ragni come metafora del controllo sociale

Un’altra interpretazione (con cui mi trovo in sintonia perché decisamente più plausibile) è quella allegorica: la presenza dei ragni è la metafora del totalitarismo che a cui è soggetto l’individuo moderno, intrappolato in una ragnatela inconscia di ossessioni e frustrazioni. Non abbiamo aracnidi reali, bensì simboli psicanalitici desunti dagli incubi/visioni di Adam. Sia quest’ultimo che Anthony, il suo doppio, vivono un’esistenza frustata, soggetti ad un eccessivo controllo di loro stessi che li porta a voler evadere dalla routine: Adam sogna di fare l’attore (attenzione a questo particolare e alla scena con la Rossellini) perché lo annoia la vita da insegnante, Anthony persegue l’adulterio perché si sente oppresso dal matrimonio e terrorizzato dall’idea di avere una famiglia. I ruoli generalmente imposti dalla società in cui i due protagonisti sono confinati (marito, padre, lavoratore statale), vengono avvertiti come una sorta di violenza operata nei confronti di loro stessi.

Donne come ragni

A questo punto viene lecito chiedersi: se i ragni esprimono l’idea della tirannia del subconscio, chi è il vero tiranno? Chi tesse la ragnatela? La risposta è una sola: le donne, ecco cosa rappresentano davvero i ragni. Il protagonista teme la figura femminile, non riesce a stabilire con lei un rapporto intimo che sia fedele o duraturo e punisce se stesso per questo. La donna intrappola il protagonista nella ragnatela del matrimonio, della fedeltà, della paternità ma il personaggio di Adam/Anthony non è in grado di sostenere la responsabilità di tali obblighi. Dopo l’apparente riconciliazione finale, Adam trova la chiave che apre la porta del sex club (luogo di tentazione per eccellenza) in cui Anthony era stato all’inizio, manifestando il desiderio di volerci tornare lasciando di nuovo la moglie sola a casa. La donna non risponde, Adam entra nella stanza di lei è il ragno che gli impedisce il tradimento. Ciò non solo da conferma alla suddetta interpretazione della figura del ragno, ma spiega anche un’affermazione di Adam durante la lezione di storia: i totalitarismi sono un circolo che si ripete di continuo. Trovando la chiave, Adam ricade nel baratro della tentazione da cui credeva di essersi salvato sconfiggendo il suo “lato oscuro”. Ma a questo punto ci potremmo chiedere: il vero “nemico” del titolo è il lato oscuro dell’uomo o è la donna?

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Spiegazione in sintesi

Quello che avete visto è una trasposizione allegorica di ciò che avviene nella psiche di Adam. Non sta avvenendo veramente. Adam Bell è un docente di storia, vive da solo, ha una ragazza di nome Mary con cui ha una storia non stabile. In passato ha provato a fare l’attore, qualche comparsata in commedie da quattro soldi, nulla più. Si faceva chiamare David Saint Claire, ma il suo vero nome era Anthony. Adam ed Anthony sono la stessa persona. Anthony è il passato di Adam. Un passato rimosso che ritorna. Anthony aveva una moglie di nome Hellen, in attesa di un figlio. La tradiva partecipando a degli strani incontri orgiastici. Adam ritrova Anthony grazie ad una battuta del collega che lo invita a vedere un film in cui lui ha recitato da comparsa. Adam all’inizio è curioso, poi capisce che Anthony è la versione di sé del passato, quella vitale, libera, egocentrica, e decide di fuggire, si rende conto che è stato un errore rievocarla. Tuttavia Anthony vive dentro Adam, è una parte importante di sé, pertanto non sarà così facile farla tornare indietro. Anthony chiede ad Adam una notte di sesso con Mary, poi sparirà per sempre dalla sua vita. Adam invece si concede un ritorno nel passato, un modo per rivedere Hellen e chiederle scusa per il modo in cui ha fatto finire il loro matrimonio. In mezzo a tutto ciò vediamo ragni. Ragni all’inizio, ragni sul cielo di Toronto, ragni nel finale. I ragni rappresentano il controllo della società sugli esseri umani, che sono simboleggiate dalle donne e dal matrimonio. Nella scena iniziale Anthony/Adam vede una prostituta che schiaccia un ragno, è il segno che in quel momento la sua vitalità e la sua voglia di evadere da una vita piatta sta prendendo il sopravvento sul conformismo sociale. Un grande ragno nel cielo dimostra che il controllo agisce in maniera globale oltre che privato. Alla fine lo scambio di ruoli ha un esito tragico: Anthony, l’Adam del passato, ha una brusca lite con Mary che termina in un incidente stradale, in cui presumibilmente entrambi perdono la vita. Adam invece riesce a farsi perdonare da Hellen, la quale gli chiede di restare così, di restare con lei in quella sua versione, pacifica, controllata, conforme. Adam accetta, è tornato indietro nel tempo e decide di dedicarsi a Hellen, per una notte. La mattina seguente, al risveglio, trova l’invito per una di quelle feste orgiastiche a cui prendeva parte in passato. Avvisa Hellen che quella sera uscirà, deciso a partecipare ancora a quegli strani rituali a base di sesso. Hellen non risponde. Adam torna in camera e scopre che è diventata un ragno. Questo significa che Adam non è mai cambiato. Adam diventa Anthony, cioè un uomo infedele, instabile, bugiardo, nel momento in cui si trova sotto il controllo, il “ragno”, di una vita coniugale che lo annoia. Hellen, personificazione del matrimonio, è il ragno da cui Adam prova a fuggire, tornando ad essere Anthony, finalmente libero da vincoli.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
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La scoperta (2017): trama, recensione e spiegazione del film

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Probabilmente è ancora presto per parlare di un vero e proprio “filone”, ma è indubbio che ultimamente la fantascienza indie americana sia caratterizzata da precise idee ricorrenti e da una matrice comune, che restituisce alla science fiction la sua dimensione più psicologica e anti-spettacolare: un assunto speculativo di natura fantascientifica genera un dramma, e questo avviene perché tale assunto rispecchia ansie e timori del nostro presente. Questo film conferma l’interesse di Netflix per queste tendenze off-Hollywood, e incarna molti tòpoi della sci-fi indipendente americana, a partire dall’ossessione di indagare il sovrasensibile – ed eventualmente giustificarlo – attraverso la scienza. Lo abbiamo già visto nell’interessante “I, Origins” e nella serie The OA, ma qui il discorso si fa ancor più radicale.

Trama senza spoiler

Al centro della trama c’è lo scienziato Thomas Harbor (un Robert Redford ancora in forma), che dimostra l’esistenza dell’aldilà grazie a una macchina che cattura la lunghezza delle onde cerebrali a livello subatomico, osservandone l’abbandono del corpo durante la morte. Oltre la vita ci sarebbe quindi un altro piano dell’esistenza (il paradiso?) e questa consapevolezza scatena un’ondata di suicidi da parte di uomini e donne che non vedono l’ora di raggiungere questo secondo livello di esistenza. Addirittura una malattia terminale diventa una buona notizia, perché l’aldilà ci attende dopo il nostro ultimo battito cardiaco. Il figlio maggiore di Thomas, il neurochirurgo Will (Jason Segel), non approva gli studi del genitore, che nel frattempo ha fondato un istituto per accogliere ed assistere gli aspiranti suicidi. Will, in visita da suo padre e da suo fratello Toby (Jesse Plemons), s’imbatte nella tormentata Isla (Rooney Mara), e la salva da un tentato suicidio nelle acque dell’oceano. Fra di loro nasce una complessa storia d’amore, mentre Thomas sperimenta un dispositivo che registra l’esperienza dei defunti nell’aldilà, e dovrebbe quindi mostrare ciò che vedono dopo la morte. Quello che il dispositivo permetterà di vedere, lascerà il neurochirurgo senza parole.

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Fantascienza, non religione

Il paradosso di esplorare l’ultraterreno con metodi scientifici può sembrare moralmente ambiguo (quante volte la pseudo-scienza ha tentato di giustificare antiche superstizioni?), ma il regista Charlie McDowell e il co-sceneggiatore Justin Lader hanno l’accortezza – dal mio punto di vista quasi essenziale in un film di questo tipo – di escludere ogni sfumatura divina, affidandosi esclusivamente alle speculazioni della scienza/fantascienza: non si parla infatti di un aldilà religioso, ma di un secondo livello di percezione delle cose da parte del nostro sistema nervoso. Niente angeli, luci in fondo al tunnel o santi ad aspettarci dall’altra parte, ma solo un secondo piano di realtà…

ATTENZIONE SPOILER

…una realtà alternativa che gioca con il concetto dei loop temporali e con le infinite diramazioni dei mondi paralleli. Il film ci dice che nel cosiddetto “paradiso” ogni individuo genera, laicamente, il proprio aldilà, basato sui rimpianti della sua vita passata e sul desiderio che ognuno ha, di poter correggere gli errori fatti in vita. L’idea è molto incisiva, anche perché insiste su risvolti fantascientifici più che sovrannaturali, senza propinarci una razionalizzazione di principi religiosi preesistenti.

FINE SPOILER

L’approccio intimista e le implicazioni romantiche, tipici di molta sci-fi indipendente, focalizzano l’attenzione sulla vicenda privata più che sullo scenario globale, mediamente trascurato se si escludono gli sporadici accenni ai suicidi di massa. Certo, rispetto al precedente “The One I Love” manca l’analisi entomologica del rapporto amoroso, qui ritratto senza particolari giustificazioni, soprattutto se consideriamo l’atteggiamento contraddittorio di Isla. Anche diversi snodi narrativi appaiono inverosimili, eppure il finale riesce a giustificarne l’assurdità per mezzo di un “ribaltamento” piuttosto canonico, seppure inaspettato: la sovrapposizione di piani alternativi stravolge il punto di vista sulla vicenda, ma risulta un po’ frettoloso e didascalico, relegato ai minuti conclusivi senza il supporto di un climax adeguato. È qui che “La scoperta” rivela il suo lato più fragile: McDowell sembra compiacersi dei principali cliché del cinema indie, e li nutre con dialoghi sussurrati, tecnologia retro-futuristica e un personaggio femminile che risponde a tutti i requisiti della categoria, con la sua personalità sfuggente e provocatoria. La rappresentazione dei tòpoi in una realtà parallela potrebbe denudarne l’artificiosità, ma questa lettura metanarrativa non regge alla prova dell’epilogo, dove il regista prende chiaramente sul serio gli strascichi emotivi della storia. Così, persino il brusco taglio di montaggio sul nero dei titoli di coda (altrove molto suggestivo: si pensi a Donnie Darko), appare qui un semplice manierismo, sin troppo prevedibile per coinvolgere davvero. Restano l’ottima idea del ragionare su quello che accadrebbe scoprendo con sicurezza che la morte non è la fine, e la sobrietà della messinscena, tutta concepita per sottrazione, ma l’impressione di assistere a un bigino della fantascienza indie è piuttosto forte. A conti fatti però a me è piaciuto, da vedere almeno una volta (o anche due per capirlo meglio!) specie se siete appassionati di fantascienza umana, quella senza esplosioni o alieni che invadono la terra, ma con una sfumatura di mondi paralleli per certi versi in stile “Moon“, che in un film di fantascienza non è mai fuori posto.

Spiegazione del finale (ovviamente spoiler)

Il protagonista, il neurologo Will, è già morto quando la storia inizia. Tutto quello che accade durante la narrazione del film non è reale, bensì è semplicemente una delle molte realtà alternative in cui è entrata la mente di Will dopo la sua morte.

La vita è un sogno dal quale ci si sveglia morendo

Virginia Woolf

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