Prima di domani (2017) spiegazione del finale del film: Sam muore?

MEDICINA ONLINE PRIMA DI DOMANI SPIEGAZIONE FINALE FILM 2017 Antes Que Eu Vá BEFORE I FALL Ry Russo-Young, con Zoey Deutch, Halston Sage, Logan Miller, Kian Lawley, Elena Kampouris.jpgPrima di domani (titolo originale “Before I fall”) regia di Ry Russo-Young, con Zoey Deutch, Halston Sage, Logan Miller, Kian Lawley, Elena Kampouris. Genere: drammatico, fantastico; USA, 2017. Uscito al cinema il 3 marzo 2017 negli Stati Uniti ed il 19 luglio 2017 in Italia.

Trama

Samantha è una normale liceale che un giorno si sveglia e crede di avere davanti a sé una giornata speciale, perché è il “giorno dei cupidi” nel suo liceo e perché lei e Rob, il suo ragazzo, hanno in programma una serata importante. La giornata è in verità molto più speciale di quel che crede perché si ripeterà uguale a se stessa, come per una sorta di scherzo del destino, finché Sam non capirà come viverla appieno, nel modo giusto.

Spiegazione del film e del finale (SPOILER)

“Prima di domani” non è certo il primo film in cui si verifica, per motivi più o meno spiegati, un “loop temporale” in cui il protagonista si ritrova a vivere lo stesso identico giorno più e più volte. Lo abbiamo visto nel film “Ricomicio da capo” del 1993 diretto da Harold Ramis ed interpretato dal grande Bill Murray; in “Edge of tomorrow” del 2014 con Tom Cruise, nel 2011 con “Wake up and die” di Miguel Urrutia e, recentemente, in “Auguri per la tua morte“. Che siano film di genere commedia, thriller o fantascienza pura, questo tipo di film sono solitamente accomunati da un particolare: il protagonista è una persona spesso pigra, superficiale, cinica ed avara di sentimenti che però, messa di fronte al ripetersi inesorabile ed insensato dello stesso giorno, si trasforma gradatamente in persona completamente diversa: coraggiosa, profonda ed aperta ai sentimenti ed ai bisogni di chi gli sta accanto… in una sola parola: migliore.
Anche nel caso di “Prima di domani“, la protagonista cambia progressivamente carattere in meglio durante questa inesorabile ripetizione, ma rispetto agli altri lungometraggi di questo genere c’è una profonda differenza: in tutti i film citati il loop finisce quando il protagonista compie determinate azioni “buone” ed il destino “decide” che la sua vita è meritevole di uscire dal loop, in Prima di domani invece, a dispetto del titolo, non c’è nessun domani: Sam alla fine della giornata, morirà. Il titolo inglese “Before I fall” tradotto significa “prima che io cada” ma può essere interpretato come “prima che io muoia” (una specie di mega spoiler inserito direttamente nel titolo!), ed in questo rende meglio del nostro “prima di domani”. Col titolo italiano quasi ci si aspetta che alla fine della giornata di Sam ci sia realmente, un domani, ma la realtà è che Sam, in ogni caso è destinata a morire: qualsiasi cosa faccia, quello che lei sta vivendo è il suo ultimo giorno di vita. Per lei non ci sono azioni buone che possano farla uscire (viva) dal loop. Ma allora per quale motivo sta rivivendo lo stesso giorno? Per aver la possibilità di cambiare – in meglio – la sua vita, prima di morire.

La possibilità di cambiare le cose prima della sua morte

Nelle ultime scene Sam rincorre Juliet (la ragazza che si vuole suicidare gettandosi su una auto) e cerca di aiutarla facendole capire che il suicidio non è la soluzione e quando la ragazza corre verso il ciglio della strada, Sam la salva venendo travolta al suo posto da un camion, morendo. In quel momento si scopre il motivo del perché Sam vivesse sempre la stessa giornata: le era stata data l’opportunità di modificare l’ultimo giorno della sua vita, cambiando atteggiamento nei confronti dei genitori, godendosi il rapporto con la sorellina, capendo quanto volesse bene alle sue amiche e quale fosse il ragazzo davvero giusto per lei, Kent, ed infine, far capire ad una povera ragazza bullizzata, Juliet, quanto fosse preziosa la vita e salvandole la vita. Nel finale mentre Juliet ringrazia Sam per averla salvata, l’anima della ragazza la guarda, affermando di essere stata Juliet colei che l’ha salvata, dandole la possibilità di “mettere a posto la sua vita” prima di morire. Il destino ha fatto ripetere a Sam l’ultimo giorno della sua esistenza per questo motivo, ed ora che ha rimesso le cose a posto, la ragazza può morire in pace.

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Animali notturni (2016): trama, spiegazione finale e significato del film

MEDICINA ONLINE Animali notturni (Nocturnal Animals) film thriller psicologico e neo-noir  2016 Tom Ford Austin Wright Tony & Susan Jake Gyllenhaal, Amy Adams, Aaron Taylor-Johnson, Michael Shannon, Jena Malone.jpgRegia di Tom Ford, con Amy Adams, Jake Gyllenhaal, Michael Shannon, Aaron Taylor-Johnson, Isla Fisher, Jena Malone. Titolo originale: Nocturnal Animals. Genere thriller, thriller psicologico, drammatico, neo-noir – USA, 2016, durata 115 minuti. Uscita: giovedì 17 novembre 2016; basato sul romanzo del 1993 di Austin Wright “Tony & Susan”.

Trama senza spoiler

Susan Morrow, proprietaria di una prestigiosa galleria d’arte, vive una vita che scivola abulica sulla superficie delle opere che espone, finché un giorno riceve un manoscritto dall’ex-marito Edward Sheffield da cui la separano diciannove anni di divorzio. Approfittando di un week-end in cui resta sola (Walker, l’attuale marito, infatti si è allontanato apparentemente per lavoro, ma in realtà per tradirla) la donna si dedica alla lettura del manoscritto a lei dedicato, che si intitola Animali notturni, proprio come lei veniva definita dall’ex-marito. La lettura dello scritto – che è alternata alle vicende reali – turba sempre più la donna dal momento che il racconto presenta dei parallelismi metaforici con il loro drammatico passato di coppia: il divorzio è stato infatti traumatico, proprio per colpa di Susan che ha deciso in modo unilaterale di troncare ogni rapporto con Edward. Quelle pagine che la donna consuma con gli occhi, svolge col cuore, riorganizza nella testa, risalendo il tempo e la storia del suo matrimonio, la porteranno al desiderio di riavvicinarsi all’ex marito: ma quest’ultimo sarà davvero ancora disposto a perdonarla?

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Recensione senza spoiler

Animali Notturni è uno dei più bei film d’amore e di vendetta del cinema contemporaneo. Ed è un thriller. Sì, è un film d’amore, perché parla di rapporti tra due persone che si sono amate, ma è anche un thriller rigonfio di vendetta, di un odio patinato ed innocente, quello di un uomo a cui è stato tolto tutto dalla donna che amava, da una persona che credeva diversa e che invece si è dimostrata tutto l’opposto di ciò che sembrava, tutto il contrario di ciò che lei stessa avrebbe mai voluto. Lui è Edward Sheffield (Jake Gyllenhaal), ed è il primo marito di Susan, dalla quale ormai si è separato da molti anni. È uno scrittore. Un giorno, all’improvviso, le manda un libro; è un’opera che dedica proprio a Susan e nel bigliettino che accompagna la missiva dichiara di essere finalmente riuscito a terminarlo grazie a lei, che gli è stata d’ispirazione. Questo libro però racchiude qualcosa di particolare, di tremendo. È una storia dura, cruda e macabra, ma altro non è che l’emblema torbido e la struggente metafora di ciò che ha vissuto per causa di Susan. Non può farne a meno; la verginità del suo animo è stata macchiata da un gesto feroce e brutale al quale nessuno può porre rimedio, ed inevitabilmente si va incontro ad una sofferenza che lo lascia attonito, tormentato, ma irrimediabilmente diverso. Lei è Susan Morrow (Amy Adams), ed è la proprietaria di una galleria d’arte. Molti anni fa era sposata con Edward, ma dal momento in cui l’ha lasciato ha iniziato a vivere con Walker (Armie Hammer) ed i due sono anche convolati a nozze. Il loro matrimonio è in piedi da 19 anni, tuttavia sono finiti i fasti di un tempo, gli scricchiolii si sono tramutati in terremoto, e la donna si trova intrappolata in un prigione dorata dalla quale non riesce ad uscire, perché non ne ha la forza.

Un uomo fragile

È proprio la forza il nodo che lega l’intera storia. Edward è sempre stato una uomo fragile, o quantomeno questo è ciò che ha perennemente visto in lui Susan, al punto che anch’egli sembra convincersene, tratteggiando – nelle pagine del suo libro – una figura di sé succube di ogni situazione fuori dal suo controllo, non in grado di opporsi alla crudeltà di un mondo che non riesce a comprendere.
Susan ha un’immagine diversa di Edward: lo percepisce come una persona romantica, che sa credere in sé stesso e soprattutto sa credere in lei. Forse troppo. Non è un uomo egoista, Edward. Forse per nulla. È questa la colpa che deve espiare; il suo essere accondiscendente e dolce verso la donna che ama, fa di lui un facile martire, un uomo col cappio al collo che cammina come un equilibrista sopra un filo sospeso nel vuoto. Susan invece sconta le sue colpe quasi inconsciamente, rendendosene conto soltanto quando è troppo tardi. Lei è una donna che vive col costante terrore di trasformarsi in ciò che ha sempre detestato, ma non fa che compiere passi inesorabili in quella direzione. Il loro dolore ti entra nelle viscere e non si stacca mai, per tutti i 115 minuti di film ed anche oltre. Animali Notturni è un continuo irradiarsi di pulsazioni e di un incessante nodo in gola. Ti nausea, ti sfinisce, ti si attacca addosso e non ti stacca più.
La perfezione sta tutta nel modo autentico ed elegante che ha Tom Ford di raccontarci una storia che non appartiene solamente ai due protagonisti, ma si estende a macchia in un mondo ormai arido di genuinità e di bontà, parole che risultano infatti desuete e banali. Arido come le radure del Texas, dove un uomo distrutto è obbligato a camminare per ore prima di ricevere un aiuto, dove nessuno ti salva se non ti salvi da solo.

L’estetica di Tom Ford

Di contro l’oscurità è quella in cui gli animali notturni sanno muoversi perfettamente, attaccano e uccidono vittime innocenti (se qualcuno lo è davvero, in fondo) con la brutalità tipica, appunto, delle bestie.
Ma esiste anche la vita diurna, e quella obbliga persino gli animali notturni a fare i conti con se stessi e con le conseguenze delle proprie azioni. Chi è immune da tutto questo è Tom Ford. Ogni cosa che tocca si trasforma in oro. Il Re Mida del nuovo millennio è un personaggio altamente poliedrico, e non possiamo non provare ammirazione nei suoi confronti. Nonostante le tante parole che si possono spendere per questo film, le sensazioni che ti lascia sono incredulità e confusione. Incredulità e confusione vanno di pari passo in tutta l’opera, e si avvinghiano in un finale che, gelido, trapassa lo spettatore come una lama. Si resta attoniti di fronte al dipanarsi degli eventi, mentre si sciolgono gli intrecci narrativi rimane legato quel nodo alla gola, lo strazio di vite consumate e che incedono singhiozzanti al pari di un plot convulso e che non può non intaccare l’animo dello spettatore, stordendolo. In tutto questo e in molto altro emerge e si consacra il talento di Tom Ford, che non trascura nulla, mettendo sullo stesso piano l’estetica di cui è Maestro, assecondata da una scenografia e una fotografia pungente ed efficace, ed una regia cinica e acuminata.

La sequenza iniziale

La sequenza iniziale è a dir poco spiazzante, perché di fronte a noi, in un crescendo di pose, ammiccamenti e nudità integrali, si esibiscono una dietro l’altra alcune modelle che farebbero la felicità di un regista come Ulrich Seidl, già apprezzato estimatore di nudità extralarge nel famigerato e ai tempi scandaloso “Canicola”. Qui però, a fare la differenza con il lungometraggio del regista austriaco, e quindi a risultare sorprendenti invece che oscene, sono le aspettative create da “Animali notturni”, che si annunciava provvisto di una confezione che faceva del mistero e di un’estetica bella e raffinata i suoi riconosciuti punti di forza.
Detto che preferiamo lasciare il lettore con il dubbio a proposito della maniera in cui si evolve il finale della scena a cui abbiamo appena accennato, ci sembra importante evidenziare come tale inizio sia la firma di un regista che dimostra di saper aggiungere al mezzo cinematografico le invenzioni e la fantasia che ne contraddistinguono il lavoro nel campo della moda. Il cortocircuito tra le facce opposte della stessa medaglia presente in quei primi fotogrammi, e quindi l’accostamento tra il corpo esibito e opulento delle voluminose donzelle, fa il paio con la bellezza levigata e accuratamente vestita di Susan, la gallerista ricca e avvenente interpretata dalla bravissima Amy Adams (vedi foto in alto) stabilendo il leit-motiv visuale ed emotivo che ritroveremo per tutta la durata del racconto.

Super cast

E poi c’è un cast artistico che mette i brividi. Jake Gyllenhaal è abilissimo nel rendere struggente la sua figura di uomo devastato e consumato, riuscendo ad essere presente persino quando la sua assenza diventa fondamentale ai fini dello sviluppo narrativo. Amy Adams è veramente ad alti livelli. Nessuno probabilmente avrebbe saputo rendere meglio il senso di ciò che Tom Ford cercava dal suo personaggio. Ma tutto ciò sembra un mero vezzo di fronte alla potenza distruttiva dello script, di quell’impianto narrativo volutamente preda di un bivio che vive di metafore. Le già citate e spoglie lande texane, e il mondo patinato della Los Angeles a 6 zeri, quello di due esistenze ormai divise dal tempo, corrose dai cambiamenti e dalle scelte. Di tutto questo, dopo una guerra dove ci si spara dritti al cuore, cosa resta? La forza, quella inespressa e nascosta sotto le macerie di un rapporto, sotto il peso delle paure, sotto il terrore del cambiamento. Esce fuori con la violenza di uno tsunami, quando ormai non c’è più nulla da perdere, rovesciando tutto nel gioco delle parti e mostrandoci la vera forza di chi ha seppellito la fragilità sotto lo smacco e il fallimento. Curiosità: nel film la piccola parte di Sage Ross è di Jena Malone, che aveva recitato con Gyllenhall in Donnie Darko. Infine menzione a parte per Michael Shannon nella parte del detective Bobby Andes, che regala al suo personaggio espressioni e profondità psicologica davvero notevoli.

Un film consigliato, da vedere almeno due volte per capire fino in fondo tutte le metafore del racconto di Edward.

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DA QUI IN POI SPOILER

Significato e metafore del film

La prima cosa da chiarire – che non a tutti può apparire lampante – è che il film mostra vari momenti della vita dei personaggi reali, incastrati con il racconto del libro. In animali notturni ci sono tre parti fondamentali:

  • il presente, che narra la vita della protagonista (Susan) che vive una vita dorata ma triste, passando da una mostra all’altra, con una figlia distante ed un marito che la tradisce. Susan riceve il manoscritto dell’ex marito (Edward) e la sera lo inizia a leggere;
  • la storia contenuta nel manoscritto che narra di una normale famiglia che parte in auto per le vacanze, le quali però finiscono in tragedia. All’interno della storia i protagonisti assumono (nella mente di Susan che sta leggendo) l’aspetto dell’ex marito, della sua attuale figlia e di sé stessa, proprio quello a cui puntava l’autore;
  • il passato, cioè la storia d’amore iniziata più di vent’anni prima che ha portato Susan ed Edward ad incontrarsi, innamorarsi, sposarsi e poi divorziare 19 anni prima, con annesso aborto di Susan.

Chiarito questo, il libro che Edward dedica alla moglie è una chiara metafora della loro storia d’amore, che li ha portati al divorzio. Le donne rapite sono rispettivamente Susan stessa e la figlia:

  • la morte della moglie rapita è la metafora di una morte non reale ma “ideale”: è la morte della Susan iniziale, quella che vent’anni prima aveva amato disinteressatamente Edward e lo supportava sempre, tale “morte” ha lasciato il posto ad una Susan fredda e calcolatrice – quella attuale – totalmente insensibile nei confronti dei sentimenti e dei bisogni altrui;
  • la morte della figlia rapita rappresenta la vera morte eseguita nei confronti della piccola da parte della moglie nel momento stesso in cui lei ha scelto di abortire.

La stessa posizione in cui le donne vengono trovate morte nel racconto (vedi foto più in basso), potrebbe simboleggiare Susan che muore idealmente nel momento in cui abortisce sua figlia mentre è stesa sul lettino del medico, e la figlia che muore realmente uccisa dall’aborto mentre è “accanto” a lei (nel suo grembo).

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La morte “ideale” della moglie e reale della figlia

Le altre metafore sono:

Il viaggio della famiglia rappresenta la storia di Susan ed Edward, partita bene ma finita male.

Le lande desolate in cui la famiglia si inoltra, rappresentano l’aridità della storia passata che – partita con le migliori intenzioni – si trasforma in tragedia.

I tre giovani che stuprano ed uccidono moglie e figlia sono i vari aspetti che hanno ucciso il loro amore ed il loro matrimonio, che hanno portato Susan ad essere fredda e calcolatrice ed hanno portato all’aborto della figlia (la morte di entrambe).

Il detective è la voglia di Edward di salvare il loro rapporto. Ma è una voglia pronta a morire, malata e priva di sicurezze, a cui Edward si aggrappa disperatamente per tanto tempo, fino a morirci.

Il padre codardo, che si nasconde quando i due “cattivi” tornano indietro a cercarlo, anziché intervenire, rappresenta l’Edward stesso nel passato, che col senno di poi ora forse si sente in colpa per non essersi mostrato “coraggioso” di fronte alla ex moglie, fatto che ha contribuito alla tragedia della storia.

Il padre coraggioso, che alla fine uccide il “cattivo”, rappresenta l’Edward nel presente: un Edward senza più timori che ha reagito alle sue paure ed ha ripreso in mano la sua vita, scrivendo un libro di successo.

In poche parole l’intero romanzo è una rappresentazione metaforica della storia di Susan e Jake. Lui regala a lei il romanzo proprio per farle capire cosa ha provato nell’essere stato trattato così da lei e per farle rimpiangere le scelte di cambiare carattere (uccidendo la sé stessa “buona”) ed uccidere la figlia (l’aborto).

Spiegazione del finale

Il finale di questo film rappresenta una delle più sottili vendette della storia del cinema. Leggendo il libro Susan capisce subito quello che nella sua mente era già chiaro: diciannove anni prima ha fatto un grosso errore a lasciare Edward. Susan ha capito di aver fatto un terribile sbaglio anche a non aver creduto nel suo talento e nelle storie che poteva raccontare (ricordate il flashback dove Susan diceva al marito «Scrivendo di te non arriverai mai da nessuna parte»). Lei prova a ricontattarlo (la mail era stata appositamente recapitata insieme al libro, un piano diabolico!) e lui accetta l’invito a cena. Lei vede in quell’incontro una seconda occasione per ricominciare a vivere, uscire dal grigiore della sua vita apatica e – forse – ritornare con l’ex marito. Lei va all’invito, ma lui non si presenterà, lasciandola ad aspettare invano. Questa è la vendetta di Edward, una vendetta già anticipata dal regista nel quadro con su scritto “revenge” che appare non a caso all’inizio del film.

Qualcuno potrebbe dire: è impossibile che la ex moglie leggendo il libro una sera, si reinnamori del marito. Ciò è vero, ma a mio avviso lei in realtà non si reinnamora di nessuno, dal momento che forse ha perso la sua capacità di amare già vent’anni prima, sempre se l’ha davvero mai avuta. Lei vuole soltanto fuggire da una vita arida che all’inizio le sembrava appetibile e che invece l’ha distrutta ed ora le appare come una gabbia. Lei è già in crisi da tempo con il suo nuovo marito e con la sua vita dorata fatta di finzione e “psicofarmacologi”. Il libro è solo una goccia che ha fatto traboccare il vaso.

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Babadook (2014) trama, recensione, significato e spiegazione del finale

MEDICINA ONLINE BABADOOK SPIEGAZIONE FILM FINALE TRAMA RECENSIONE SPOILER SIGNIFICATO IL MOSTRO BABADOOK ESISTE DAVVERO O NO METAFORA SIMBOLO JENNIFER KENT ESSIE DAVID WALLPAPER.jpgUn film di Jennifer Kent con Essie Davis, Noah Wiseman, Daniel Henshall, Hayley McElhinney, Barbara West. Titolo originale The Babadook; drammatico, horror, psicologico, durata 95 min. – Australia 2014 VM 14 anni.

Trama senza spoiler

Il film segue le vicende che ruotano intorno ad una famiglia disastrata dagli eventi, ci presenta una madre – Amelia Vanek – ritrovatasi a dover allevare il suo bambino da sola dopo la tragica morte del marito, andatosene in un incidente nello stesso giorno in cui il loro figlioletto veniva al mondo. Samuel non sembra un bambino “normale”, le scene isteriche sono all’ordine del giorno e la vita di Amelia è oppressiva e sempre più solitaria, a partire dal lavoro in una clinica per anziani sino ai difficili rapporti sociali che ha a causa delle reazioni emotive sempre più esagerate del figlio. La vita di Amelia diventerà sempre più difficile, specie da quando entrerà nella sua vita uno strano libro per bambini, chiamato Mister Babadook.

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Recenzione senza spoiler

Non mi dilungherò troppo perché “non vedo l’ora” di scrivere il prossimo paragrafo, quello della spiegazione e del significato del lungometraggio. A me il film è piaciuto molto ed ho apprezzato il tocco della regia femminile di Jennifer Kent, anche sceneggiatrice, che ha saputo dare una profondità al personaggio della madre ed ai suoi disagi in modo veramente incredibile e credibile, probabilmente molto più di quanto sarebbe riuscito a fare un uomo. Il modo in cui l’attrice australiana Essie Davis esprime questi disagi è fantastico e ottima è l’atmosfera di depressione e tensione crescente che avvolge lo spettatore: sembra di scendere nell’inferno dell’animo umano di un genitore con questo film, un po’ come avviene seguendo il personaggio di Jack Torrance in Shining. Questo è l’orrore che mi piace, senza lupi mannari o vampiri. E’ un horror reale, realistico, che può accadere a tutti noi, affermazione valida solo se avete capito il reale significato simbolico del Babadook (se non lo avete capito, continuate la lettura!)
Un plauso va fatto anche all’estetica del Babadook: il tratto distintivo dell’uomo nero è cartoonesco, proprio come in un classico libro piegabile per l’infanzia, ma il mostro mette ugualmente, ed a maggior ragione grazie al contrasto che evoca, una grande inquietudine ed il contenuto del libro è più scabroso, terrificante e personalizzato (le pagine si scrivono da sole mano a mano che il film avanza) pagina dopo pagina. Una creatura cinematografica che domina la seconda metà del film in modo molto affascinante, per un lungometraggio ottimamente recitato e girato, con buona fotografia e musiche inquietanti al punto giusto. L’idea originale del plot di The Babadook, una bozza di esso, venne espressa dalla regista Jennifer Kent sottoforma di corto nel suo Monster, idea che ha qui allungato e perfezionato in modo piuttosto riuscito. La registra australiana riesce qui a produrre un film che per tutta la sua durata ti pone una domanda fondamentale: Il Babadook esiste o no? La risposta la trovate più in fondo all’articolo.

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Significato del film (SPOILER DA QUI IN POI)

Diciamo che per capire realmente questo film, forse dovete essere… genitori. In caso contrario le mie prossime parole potrebbero apparirvi esagerate se non assurde. Partiamo da un fatto che sembrerebbe off topic ma non lo è: qualsiasi genitore al mondo sa quanto sia difficile gestire un figlio nei suoi primi mesi ed anni di vita e qualsiasi genitore onesto ammette che – alla quinta notte di fila insonne – c’è un momento di tale stanchezza, esasperazione e – in certi casi – alienazione, che sarebbe disposto a tutto pur di far star zitta la propria prole per 10 minuti e riposarsi il cervello (che poi questo è il reale motivo per cui esistono i cartoni animati!). Dormire male la notte (o non dormire affatto), poi porta a sonnolenza diurna e in alcuni casi ad una continua sensazione di irritazione e fastidio. Ecco, immaginate quindi il livello di stress che può raggiungere un genitore, una donna in questo caso, quando è costretto a vivere quei primi mesi ed anni di vita del figlio, da solo. E non sto parlando di quelle donne che hanno bimbi tranquilli, un ricco assegno di mantenimento da parte del marito benestante divorziato e tate al seguito: in questo caso parliamo di una donna sola che deve lavorare duro perché suo marito è morto e suo figlio è sicuramente molto più “impegnativo” della media. A stress si aggiunge un probabile disturbo post traumatico da stress. Anche se sono passati anni dalla sua morte, lei pensa ancora a quel tragico incidente, come dimostra l’incubo che viene mostrato all’inizio del film ed il fatto che non riesce addirittura neanche a festeggiare il compleanno del figlio – evento solitamente molto lieto – perché il marito è morto nel portarla all’ospedale per partorire: in pratica compleanno del figlio e morte del marito sono lo stesso giorno. E’ una corrispondenza devastante per la mente di una persona.

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Se l’inconscio prevale

La mia esperienza con pazienti affette da depressione post partum mi fa dire con sicurezza che – seppur la donna non lo ammetta – a livello inconscio, spesso “darebbe volentieri indietro” suo figlio per avere nuovamente il marito, sia a livello emotivo (lo dimostra il trasporto verso le altre coppie che si baciano) che a livello fisico (la scena del vibratore, un oggetto “sostituto” di un uomo che lei potrebbe avere facilmente ma non vuole, per rimanere fedele al marito). Ad Amelia lui manca molto e ne è ancora molto innamorata, tanto che – nonostante la giovane età – non si è risposata, non convive con nessuno e neanche accetta le avances del suo collega di lavoro. Inconsciamente poi nei suoi circuiti neuronali è ben stampato il concetto che il bambino sia la causa della morte del marito, perché – a livello irrazionale – se non fosse stato per lui, non avrebbero avuto l’incidente. Ovviamente questi sono tutti pensieri inconsci e non significano che lei detesti o stia covando rancore nei confronti di suo figlio, anzi nel film si vede chiaramente quanto lei tenga a lui. E qui sorge il problema: cosa succederebbe se la parte oscura ed inconscia venisse fuori? Le tante notizie di cronaca di genitori che uccidono i propri figli (volontariamente o per apparente fatalità, come lasciare il bimbo nell’auto sotto il sole) ce lo indicano: la parte inconscia desidera far fuori qualsiasi cosa – cani inclusi – per poter ritornare liberi e senza responsabilità, a prima della nascita dei figli, quando la notte si rimaneva svegli per andare in discoteca e non per cambiare pannolini o pulire le lenzuola sporche di vomito. E Babadook è esattamente questa parte inconscia: un mostro che nessuno ammette di avere e che è nascosto in ognuno di noi, in attesa di trovare quell’attimo di stress in più, per venire fuori come un Herpes per mesi quiescente in un ganglio nervoso, e manifestarsi in tutta la sua virulenza repressa quando calano le difese che contengono il male.

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Babadook esiste o non esiste?

La risposta è NO, almeno nel mondo reale. Babadook, nonostante nel film prenda forma e sostanza ed alla fine venga fisicamente messo in trappola nella cantina, è solamente la metafora di una parte dell’essere umano che tutti noi cerchiamo, chi più chi meno, di rifuggire: ovvero la nostra parte oscura e repressa, ingigantita ed incattivita da un passato traumatico come quello di Amelia e quindi rimossa con forza. Non è un caso che nel film il mostro sia logisticamente posizionato in cantina: come immaginato nel sogno della casa a più piani dallo psichiatra e psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung – inizialmente promotore delle idee di Sigmund Freud – in “Ricordi, sogni, riflessioni” (1961), la cantina è la sede del nostro inconscio. L’Io di Amelia, per affrontare il suo mostro, deve aprire una porta e recarsi nella cantina, sede dell’Es, cioè appunto del suo inconscio, in modo simile a quello che avviene in psicoterapia. A tal proposito non credo che sia un caso quanto nel film i sogni siano ritenuti importanti nella comprensione della psiche di Amelia, al punto che il lungometraggio stesso inizia con un sogno e che, in una sequenza del film intorno al minuto 57, si possano vedere i “rapidi movimenti degli occhi” di Amelia mentre dorme, tipici della fase REM del sonno, quella in cui sogniamo e quella in cui – se dovessimo svegliarci all’improvviso – ricorderemmo il nostro sogno.

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Negare il lato oscuro significa dargli forza

Il Babadook in definitiva non esiste nel mondo fisico e rappresenta il puro male che si antepone al puro bene, qui rappresentato dall’amore sconfinato di una madre per il proprio figlio, ed ognuna di queste due cose è presente in qualsiasi essere vivente. Sono due poli opposti che solitamente ci impediscono di raggiungere l’uno o l’altro estremo perché l’uno non potrebbe mai esistere senza l’altro. La vita vera non è una favola e non esistono i superbuoni e i supercattivi: esistono le persone con le loro debolezze ed esistono i Babadook che prendono il sopravvento e quelli che vengono controllati.
Nel film come nella nostra vita noi fuggiamo continuamente dal nostro (o dai nostri) Babadook cercando di far finta che il nostro lato oscuro non esista, anche se in realtà è sempre lì, più o meno sopito, reprimendolo a dismisura e quanto più possibile. Peccato che, come insegna magistralmente il film (il libro che prima viene strappato poi bruciato e ritorna in entrambi i casi), più si neghi l’esistenza di certi istinti, di certe zone grigie, irrazionali in noi, più questi diventano forti, scavano nel nostro essere ed a volte, scoppiano finendo a comporre i mosaici conclusivi più drammatici che si possa immaginare, dalle malattie e disturbi psichici fino alle peggiori delle ipotesi: suicidi, omicidi e torture verso animali o altri esseri umani, perfino i nostri cari. I nostri figli, sangue del nostro sangue, indifesi, che si fidano di noi, quindi i primi candidati ad essere annientati psicologicamente e/o fisicamente dalle trame ordite dal Babadook, come accade ad Amelia nel film.

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Come affrontare il Babadook che vive in ognuno di noi?

Il finale del film ci da un consiglio ed una lezione di vita d’oro, che da medico e – soprattutto – da padre di due bambini piccoli, mi sento di confermare in pieno: ci mostra che non si possono cancellare del tutto i mostri del passato o del presente, ma in compenso si può imparare a domarli e controllarli. Accettate di avere il vostro Babadook in cantina, al riparo da tutti gli sguardi dei vicini, degli amici e dei colleghi, ma guardato da vicino con coraggio e consapevolezza. Vincete anche voi quella paura che vi porterebbe a non accettare che esista in voi o a girarvi “dall’altra parte”: guardatelo in faccia e affrontatelo, il vostro mostro interiore. Scendete con coraggio quelle scale verso una zona della vostra mente che avete per anni tentato di rimuovere e date lui da mangiare gli avanzi della vostra vita prima che sia lui a decidere di uscire da solo e mangiarla tutta, la vostra vita, comprese le parti migliori.
Quei vermi significano questo: Amelia ha imparato a nutrire regolarmente il mostro con cose che non le servono ed a “calmarlo” quel tanto che basta per evitare che prenda il sopravvento sul lato razionale di lei. Ignorarlo del tutto è impossibile ed alla lunga controproducente (potrebbe impazzire!) quindi la madre regala lui quel minimo di attenzione che merita e non di più. Amelia in questo modo ha appreso come gestire il trauma e domare la bestia nascosta in lei, accettando la sua esistenza, ammettendo a sé stessi che non è perfetta e che in lei coesiste tanto il bene quanto il male. La scena finale che in tanti non hanno capito, rappresenta quindi la comprensione del fatto che il demone non possa essere distrutto, ma che sia necessario accettarlo, conviverci, superarlo e “sfamarlo” periodicamente un minimo, in modo che in un certo senso non venga ignorato, represso e non prenda il controllo delle nostre azioni, con effetti catastrofici.
Prima di chiudere, una curiosità: il nome Babadook è un anagramma di ‘A bad book‘ (che tradotto significa “un libro cattivo“) ed è in parte ispirato al termine “babaroga”, parola che in serbo significa… “uomo nero“.

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L’inquilino del terzo piano (1976): trama e spiegazione del film

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Chi si nasconde davvero sotto queste bende?

Un film di Roman Polanski, con Roman Polanski, Isabelle Adjani, Melvyn Douglas, Bernard Fresson, Jo Van Fleet. Titolo originale “Le locataire”, in USA conosciuto come “The Tenant”. Drammatico, thriller psicologico, durata 125 min. – Francia 1976.

Trama senza spoiler

Trelkovski, modesto ed anonimo impiegato di origini polacche, prende possesso a Parigi di un appartamento la cui inquilina precedente, Simon Chule, si è uccisa buttandosi dalla finestra. Circondato da inquietanti e grotteschi vicini, Trelkovski scopre nell’appartamento orribili tracce dell’ex-inquilina, che lo porteranno a conseguenze drammatiche e totalmente impreviste. L’inquilino del terzo piano, insieme a “Repulsion” ed a “Rosemary’s baby”, completa la trilogia dedicata da Polanski al lato oscuro, ai meandri orrorifici della mente umana, sebbene gran parte della sua produzione possa a mio avviso ricondursi ad inquietudini sottili e morbose che l’essere umano sperimenta nella propria esperienza, basti pensare al meraviglioso “Una pura formalità“.

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Spiegazioni (SPOLER)

Non esiste una spiegazione univoca e razionale a questo film veramente eccezionale di Polanski. Partiamo dal fatto che l’Inquilino del terzo piano inizia e termina con la stessa scena, un paio di occhi (vedi foto in alto) che spuntano da un corpo quasi interamente bendato e ingessato. Non sembra un grido “casuale”, bensì è il tipico urlo di chi riconosce il proprio carnefice ma non può indicarlo, oppure l’urlo terrorizzato che personalmente farei io se fossi bloccato a letto e vedessi me stesso dall’esterno del mio corpo. Quali le possibili spiegazioni a quell’urlo ed al film in generale?

1) Malattia mentale

Una delle possibili soluzioni, tra le più semplici, è che Trelkovski sia malato di una malattia mentale, ad esempio schizofrenia, che lo porta a travestirsi da donna e ad immaginare di essere Simone. La sua paranoia potrebbe essere scaturita dal suo carattere remissivo ed eccessivamente accomodante che lo espone all’aggressività degli altri: travestirsi da donna dal carattere forte potrebbe essere un sistema per sfuggire alla gabbia del suo carattere debole. La stessa malattia lo esporrebbe alle numerose scene irreali del film, che sarebbero allucinazioni, a tal proposito, leggi anche: Schizofrenia: sintomi iniziali, violenza, test, cause e terapie

2) Personalità multipla

Trelkovski è affetto da personalità multipla: dalla finestra vede sé stesso nel suo appartamento e ciò farebbe pensare ad uno sdoppiamento di personalità. Trelkovski riflette “il suo io” dall’altra parte. Ma il suo io è sé stesso o è Simone? Trelkovski vede dal suo appartamento Simone Choule che si toglie le bende perché ha una allucinazione o perché vede una delle sue personalità, quella di Simone? Ed è Simone una delle personalità di Trelkovki o è Trelkovski una delle personalità di Simone?

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3) Reincarnazione

Le innumerevoli simbologie egizie presenti nel film farebbero supporre la tematica della reincarnazione: Trelkowski e Simone sarebbero in realtà la stessa persona, l’una incarnata nell’altra, il che spiegherebbe la scena in cui Trelkowski, dalla finestra del proprio appartamento, vede una figura avvolta nelle bende (Simone e/o sé stesso nel futuro) nel bagno dello stabile; il bagno, coperto di geroglifici, rappresenterebbe una camera mortuaria egizia e Simone, in questa stanza, si toglie le bende come se fosse una mummia che si è risvegliata dalla morte.

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4) Un loop temporale

Il film inizia e termina con la stessa scena. Non una scena simile: è proprio la stessa, o almeno così ci vuole suggerire Polanski: alla fine del film siamo portati a pensare che sotto le bende di Simone, viste all’inizio del film, ci sia Trelkovski e non Simone. Questo sta forse a significare che Simone Choule è Trelkovski e che l’intera storia sia una specie di serpente che si morde la coda, come in un loop temporale senza uscita? In tal senso il film potrebbe essere inquadrato nell’ottica del loop circolare, a tal proposito, leggi: Bootstrap paradox e paradosso della predestinazione: spiegazione ed esempi nei film

5) Tutto il film è nella mente di Simone

Trelkowski sarebbe un personaggio fittizio creato dalla mente della stessa Simone quando si ritrova bloccata a letto, o una fantasia basata su un uomo che va a visitarla in ospedale. Di conseguenza, l’intera linea narrativa del film sarebbe fittizia, esclusa la breve scena introduttiva.

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6) Omosessualità latente

Simone crea Trekovski con l’immaginazione. La ragazza amava le donne e non gli uomini: lo dice Stella all’inizio del film. Per conquistare la sua amica, Simone avrebbe proiettato la sua personalità in un uomo, sentendo di possedere una identità sessuale maschile. Essendo stata respinta da Stella, si getta nel vuoto. Questo avvalora l’idea che solo Simone sia reale, mentre Trekovski – ed il suo rapporto d’amore con Stella – sarebbe solo immaginato.
Oppure il contrario: Trelkowski potrebbe essere reale e Simone la parte femminile che è sopita in lui e che lotta per manifestarsi. Il disagio mentale di Trelkowski potrebbe essere quindi il risultato della resistenza del sé uomo che cerca di evitare che la propria identità di donna esca allo scoperto oppure della insopportabile disforia di genere derivata dall’essere trans, cioè dal possedere una identità di genere (femminile) diversa dal sesso assegnato alla nascita (maschile). Ricordiamo che nella società dell’epoca, l’orientamento sessuale omosessuale ed una identità di genere diversa dal sesso descritto sui documenti, erano fonte di notevolissimo disagio e, vista la rigidità culturale, questo portava a meccanismi di difesa molto elevati che sfociavano in puro delirio. Per approfondire questi argomenti, leggi:

7) Non c’è alcuna spiegazione precisa

Questa potrebbe essere la migliore spiegazione possibile, non trovate? La vita stessa ci espone a domande a cui probabilmente non avremo mai replica del tutto certa ed i film, in quanto descrizione della nostra vita, perché dovrebbero mai darci tutte le risposte, togliendoci il gusto – tipicamente umano – di ricercarle con una curiosità mai sopita?

Il bello dell’arte

Le risposte che ha trovato il sottoscritto finiscono qui, almeno per ora. Nonostante le mie spiegazioni avete ancora la faccia di chi ha visto per la decima volta “2001 Odissea nello spazio” e non ha ancora capito cosa significano i 5 minuti finali o di chi continua a rivedere “Donnie Darko” nel tentativo di trovare una spiegazione assolutamente certa al film? Non vi preoccupate, siete in buona compagnia. Ho la vaga sensazione che neanche Roman Polanski potrebbe dare una risposta certa agli interrogativi della propria stessa opera e, almeno per quel che mi riguarda, questo è uno dei lati che amo di più in questo film e nell’arte in generale: la possibilità di interpretare, di ragionarci su, di confrontare le proprie idee con altri appassionati.

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Black Mirror: trama e spiegazione del finale di Giochi pericolosi (Playtest)

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Se cercate la spiegazione del finale, andate direttamente in fondo all’articolo

Questa terza stagione di Black Mirror, di cui questo episodio è il secondo, prodotta da Netflix risulta indubbiamente più matura rispetto agli inizi, probabilmente grazie alla consapevolezza di aver ormai conquistato una fetta di pubblico decisamente maggiore rispetto a quando fu lanciata. Ma la cosa che mi fa piacere ancor di più questa serie incredibile è che questa consapevolezza non si esplica con il ripetersi, con quell’auto-citazione fine a se stessa che contraddistingue alcune serie e film che sembrano campare di rendita per il solo fatto di avere un nome ormai consolidato; e fortunatamente non si percepisce comunque alcuno sforzo di banalizzazione (leggi “commercializzazione”) mirata a raggiungere a tutti i costi un pubblico tanto ampio. No, al contrario, Black Mirror continua sulla stessa strada ideologica innovando al punto giusto, tirando fuori dal cappello idee nuove come solo la fantascienza più cerebrale e matura riesce a fare, fregandosene di ogni aspettativa, liberandosi da qualunque tipo di ansia di prestazione che può colpire quando si produce il seguito di qualcosa che già prometteva bene.
La sperimentazione è sempre stata una costante di questa serie, e in quest’ultima stagione questo è particolarmente evidente: ogni puntata, infatti, omaggia un genere diverso. In questa seconda puntata, i creatori riescono abilmente a giocare non solo con la fantascienza, che nelle loro mani è come il pongo per un bambino, ma anche con l’horror, fondendo i due aspetti in un inquietante finestra su un futuro decisamente non molto lontano, e sfruttando il potere della paura di raggiungere la parte più primitiva del nostro io. Non a caso, alla regia troviamo Dan Trachtenberg (noto ultimamente per quel piccolo gioiellino di 10 Cloverfield Lane), che dimostra che con il genere ci sa fare, e che, come nel sopracitato seguito di Cloverfield, si destreggia tra i cliché tipici dell’horror con la giusta dose di ironia e ci regala qualche riflessione interessante sul perché siamo così attratti da un genere tanto inquietante.

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Trama senza spoiler

La parte iniziale dell’episodio ci introduce al protagonista, Cooper, in viaggio alla ricerca di sé stesso ed in fuga da un passato con il quale ha un rapporto complesso. A Londra, l’incontro con una ragazza del luogo, Sonja, è la scusa per spiegare allo spettatore i motivi del viaggio e del complicato rapporto con la madre, che continua a chiamarlo inutilmente, essendo Cooper non intenzionato a sentirla fino al ritorno a casa. Quando, finalmente, egli sembra aver completato il suo lungo viaggio attorno al globo e si appresta a tornare, la mancanza di denaro lo spinge a sottoporsi alla sperimentazione pagata di un nuovo gioco, creato da una famosa casa di sviluppo di videogame horror. In linea con il suo atteggiamento, Cooper non ci pensa due volte e pur di ottenere i soldi per tornare si reca al centro di sviluppo del prestigioso brand. Qui lo spettatore comincia ad avere un assaggio di quella che sarà la puntata: paura. Senza voler fare eccessivo spoiler, cominciate a questo punto a porre estrema attenzione a quello che accade dopo l’entrata di Cooper nell’edificio dove avverrà la sperimentazione, anche agli elementi apparentemente secondari.

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Spaventare qualcuno che sa che sta per essere spaventato

Ma se il gioco da testare è horror, in quanto è noto che la casa produca giochi di genere, la domanda che viene da porsi è: come si fa a spaventare qualcuno che sa che sta per essere spaventato? È qui che entra in gioco la sperimentazione: il gioco si installa direttamente nel sistema nervoso, con un semplice chip sul retro del collo. E tramite l’analisi del cervello dell’individuo plasma le sue percezioni audiovisive per spaventarlo, studiando le sue debolezze, le sue paure, le sue conoscenze pregresse e i suoi “scheletri nell’armadio”. Questa è pressappoco la presentazione che il fondatore della “SaitoGemu” fa della sua creazione, mostrandosi entusiasta di aver raggiunto un nuovo livello di intrattenimento, certo che questa nuova tecnologia rivoluzionerà il mondo del gaming. Con queste premesse, la puntata non può che costruirsi in modo intricato (poiché, come vedremo, il fatto di trovarsi in un gioco mentale complica di molto le cose) e inquietante, sfruttando la paura dell’ignoto portata all’ennesima potenza (non è l’ignoto in fondo il fondamento della paura?) tanto da spingere lo spettatore stesso a mettere in dubbio quello che sta vedendo, ben oltre quello che la trama di per sé suggerisce.

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Inganno

È questo uno dei temi fondamentali della puntata: l’inganno, che supera i limiti dello schermo e si instilla direttamente nella testa di chi guarda. È straordinaria la capacità di immedesimare lo spettatore nello stesso inganno in cui si ritrova catapultato Cooper, nonostante il primo sia pronto ad ammettere che la simulazione possa andare ben oltre quello che invece il protagonista crede. Di fatto, quindi, non solo Cooper si autoinganna, ma anche la nostra mente, nel tentativo di giustificare gli eventi mostrati, tende ad ingannarci, portandoci a costruire una serie di scenari per spiegare la situazione: scenari certamente plausibili, così tanto da convincerci di essere esatti. Ma, esattamente come avviene al protagonista, i suddetti scenari si riveleranno poi con tutta probabilità errati, per il semplice motivo che è quello lo scopo del gioco, ed è quello lo scopo della puntata.

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Realtà aumentata

Veniamo quindi al secondo tema che segue logicamente il primo: la potenza della mente. Questa non è l’unica puntata di Black Mirror a sfruttare come pilastro narrativo una realtà simulata a livello percettivo, ma è la prima volta che tale realtà viene ad essere costruita puramente dalla mente di chi la vive. Ecco che una semplice regola forzata all’interno della mente (spaventati!) diventa un’ossessione, e le percezioni vengono plasmate di conseguenza, con una realtà che di fatto non è più possibile definire tale, riaccendendo il dibattito eterno tra realisti e nominalisti (esiste una realtà indipendente dall’uomo?). In questo caso è interessante notare come una volta che il nostro “strumento di analisi percettivo” (la mente) viene impostato su un certo obiettivo, la realtà perde completamente di significato, come avveniva nel film Inception per Mal, che una volta convintasi di star vivendo un sogno, forzava ogni percezione a diventare una prova a favore della sua ossessione. La puntata ci mostra però come una realtà esterna esista e come, anzi, questa abbia un valore importante nel modo in cui il protagonista costruisce la propria esperienza, riconducendo tutto ad un unico elemento, proposto fin dall’inizio dell’episodio, che funge da collante per tutta la storia (per chi non avesse visto l’episodio, quest’ultima affermazione potrebbe sembrare confusa, ma una volta visto diverrà chiaro). Molta della produzione fantascientifica moderna, non a caso, ha concentrato gli sforzi non più su mondi lontani, alieni, navi spaziali o simili, ma sull’individuo, sulle costruzioni mentali e sulle possibilità praticamente illimitate del nostro cervello (a livello di complessità, si paragonano spesso mente e universo, con la prima che spesso sembra detenerne il primato). Allo stesso modo, la scienza stessa, a partire dalla psicoanalisi e dal dibattito sulla conoscenza, ha cominciato sistematicamente a concentrarsi su questo magnifico strumento: nel tentativo di spiegarlo, si continua ad evidenziarne la complessità.

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Basta un particolare anche innocuo, per distruggere tutto

Veniamo dunque alla fine della puntata che, come la serie di ha abituato, lascia un profondo senso di rassegnazione, paura e inquietudine. Ma in che modo siamo guidati fino a queste emozioni? La risposta risiede in quella che potrebbe essere definita “provocazione narrativa”. Quel che accade, ancora una volta, è che nonostante la storia ci inganni in vari modi, l’inganno realmente disturbante è quello che sfrutta le conoscenze pregresse di uno spettatore moderno (esattamente come il gioco sfrutta le conoscenze di Cooper per ingannarlo). Siamo abituati ad associare ad un protagonista ottimista, positivo e allegro dei risvolti che in fine saranno proporzionali al suo carattere. È il ritorno finale alla realtà che scombussola lo spettatore, lo nausea, mostrando un contrasto netto tra il mondo delle costruzioni mentali, in cui tutto deve avere senso, positivo o negativo che sia, e quello della realtà, che non segue alcuno schema e non ha alcuno scopo. Nella realtà “reale” basta un particolare apparentemente innocuo e insignificante per distruggere qualsiasi cosa, anche la nostra stessa vita. La puntata funziona quindi come un’enorme monito sul potere della tecnologia in relazione però a prerogative tutte umane: se questa vuole imporsi come strumento con il quale il sogno dell’uomo dell’onnipotenza può finalmente prendere vita, la realtà sarà sempre un passo avanti, imprevedibile, spietata, e sempre completamente indifferente alla nostra volontà.

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Spiegazione del finale (SPOILER)

I momenti più importanti per capire il finale sono quattro, mentre i colpi di scena sono due:

MOMENTO 1: Cooper è nella stanza bianca del test assieme a Katie, l’assistente afroamericana del direttore Saito. Katie ritira e spegne il cellulare di Cooper. Katie esce un momento dalla stanza e Cooper ne approfitta per sbloccare la rete sul cellulare e scattare e inviare foto a Sonia, ma il ritorno di Katie gli impedisce di rimettere il cellulare in modalità aereo, e riceve l’ennesima chiamata dalla madre, che Katie blocca. Nonostante l’imprevisto, tutto procede bene e la donna gli inserisce dietro il collo un chip di controllo neurale che chiama “fungo”: dopo un primo momento di attivazione, Cooper vede gli ologrammi della talpa ed inizia a giocarci.

MOMENTO 2: Subito dopo il momento 1, Cooper viene portato da Saito e Katie collega il “fungo” di Cooper ad un cavo per qualche secondo, per caricare un “pacchetto di rete neurale”. Finita l’istallazione Katie lo accompagna presso la casa degli orrori.

MOMENTO 3: Cooper all’interno della casa, comincia ad aver davvero troppa paura e chiede di terminare l’esperimento, va nella “stanza di recupero” ed impaurito, tenta di estrarsi il fungo da solo, ma Katie, Saito e due collaboratori intervengono e lo fermano: a quanto pare il fungo ha interagito troppo a fondo con il sistema nervoso di Cooper, facendogli dimenticare il suo passato: Saito, dopo avergli chiesto scusa, ordina ai due assistenti di portarlo via. Cooper urla e si risveglia: è ancora nell’ufficio di Saito, che si scusa sentitamente: forse i parametri erano troppo alti e l’esperimento è durato solo un secondo.

COLPO DI SCENA 1: Arrivati al termine del “momento 3” lo spettatore capisce il “colpo di scena 1”: tutto quello che ha visto tra il momento 2 ed il momento 3 in realtà non è mai esistito, bensì è stato solo il frutto di quel secondo di “iperattività cerebrale” che ha provato Cooper grazie al pacchetto di rete neurale, mentre era seduto nella stanza di Saito. In pratica tutta la fase della casa degli orrori sarebbe solo una specie di “bad trip” causato dai “parametri troppo alti”. Lo spettatore è così rassicurato: Cooper sta bene e lo vede tornare a casa. Tutti vissero felici e contenti? Non proprio.

MOMENTO 4: Cooper tornato a casa, incontra la madre in lacrime in stato apparentemente confusionale, che non lo riconosce e gli dice che deve chiamare suo figlio per sapere come sta. La madre compone il numero e… Cooper nuovamente si risveglia nel momento in cui la madre lo aveva chiamato al suo incontro con Katie e muore in preda agli spasmi.

COLPO DI SCENA 2: Al termine del momento 4 il corpo di Cooper viene portato via. Lo spettatore capisce quindi che tutto quello che è successo tra il momento 2 ed il momento 4, in realtà non è esistito se non nella mente di Cooper: è stato tutto un enorme “bad trip” causato dall’interferenza della chiamata ricevuta sul cellulare che sarebbe dovuto essere spento. Questo bad trip include quindi buona parte della puntata: Cooper non è mai stato davvero nella casa degli orrori, non è mai stato seduto nella stanza di Saito, non ha mai subito l’istallazione del “pacchetto di rete neurale” e nemmeno ha mai giocato con le talpe virtuali. Tutto questo, come anche il colpo di scena 1, col protagonista che torna a casa, è stato solo immaginato da Cooper in quegli 0.04 secondi che sono stati la durata reale dell’esperimento.

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Riflessioni sul finale

Lo spunto di riflessione principale è dato dal fatto che la fine definitiva del gioco è dettata dal non rispetto di una regola che vietava l’utilizzo del cellulare durante la fase di beta testing, cellulare utilizzato al fine di raccogliere prove sulla nuova tecnologia da vendere alla stampa di settore. Un po’ come quando sull’aereo ti dicono di spegnere il cellulare ma tu lo vuoi lasciare acceso. La fatalità della chiamata ricevuta dalla madre nel momento più sbagliato possibile, a sua volta conseguenza proprio dell’irrisolutezza da parte di Cooper nell’affrontare la propria paura di riallacciare i rapporti con lei, contribuisce a chiudere il cerchio, nel momento in cui scopriamo che quasi tutto l’episodio è avvenuto – esclusivamente all’interno della mente iperstimolata del protagonista – nell’intervallo di 0,04 secondi, il tempo impiegato da Cooper per dire “Mamma”.

L’intero episodio si rivela, solo a questo punto, un excursus delle paure irrisolte del protagonista, un viaggio sempre più in profondità nella sua mente e nelle sue paure: la paura di rimanere solo, la paura di non ricordare, la paura del lutto familiare e la conseguente difficoltà di riallacciare un legame con i propri affetti rimasti, tutte terribilmente vissute in forma “reale” dal protagonista all’interno della propria mente.

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Enemy (2013): trama, recensione e spiegazione del film

MEDICINA ONLINE Un film di Denis Villeneuve. Con Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Isabella Rossellini, Sarah Gadon, Stephen R. Hart. Thriller psicologico, durata 90 min. - Canada, Spagna 2013.jpgUn film di Denis Villeneuve. Con Jake Gyllenhaal, Mélanie Laurent, Isabella Rossellini, Sarah Gadon, Stephen R. Hart. Thriller psicologico, durata 90 min. – Canada, Spagna 2013

Trama senza spoiler

Un inquieto ed insignificante insegnate di storia si imbatte nel suo perfetto doppione, notato casualmente nel ruolo di comparsa in un film. Dopo essersi incontrati, le vite di entrambi si avviano verso un tortuoso e terrificante incubo.

Recensione senza spoiler

Ciò che avviene per il resto del film è abbastanza enigmatico e di non facile interpretazione. Come se non bastasse, l’ultima scena arriva come un fulmine a ciel sereno: definito come “the scariest ending of any movie ever made”, il finale è di certo uno dei più grandi shock cinematografici di sempre. Non parlo del classico colpo di scena in cui, con una spiegazione sorprendente, si risolve il mistero, anzi. La situazione si complica ulteriormente, lasciando il pubblico in balia di uno dei più criptici ed inquietanti enigmi di sempre. Premetto che non si tratta di un giallo, piuttosto di un thriller psicologico: non ci sono assassini o omicidi, qui il mistero è tutto mentale. Seguendo la scia di Cronenberg, Lynch e perfino Kubrick (la scena iniziale richiama Eyes Wide Shut), Denis Villeneuve torna alla regia dopo l’acclamato “Prisoners” realizzando un film dalle tinte seppia, molto fosche e buie (sopratutto negli interni). Girato in una Toronto spettrale e solitaria (spesso immersa nella nebbia), Enemy vanta un’atmosfera angosciante e onirica di prima categoria, sostenuta da una regia davvero eccellente e da una colonna sonora sempre pronta a mantenere viva la tensione.
Nonostante il film tragga grande giovamento dalle performance di Isabella Rossellini (una delle muse di Lynch), Sarah Gadon (una delle muse di Cronenberg) e Melanie Laurent, quella che si fa davvero notare è la versatile ed indiscutibile bravura recitativa di Jake Gyllenhaal, interprete dei due antitetici personaggi principali di Adam e Anthony.

Spiegazione con spoiler

Prima di tornare al finale, è indispensabile parlare del rapporto tra i due protagonisti: quello che è sicuro (gli indizi seminati sono parecchi) è che si tratti della stessa persona. Uno dei due è la proiezione mentale dell’altro, ma quale sia “reale” e quale sia la proiezione è difficile da capire. Lo sdoppiamento psicotico da cui è affetto il personaggio di Adam/Anthony è un prodotto naturale della sua indole repressa.
Gran parte delle scene del film avvengono in realtà nel subconscio del protagonista: gli sporadici confronti tra Adam e Anthony sono da interpretare come “guerre” tra le due fazioni in cui è divisa la sua personalità (eco freudiana della teoria dell’Io, Super-Io ed Es). L’intera pellicola può essere vista come la battaglia mentale di un individuo in lotta con il suo “lato oscuro” (col suo “nemico” da cui il titolo del film), al fine di responsabilizzarsi verso gli obblighi sociali che gli spettano (la fedeltà alla moglie e i doveri di futuro padre). L’ultima scena conferma l’importanza simbolica del “ragno”, elemento ricorrente in tutto il film: lo vediamo uscire dal piatto d’argento nella sequenza iniziale, la donna nuda con la testa da ragno nell’incubo del protagonista Adam, il mastodontico aracnide che sovrasta la città, i cavi elettrici del tram e il vetro della macchina dopo l’incidente paragonati a ragnatele. E la tarantola alla fine.

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La teoria dei ragni reali

In parecchi sono dell’idea che i ragni siano effettivamente reali e non frutto dell’immaginazione contorta dei due protagonisti. Essendo l’uomo moderno distratto dal sesso e dalle pulsioni erotiche, gli aracnidi avrebbero sfruttato questa noncuranza per agire indisturbati, pianificando una silenziosa “invasione ultracorporea” che si realizza pienamente nella scena finale. Nonostante trovi solide fondamenta sul discorso che Adam tiene in classe riguardo ai totalitarismi nell’era antica, basati su un controllo delle menti instaurato tramite il famoso “panem et circensem” (che nell’era moderna è il proprio il sesso), questa prima teoria risulta troppo pretenziosa e fantascientifica, nonostante debba ammettere che riserva un certo fascino.

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Ragni come metafora del controllo sociale

Un’altra interpretazione (con cui mi trovo in sintonia perché decisamente più plausibile) è quella allegorica: la presenza dei ragni è la metafora del totalitarismo che a cui è soggetto l’individuo moderno, intrappolato in una ragnatela inconscia di ossessioni e frustrazioni. Non abbiamo aracnidi reali, bensì simboli psicanalitici desunti dagli incubi/visioni di Adam. Sia quest’ultimo che Anthony, il suo doppio, vivono un’esistenza frustata, soggetti ad un eccessivo controllo di loro stessi che li porta a voler evadere dalla routine: Adam sogna di fare l’attore (attenzione a questo particolare e alla scena con la Rossellini) perché lo annoia la vita da insegnante, Anthony persegue l’adulterio perché si sente oppresso dal matrimonio e terrorizzato dall’idea di avere una famiglia. I ruoli generalmente imposti dalla società in cui i due protagonisti sono confinati (marito, padre, lavoratore statale), vengono avvertiti come una sorta di violenza operata nei confronti di loro stessi.

Donne come ragni

A questo punto viene lecito chiedersi: se i ragni esprimono l’idea della tirannia del subconscio, chi è il vero tiranno? Chi tesse la ragnatela? La risposta è una sola: le donne, ecco cosa rappresentano davvero i ragni. Il protagonista teme la figura femminile, non riesce a stabilire con lei un rapporto intimo che sia fedele o duraturo e punisce se stesso per questo. La donna intrappola il protagonista nella ragnatela del matrimonio, della fedeltà, della paternità ma il personaggio di Adam/Anthony non è in grado di sostenere la responsabilità di tali obblighi. Dopo l’apparente riconciliazione finale, Adam trova la chiave che apre la porta del sex club (luogo di tentazione per eccellenza) in cui Anthony era stato all’inizio, manifestando il desiderio di volerci tornare lasciando di nuovo la moglie sola a casa. La donna non risponde, Adam entra nella stanza di lei è il ragno che gli impedisce il tradimento. Ciò non solo da conferma alla suddetta interpretazione della figura del ragno, ma spiega anche un’affermazione di Adam durante la lezione di storia: i totalitarismi sono un circolo che si ripete di continuo. Trovando la chiave, Adam ricade nel baratro della tentazione da cui credeva di essersi salvato sconfiggendo il suo “lato oscuro”. Ma a questo punto ci potremmo chiedere: il vero “nemico” del titolo è il lato oscuro dell’uomo o è la donna?

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Spiegazione in sintesi

Quello che avete visto è una trasposizione allegorica di ciò che avviene nella psiche di Adam. Non sta avvenendo veramente. Adam Bell è un docente di storia, vive da solo, ha una ragazza di nome Mary con cui ha una storia non stabile. In passato ha provato a fare l’attore, qualche comparsata in commedie da quattro soldi, nulla più. Si faceva chiamare David Saint Claire, ma il suo vero nome era Anthony. Adam ed Anthony sono la stessa persona. Anthony è il passato di Adam. Un passato rimosso che ritorna. Anthony aveva una moglie di nome Hellen, in attesa di un figlio. La tradiva partecipando a degli strani incontri orgiastici. Adam ritrova Anthony grazie ad una battuta del collega che lo invita a vedere un film in cui lui ha recitato da comparsa. Adam all’inizio è curioso, poi capisce che Anthony è la versione di sé del passato, quella vitale, libera, egocentrica, e decide di fuggire, si rende conto che è stato un errore rievocarla. Tuttavia Anthony vive dentro Adam, è una parte importante di sé, pertanto non sarà così facile farla tornare indietro. Anthony chiede ad Adam una notte di sesso con Mary, poi sparirà per sempre dalla sua vita. Adam invece si concede un ritorno nel passato, un modo per rivedere Hellen e chiederle scusa per il modo in cui ha fatto finire il loro matrimonio. In mezzo a tutto ciò vediamo ragni. Ragni all’inizio, ragni sul cielo di Toronto, ragni nel finale. I ragni rappresentano il controllo della società sugli esseri umani, che sono simboleggiate dalle donne e dal matrimonio. Nella scena iniziale Anthony/Adam vede una prostituta che schiaccia un ragno, è il segno che in quel momento la sua vitalità e la sua voglia di evadere da una vita piatta sta prendendo il sopravvento sul conformismo sociale. Un grande ragno nel cielo dimostra che il controllo agisce in maniera globale oltre che privato. Alla fine lo scambio di ruoli ha un esito tragico: Anthony, l’Adam del passato, ha una brusca lite con Mary che termina in un incidente stradale, in cui presumibilmente entrambi perdono la vita. Adam invece riesce a farsi perdonare da Hellen, la quale gli chiede di restare così, di restare con lei in quella sua versione, pacifica, controllata, conforme. Adam accetta, è tornato indietro nel tempo e decide di dedicarsi a Hellen, per una notte. La mattina seguente, al risveglio, trova l’invito per una di quelle feste orgiastiche a cui prendeva parte in passato. Avvisa Hellen che quella sera uscirà, deciso a partecipare ancora a quegli strani rituali a base di sesso. Hellen non risponde. Adam torna in camera e scopre che è diventata un ragno. Questo significa che Adam non è mai cambiato. Adam diventa Anthony, cioè un uomo infedele, instabile, bugiardo, nel momento in cui si trova sotto il controllo, il “ragno”, di una vita coniugale che lo annoia. Hellen, personificazione del matrimonio, è il ragno da cui Adam prova a fuggire, tornando ad essere Anthony, finalmente libero da vincoli.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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La scoperta (2017): trama, recensione e spiegazione del film

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Probabilmente è ancora presto per parlare di un vero e proprio “filone”, ma è indubbio che ultimamente la fantascienza indie americana sia caratterizzata da precise idee ricorrenti e da una matrice comune, che restituisce alla science fiction la sua dimensione più psicologica e anti-spettacolare: un assunto speculativo di natura fantascientifica genera un dramma, e questo avviene perché tale assunto rispecchia ansie e timori del nostro presente. Questo film conferma l’interesse di Netflix per queste tendenze off-Hollywood, e incarna molti tòpoi della sci-fi indipendente americana, a partire dall’ossessione di indagare il sovrasensibile – ed eventualmente giustificarlo – attraverso la scienza. Lo abbiamo già visto nell’interessante “I, Origins” e nella serie The OA, ma qui il discorso si fa ancor più radicale.

Trama senza spoiler

Al centro della trama c’è lo scienziato Thomas Harbor (un Robert Redford ancora in forma), che dimostra l’esistenza dell’aldilà grazie a una macchina che cattura la lunghezza delle onde cerebrali a livello subatomico, osservandone l’abbandono del corpo durante la morte. Oltre la vita ci sarebbe quindi un altro piano dell’esistenza (il paradiso?) e questa consapevolezza scatena un’ondata di suicidi da parte di uomini e donne che non vedono l’ora di raggiungere questo secondo livello di esistenza. Addirittura una malattia terminale diventa una buona notizia, perché l’aldilà ci attende dopo il nostro ultimo battito cardiaco. Il figlio maggiore di Thomas, il neurochirurgo Will (Jason Segel), non approva gli studi del genitore, che nel frattempo ha fondato un istituto per accogliere ed assistere gli aspiranti suicidi. Will, in visita da suo padre e da suo fratello Toby (Jesse Plemons), s’imbatte nella tormentata Isla (Rooney Mara), e la salva da un tentato suicidio nelle acque dell’oceano. Fra di loro nasce una complessa storia d’amore, mentre Thomas sperimenta un dispositivo che registra l’esperienza dei defunti nell’aldilà, e dovrebbe quindi mostrare ciò che vedono dopo la morte. Quello che il dispositivo permetterà di vedere, lascerà il neurochirurgo senza parole.

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Fantascienza, non religione

Il paradosso di esplorare l’ultraterreno con metodi scientifici può sembrare moralmente ambiguo (quante volte la pseudo-scienza ha tentato di giustificare antiche superstizioni?), ma il regista Charlie McDowell e il co-sceneggiatore Justin Lader hanno l’accortezza – dal mio punto di vista quasi essenziale in un film di questo tipo – di escludere ogni sfumatura divina, affidandosi esclusivamente alle speculazioni della scienza/fantascienza: non si parla infatti di un aldilà religioso, ma di un secondo livello di percezione delle cose da parte del nostro sistema nervoso. Niente angeli, luci in fondo al tunnel o santi ad aspettarci dall’altra parte, ma solo un secondo piano di realtà…

ATTENZIONE SPOILER

…una realtà alternativa che gioca con il concetto dei loop temporali e con le infinite diramazioni dei mondi paralleli. Il film ci dice che nel cosiddetto “paradiso” ogni individuo genera, laicamente, il proprio aldilà, basato sui rimpianti della sua vita passata e sul desiderio che ognuno ha, di poter correggere gli errori fatti in vita. L’idea è molto incisiva, anche perché insiste su risvolti fantascientifici più che sovrannaturali, senza propinarci una razionalizzazione di principi religiosi preesistenti.

FINE SPOILER

L’approccio intimista e le implicazioni romantiche, tipici di molta sci-fi indipendente, focalizzano l’attenzione sulla vicenda privata più che sullo scenario globale, mediamente trascurato se si escludono gli sporadici accenni ai suicidi di massa. Certo, rispetto al precedente “The One I Love” manca l’analisi entomologica del rapporto amoroso, qui ritratto senza particolari giustificazioni, soprattutto se consideriamo l’atteggiamento contraddittorio di Isla. Anche diversi snodi narrativi appaiono inverosimili, eppure il finale riesce a giustificarne l’assurdità per mezzo di un “ribaltamento” piuttosto canonico, seppure inaspettato: la sovrapposizione di piani alternativi stravolge il punto di vista sulla vicenda, ma risulta un po’ frettoloso e didascalico, relegato ai minuti conclusivi senza il supporto di un climax adeguato. È qui che “La scoperta” rivela il suo lato più fragile: McDowell sembra compiacersi dei principali cliché del cinema indie, e li nutre con dialoghi sussurrati, tecnologia retro-futuristica e un personaggio femminile che risponde a tutti i requisiti della categoria, con la sua personalità sfuggente e provocatoria. La rappresentazione dei tòpoi in una realtà parallela potrebbe denudarne l’artificiosità, ma questa lettura metanarrativa non regge alla prova dell’epilogo, dove il regista prende chiaramente sul serio gli strascichi emotivi della storia. Così, persino il brusco taglio di montaggio sul nero dei titoli di coda (altrove molto suggestivo: si pensi a Donnie Darko), appare qui un semplice manierismo, sin troppo prevedibile per coinvolgere davvero. Restano l’ottima idea del ragionare su quello che accadrebbe scoprendo con sicurezza che la morte non è la fine, e la sobrietà della messinscena, tutta concepita per sottrazione, ma l’impressione di assistere a un bigino della fantascienza indie è piuttosto forte. A conti fatti però a me è piaciuto, da vedere almeno una volta (o anche due per capirlo meglio!) specie se siete appassionati di fantascienza umana, quella senza esplosioni o alieni che invadono la terra, ma con una sfumatura di mondi paralleli per certi versi in stile “Moon“, che in un film di fantascienza non è mai fuori posto.

Spiegazione del finale (ovviamente spoiler)

Il protagonista, il neurologo Will, è già morto quando la storia inizia. Tutto quello che accade durante la narrazione del film non è reale, bensì è semplicemente una delle molte realtà alternative in cui è entrata la mente di Will dopo la sua morte.

La vita è un sogno dal quale ci si sveglia morendo

Virginia Woolf

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Enter the Void (2009): trama, recensione e spiegazione del finale

MEDICINA ONLINE ENTER THE VOID 2009 GASPAR NOE TRAMA RECENSIONE SPIEGAZIONE FINALE PAZ DE LA HUERTA BROWN.jpgUn film di Gaspar Noé. Con Nathaniel Brown, Paz de la Huerta, Cyril Roy, Olly Alexander, Masato Tanno. Drammatico, durata 154 min. – Francia, Germania, Italia 2009

Trama
Oscar e la sorella Linda, orfani di padre e madre vivono da qualche tempo in un micro-appartamento a Tokyo e tirano avanti spacciando droga lui, e ballando in uno strip club lei. La loro situazione sembra alquanto problematica ma ciò che davvero conta è di esserci l’uno per l’altra. La sorte dei due ragazzi verrà stravolta una notte, quando carico di droga da smerciare, Oscar viene attirato per vendetta in un’imboscata ed ucciso da agenti di polizia dal grilletto troppo facile. Benché il trip surrealistico fosse già cominciato precedentemente, a causa dello sballo del protagonista fin dall’inizio del film, il vero viaggio australe inizia solo ora, cioè quando l’anima (o qualunque cosa sia) di Oscar si stacca dalle sue spoglie mortali e comincia a fluttuare per una sempre più vacua ed eterea Tokyo, così tramite lo sguardo onnipresente di questa entità, continuiamo a seguire le vicende degli altri personaggi, in particolare della sorella Linda.

Il balcone, stacci lontano. Tieni gli occhi aperti. Mi sta scoppiando la testa

Recensione
Rare volte nella storia del cinema si sono visti film talmente all’avanguardia e tanto coraggiosi da lasciare gli spettatori sbigottiti e deliziosamente confusi. Ebbene, anche se non raggiunge la grandezza delle opere più visionarie di Kubrick o Lynch, Enter the Void dell’argentino Gaspar Noé merita senza dubbio un posticino tra le avanguardie più coraggiose, perché di coraggio, questa pellicola, ne ha davvero da vendere. Quasi due ore e mezza per la maggior parte raccontate in modalità prima persona, al fine di far immedesimare lo spettatore con il protagonista Oscar, da quando vede i genitori mentre fanno sesso fino a quando vola dentro e fuori l’hotel “Love” (chiamato come uno dei successivi film di Noé).
Oscar lo vedremo in faccia pressoché unicamente quando si trova di fronte allo specchio, le altre volte o vediamo attraverso i suoi occhi o osserveremo la sua nuca. Ma questa non è certo la caratteristica più fulminante del film, ciò che veramente lascia senza parole è l’enorme lavoro artistico di tinte, colori, neon, riflessi e radiazioni luminose al limite dell’attacco epilettico che sommergono e stordiscono senza scampo lo spettatore per l’intera durata della vicenda, creando un vero e proprio viaggio sensoriale onirico eppure realistico, tra sesso esplicito, pianti di bambini disperati ricoperti dal sangue dei propri genitori e colori resi vividi dalle droghe. Impressionanti le inquadrature dall’alto, sia sulla città ipercromatica, che negli interni. Impressionante vedere la scena della “propria” morte e vedere il sangue che ci esce dal petto, mentre ci accasciamo in bagno e la nostra voce si fa sempre meno nitida. Impressionante vedere il frutto dell’aborto di Linda, e lo dico da medico. Impressionante l’ultima scena, in cui vediamo il mondo con gli occhi di un neonato. Emozionante, per il sottoscritto, sentire il “proprio” battito del cuore accelerato, fondersi con quello più lento di mia madre.

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Il libro tibetano dei morti
Il contenuto di Enter the Void non è affatto da prendere alla leggera, ciò di cui tratta, ciò a cui assisteremo durante la visione, viene esplicato in modo semplicemente geniale nei primi dieci minuti del film quando Alex, amico di Oscar, discute con lui del libro ‘The Tibetan Book of the Dead’, ovvero “Bardo Tödröl Chenmo” nel quale si parla del viaggio dell’anima dopo la morte. Oltre che una splendida esperienza surreale ed un tentativo di rappresentare ciò che avviene nell’aldilà, Enter the Void è anche un profondo ed appassionante dramma con al centro l’indissolubile legame dell’amore fraterno – diviso, poi ritrovato, poi di nuovo diviso – cullato dalle soavi note di un azzeccatissimo Bach, a volte modulato ottimamente. Un amore fraterno, velatamente incestuoso, che però fatalmente manca nella notte della morte di Oscar, perché Linda non risponde subito al telefono: in quel momento sta facendo sesso con il proprio capo, lo stesso capo che la farà in seguito abortire. Questo è un film sulle droghe usate “quasi come vitamine”, sul legame tra fratello e sorella, sull’amore. Ma più di ogni altra cosa, è un film sulla morte e su quello che potrebbe succedere a noi ed alla nostra coscienza, subito dopo l’ultimo respiro, nella nostra dimensione extracorporea. Stroncato da alcuni critici che – secondo il sottoscritto – dovrebbero davvero cambiare lavoro, io ve lo consiglio, ma solo se avete il coraggio di vedere qualcosa di diverso dal solito e siete pronti ad “entrare nel vuoto“, in una storia dove passato e presente si mischiano in modo destabilizzante.

Spiegazione del finale
Oscar, dopo la sua morte, nel finale vede Alex e Linda (sua sorella ed il suo amico), che hanno un rapporto sessuale che culmina in una gravidanza e nella nascita di un bimbo. Quel bimbo, i cui primi attimi di vita li viviamo in prima persona, è lo stesso Oscar che si è reincarnato in suo nipote.

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