Coherence – Oltre lo spazio tempo (2013): trama e spiegazione

MEDICINA ONLINE Un film di James Ward Byrkit, con Emily Baldoni, Maury Sterling, Nicholas Brendon, Elizabeth Gracen, Alex Manugian. Genere fantascienza, durata 89 minuti - USA 2013..jpgUn film di James Ward Byrkit, con Emily Baldoni, Maury Sterling, Nicholas Brendon, Elizabeth Gracen, Alex Manugian. Genere: fantascienza, durata 89 minuti – USA 2013.

Trama senza spoiler

Otto amici si trovano insieme per una cena in una serata come tante altre. In tale serata sta passando, una cometa, la cometa di Miller, come viene chiamata nel film. I protagonisti della vicenda vedono tale cometa ad occhio nudo: infatti, la cometa sta passando ad una distanza non molto ampia dal pianeta Terra. Cominciano ad accadere fatti alquanto strani: per prima cosa, si verifica un black-out nella zona dove si trova la casa nella quale si sta tenendo la cena. Poco prima di arrivare alla cena, Emily ha chiamato Kevin ma il suo telefono si è rotto. Non molto tempo dopo si rompe anche il telefono di Hugh. Essi, poi, si accorgono che non c’è la connessione ad internet ed anche il telefono fisso è fuori uso. Gli ospiti della cena, pian piano, cominciano ad andare in panico ed in paranoia. Specialmente quando, usciti di casa, faranno una scoperta inquetante.

Spiegazione (SPOILER)

Ad un certo punto alcuni personaggi del film escono dalla casa dove si stava tenendo la cena e vedono altre versioni di loro stessi e si rendono conto del fatto che sono in presenza di un fenomeno alquanto paradossale: non solo la presenza di UN solo mondo parallelo, bensì la coesistenza di MOLTI universi paralleli, ognuno di essi contenenti una copia della casa e di ciascuno protagonisti.

Quando i protagonisti escono dalla casa di partenza, finiscono in una zona “grigia” dello spaziotempo dove le realtà parallele si fondono e si intersecano tra di loro, quindi, quando un dato protagonista esce di casa, tornando indietro non tornerà necessariamente nella propria casa, bensì potrebbe “perdersi” nella zona grigia e tornare nella stessa apparentemente identica casa, ma appartenente ad un diverso mondo parallelo.

Emily ad un certo punto “si perde nella zona grigia” e tornando a casa entra nell’abitazione dell’universo parallelo nella quale gli otto amici non hanno mai lasciato la casa e sembra che stiano vivendo la serata completamente inconsapevoli del passaggio della cometa, come sono anche inconsapevoli degli effetti che sta causando il passaggio del corpo celeste. Emily induce gli altri ad uscire ed aggredisce la versione alternativa di se stessa, con lo scopo di prendere il suo posto, mettendo la sé stessa aggredita nella vasca da bagno per nasconderla e tornando nel salone dove sono i suoi amici. Poi la donna sviene. Ella si risveglia il mattino dopo e tutti sono preoccupati per lei dopo quello che è successo la sera prima. Inoltre, la versione alternativa di sé stessa è sparita, inspiegabilmente.

Nell’ultima scena, sembra tutto normale ma Kevin, vicino ad Emily, riceve una chiamata da un’altra versione di quest’ultima, ossia la Emily dell’inizio del film: si gira e vede però la ragazza di fronte a lui. Capisce solo in quel momento che le Emily sono due ed una delle due è la Emily “parallela”.

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Prima di domani (2017) spiegazione del finale del film: Sam muore?

MEDICINA ONLINE PRIMA DI DOMANI SPIEGAZIONE FINALE FILM 2017 Antes Que Eu Vá BEFORE I FALL Ry Russo-Young, con Zoey Deutch, Halston Sage, Logan Miller, Kian Lawley, Elena Kampouris.jpgPrima di domani (titolo originale “Before I fall”) regia di Ry Russo-Young, con Zoey Deutch, Halston Sage, Logan Miller, Kian Lawley, Elena Kampouris. Genere: drammatico, fantastico; USA, 2017. Uscito al cinema il 3 marzo 2017 negli Stati Uniti ed il 19 luglio 2017 in Italia.

Trama

Samantha è una normale liceale che un giorno si sveglia e crede di avere davanti a sé una giornata speciale, perché è il “giorno dei cupidi” nel suo liceo e perché lei e Rob, il suo ragazzo, hanno in programma una serata importante. La giornata è in verità molto più speciale di quel che crede perché si ripeterà uguale a se stessa, come per una sorta di scherzo del destino, finché Sam non capirà come viverla appieno, nel modo giusto.

Spiegazione del film e del finale (SPOILER)

“Prima di domani” non è certo il primo film in cui si verifica, per motivi più o meno spiegati, un “loop temporale” in cui il protagonista si ritrova a vivere lo stesso identico giorno più e più volte. Lo abbiamo visto nel film “Ricomicio da capo” del 1993 diretto da Harold Ramis ed interpretato dal grande Bill Murray; in “Edge of tomorrow” del 2014 con Tom Cruise, nel 2011 con “Wake up and die” di Miguel Urrutia e, recentemente, in “Auguri per la tua morte“. Che siano film di genere commedia, thriller o fantascienza pura, questo tipo di film sono solitamente accomunati da un particolare: il protagonista è una persona spesso pigra, superficiale, cinica ed avara di sentimenti che però, messa di fronte al ripetersi inesorabile ed insensato dello stesso giorno, si trasforma gradatamente in persona completamente diversa: coraggiosa, profonda ed aperta ai sentimenti ed ai bisogni di chi gli sta accanto… in una sola parola: migliore.
Anche nel caso di “Prima di domani“, la protagonista cambia progressivamente carattere in meglio durante questa inesorabile ripetizione, ma rispetto agli altri lungometraggi di questo genere c’è una profonda differenza: in tutti i film citati il loop finisce quando il protagonista compie determinate azioni “buone” ed il destino “decide” che la sua vita è meritevole di uscire dal loop, in Prima di domani invece, a dispetto del titolo, non c’è nessun domani: Sam alla fine della giornata, morirà. Il titolo inglese “Before I fall” tradotto significa “prima che io cada” ma può essere interpretato come “prima che io muoia” (una specie di mega spoiler inserito direttamente nel titolo!), ed in questo rende meglio del nostro “prima di domani”. Col titolo italiano quasi ci si aspetta che alla fine della giornata di Sam ci sia realmente, un domani, ma la realtà è che Sam, in ogni caso è destinata a morire: qualsiasi cosa faccia, quello che lei sta vivendo è il suo ultimo giorno di vita. Per lei non ci sono azioni buone che possano farla uscire (viva) dal loop. Ma allora per quale motivo sta rivivendo lo stesso giorno? Per aver la possibilità di cambiare – in meglio – la sua vita, prima di morire.

La possibilità di cambiare le cose prima della sua morte

Nelle ultime scene Sam rincorre Juliet (la ragazza che si vuole suicidare gettandosi su una auto) e cerca di aiutarla facendole capire che il suicidio non è la soluzione e quando la ragazza corre verso il ciglio della strada, Sam la salva venendo travolta al suo posto da un camion, morendo. In quel momento si scopre il motivo del perché Sam vivesse sempre la stessa giornata: le era stata data l’opportunità di modificare l’ultimo giorno della sua vita, cambiando atteggiamento nei confronti dei genitori, godendosi il rapporto con la sorellina, capendo quanto volesse bene alle sue amiche e quale fosse il ragazzo davvero giusto per lei, Kent, ed infine, far capire ad una povera ragazza bullizzata, Juliet, quanto fosse preziosa la vita e salvandole la vita. Nel finale mentre Juliet ringrazia Sam per averla salvata, l’anima della ragazza la guarda, affermando di essere stata Juliet colei che l’ha salvata, dandole la possibilità di “mettere a posto la sua vita” prima di morire. Il destino ha fatto ripetere a Sam l’ultimo giorno della sua esistenza per questo motivo, ed ora che ha rimesso le cose a posto, la ragazza può morire in pace.

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Il mondo dei robot – Westworld (1973): trama e recensione del film

MEDICINA ONLINE IL MONDO DEI ROBOT WESTWORLD  1973 SCI FI Un film di Michael Crichton. Con James Brolin, Yul Brynner, Richard Benjamin, Victoria Shaw, Norman Bartold. continua Fantascienza.jpgUn film di Michael Crichton, con James Brolin, Yul Brynner, Richard Benjamin, Victoria Shaw, Norman Bartold. Titolo originale Westworld. Fantascienza, durata 88 min. – USA 1973

Trama senza spoiler

Siamo nell’anno 2000, un parco divertimenti di nome Delos propone ai clienti di vivere tre diverse esperienze in altrettante epoche storiche. Il parco è infatti diviso in tre sezioni: RomaWorld (in italiano reso con l’improbabile Romamundia), ambientata al tempo dell’Impero Romano e presentata come un epoca di “moralità allo sfacelo”; MedievalWorld (Medievonia), ambientata invece in un medioevo romantico; WestWorld (Westernlandia), con una scenografia prettamente americana dell’epoca del vecchio west, che promette ai turisti “violenza sfrenata”. A intrattenere gli ospiti provvedono dei sofisticati robot quasi indistinguibili dagli esseri umani e che offrono loro la possibilità di cimentarsi in duelli, rapine, risse da saloom, giostre medievali, non tralasciando l’aspetto più pruriginoso con avventure erotiche, se non vere e proprie orge. Tutto questo senza che nulla di male possa accadere ai visitatori. I robot infatti possono essere “uccisi” (venendo poi riparati e reinseriti nelle attrazioni), ma essi non possono nuocere ai veri esseri umani. Questo almeno fin quando una serie di guasti inizieranno a determinare strani comportamenti dei robot.

Recensione

“Il mondo dei robot” rappresenta l’ottimo esordio alla regia del celebre Michael Crichton quando ancora non era diventato il famoso “sacerdote dell’high concept” (definizione coniata da Steven Spielberg) quale è oggi ricordato. Fino ad allora aveva all’attivo una serie di libri scritti sotto pseudonimo e due romanzi di fantascienza, Andromeda (1969) e Il terminale uomo (The Terminal Man, 1972), il primo tradotto in film nel 1970 su sceneggiatura dello stesso autore e per la regia del veterano Robert Wise (The Terminal Man verrà invece adattato per lo schermo nel 1974). Con già qualche esperienza come soggettista e sceneggiature, Crichton decide di calarsi anche nei panni di regista, ma ebbe non pochi problemi per farsi accettare il progetto dalla casa di produzione, la MGM, poco propensa a impegnare tempo e fondi per un esordiente. Il film viene infatti girato in sole sei settimane e con pochissimi effetti speciali, cosa favorita anche da un’ambientazione da classico film western. Il film si focalizza su due amici, John e Peter, che decidono di passare una vacanza nell’ambiente western (WestWorld, da cui il nome originale del film) e che – tra scazzottate nei saloon ed evasioni dalla prigione – si trovano a sfidare più volte un pistolero dalle fattezze di Yul Brynner (interpretato dallo stesso attore) così come appariva nel film I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960) di John Sturges. Ogni giorno li sfida regolarmente a duello, venendo come da programmazione ucciso, ed altrettanto regolarmente tornando il giorno dopo a riproporre il copione.

SPOILER! (anche se è un film di 44 anni fa, non è detto che tutti lo abbiano già visto!)

Nell’ultimo duello, proprio quando la cosa cominciava a stancare i due amici, il pistolero uccide John per davvero davanti all’attonito amico. Peter, dopo lo smarrimento iniziale, fugge e inizia così una spietata caccia da parte del pistolero attraverso tutti gli ambienti del futuristico Luna Park ormai allo sfacelo. Mentre gli altri automi uno alla volta si arrestano per esaurimento energetico, il pistolero continua a lungo il suo inseguimento fino negli ambienti tecnici del luna park (vedi foto in alto), essendo un nuovo modello potenziato, fino al conclusivo duello vinto da Peter con l’aiuto di acido e fuoco.

FINE SPOILER

Westworld è indubbiamente un’opera consigliata e sicuramente uno dei migliori film sull’argomento robot e androidi, precursore e ben inserito nel panorama della fantascienza cinematografica adulta degli anni settanta prima della rivoluzione contenutistica portata al genere da Guerre Stellari (Star Wars, 1977). La tensione, il ritmo e l’atmosfera fredda come gli occhi dell’androide interpretato da Brynner, tengono lo spettatore inchiodato alla metaforica poltrona. Inquietanti le avvisaglie del malfunzionamento dei robot (come quando una cortigiana-robot di MedievalWorld non accondiscende ai desideri sessuali di un turista e lo schiaffeggia, o altre scene dove i robot non si trattengono più e fanno del male ai visitatori), così come è inquietante l’incedere implacabile e inarrestabile del pistolero in abito nero durante la caccia all’uomo, servito quasi certamente da modello per quello del cyborg interpretato da Arnold Schwarzenegger nel Terminator di James Cameron (1984). Inseguimento arricchito dalle immagini in soggettiva dell’assassino (una delle poche che presentino un qualche effetto speciale), non una novità per il cinema, questo tipo di ripresa si già vista in precedenza in altri film, come ad esempio in alcune opere dei nostri Mario Bava e Dario Argento, ma qui usata prima che John Carpenter e il suo Halloween (1978) la sdoganasse facendola diventare pratica usuale in un certo tipo di film prevalentemente horror. Ma ad apparire ancora più inquietante è l’assunto di base di un luogo di divertimento dove è possibile cedere alle proprie pulsioni più basse senza paure di conseguenze perché indirizzate verso entità artificiali ma molto somiglianti agli esseri viventi.

Il film ricorda un altro lavoro di Crichton realizzato circa vent’anni dopo, il romanzo Jurassic Park (1990). Un altra cattedrale del divertimento occidentale, un Luna Park high tech con i dinosauri al posto dei robot, ma con la stessa propensione a uscire dai binari imposti dall’essere umano. Come altri film sugli androidi e di fantascienza in generale, anche questo si interroga sullo sfruttamento delle nuove tecnologie e sul loro potere di replicare la realtà, rendendo difficile identificare il naturale dall’artificiale, artificiale che difficilmente starà buono a fare i compiti che gli sono stati assegnati (Matrix vi ricorda qualcosa?). Altro discorso è quello dell’invadenza silenziosa dei tecnici del parco che guardano in maniera quasi voyeuristica, entrando e registrando con le loro telecamere nascoste le esperienze dei vari visitatori, tema quantomai attuale nell’epoca di internet e dei reality, ma tutt’altro che scontato negli anni settanta.

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Curiosità sul film

Il soggetto fu rifiutato da tutte le compagnie cinematografiche: solo la MGM era interessata al soggetto, ma impose drastici tagli agli effetti speciali, concedendo a Crichton solo 6 settimane di tempo. Durante le riprese, un colpo a salve ustionò la cornea di Yul Brynner, che dovette rinunciare a portare le lenti a contatto lucide che davano lo sguardo speciale al robot del suo personaggio, così la produzione si dovette fermare per diverse settimane. Il film fu realizzato in anamorfico Panavision. L’unico effetto al computer fu quello ottenuto da John Whitney (esperto di effetti speciali) con le immagini in soggettiva del Robot/Brynner. Questo procedimento, molto difficoltoso per l’epoca, richiese mesi di lavoro per poche decine di secondi di girato. Finite le riprese, il primo montaggio a detta della produzione era un disastro e non distribuibile. Venne così chiamato David Bretherton (premio Oscar per Cabaret) e con l’apporto di nuove scene il film fu pronto per la distribuzione. Nonostante questo i dirigenti della MGM non erano soddisfatti del lavoro svolto ma fecero uscire ugualmente il film, che a dispetto di tutto ebbe un grande successo commerciale. Nonostante il contenuto palesemente fantascientifico (non sono ancora stati realizzati androidi con le capacità ipotizzate nel film, anche se siamo sulla buona strada), il tono cupamente drammatico che aleggia fin dall’inizio sul film lo rende inquietante anche oggi: vent’anni prima di Jurassic Park ed ancor più tempo prima di Matrix, lo spettatore è disturbato dal pensiero che una macchina creata dall’uomo possa prenderne il sopravvento, e non basta il – tutto sommato – finale positivo a rassicurarlo, perché il fatto che la ribellione sia accaduta una volta non esclude che possa ripetersi (cosa che avviene nel seguito). Crichton rielabora il tema classico della ribellione delle macchine mettendola in relazione con la complessità dei sistemi informatici, introducendo numerosi elementi che saranno poi citati in opere successive dello stesso genere (fra tutte Terminator), come l’idea di macchine progettate da macchine, che suggerisce un processo evolutivo che può andare fuori controllo e rivoltarsi contro gli esseri umani. Anche esplicitamente citata in Terminator è la sequenza finale dell’inseguimento, con riprese in soggettiva dal punto di vista del robot e la distruzione progressiva del robot (in particolare del suo volto) che ne rivela le interiora meccaniche e la sostanziale alienità.

Il film è rimasto fortemente impresso nella cultura popolare – soprattutto americana – ed è ampiamente citato; si pensi per esempio alla band britannica Westworld o ai numerosi riferimenti al film nella serie animata I Simpson e Futurama. Anche un episodio di Scooby Doo è esplicitamente ispirato all’ambientazione e alla trama di questo film.

Il film ebbe un seguito nel 1976: Futureworld – 2000 anni nel futuro diretto da Richard T. Heffron Peter Fonda e Blythe Danner (con anche la presenza di Yul Brynner), film sicuramente godibilissimo e consigliato per i tanti fan del primo film e per gli appassionati di fantascienza in generale. Nel 1980 fu anche realizzata una miniserie di 5 puntate Alle soglie del futuro (Beyond Westworld); nel 2016 la HBO ha prodotto la serie Westworld – Dove tutto è concesso (Westworld), basato in parte sul film, una serie molto godibile in virtù dell’alto livello recitativo degli attori, delle splendide scenografie e degli effetti speciali decisamente sorprendenti.

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Babadook (2014) trama, recensione, significato e spiegazione del finale

MEDICINA ONLINE BABADOOK SPIEGAZIONE FILM FINALE TRAMA RECENSIONE SPOILER SIGNIFICATO IL MOSTRO BABADOOK ESISTE DAVVERO O NO METAFORA SIMBOLO JENNIFER KENT ESSIE DAVID WALLPAPER.jpgUn film di Jennifer Kent con Essie Davis, Noah Wiseman, Daniel Henshall, Hayley McElhinney, Barbara West. Titolo originale The Babadook; drammatico, horror, psicologico, durata 95 min. – Australia 2014 VM 14 anni.

Trama senza spoiler

Il film segue le vicende che ruotano intorno ad una famiglia disastrata dagli eventi, ci presenta una madre – Amelia Vanek – ritrovatasi a dover allevare il suo bambino da sola dopo la tragica morte del marito, andatosene in un incidente nello stesso giorno in cui il loro figlioletto veniva al mondo. Samuel non sembra un bambino “normale”, le scene isteriche sono all’ordine del giorno e la vita di Amelia è oppressiva e sempre più solitaria, a partire dal lavoro in una clinica per anziani sino ai difficili rapporti sociali che ha a causa delle reazioni emotive sempre più esagerate del figlio. La vita di Amelia diventerà sempre più difficile, specie da quando entrerà nella sua vita uno strano libro per bambini, chiamato Mister Babadook.

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Recenzione senza spoiler

Non mi dilungherò troppo perché “non vedo l’ora” di scrivere il prossimo paragrafo, quello della spiegazione e del significato del lungometraggio. A me il film è piaciuto molto ed ho apprezzato il tocco della regia femminile di Jennifer Kent, anche sceneggiatrice, che ha saputo dare una profondità al personaggio della madre ed ai suoi disagi in modo veramente incredibile e credibile, probabilmente molto più di quanto sarebbe riuscito a fare un uomo. Il modo in cui l’attrice australiana Essie Davis esprime questi disagi è fantastico e ottima è l’atmosfera di depressione e tensione crescente che avvolge lo spettatore: sembra di scendere nell’inferno dell’animo umano di un genitore con questo film, un po’ come avviene seguendo il personaggio di Jack Torrance in Shining. Questo è l’orrore che mi piace, senza lupi mannari o vampiri. E’ un horror reale, realistico, che può accadere a tutti noi, affermazione valida solo se avete capito il reale significato simbolico del Babadook (se non lo avete capito, continuate la lettura!)
Un plauso va fatto anche all’estetica del Babadook: il tratto distintivo dell’uomo nero è cartoonesco, proprio come in un classico libro piegabile per l’infanzia, ma il mostro mette ugualmente, ed a maggior ragione grazie al contrasto che evoca, una grande inquietudine ed il contenuto del libro è più scabroso, terrificante e personalizzato (le pagine si scrivono da sole mano a mano che il film avanza) pagina dopo pagina. Una creatura cinematografica che domina la seconda metà del film in modo molto affascinante, per un lungometraggio ottimamente recitato e girato, con buona fotografia e musiche inquietanti al punto giusto. L’idea originale del plot di The Babadook, una bozza di esso, venne espressa dalla regista Jennifer Kent sottoforma di corto nel suo Monster, idea che ha qui allungato e perfezionato in modo piuttosto riuscito. La registra australiana riesce qui a produrre un film che per tutta la sua durata ti pone una domanda fondamentale: Il Babadook esiste o no? La risposta la trovate più in fondo all’articolo.

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Significato del film (SPOILER DA QUI IN POI)

Diciamo che per capire realmente questo film, forse dovete essere… genitori. In caso contrario le mie prossime parole potrebbero apparirvi esagerate se non assurde. Partiamo da un fatto che sembrerebbe off topic ma non lo è: qualsiasi genitore al mondo sa quanto sia difficile gestire un figlio nei suoi primi mesi ed anni di vita e qualsiasi genitore onesto ammette che – alla quinta notte di fila insonne – c’è un momento di tale stanchezza, esasperazione e – in certi casi – alienazione, che sarebbe disposto a tutto pur di far star zitta la propria prole per 10 minuti e riposarsi il cervello (che poi questo è il reale motivo per cui esistono i cartoni animati!). Dormire male la notte (o non dormire affatto), poi porta a sonnolenza diurna e in alcuni casi ad una continua sensazione di irritazione e fastidio. Ecco, immaginate quindi il livello di stress che può raggiungere un genitore, una donna in questo caso, quando è costretto a vivere quei primi mesi ed anni di vita del figlio, da solo. E non sto parlando di quelle donne che hanno bimbi tranquilli, un ricco assegno di mantenimento da parte del marito benestante divorziato e tate al seguito: in questo caso parliamo di una donna sola che deve lavorare duro perché suo marito è morto e suo figlio è sicuramente molto più “impegnativo” della media. A stress si aggiunge un probabile disturbo post traumatico da stress. Anche se sono passati anni dalla sua morte, lei pensa ancora a quel tragico incidente, come dimostra l’incubo che viene mostrato all’inizio del film ed il fatto che non riesce addirittura neanche a festeggiare il compleanno del figlio – evento solitamente molto lieto – perché il marito è morto nel portarla all’ospedale per partorire: in pratica compleanno del figlio e morte del marito sono lo stesso giorno. E’ una corrispondenza devastante per la mente di una persona.

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Se l’inconscio prevale

La mia esperienza con pazienti affette da depressione post partum mi fa dire con sicurezza che – seppur la donna non lo ammetta – a livello inconscio, spesso “darebbe volentieri indietro” suo figlio per avere nuovamente il marito, sia a livello emotivo (lo dimostra il trasporto verso le altre coppie che si baciano) che a livello fisico (la scena del vibratore, un oggetto “sostituto” di un uomo che lei potrebbe avere facilmente ma non vuole, per rimanere fedele al marito). Ad Amelia lui manca molto e ne è ancora molto innamorata, tanto che – nonostante la giovane età – non si è risposata, non convive con nessuno e neanche accetta le avances del suo collega di lavoro. Inconsciamente poi nei suoi circuiti neuronali è ben stampato il concetto che il bambino sia la causa della morte del marito, perché – a livello irrazionale – se non fosse stato per lui, non avrebbero avuto l’incidente. Ovviamente questi sono tutti pensieri inconsci e non significano che lei detesti o stia covando rancore nei confronti di suo figlio, anzi nel film si vede chiaramente quanto lei tenga a lui. E qui sorge il problema: cosa succederebbe se la parte oscura ed inconscia venisse fuori? Le tante notizie di cronaca di genitori che uccidono i propri figli (volontariamente o per apparente fatalità, come lasciare il bimbo nell’auto sotto il sole) ce lo indicano: la parte inconscia desidera far fuori qualsiasi cosa – cani inclusi – per poter ritornare liberi e senza responsabilità, a prima della nascita dei figli, quando la notte si rimaneva svegli per andare in discoteca e non per cambiare pannolini o pulire le lenzuola sporche di vomito. E Babadook è esattamente questa parte inconscia: un mostro che nessuno ammette di avere e che è nascosto in ognuno di noi, in attesa di trovare quell’attimo di stress in più, per venire fuori come un Herpes per mesi quiescente in un ganglio nervoso, e manifestarsi in tutta la sua virulenza repressa quando calano le difese che contengono il male.

MEDICINA ONLINE BABADOOK SPIEGAZIONE FILM FINALE TRAMA RECENSIONE SPOILER SIGNIFICATO IL MOSTRO BABADOOK ESISTE DAVVERO O NO METAFORA SIMBOLO JENNIFER KENT ESSIE DAVID WALLPAPER.jpg

Babadook esiste o non esiste?

La risposta è NO, almeno nel mondo reale. Babadook, nonostante nel film prenda forma e sostanza ed alla fine venga fisicamente messo in trappola nella cantina, è solamente la metafora di una parte dell’essere umano che tutti noi cerchiamo, chi più chi meno, di rifuggire: ovvero la nostra parte oscura e repressa, ingigantita ed incattivita da un passato traumatico come quello di Amelia e quindi rimossa con forza. Non è un caso che nel film il mostro sia logisticamente posizionato in cantina: come immaginato nel sogno della casa a più piani dallo psichiatra e psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung – inizialmente promotore delle idee di Sigmund Freud – in “Ricordi, sogni, riflessioni” (1961), la cantina è la sede del nostro inconscio. L’Io di Amelia, per affrontare il suo mostro, deve aprire una porta e recarsi nella cantina, sede dell’Es, cioè appunto del suo inconscio, in modo simile a quello che avviene in psicoterapia. A tal proposito non credo che sia un caso quanto nel film i sogni siano ritenuti importanti nella comprensione della psiche di Amelia, al punto che il lungometraggio stesso inizia con un sogno e che, in una sequenza del film intorno al minuto 57, si possano vedere i “rapidi movimenti degli occhi” di Amelia mentre dorme, tipici della fase REM del sonno, quella in cui sogniamo e quella in cui – se dovessimo svegliarci all’improvviso – ricorderemmo il nostro sogno.

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Negare il lato oscuro significa dargli forza

Il Babadook in definitiva non esiste nel mondo fisico e rappresenta il puro male che si antepone al puro bene, qui rappresentato dall’amore sconfinato di una madre per il proprio figlio, ed ognuna di queste due cose è presente in qualsiasi essere vivente. Sono due poli opposti che solitamente ci impediscono di raggiungere l’uno o l’altro estremo perché l’uno non potrebbe mai esistere senza l’altro. La vita vera non è una favola e non esistono i superbuoni e i supercattivi: esistono le persone con le loro debolezze ed esistono i Babadook che prendono il sopravvento e quelli che vengono controllati.
Nel film come nella nostra vita noi fuggiamo continuamente dal nostro (o dai nostri) Babadook cercando di far finta che il nostro lato oscuro non esista, anche se in realtà è sempre lì, più o meno sopito, reprimendolo a dismisura e quanto più possibile. Peccato che, come insegna magistralmente il film (il libro che prima viene strappato poi bruciato e ritorna in entrambi i casi), più si neghi l’esistenza di certi istinti, di certe zone grigie, irrazionali in noi, più questi diventano forti, scavano nel nostro essere ed a volte, scoppiano finendo a comporre i mosaici conclusivi più drammatici che si possa immaginare, dalle malattie e disturbi psichici fino alle peggiori delle ipotesi: suicidi, omicidi e torture verso animali o altri esseri umani, perfino i nostri cari. I nostri figli, sangue del nostro sangue, indifesi, che si fidano di noi, quindi i primi candidati ad essere annientati psicologicamente e/o fisicamente dalle trame ordite dal Babadook, come accade ad Amelia nel film.

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Come affrontare il Babadook che vive in ognuno di noi?

Il finale del film ci da un consiglio ed una lezione di vita d’oro, che da medico e – soprattutto – da padre di due bambini piccoli, mi sento di confermare in pieno: ci mostra che non si possono cancellare del tutto i mostri del passato o del presente, ma in compenso si può imparare a domarli e controllarli. Accettate di avere il vostro Babadook in cantina, al riparo da tutti gli sguardi dei vicini, degli amici e dei colleghi, ma guardato da vicino con coraggio e consapevolezza. Vincete anche voi quella paura che vi porterebbe a non accettare che esista in voi o a girarvi “dall’altra parte”: guardatelo in faccia e affrontatelo, il vostro mostro interiore. Scendete con coraggio quelle scale verso una zona della vostra mente che avete per anni tentato di rimuovere e date lui da mangiare gli avanzi della vostra vita prima che sia lui a decidere di uscire da solo e mangiarla tutta, la vostra vita, comprese le parti migliori.
Quei vermi significano questo: Amelia ha imparato a nutrire regolarmente il mostro con cose che non le servono ed a “calmarlo” quel tanto che basta per evitare che prenda il sopravvento sul lato razionale di lei. Ignorarlo del tutto è impossibile ed alla lunga controproducente (potrebbe impazzire!) quindi la madre regala lui quel minimo di attenzione che merita e non di più. Amelia in questo modo ha appreso come gestire il trauma e domare la bestia nascosta in lei, accettando la sua esistenza, ammettendo a sé stessi che non è perfetta e che in lei coesiste tanto il bene quanto il male. La scena finale che in tanti non hanno capito, rappresenta quindi la comprensione del fatto che il demone non possa essere distrutto, ma che sia necessario accettarlo, conviverci, superarlo e “sfamarlo” periodicamente un minimo, in modo che in un certo senso non venga ignorato, represso e non prenda il controllo delle nostre azioni, con effetti catastrofici.
Prima di chiudere, una curiosità: il nome Babadook è un anagramma di ‘A bad book‘ (che tradotto significa “un libro cattivo“) ed è in parte ispirato al termine “babaroga”, parola che in serbo significa… “uomo nero“.

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Quinto potere (1976): trama e recensione del film di Sidney Lumet

MEDICINA ONLINE network film di Sidney Lumet. Con Peter Finch, William Holden, Faye Dunaway, Robert Duvall, Ned Beatty. Titolo originale Network. Drammatico, durata 121 min. - USA 1976Un film di Sidney Lumet. Con Peter Finch, William Holden, Faye Dunaway, Robert Duvall, Ned Beatty. Titolo originale Network. Drammatico, durata 121 min. – USA 1976

A guardare oggi il nostro mondo, tra Brexit, paura del futuro, borse a picco, banche sull’orlo della detronizzazione, popolo senza neanche più la capacità di incazzarsi, delusione, abbindolamento delle tv, “Network” di Sidney Lumet è un film di grottesca realtà che fa più male di molti drammoni che arrivano al cinema negli ultimi tempi.

Nella personale follia di Howard Beale (un monumentale Peter Finch) c’è l’attaccamento da “alienato” al lavoro. Non c’è vita oltre quello, oltre lo schermo, oltre le cazzate da sparare in tv. Nella grigia monotonia di Max (William Holden) c’è la fragilità del matrimonio e la consapevolezza di vivere nella realtà che ci circonda, quella dove Diana (una splendida Faye Dunaway) non riesce ad esistere se non dietro le percentuali di pubblico, ascolto e quattrini, unico vero obiettivo di Frank (Robert Duvall) simbolo della “scalata al potere”, dell’egoismo individualistico della società del business.

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Lumet prende il microcosmo della televisione e lo trasforma nel macromondo degli States degli anni ’70 che uscivano dalla controcultura, dal Watergate, dal disastro del Vietnam, dalla crisi petrolifera del 1973. La televisione è illusione, non informa e non ha voglia di farlo e quando può spettacolarizza ogni evento, perchè prima di tutto “la tv è spettacolo”. Quest’America senza Dio, in preda al panico e alla povertà, non ha più la forza di incazzarsi e Howard è l’emblema di un paese ormai folle, confuso, privo di qualsiasi identità. Dietro, a manovrare i fili del gioco, a sfruttare uno squilibrato (Howard) per il solo riscontro di pubblico, ci sono i dirigenti della UBS, viscidi esseri che guardano alle statistiche e alle percentuali come l’ultima goccia d’acqua nel deserto, che vivono in una realtà fittizia come mero prolungamento dell’altrettanta fittizia realtà televisiva.

In “Network” (titolo originale) il senso del grottesco diventa malsano realismo e ogni parola che viene pronunciata sembra quasi una profezia sul futuro del nostro mondo: dai monologhi di Howard nel suo “Mao Tse Tung show” al deflagrante discorso di Arthur (Ned Beatty) sull’inesistenza dell’America e della democrazia, perchè il mondo è business, affari e sottomissione al grande sistema dei dollari. Una propaganda del “pensiero unico” che abbiamo ben visto affermarsi nei decenni successivi. “Lei si mette sul suo piccolo schermo da 21 pollici e sbraita parlando d’America e di democrazia…Non esiste l’America, non esiste la democrazia! Esistono solo IBM, ITT, AT&T, Dupont, DOW, Union Carbide ed Exxon. Sono queste le nazioni del mondo, oggi.”

Oggi siamo nell’era di internet e per fortuna la tv inizia a perdere parte della sua forza propagandistica, non prima di aver svolto per decenni il lavaggio del cervello a parte della popolazione, convincendo gli ignari fruitori che il giusto sia sbagliato e viceversa. Manipolazione e trionfo del sistema corporativistico basato sul fine ultimo degli affari, del denaro che tutto può e tutto domina.

“Quinto potere” è uno dei diversi capolavori di Lumet, regista gigantesco che ha attraversato oltre 50 anni di cinema americano, denunciando le storture di un paese meno scintillante di quanto fosse raccontato dalla grande vulgata nazionale e internazionale. Il film è forse eccessivamente verboso in alcune sue divagazioni, ma a 40 anni dalla sua uscita emana ancora una forza profetica che lo rende di un’attualità lacerante.

“Abbiamo una crisi. Molti non hanno un lavoro, e chi ce l’ha vive con la paura di perderlo. Il potere d’acquisto del dollaro è zero. Le banche stanno fallendo, i negozianti hanno il fucile nascosto sotto il banco, i teppisti scorrazzano per le strade e non c’è nessuno che sappia cosa fare e non se ne vede la fine. Sappiamo che l’aria ormai è irrespirabile e che il nostro cibo è immangiabile. Stiamo seduti a guardare la TV mentre il nostro telecronista locale ci dice che oggi ci sono stati 15 omicidi e 63 reati di violenza come se tutto questo fosse normale, sappiamo che le cose vanno male, più che male. È la follia, è come se tutto dovunque fosse impazzito così che noi non usciamo più. Ce ne stiamo in casa e lentamente il mondo in cui viviamo diventa più piccolo e diciamo soltanto: “Almeno lasciateci tranquilli nei nostri salotti, per piacere! Lasciatemi il mio tostapane, la mia TV, la mia vecchia bicicletta e io non dirò niente ma…ma lasciatemi tranquillo!”

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Black Mirror: trama e spiegazione del finale di Giochi pericolosi (Playtest)

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Se cercate la spiegazione del finale, andate direttamente in fondo all’articolo

Questa terza stagione di Black Mirror, di cui questo episodio è il secondo, prodotta da Netflix risulta indubbiamente più matura rispetto agli inizi, probabilmente grazie alla consapevolezza di aver ormai conquistato una fetta di pubblico decisamente maggiore rispetto a quando fu lanciata. Ma la cosa che mi fa piacere ancor di più questa serie incredibile è che questa consapevolezza non si esplica con il ripetersi, con quell’auto-citazione fine a se stessa che contraddistingue alcune serie e film che sembrano campare di rendita per il solo fatto di avere un nome ormai consolidato; e fortunatamente non si percepisce comunque alcuno sforzo di banalizzazione (leggi “commercializzazione”) mirata a raggiungere a tutti i costi un pubblico tanto ampio. No, al contrario, Black Mirror continua sulla stessa strada ideologica innovando al punto giusto, tirando fuori dal cappello idee nuove come solo la fantascienza più cerebrale e matura riesce a fare, fregandosene di ogni aspettativa, liberandosi da qualunque tipo di ansia di prestazione che può colpire quando si produce il seguito di qualcosa che già prometteva bene.
La sperimentazione è sempre stata una costante di questa serie, e in quest’ultima stagione questo è particolarmente evidente: ogni puntata, infatti, omaggia un genere diverso. In questa seconda puntata, i creatori riescono abilmente a giocare non solo con la fantascienza, che nelle loro mani è come il pongo per un bambino, ma anche con l’horror, fondendo i due aspetti in un inquietante finestra su un futuro decisamente non molto lontano, e sfruttando il potere della paura di raggiungere la parte più primitiva del nostro io. Non a caso, alla regia troviamo Dan Trachtenberg (noto ultimamente per quel piccolo gioiellino di 10 Cloverfield Lane), che dimostra che con il genere ci sa fare, e che, come nel sopracitato seguito di Cloverfield, si destreggia tra i cliché tipici dell’horror con la giusta dose di ironia e ci regala qualche riflessione interessante sul perché siamo così attratti da un genere tanto inquietante.

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Trama senza spoiler

La parte iniziale dell’episodio ci introduce al protagonista, Cooper, in viaggio alla ricerca di sé stesso ed in fuga da un passato con il quale ha un rapporto complesso. A Londra, l’incontro con una ragazza del luogo, Sonja, è la scusa per spiegare allo spettatore i motivi del viaggio e del complicato rapporto con la madre, che continua a chiamarlo inutilmente, essendo Cooper non intenzionato a sentirla fino al ritorno a casa. Quando, finalmente, egli sembra aver completato il suo lungo viaggio attorno al globo e si appresta a tornare, la mancanza di denaro lo spinge a sottoporsi alla sperimentazione pagata di un nuovo gioco, creato da una famosa casa di sviluppo di videogame horror. In linea con il suo atteggiamento, Cooper non ci pensa due volte e pur di ottenere i soldi per tornare si reca al centro di sviluppo del prestigioso brand. Qui lo spettatore comincia ad avere un assaggio di quella che sarà la puntata: paura. Senza voler fare eccessivo spoiler, cominciate a questo punto a porre estrema attenzione a quello che accade dopo l’entrata di Cooper nell’edificio dove avverrà la sperimentazione, anche agli elementi apparentemente secondari.

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Spaventare qualcuno che sa che sta per essere spaventato

Ma se il gioco da testare è horror, in quanto è noto che la casa produca giochi di genere, la domanda che viene da porsi è: come si fa a spaventare qualcuno che sa che sta per essere spaventato? È qui che entra in gioco la sperimentazione: il gioco si installa direttamente nel sistema nervoso, con un semplice chip sul retro del collo. E tramite l’analisi del cervello dell’individuo plasma le sue percezioni audiovisive per spaventarlo, studiando le sue debolezze, le sue paure, le sue conoscenze pregresse e i suoi “scheletri nell’armadio”. Questa è pressappoco la presentazione che il fondatore della “SaitoGemu” fa della sua creazione, mostrandosi entusiasta di aver raggiunto un nuovo livello di intrattenimento, certo che questa nuova tecnologia rivoluzionerà il mondo del gaming. Con queste premesse, la puntata non può che costruirsi in modo intricato (poiché, come vedremo, il fatto di trovarsi in un gioco mentale complica di molto le cose) e inquietante, sfruttando la paura dell’ignoto portata all’ennesima potenza (non è l’ignoto in fondo il fondamento della paura?) tanto da spingere lo spettatore stesso a mettere in dubbio quello che sta vedendo, ben oltre quello che la trama di per sé suggerisce.

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Inganno

È questo uno dei temi fondamentali della puntata: l’inganno, che supera i limiti dello schermo e si instilla direttamente nella testa di chi guarda. È straordinaria la capacità di immedesimare lo spettatore nello stesso inganno in cui si ritrova catapultato Cooper, nonostante il primo sia pronto ad ammettere che la simulazione possa andare ben oltre quello che invece il protagonista crede. Di fatto, quindi, non solo Cooper si autoinganna, ma anche la nostra mente, nel tentativo di giustificare gli eventi mostrati, tende ad ingannarci, portandoci a costruire una serie di scenari per spiegare la situazione: scenari certamente plausibili, così tanto da convincerci di essere esatti. Ma, esattamente come avviene al protagonista, i suddetti scenari si riveleranno poi con tutta probabilità errati, per il semplice motivo che è quello lo scopo del gioco, ed è quello lo scopo della puntata.

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Realtà aumentata

Veniamo quindi al secondo tema che segue logicamente il primo: la potenza della mente. Questa non è l’unica puntata di Black Mirror a sfruttare come pilastro narrativo una realtà simulata a livello percettivo, ma è la prima volta che tale realtà viene ad essere costruita puramente dalla mente di chi la vive. Ecco che una semplice regola forzata all’interno della mente (spaventati!) diventa un’ossessione, e le percezioni vengono plasmate di conseguenza, con una realtà che di fatto non è più possibile definire tale, riaccendendo il dibattito eterno tra realisti e nominalisti (esiste una realtà indipendente dall’uomo?). In questo caso è interessante notare come una volta che il nostro “strumento di analisi percettivo” (la mente) viene impostato su un certo obiettivo, la realtà perde completamente di significato, come avveniva nel film Inception per Mal, che una volta convintasi di star vivendo un sogno, forzava ogni percezione a diventare una prova a favore della sua ossessione. La puntata ci mostra però come una realtà esterna esista e come, anzi, questa abbia un valore importante nel modo in cui il protagonista costruisce la propria esperienza, riconducendo tutto ad un unico elemento, proposto fin dall’inizio dell’episodio, che funge da collante per tutta la storia (per chi non avesse visto l’episodio, quest’ultima affermazione potrebbe sembrare confusa, ma una volta visto diverrà chiaro). Molta della produzione fantascientifica moderna, non a caso, ha concentrato gli sforzi non più su mondi lontani, alieni, navi spaziali o simili, ma sull’individuo, sulle costruzioni mentali e sulle possibilità praticamente illimitate del nostro cervello (a livello di complessità, si paragonano spesso mente e universo, con la prima che spesso sembra detenerne il primato). Allo stesso modo, la scienza stessa, a partire dalla psicoanalisi e dal dibattito sulla conoscenza, ha cominciato sistematicamente a concentrarsi su questo magnifico strumento: nel tentativo di spiegarlo, si continua ad evidenziarne la complessità.

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Basta un particolare anche innocuo, per distruggere tutto

Veniamo dunque alla fine della puntata che, come la serie di ha abituato, lascia un profondo senso di rassegnazione, paura e inquietudine. Ma in che modo siamo guidati fino a queste emozioni? La risposta risiede in quella che potrebbe essere definita “provocazione narrativa”. Quel che accade, ancora una volta, è che nonostante la storia ci inganni in vari modi, l’inganno realmente disturbante è quello che sfrutta le conoscenze pregresse di uno spettatore moderno (esattamente come il gioco sfrutta le conoscenze di Cooper per ingannarlo). Siamo abituati ad associare ad un protagonista ottimista, positivo e allegro dei risvolti che in fine saranno proporzionali al suo carattere. È il ritorno finale alla realtà che scombussola lo spettatore, lo nausea, mostrando un contrasto netto tra il mondo delle costruzioni mentali, in cui tutto deve avere senso, positivo o negativo che sia, e quello della realtà, che non segue alcuno schema e non ha alcuno scopo. Nella realtà “reale” basta un particolare apparentemente innocuo e insignificante per distruggere qualsiasi cosa, anche la nostra stessa vita. La puntata funziona quindi come un’enorme monito sul potere della tecnologia in relazione però a prerogative tutte umane: se questa vuole imporsi come strumento con il quale il sogno dell’uomo dell’onnipotenza può finalmente prendere vita, la realtà sarà sempre un passo avanti, imprevedibile, spietata, e sempre completamente indifferente alla nostra volontà.

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Spiegazione del finale (SPOILER)

I momenti più importanti per capire il finale sono quattro, mentre i colpi di scena sono due:

MOMENTO 1: Cooper è nella stanza bianca del test assieme a Katie, l’assistente afroamericana del direttore Saito. Katie ritira e spegne il cellulare di Cooper. Katie esce un momento dalla stanza e Cooper ne approfitta per sbloccare la rete sul cellulare e scattare e inviare foto a Sonia, ma il ritorno di Katie gli impedisce di rimettere il cellulare in modalità aereo, e riceve l’ennesima chiamata dalla madre, che Katie blocca. Nonostante l’imprevisto, tutto procede bene e la donna gli inserisce dietro il collo un chip di controllo neurale che chiama “fungo”: dopo un primo momento di attivazione, Cooper vede gli ologrammi della talpa ed inizia a giocarci.

MOMENTO 2: Subito dopo il momento 1, Cooper viene portato da Saito e Katie collega il “fungo” di Cooper ad un cavo per qualche secondo, per caricare un “pacchetto di rete neurale”. Finita l’istallazione Katie lo accompagna presso la casa degli orrori.

MOMENTO 3: Cooper all’interno della casa, comincia ad aver davvero troppa paura e chiede di terminare l’esperimento, va nella “stanza di recupero” ed impaurito, tenta di estrarsi il fungo da solo, ma Katie, Saito e due collaboratori intervengono e lo fermano: a quanto pare il fungo ha interagito troppo a fondo con il sistema nervoso di Cooper, facendogli dimenticare il suo passato: Saito, dopo avergli chiesto scusa, ordina ai due assistenti di portarlo via. Cooper urla e si risveglia: è ancora nell’ufficio di Saito, che si scusa sentitamente: forse i parametri erano troppo alti e l’esperimento è durato solo un secondo.

COLPO DI SCENA 1: Arrivati al termine del “momento 3” lo spettatore capisce il “colpo di scena 1”: tutto quello che ha visto tra il momento 2 ed il momento 3 in realtà non è mai esistito, bensì è stato solo il frutto di quel secondo di “iperattività cerebrale” che ha provato Cooper grazie al pacchetto di rete neurale, mentre era seduto nella stanza di Saito. In pratica tutta la fase della casa degli orrori sarebbe solo una specie di “bad trip” causato dai “parametri troppo alti”. Lo spettatore è così rassicurato: Cooper sta bene e lo vede tornare a casa. Tutti vissero felici e contenti? Non proprio.

MOMENTO 4: Cooper tornato a casa, incontra la madre in lacrime in stato apparentemente confusionale, che non lo riconosce e gli dice che deve chiamare suo figlio per sapere come sta. La madre compone il numero e… Cooper nuovamente si risveglia nel momento in cui la madre lo aveva chiamato al suo incontro con Katie e muore in preda agli spasmi.

COLPO DI SCENA 2: Al termine del momento 4 il corpo di Cooper viene portato via. Lo spettatore capisce quindi che tutto quello che è successo tra il momento 2 ed il momento 4, in realtà non è esistito se non nella mente di Cooper: è stato tutto un enorme “bad trip” causato dall’interferenza della chiamata ricevuta sul cellulare che sarebbe dovuto essere spento. Questo bad trip include quindi buona parte della puntata: Cooper non è mai stato davvero nella casa degli orrori, non è mai stato seduto nella stanza di Saito, non ha mai subito l’istallazione del “pacchetto di rete neurale” e nemmeno ha mai giocato con le talpe virtuali. Tutto questo, come anche il colpo di scena 1, col protagonista che torna a casa, è stato solo immaginato da Cooper in quegli 0.04 secondi che sono stati la durata reale dell’esperimento.

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Riflessioni sul finale

Lo spunto di riflessione principale è dato dal fatto che la fine definitiva del gioco è dettata dal non rispetto di una regola che vietava l’utilizzo del cellulare durante la fase di beta testing, cellulare utilizzato al fine di raccogliere prove sulla nuova tecnologia da vendere alla stampa di settore. Un po’ come quando sull’aereo ti dicono di spegnere il cellulare ma tu lo vuoi lasciare acceso. La fatalità della chiamata ricevuta dalla madre nel momento più sbagliato possibile, a sua volta conseguenza proprio dell’irrisolutezza da parte di Cooper nell’affrontare la propria paura di riallacciare i rapporti con lei, contribuisce a chiudere il cerchio, nel momento in cui scopriamo che quasi tutto l’episodio è avvenuto – esclusivamente all’interno della mente iperstimolata del protagonista – nell’intervallo di 0,04 secondi, il tempo impiegato da Cooper per dire “Mamma”.

L’intero episodio si rivela, solo a questo punto, un excursus delle paure irrisolte del protagonista, un viaggio sempre più in profondità nella sua mente e nelle sue paure: la paura di rimanere solo, la paura di non ricordare, la paura del lutto familiare e la conseguente difficoltà di riallacciare un legame con i propri affetti rimasti, tutte terribilmente vissute in forma “reale” dal protagonista all’interno della propria mente.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
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Enemy (2013): trama, recensione e spiegazione del film

MEDICINA ONLINE Un film di Denis Villeneuve. Con Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Isabella Rossellini, Sarah Gadon, Stephen R. Hart. Thriller psicologico, durata 90 min. - Canada, Spagna 2013.jpgUn film di Denis Villeneuve. Con Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Isabella Rossellini, Sarah Gadon, Stephen R. Hart. Thriller psicologico, durata 90 min. – Canada, Spagna 2013

Trama senza spoiler

Un inquieto ed insignificante insegnate di storia si imbatte nel suo perfetto doppione, notato casualmente nel ruolo di comparsa in un film. Dopo essersi incontrati, le vite di entrambi si avviano verso un tortuoso e terrificante incubo.

Recensione senza spoiler

Ciò che avviene per il resto del film è abbastanza enigmatico e di non facile interpretazione. Come se non bastasse, l’ultima scena arriva come un fulmine a ciel sereno: definito come “the scariest ending of any movie ever made”, il finale è di certo uno dei più grandi shock cinematografici di sempre. Non parlo del classico colpo di scena in cui, con una spiegazione sorprendente, si risolve il mistero, anzi. La situazione si complica ulteriormente, lasciando il pubblico in balia di uno dei più criptici ed inquietanti enigmi di sempre. Premetto che non si tratta di un giallo, piuttosto di un thriller psicologico: non ci sono assassini o omicidi, qui il mistero è tutto mentale. Seguendo la scia di Cronenberg, Lynch e perfino Kubrick (la scena iniziale richiama Eyes Wide Shut), Denis Villeneuve torna alla regia dopo l’acclamato “Prisoners” realizzando un film dalle tinte seppia, molto fosche e buie (sopratutto negli interni). Girato in una Toronto spettrale e solitaria (spesso immersa nella nebbia), Enemy vanta un’atmosfera angosciante e onirica di prima categoria, sostenuta da una regia davvero eccellente e da una colonna sonora sempre pronta a mantenere viva la tensione.
Nonostante il film tragga grande giovamento dalle performance di Isabella Rossellini (una delle muse di Lynch), Sarah Gadon (una delle muse di Cronenberg) e Melanie Laurent, quella che si fa davvero notare è la versatile ed indiscutibile bravura recitativa di Jake Gyllenhaal, interprete dei due antitetici personaggi principali di Adam e Anthony.

Spiegazione con spoiler

Prima di tornare al finale, è indispensabile parlare del rapporto tra i due protagonisti: quello che è sicuro (gli indizi seminati sono parecchi) è che si tratti della stessa persona. Uno dei due è la proiezione mentale dell’altro, ma quale sia “reale” e quale sia la proiezione è difficile da capire. Lo sdoppiamento psicotico da cui è affetto il personaggio di Adam/Anthony è un prodotto naturale della sua indole repressa.
Gran parte delle scene del film avvengono in realtà nel subconscio del protagonista: gli sporadici confronti tra Adam e Anthony sono da interpretare come “guerre” tra le due fazioni in cui è divisa la sua personalità (eco freudiana della teoria dell’Io, Super-Io ed Es). L’intera pellicola può essere vista come la battaglia mentale di un individuo in lotta con il suo “lato oscuro” (col suo “nemico” da cui il titolo del film), al fine di responsabilizzarsi verso gli obblighi sociali che gli spettano (la fedeltà alla moglie e i doveri di futuro padre). L’ultima scena conferma l’importanza simbolica del “ragno”, elemento ricorrente in tutto il film: lo vediamo uscire dal piatto d’argento nella sequenza iniziale, la donna nuda con la testa da ragno nell’incubo del protagonista Adam, il mastodontico aracnide che sovrasta la città, i cavi elettrici del tram e il vetro della macchina dopo l’incidente paragonati a ragnatele. E la tarantola alla fine.

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La teoria dei ragni reali

In parecchi sono dell’idea che i ragni siano effettivamente reali e non frutto dell’immaginazione contorta dei due protagonisti. Essendo l’uomo moderno distratto dal sesso e dalle pulsioni erotiche, gli aracnidi avrebbero sfruttato questa noncuranza per agire indisturbati, pianificando una silenziosa “invasione ultracorporea” che si realizza pienamente nella scena finale. Nonostante trovi solide fondamenta sul discorso che Adam tiene in classe riguardo ai totalitarismi nell’era antica, basati su un controllo delle menti instaurato tramite il famoso “panem et circensem” (che nell’era moderna è il proprio il sesso), questa prima teoria risulta troppo pretenziosa e fantascientifica, nonostante debba ammettere che riserva un certo fascino.

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Ragni come metafora del controllo sociale

Un’altra interpretazione (con cui mi trovo in sintonia perché decisamente più plausibile) è quella allegorica: la presenza dei ragni è la metafora del totalitarismo che a cui è soggetto l’individuo moderno, intrappolato in una ragnatela inconscia di ossessioni e frustrazioni. Non abbiamo aracnidi reali, bensì simboli psicanalitici desunti dagli incubi/visioni di Adam. Sia quest’ultimo che Anthony, il suo doppio, vivono un’esistenza frustata, soggetti ad un eccessivo controllo di loro stessi che li porta a voler evadere dalla routine: Adam sogna di fare l’attore (attenzione a questo particolare e alla scena con la Rossellini) perché lo annoia la vita da insegnante, Anthony persegue l’adulterio perché si sente oppresso dal matrimonio e terrorizzato dall’idea di avere una famiglia. I ruoli generalmente imposti dalla società in cui i due protagonisti sono confinati (marito, padre, lavoratore statale), vengono avvertiti come una sorta di violenza operata nei confronti di loro stessi.

Donne come ragni

A questo punto viene lecito chiedersi: se i ragni esprimono l’idea della tirannia del subconscio, chi è il vero tiranno? Chi tesse la ragnatela? La risposta è una sola: le donne, ecco cosa rappresentano davvero i ragni. Il protagonista teme la figura femminile, non riesce a stabilire con lei un rapporto intimo che sia fedele o duraturo e punisce se stesso per questo. La donna intrappola il protagonista nella ragnatela del matrimonio, della fedeltà, della paternità ma il personaggio di Adam/Anthony non è in grado di sostenere la responsabilità di tali obblighi. Dopo l’apparente riconciliazione finale, Adam trova la chiave che apre la porta del sex club (luogo di tentazione per eccellenza) in cui Anthony era stato all’inizio, manifestando il desiderio di volerci tornare lasciando di nuovo la moglie sola a casa. La donna non risponde, Adam entra nella stanza di lei è il ragno che gli impedisce il tradimento. Ciò non solo da conferma alla suddetta interpretazione della figura del ragno, ma spiega anche un’affermazione di Adam durante la lezione di storia: i totalitarismi sono un circolo che si ripete di continuo. Trovando la chiave, Adam ricade nel baratro della tentazione da cui credeva di essersi salvato sconfiggendo il suo “lato oscuro”. Ma a questo punto ci potremmo chiedere: il vero “nemico” del titolo è il lato oscuro dell’uomo o è la donna?

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Spiegazione in sintesi

Quello che avete visto è una trasposizione allegorica di ciò che avviene nella psiche di Adam. Non sta avvenendo veramente. Adam Bell è un docente di storia, vive da solo, ha una ragazza di nome Mary con cui ha una storia non stabile. In passato ha provato a fare l’attore, qualche comparsata in commedie da quattro soldi, nulla più. Si faceva chiamare David Saint Claire, ma il suo vero nome era Anthony. Adam ed Anthony sono la stessa persona. Anthony è il passato di Adam. Un passato rimosso che ritorna. Anthony aveva una moglie di nome Hellen, in attesa di un figlio. La tradiva partecipando a degli strani incontri orgiastici. Adam ritrova Anthony grazie ad una battuta del collega che lo invita a vedere un film in cui lui ha recitato da comparsa. Adam all’inizio è curioso, poi capisce che Anthony è la versione di sé del passato, quella vitale, libera, egocentrica, e decide di fuggire, si rende conto che è stato un errore rievocarla. Tuttavia Anthony vive dentro Adam, è una parte importante di sé, pertanto non sarà così facile farla tornare indietro. Anthony chiede ad Adam una notte di sesso con Mary, poi sparirà per sempre dalla sua vita. Adam invece si concede un ritorno nel passato, un modo per rivedere Hellen e chiederle scusa per il modo in cui ha fatto finire il loro matrimonio. In mezzo a tutto ciò vediamo ragni. Ragni all’inizio, ragni sul cielo di Toronto, ragni nel finale. I ragni rappresentano il controllo della società sugli esseri umani, che sono simboleggiate dalle donne e dal matrimonio. Nella scena iniziale Anthony/Adam vede una prostituta che schiaccia un ragno, è il segno che in quel momento la sua vitalità e la sua voglia di evadere da una vita piatta sta prendendo il sopravvento sul conformismo sociale. Un grande ragno nel cielo dimostra che il controllo agisce in maniera globale oltre che privato. Alla fine lo scambio di ruoli ha un esito tragico: Anthony, l’Adam del passato, ha una brusca lite con Mary che termina in un incidente stradale, in cui presumibilmente entrambi perdono la vita. Adam invece riesce a farsi perdonare da Hellen, la quale gli chiede di restare così, di restare con lei in quella sua versione, pacifica, controllata, conforme. Adam accetta, è tornato indietro nel tempo e decide di dedicarsi a Hellen, per una notte. La mattina seguente, al risveglio, trova l’invito per una di quelle feste orgiastiche a cui prendeva parte in passato. Avvisa Hellen che quella sera uscirà, deciso a partecipare ancora a quegli strani rituali a base di sesso. Hellen non risponde. Adam torna in camera e scopre che è diventata un ragno. Questo significa che Adam non è mai cambiato. Adam diventa Anthony, cioè un uomo infedele, instabile, bugiardo, nel momento in cui si trova sotto il controllo, il “ragno”, di una vita coniugale che lo annoia. Hellen, personificazione del matrimonio, è il ragno da cui Adam prova a fuggire, tornando ad essere Anthony, finalmente libero da vincoli.

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Enter the Void (2009): trama, recensione e spiegazione del finale

MEDICINA ONLINE ENTER THE VOID 2009 GASPAR NOE TRAMA RECENSIONE SPIEGAZIONE FINALE PAZ DE LA HUERTA BROWN.jpgUn film di Gaspar Noé. Con Nathaniel Brown, Paz de la Huerta, Cyril Roy, Olly Alexander, Masato Tanno. Drammatico, durata 154 min. – Francia, Germania, Italia 2009

Trama
Oscar e la sorella Linda, orfani di padre e madre vivono da qualche tempo in un micro-appartamento a Tokyo e tirano avanti spacciando droga lui, e ballando in uno strip club lei. La loro situazione sembra alquanto problematica ma ciò che davvero conta è di esserci l’uno per l’altra. La sorte dei due ragazzi verrà stravolta una notte, quando carico di droga da smerciare, Oscar viene attirato per vendetta in un’imboscata ed ucciso da agenti di polizia dal grilletto troppo facile. Benché il trip surrealistico fosse già cominciato precedentemente, a causa dello sballo del protagonista fin dall’inizio del film, il vero viaggio australe inizia solo ora, cioè quando l’anima (o qualunque cosa sia) di Oscar si stacca dalle sue spoglie mortali e comincia a fluttuare per una sempre più vacua ed eterea Tokyo, così tramite lo sguardo onnipresente di questa entità, continuiamo a seguire le vicende degli altri personaggi, in particolare della sorella Linda.

Il balcone, stacci lontano. Tieni gli occhi aperti. Mi sta scoppiando la testa

Recensione
Rare volte nella storia del cinema si sono visti film talmente all’avanguardia e tanto coraggiosi da lasciare gli spettatori sbigottiti e deliziosamente confusi. Ebbene, anche se non raggiunge la grandezza delle opere più visionarie di Kubrick o Lynch, Enter the Void dell’argentino Gaspar Noé merita senza dubbio un posticino tra le avanguardie più coraggiose, perché di coraggio, questa pellicola, ne ha davvero da vendere. Quasi due ore e mezza per la maggior parte raccontate in modalità prima persona, al fine di far immedesimare lo spettatore con il protagonista Oscar, da quando vede i genitori mentre fanno sesso fino a quando vola dentro e fuori l’hotel “Love” (chiamato come uno dei successivi film di Noé).
Oscar lo vedremo in faccia pressoché unicamente quando si trova di fronte allo specchio, le altre volte o vediamo attraverso i suoi occhi o osserveremo la sua nuca. Ma questa non è certo la caratteristica più fulminante del film, ciò che veramente lascia senza parole è l’enorme lavoro artistico di tinte, colori, neon, riflessi e radiazioni luminose al limite dell’attacco epilettico che sommergono e stordiscono senza scampo lo spettatore per l’intera durata della vicenda, creando un vero e proprio viaggio sensoriale onirico eppure realistico, tra sesso esplicito, pianti di bambini disperati ricoperti dal sangue dei propri genitori e colori resi vividi dalle droghe. Impressionanti le inquadrature dall’alto, sia sulla città ipercromatica, che negli interni. Impressionante vedere la scena della “propria” morte e vedere il sangue che ci esce dal petto, mentre ci accasciamo in bagno e la nostra voce si fa sempre meno nitida. Impressionante vedere il frutto dell’aborto di Linda, e lo dico da medico. Impressionante l’ultima scena, in cui vediamo il mondo con gli occhi di un neonato. Emozionante, per il sottoscritto, sentire il “proprio” battito del cuore accelerato, fondersi con quello più lento di mia madre.

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Il libro tibetano dei morti
Il contenuto di Enter the Void non è affatto da prendere alla leggera, ciò di cui tratta, ciò a cui assisteremo durante la visione, viene esplicato in modo semplicemente geniale nei primi dieci minuti del film quando Alex, amico di Oscar, discute con lui del libro ‘The Tibetan Book of the Dead’, ovvero “Bardo Tödröl Chenmo” nel quale si parla del viaggio dell’anima dopo la morte. Oltre che una splendida esperienza surreale ed un tentativo di rappresentare ciò che avviene nell’aldilà, Enter the Void è anche un profondo ed appassionante dramma con al centro l’indissolubile legame dell’amore fraterno – diviso, poi ritrovato, poi di nuovo diviso – cullato dalle soavi note di un azzeccatissimo Bach, a volte modulato ottimamente. Un amore fraterno, velatamente incestuoso, che però fatalmente manca nella notte della morte di Oscar, perché Linda non risponde subito al telefono: in quel momento sta facendo sesso con il proprio capo, lo stesso capo che la farà in seguito abortire. Questo è un film sulle droghe usate “quasi come vitamine”, sul legame tra fratello e sorella, sull’amore. Ma più di ogni altra cosa, è un film sulla morte e su quello che potrebbe succedere a noi ed alla nostra coscienza, subito dopo l’ultimo respiro, nella nostra dimensione extracorporea. Stroncato da alcuni critici che – secondo il sottoscritto – dovrebbero davvero cambiare lavoro, io ve lo consiglio, ma solo se avete il coraggio di vedere qualcosa di diverso dal solito e siete pronti ad “entrare nel vuoto“, in una storia dove passato e presente si mischiano in modo destabilizzante.

Spiegazione del finale
Oscar, dopo la sua morte, nel finale vede Alex e Linda (sua sorella ed il suo amico), che hanno un rapporto sessuale che culmina in una gravidanza e nella nascita di un bimbo. Quel bimbo, i cui primi attimi di vita li viviamo in prima persona, è lo stesso Oscar che si è reincarnato in suo nipote.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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