Parole e idee possono cambiare il mondo

Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Specialista in Medicina Estetica Roma E MORTO ROBIN WILLIAMS Attore Film Radiofrequenza Rughe Cavitazione Grasso Pressoterapia Linfodrenante Dietologo Cellulite Calorie Pancia Sessuologia Filler Botulino“Continuate a strappare ragazzi. Questa è una battaglia, una guerra e le vittime sarebbero i vostri cuori e le vostre anime”.

“E ora, miei adorati, imparerete di nuovo a pensare con la vostra testa. Imparerete ad assaporare parole e linguaggio. Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo”.

Prof. John Keating (Robin Williams) L’attimo fuggente, 1989

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L’inquilino del terzo piano (1976): trama e spiegazione del film

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Chi si nasconde davvero sotto queste bende?

Un film di Roman Polanski, con Roman Polanski, Isabelle Adjani, Melvyn Douglas, Bernard Fresson, Jo Van Fleet. Titolo originale “Le locataire”, in USA conosciuto come “The Tenant”. Drammatico, thriller psicologico, durata 125 min. – Francia 1976.

Trama senza spoiler

Trelkovski, modesto ed anonimo impiegato di origini polacche, prende possesso a Parigi di un appartamento la cui inquilina precedente, Simon Chule, si è uccisa buttandosi dalla finestra. Circondato da inquietanti e grotteschi vicini, Trelkovski scopre nell’appartamento orribili tracce dell’ex-inquilina, che lo porteranno a conseguenze drammatiche e totalmente impreviste. L’inquilino del terzo piano, insieme a “Repulsion” ed a “Rosemary’s baby”, completa la trilogia dedicata da Polanski al lato oscuro, ai meandri orrorifici della mente umana, sebbene gran parte della sua produzione possa a mio avviso ricondursi ad inquietudini sottili e morbose che l’essere umano sperimenta nella propria esperienza, basti pensare al meraviglioso “Una pura formalità“.

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Spiegazioni (SPOLER)

Non esiste una spiegazione univoca e razionale a questo film veramente eccezionale di Polanski. Partiamo dal fatto che l’Inquilino del terzo piano inizia e termina con la stessa scena, un paio di occhi (vedi foto in alto) che spuntano da un corpo quasi interamente bendato e ingessato. Non sembra un grido “casuale”, bensì è il tipico urlo di chi riconosce il proprio carnefice ma non può indicarlo, oppure l’urlo terrorizzato che personalmente farei io se fossi bloccato a letto e vedessi me stesso dall’esterno del mio corpo. Quali le possibili spiegazioni a quell’urlo ed al film in generale?

1) Malattia mentale

Una delle possibili soluzioni, tra le più semplici, è che Trelkovski sia malato di una malattia mentale, ad esempio schizofrenia, che lo porta a travestirsi da donna e ad immaginare di essere Simone. La sua paranoia potrebbe essere scaturita dal suo carattere remissivo ed eccessivamente accomodante che lo espone all’aggressività degli altri: travestirsi da donna dal carattere forte potrebbe essere un sistema per sfuggire alla gabbia del suo carattere debole. La stessa malattia lo esporrebbe alle numerose scene irreali del film, che sarebbero allucinazioni, a tal proposito, leggi anche: Schizofrenia: sintomi iniziali, violenza, test, cause e terapie

2) Personalità multipla

Trelkovski è affetto da personalità multipla: dalla finestra vede sé stesso nel suo appartamento e ciò farebbe pensare ad uno sdoppiamento di personalità. Trelkovski riflette “il suo io” dall’altra parte. Ma il suo io è sé stesso o è Simone? Trelkovski vede dal suo appartamento Simone Choule che si toglie le bende perché ha una allucinazione o perché vede una delle sue personalità, quella di Simone? Ed è Simone una delle personalità di Trelkovki o è Trelkovski una delle personalità di Simone?

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3) Reincarnazione

Le innumerevoli simbologie egizie presenti nel film farebbero supporre la tematica della reincarnazione: Trelkowski e Simone sarebbero in realtà la stessa persona, l’una incarnata nell’altra, il che spiegherebbe la scena in cui Trelkowski, dalla finestra del proprio appartamento, vede una figura avvolta nelle bende (Simone e/o sé stesso nel futuro) nel bagno dello stabile; il bagno, coperto di geroglifici, rappresenterebbe una camera mortuaria egizia e Simone, in questa stanza, si toglie le bende come se fosse una mummia che si è risvegliata dalla morte.

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4) Un loop temporale

Il film inizia e termina con la stessa scena. Non una scena simile: è proprio la stessa, o almeno così ci vuole suggerire Polanski: alla fine del film siamo portati a pensare che sotto le bende di Simone, viste all’inizio del film, ci sia Trelkovski e non Simone. Questo sta forse a significare che Simone Choule è Trelkovski e che l’intera storia sia una specie di serpente che si morde la coda, come in un loop temporale senza uscita? In tal senso il film potrebbe essere inquadrato nell’ottica del loop circolare, a tal proposito, leggi: Bootstrap paradox e paradosso della predestinazione: spiegazione ed esempi nei film

5) Tutto il film è nella mente di Simone

Trelkowski sarebbe un personaggio fittizio creato dalla mente della stessa Simone quando si ritrova bloccata a letto, o una fantasia basata su un uomo che va a visitarla in ospedale. Di conseguenza, l’intera linea narrativa del film sarebbe fittizia, esclusa la breve scena introduttiva.

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6) Omosessualità latente

Simone crea Trekovski con l’immaginazione. La ragazza amava le donne e non gli uomini: lo dice Stella all’inizio del film. Per conquistare la sua amica, Simone avrebbe proiettato la sua personalità in un uomo, sentendo di possedere una identità sessuale maschile. Essendo stata respinta da Stella, si getta nel vuoto. Questo avvalora l’idea che solo Simone sia reale, mentre Trekovski – ed il suo rapporto d’amore con Stella – sarebbe solo immaginato.
Oppure il contrario: Trelkowski potrebbe essere reale e Simone la parte femminile che è sopita in lui e che lotta per manifestarsi. Il disagio mentale di Trelkowski potrebbe essere quindi il risultato della resistenza del sé uomo che cerca di evitare che la propria identità di donna esca allo scoperto oppure della insopportabile disforia di genere derivata dall’essere trans, cioè dal possedere una identità di genere (femminile) diversa dal sesso assegnato alla nascita (maschile). Ricordiamo che nella società dell’epoca, l’orientamento sessuale omosessuale ed una identità di genere diversa dal sesso descritto sui documenti, erano fonte di notevolissimo disagio e, vista la rigidità culturale, questo portava a meccanismi di difesa molto elevati che sfociavano in puro delirio. Per approfondire questi argomenti, leggi:

7) Non c’è alcuna spiegazione precisa

Questa potrebbe essere la migliore spiegazione possibile, non trovate? La vita stessa ci espone a domande a cui probabilmente non avremo mai replica del tutto certa ed i film, in quanto descrizione della nostra vita, perché dovrebbero mai darci tutte le risposte, togliendoci il gusto – tipicamente umano – di ricercarle con una curiosità mai sopita?

Il bello dell’arte

Le risposte che ha trovato il sottoscritto finiscono qui, almeno per ora. Nonostante le mie spiegazioni avete ancora la faccia di chi ha visto per la decima volta “2001 Odissea nello spazio” e non ha ancora capito cosa significano i 5 minuti finali o di chi continua a rivedere “Donnie Darko” nel tentativo di trovare una spiegazione assolutamente certa al film? Non vi preoccupate, siete in buona compagnia. Ho la vaga sensazione che neanche Roman Polanski potrebbe dare una risposta certa agli interrogativi della propria stessa opera e, almeno per quel che mi riguarda, questo è uno dei lati che amo di più in questo film e nell’arte in generale: la possibilità di interpretare, di ragionarci su, di confrontare le proprie idee con altri appassionati.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Quinto potere (1976): trama e recensione del film di Sidney Lumet

MEDICINA ONLINE network film di Sidney Lumet. Con Peter Finch, William Holden, Faye Dunaway, Robert Duvall, Ned Beatty. Titolo originale Network. Drammatico, durata 121 min. - USA 1976Un film di Sidney Lumet. Con Peter Finch, William Holden, Faye Dunaway, Robert Duvall, Ned Beatty. Titolo originale Network. Drammatico, durata 121 min. – USA 1976

A guardare oggi il nostro mondo, tra Brexit, paura del futuro, borse a picco, banche sull’orlo della detronizzazione, popolo senza neanche più la capacità di incazzarsi, delusione, abbindolamento delle tv, “Network” di Sidney Lumet è un film di grottesca realtà che fa più male di molti drammoni che arrivano al cinema negli ultimi tempi.

Nella personale follia di Howard Beale (un monumentale Peter Finch) c’è l’attaccamento da “alienato” al lavoro. Non c’è vita oltre quello, oltre lo schermo, oltre le cazzate da sparare in tv. Nella grigia monotonia di Max (William Holden) c’è la fragilità del matrimonio e la consapevolezza di vivere nella realtà che ci circonda, quella dove Diana (una splendida Faye Dunaway) non riesce ad esistere se non dietro le percentuali di pubblico, ascolto e quattrini, unico vero obiettivo di Frank (Robert Duvall) simbolo della “scalata al potere”, dell’egoismo individualistico della società del business.

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Lumet prende il microcosmo della televisione e lo trasforma nel macromondo degli States degli anni ’70 che uscivano dalla controcultura, dal Watergate, dal disastro del Vietnam, dalla crisi petrolifera del 1973. La televisione è illusione, non informa e non ha voglia di farlo e quando può spettacolarizza ogni evento, perchè prima di tutto “la tv è spettacolo”. Quest’America senza Dio, in preda al panico e alla povertà, non ha più la forza di incazzarsi e Howard è l’emblema di un paese ormai folle, confuso, privo di qualsiasi identità. Dietro, a manovrare i fili del gioco, a sfruttare uno squilibrato (Howard) per il solo riscontro di pubblico, ci sono i dirigenti della UBS, viscidi esseri che guardano alle statistiche e alle percentuali come l’ultima goccia d’acqua nel deserto, che vivono in una realtà fittizia come mero prolungamento dell’altrettanta fittizia realtà televisiva.

In “Network” (titolo originale) il senso del grottesco diventa malsano realismo e ogni parola che viene pronunciata sembra quasi una profezia sul futuro del nostro mondo: dai monologhi di Howard nel suo “Mao Tse Tung show” al deflagrante discorso di Arthur (Ned Beatty) sull’inesistenza dell’America e della democrazia, perchè il mondo è business, affari e sottomissione al grande sistema dei dollari. Una propaganda del “pensiero unico” che abbiamo ben visto affermarsi nei decenni successivi. “Lei si mette sul suo piccolo schermo da 21 pollici e sbraita parlando d’America e di democrazia…Non esiste l’America, non esiste la democrazia! Esistono solo IBM, ITT, AT&T, Dupont, DOW, Union Carbide ed Exxon. Sono queste le nazioni del mondo, oggi.”

Oggi siamo nell’era di internet e per fortuna la tv inizia a perdere parte della sua forza propagandistica, non prima di aver svolto per decenni il lavaggio del cervello a parte della popolazione, convincendo gli ignari fruitori che il giusto sia sbagliato e viceversa. Manipolazione e trionfo del sistema corporativistico basato sul fine ultimo degli affari, del denaro che tutto può e tutto domina.

“Quinto potere” è uno dei diversi capolavori di Lumet, regista gigantesco che ha attraversato oltre 50 anni di cinema americano, denunciando le storture di un paese meno scintillante di quanto fosse raccontato dalla grande vulgata nazionale e internazionale. Il film è forse eccessivamente verboso in alcune sue divagazioni, ma a 40 anni dalla sua uscita emana ancora una forza profetica che lo rende di un’attualità lacerante.

“Abbiamo una crisi. Molti non hanno un lavoro, e chi ce l’ha vive con la paura di perderlo. Il potere d’acquisto del dollaro è zero. Le banche stanno fallendo, i negozianti hanno il fucile nascosto sotto il banco, i teppisti scorrazzano per le strade e non c’è nessuno che sappia cosa fare e non se ne vede la fine. Sappiamo che l’aria ormai è irrespirabile e che il nostro cibo è immangiabile. Stiamo seduti a guardare la TV mentre il nostro telecronista locale ci dice che oggi ci sono stati 15 omicidi e 63 reati di violenza come se tutto questo fosse normale, sappiamo che le cose vanno male, più che male. È la follia, è come se tutto dovunque fosse impazzito così che noi non usciamo più. Ce ne stiamo in casa e lentamente il mondo in cui viviamo diventa più piccolo e diciamo soltanto: “Almeno lasciateci tranquilli nei nostri salotti, per piacere! Lasciatemi il mio tostapane, la mia TV, la mia vecchia bicicletta e io non dirò niente ma…ma lasciatemi tranquillo!”

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Donnie Darko (2001): trama, recensione e spiegazione del film

MEDICINA ONLINE Donnie Darko film Richard Kelly Jake Gyllenhaal, Noah Wyle Drew Barrymore Patrick Swayze Holmes Osborne Drammatico, durata 108 min. - USA 2001 WALLPAPER HI RES PICTURE MOVIE PHOTODonnie Darko un film di Richard Kelly. Con Jake Gyllenhaal, Noah Wyle, Drew Barrymore, Patrick Swayze, Holmes Osborne. Drammatico, durata 108 min. – USA 2001

Trama senza spoiler

È il 2 ottobre 1988 e il motore di un aereo precipita sulla camera di Donnie, da allora la vita del ragazzo non sarà più la stessa: inizia a vedere Frank, il coniglio che lo ha salvato da morte certa, ma che gli ha anche vaticinato la fine del mondo. 28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi, questo è il tempo che rimane per cercare di bloccare la profezia.

Recenzione

Questo film può non piacere a tutti, ma – se sei una di quelle persone a cui piace – probabilmente non ti piace soltanto: lo ami. Lo ami e lo avrai visto tante e tante volte ed in ogni volta forse ti sembra di aver colto qualcosa e di aver capito qualcosa che non eri mai riuscito a capire prima. Alla mia forse quindicesima visione del film pensai questa cosa:

Se Dio esiste, è nascosto da qualche parte in questo film.

Si, a chiunque questa può sembrare semplicemente una affermazione un po’ bizzarra, ma per me è valida ancora oggi, a distanza di anni. Donnie Darko è un mistero che nessuno può cogliere a pieno. Ha una storia davvero travagliata. Uscì nelle sale dopo gli attentati alle Twin Towers dell’11 settembre e sparì ben presto dalla circolazione, anche a causa della scena in cui è coinvolto un aereo che perde un reattore. Ma il passaparola ha fatto resuscitare questo film, che ormai conta stuoli di aficionados… Lo stato di cult di cui gode Donnie Darko è dovuto al fatto che molti giovani si sono riconosciuti nel personaggio principale. E’ il medesimo flash autoterapeutico che ha reso immortali James Dean, Il giovane Holden e Arancia Meccanica. Per un adolescente, certo, non è difficile sentirsi vicino a Donnie: in fondo il ragazzo è sì “matto”, ma appare come un matto abbastanza innocuo – oltre che quasi casto. La sua ribellione, a fronte di genitori che riescono ad esserci simpatici nonostante un modo di vivere ordinario e borghese e che dimostrano di amare i loro figli, nasce dallo scombussolamento interiore e non da una riflessione metafisica e/o sul sociale.
Alcuni critici stranamente ritengono Donnie Darko un film che mostra la protesta giovanile contro il sistema scolastico e, più in generale, contro gli adulti, ma in realtà tale presunta rivolta si limita ai soliti gesti di bullismo in classe e nel cortile scolastico, oltre che alle atroci – e sterili – mascherate di Halloween. Insomma, il telaio portante è apparentemente quello di un film sui teenagers. Viene tracciata anche una originale storia d’amore e il rischio latente era quello di creare un’ennesima fiaba moderna, imperdonabilmente stupida per via di un romanticismo sciatto e rimasticato da ragazzini stelle-e-strisce; per fortuna però Richard Kelly ha voluto rendere omaggio a Philip K. Dick e il film, dopo essere scivolato sul paludoso sentiero dell’horror (tramite le allucinazioni del protagonista borderline), si risolve in un bel rebus fantascientifico. E’ proprio la struttura narrativa ad affascinarci maggiormente. Anche se è individuabile una storyline o trama che dir si voglia, Kelly mima le acrobazie fabulanti di un Kurt Vonnegut e la vicenda finisce per rivelarsi un serpente che si mangia la coda o, per usare un termine matematico, un nastro di Möbius. Non può essere altrimenti, d’altronde, quando viene affrontato il tema dei viaggi temporali, i quali, come si sa, comportano uno o più paradossi, costringendo perciò gli scrittori a inventarsi una logica alternativa.

A questo proposito, abbiamo il sospetto che l’autore (e regista) di Donnie Darko abbia attinto da un altro maestro della fantascienza, ovvero da Murray Leinster (vedi soprattutto la “trovata” dell’Universo Tangente), che di viaggi e paradossi temporali fu uno dei primi specialisti, tanto da fondare su di essi la propria carriera scribatoria.

La recitazione di Jake Gyllenhaal è indimenticabile. Come già successe per Anthony Perkins in Psycho, Jake “è” Donnie Darko. Impossibile ormai per chiunque immaginarsi qualcun altro nello stesso ruolo. La sua addirittura non è nemmeno più un’interpretazione nel senso di “abile prestazione istrionica”, bensì una vera e propria incarnazione.

A Donnie/Jake appare un inquietante coniglio che è il capovolgimento orrifico di Harvey, la creatura che accompagna il docile matto James Stew. Ricordate? Il titolo di quella pellicola in bianco-e-nero è proprio Harvey. Là il protagonista, Elwood, alias James Stewart, è quasi uno stinco di santo e, sebbene gli manchi qualche rotella, non è privo di una certa saggezza filosofica. Ecco uno dei suoi monologhi:

Harvey e io sediamo nei bar… prendiamo un bicchierino o due, facciamo suonare il juke box. E subito tutte le facce si girano verso di me, e sorridono, e dicono ‘non sappiamo come ti chiami amico, ma sembri un tipo simpatico’. Harvey e io ci accendiamo in quei momenti d’oro. Siamo entrati come estranei… e subito abbiamo degli amici! E loro si avvicinano, e siedono con noi, e parlano con noi. Parlano delle grandi cose terribili che hanno commesso, e delle grandi cose meravigliose che faranno. Delle loro speranze, dei loro rimpianti, dei loro amori, dei loro rancori. E tutto in larga scala, perché nessuno porta mai nulla di piccolo dentro un bar. E poi io presento loro Harvey… e lui è più grande e più straordinario di qualsiasi cosa loro possano mai mostrare a me. E quando se ne vanno, se ne vanno impressionati. Le stesse persone raramente ritornano; ma questa è invidia, caro mio. C’è una piccola dose d’invidia in ciascuno di noi.

Invece Frank, la creatura dalle fattezze di coniglio in Donnie Darko, è cattivo. E’  l’antagonista dell’eroe/antieroe del film, non il suo compagno buono e comprensibile. Per Donnie, alle prese con la pazzia intus et foris, non c’è spazio per i discorsi o i gesti buonisti. Il motore di jet è precipitato sul suo letto quando lui era assente e dunque si è potuto salvare. Almeno questo è quello che vede o crede di vedere lo spettatore.

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Trama di Donnie Darko (SPOILER)

Il personaggio che dà il titolo al film, un adolescente americano con problemi psichiatrici, durante un attacco di sonnambulismo che lo porta fuori di casa si imbatte in Frank, un coniglio gigante che gli predice la fine del mondo. E’ la notte del 2 ottobre 1988. In tivù viene trasmesso il duello elettorale dei due candidati alla Casa Bianca: il repubblicano George Bush senior e il democratico Michael Dukakis. Quella stessa notte avviene uno stranissimo incidente: il motore di un aereo precipita dai cieli sulla villetta dei Darko, distruggendo la camera di Donnie, che naturalmente non era a letto. Da questi due singolari episodi (il motore che precipita e l’incontro col coniglio) prende le mosse una vicenda che non fa che complicarsi passo dopo passo; tra le altre cose Donnie s’innamora, scopre che l’anziana vicina un po’ fuori di testa ha scritto un libro sui viaggi nel tempo, allaga e vandalizza la scuola e brucia la casa di un apprezzato guru locale. Intanto, la sua schizofrenia dilaga: i suoi occhi riescono a vedere fasci trasparenti simili a lunghi lombrichi che escono dal plesso solare delle persone (i famosi wormholes), proprio come aveva predetto Mother Death (il cui nome è stato tradotto in italiano con “Nonna Morte“), un’eccentrica scrittrice ora vecchissima e semidemente, autrice del testo The Philosophy of Time Travel. La vecchia conosce bene tali prodigi. Anzi, a quanto pare, solo la pazzia consente di poter viaggiare nel tempo. La psichiatra del ragazzo è sempre più preoccupata,ma non riesce ad avvertire i genitori che lasciano Donnie in casa con la sorella la notte di Halloween. I due organizzano una festa che culmina con la morte di Gretchen, la ragazza di Donnie, investita da tale Frank, un ragazzo in costume da coniglio, che Donnie uccide con un colpo di pistola. Mentre albeggia, Donnie porta il cadavere di Gretchen sulla collina e osserva il cielo, in cui un vortice si va formando e in cui vola l’aereo che riporta la madre e la sorellina a casa. Improvvisamente, dal velivolo si stacca un motore, che precipita sulla cittadina di Middlesex e sulla casa dei Darko… uccidendo Donnie nel suo letto, ventotto giorni prima. Ma ritorniamo a questa inquietante frase:

Il mondo finirà tra 28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi

Questo l’inquietante avvertimento del coniglio. Quando Donnie si risveglia dopo aver ricevuto la previsione, scopre che la sua camera è stata devastata da un motore di aereo caduto letteralmente dal cielo. Si, ma da dove (o da quando?) arriva questo motore?

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Universo Primario e Tangente

“Alcuni nascono con la tragedia nel sangue” dice a un certo punto Gretchen, la ragazza di Donnie… Donnie Darko fa a lungo la spaccata tra horror e science fiction. Come detto, non si può non pensare a Philip K. Dick, il romanziere americano che così bene ha saputo descrivere la schizofrenia. Similmente a Dick, Richard Kelly rende “reali” le allucinazioni per poi coniugarle alla teoria della relatività (che, fino a prova contraria, è scaturita dalla mente di uno scienziato, non da quella di un appassionato di fenomeni paranormali). L’autore del film ci suggerisce che esista un Universo Primario e uno Tangente. Quando da quest’ultimo fuoriesce un artefatto (in questo caso, la turbina di un grosso velivolo), è come se si scoperchiasse il vaso di Pandora: la linea di confine spaziotemporale si spezza, le dimensioni a noi note non combaciano più… in pratica, la follia si fa normalità.
Il protagonista compie degli atti vandalici ma è, in fondo, una vittima innocente: non si può imputare a lui, difatti, la circostanza dello squilibrio chimico che avviene nel suo cervello. E, forse, il tunnel dentro cui lo ha spinto la malattia, dove il tempo si ripete uguale all’infinito e ogni cosa è già predestinata e ritorna, è l’unico luogo in cui si può arrivare veramente a comprendere la quintessenza delle cose del mondo.

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Accenni e allusioni “colte”

Oltre al richiamo al coniglio Harvey (che è una reprise di quello di Alice in Wonderland), il film è pieno di citazioni, associazioni di idee e microeventi che legano l’ieri all’oggi, un’opera letteraria e/o cinematografica all’altra. Così, uno dei personaggi è rappresentato da una vecchia pazza che risponde al nome di Roberta Sparrow. Ne abbiamo già accennato nella “Sinossi”: la Sparrow, detta “Mother Death”, è la fittizia autrice di un libro sui viaggi nel tempo.
Nel corso della campagna di pubblicità per il rilancio di Donnie Darko, deciso a distanza di un paio di anni dall’esordio fallimentare, qualcuno della produzione ha addirittura scritto il libro della Sparrow. Un altro libro, stavolta reale, di cui si parla nel film e che qualcuno vocifera sia stato tra le massime fonti d’ispirazioni di Anthony Burgess per il suo Arancia a orologeria (Arancia meccanica), è The Destructors, di Graham Green. La storia di The Destructors si svolge a Londra durante la Seconda Guerra Mondiale e tratta dell’impatto socio-psicologico che il conflitto armato ha su un gruppo di adolescenti, che scaricano le loro frustrazioni trasformandosi in vandali…

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Il sequel: S. Darko

Nel 2009, quindi 8 anni dopo il primo film, esce la “continuazione” di Donnie Darko. Il titolo è S. Darko. Nathan Atkins ne è l’autore. Ed è bravo nel suo mestiere, bisogna dirlo. Il primo film mai realizzato nato dalla sua penna è stato uno short dal titolo Cultivation (del 2003) che, guarda caso, parla di un mondo magico parallelo. Dunque, è lo sceneggiatore più qualificato per un sequel di Donnie Darko.
In S. Darko, sono trascorsi sette anni dalla morte di Donnie (7: cifra carica di significati…). Samantha, la sorellina del defunto (al suo nome si riferisce la S. del titolo), è intanto cresciuta. Ha 17 anni e, insieme al suo amico Corey, si mette in viaggio per una vacanza da trascorrere a Los Angeles. Durante il tragitto, entrambi vengono tormentati da strane visioni… Tornano qui gli wormholes o buchi di tempo.
S. Darko è stato scritto seguendo le direttive di Richard Kelly, ma questi si è dissociato dal film e la regia è stata affidata a Chris Fisher.
Impossibile dire se l’operazione-sequel sia riuscita. Diciamo semplicemente che si tratta di un  film diverso anche se bisogna ricordare al lettore che sia la critica sia il pubblico lo abbiano giudicato decisamente un brutto film. A me decisamente non ha fatto impazzire, anche perché scatta in automatico un (impietoso) paragone col primo film, paragone che – neanche a dirlo – vede il seguito pesantemente distrutto.

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Spiegazione del film… forse

Come già per Mulholland Drive, e forse anche di più in questo caso, non esiste (è questo è il bello) un’interpretazione giusta o univoca, e lo scopo del film, e del regista, è proprio quello di lasciare all’immaginazione dello spettatore la possibilità di esplorare infinite strade e teorie; ma è anche vero che lo stesso Kelly più volte negli ultimi anni, sul sito web statunitense (altro puzzle misterioso e affascinante) come nel commento audio al dvd, fino ad arrivare al recentissimo Donnie Darko – The Director’s Cut, ha tentato di offrire al vasto pubblico di cultori del film una chiave di lettura tanto precisa quanto complessa.

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Sogno… o sono in un loop?

La forza del film non è in questa charada ma altrove; si può tentare, ad ogni modo, di dare un’interpretazione di questi fatti in modo da fare tornare i conti. In realtà le intepretazioni possono essere svariate, come del resto auspicato dallo stesso regista: una molto semplice vorrebbe Donnie in preda alle risa alla fine del film come al risveglio da un lungo ed intricato sogno… che però era il presagio della sua bizzarra morte. Un’altra, molto affascinante, vuole Donnie (e tutto il mondo) prigioniero di un loop temporale della durata di ventotto giorni, al termine dei quale si torna all’inizio: in questo senso il mondo sarebbe finito, perché intrappolato per sempre tra il 2 e il 31 ottobre. Donnie ne può uscire solo sacrificandosi: per “costringersi” a farlo creerà le visioni con Frank – la sua vittima e il suo Virgilio. Frank lo indurrà ad allagare la scuola perché questo renderà possibile l’incontro con Gretchen, nonché a bruciare la villa del guru Jim Cunningham: l’incendio fa sì infatti che si scopra che l’uomo è un pedofilo, e quindi la professoressa di educazione fisica della scuola, sua amica e ammiratrice, rinunci ad accompagnare il gruppo di danza della sorellina di Donnie per stargli vicino, così che la signora Darko sia costretta a sostituirla e a lasciare Donnie ed Elizabeth soli in casa e liberi di organizzare la festa di Halloween – con tutto ciò che ne consegue.

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Roberta Sparrow e la filosofia di Richard Kelly

Benché questa sembri una chiave di lettura pienamente convincente, ha ben poco a che vedere con quella proposta dall’autore, che ruota tutta intorno il libro scritto da Roberta Sparrow “La filosofia dei viaggi nel tempo“, che nella versione Director’s Cut è recitato quasi parola per parola e sparso in varie parti del film. Questo scritto, non c’è nemmeno bisogno di specificarlo, è assolutamente fittizio (anche se liberamente ispirato a teorie esistenti del famoso scienziato Stephen Hawking) e descrive come il tempo occasionalmente possa “corrompersi” per ragioni sconosciute e dare origine a realtà parallele, chiamate Universi Tangenti. Queste realtà altre sono delle dimensioni temporanee profondamente instabili, della durata di non più di qualche settimana e destinate quindi a collassare su sé stesse provocando la distruzione dell’esistenza. Allo stesso tempo, però, formano anche una sorta di vortice spazio-temporale che permette il viaggio nel tempo e che può ricondurre al punto di origine dell’Universo Tangente. Ne La filosofia dei viaggi nel tempo viene descritto tutto questo e altro: vi sono dettagli specifici su tutti gli elementi che concorrono alla “nascita” e alla “morte” di questo strano fenomeno, come per esempio l’Artefatto (The Artifact), il Ricettore Vivente (The Living Receiver), i Viventi Manipolati (The Manipulated Living) e i Morti Manipolati(The Manipulated Dead).
L’Artefatto è il segno della “nascita” di un Universo Tangente, è solitamente in metallo e la sua improvvisa apparizione non è spiegabile dal punto di vista razionale.
Il Ricettore Vivente è un normale essere umano scelto, non si sa per quale motivo, per riportare l’Artefatto nell’Universo Principale attraverso il vortice spazio-temporale che compare quando l’Universo Tangente sta per collassare. Per fare ciò il Ricettore Vivente ha il dono della telecinesi e vari altri poteri, ma è spesso tormentato da incubi e visioni per tutta la durata della vita dell’Universo Tangente. Naturalmente è Donnie il nostro Ricettore Vivente. Il tempo è stato corrotto dalla materializzazione inspiegabile del motore del jet (l’Artefatto) che cade su casa Darko, ed il nostro giovane eroe deve porvi rimedio prima che ciò causi la distruzione dell’universo. Il Morto Manipolato è ovviamente Frank: come spiega La filosofia dei viaggi nel tempo, chiunque muoia nell’Universo Tangente può tornare, con poteri anche superiori a quelli del Ricettore, ad aiutarlo nella sua impresa; ed è per farne la sua guida, infatti, che Donnie uccide Frank. Ogni accadimento, ogni gesto delle persone che gli sono accanto (i Viventi Manipolati) deve portare Donnie a completare la sua missione creando un motivo valido per l’apparizione del motore e permettendo così la chiusura indolore dell’Universo Tangente. Per ottenere questo risultato Donnie utilizza i poteri di cui è in possesso in quanto Ricettore e approfitta del varco che si crea mentre l’Universo Tangente agonizza per mandare il motore che si stacca dall’aeroplano su cui volano Rose e Samantha Darko indietro nel tempo fino alla notte di ventotto giorni prima, per cadere sulla villetta, uccidere Donnie e cancellare l’Universo Tangente.

Un sacrificio voluto

Ma davvero tutto è stato cancellato? Quello di Donnie è un sacrificio volontario? Kelly sembra suggerire che la risposta sia negativa alla prima di queste domande e positiva alla seconda: i volti dei vari personaggi che vediamo nella sequenza finale sembrano suggerire che essi in qualche modo ricordino quanto accaduto nell’Universo Tangente, e quindi probabilmente anche Donnie avesse percepito l’avvicinarsi del pericolo, scegliendo volontariamente di non evitare il proprio tragico destino. Per andare incontro a quel mistero che nessuna “guida alla comprensione” potrà mai provarsi ad interpretare.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Non sai cos’è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami una cosa più di quanto ami te stesso

MEDICINA ONLINE Will Hunting - Genio ribelle Good Will Hunting 1997 Gus Van Sant  Matt Damon Robin Williams Ben Affleck Boston WALLPAPER SFONDOSean: Pensavo a quello che mi hai detto l’altro giorno, riguardo al mio dipinto.

Will: Ah.

Sean: Sono stato sveglio tutta la notte a pensarci. Poi ho capito e sono caduto in un sonno profondo, tranquillo. E da allora non ho più pensato a te. Sai cos’ho capito?

Will: No.

Sean: Sei solo un ragazzo. Tu non hai la minima idea delle cose di cui parli.

Will: Grazie tante!

Sean: Non c’è di che. Non sei mai stato fuori Boston.

Will: Nossignore.

Sean: Se ti chiedessi sull’arte probabilmente mi citeresti tutti i libri di arte mai scritti… Michelangelo. Sai tante cose su di lui: le sue opere, le aspirazioni politiche, lui e il Papa, le sue tendenze sessuali, tutto quanto vero? Ma scommetto che non sai dirmi che odore c’è nella Cappella Sistina. Non sei mai stato lì con la testa rivolta verso quel bellissimo soffitto… mai visto.
Se ti chiedessi sulle donne, probabilmente mi faresti un compendio sulle tue preferenze, potrai perfino aver scopato qualche volta… ma non sai dirmi che cosa si prova a risvegliarsi accanto a una donna e sentirsi veramente felici. Sei uno tosto. E se ti chiedessi sulla guerra probabilmente mi getteresti Shakespeare in faccia, eh? ”Ancora una volta sulla breccia, cari amici!”… ma non ne hai mai sfiorata una. Non hai mai tenuto in grembo la testa del tuo migliore amico vedendolo esalare l’ultimo respiro mentre con lo sguardo chiede aiuto.
Se ti chiedessi sull’amore probabilmente mi diresti un sonetto. Ma guardando una donna non sei mai stato del tutto vulnerabile… non ne conosci una che ti risollevi con gli occhi, sentendo che Dio ha mandato un angelo sulla terra solo per te, per salvarti dagli abissi dell’inferno. Non sai cosa si prova ad essere il suo angelo, avere tanto amore per lei, vicino a lei per sempre, in ogni circostanza, incluso il cancro. Non sai cosa si prova a dormire su una sedia d’ospedale per due mesi tenendole la mano, perché i dottori vedano nei tuoi occhi che il termine “orario delle visite” non si applica a te. Non sai cos’è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami una cosa più di quanto ami te stesso: dubito che tu abbia mai osato amare qualcuno a tal punto. Io ti guardo, e non vedo un uomo intelligente, sicuro di sé, vedo un bulletto che si caga sotto dalla paura. Ma, sei un genio Will, chi lo nega questo. Nessuno può comprendere ciò che hai nel profondo. Ma tu hai la pretesa di sapere tutto di me perché hai visto un mio dipinto e hai fatto a pezzi la mia vita del cazzo.
Sei orfano giusto? Credi che io riesca a inquadrare quanto sia stata difficile la tua vita, cosa provi, chi sei, perché ho letto Oliver Twist? Basta questo ad incasellarti? Personalmente, me ne strafrego di tutto questo, perché sai una cosa, non c’è niente che possa imparare da te che non legga in qualche libro del cazzo. A meno che tu non voglia parlare di te. Di chi sei. Allora la cosa mi affascina. Ci sto. Ma tu non vuoi farlo, vero campione? Sei terrorizzato da quello che diresti.
A te la mossa, capo.

Robin Williams interpreta il dott. Sean McGuire nel film del 1997 “Will Hunting – Genio ribelle” (Good Will Hunting) diretto da Gus Van Sant e interpretato anche da Matt Damon e Ben Affleck.

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Atto di forza – Total Recall (1990): trama e recensione del film

MEDICINA ONLINE FILM  ATTO DI FORZA TOTAL RECALL 1990 TRAMA RECENSIONE CINEMA.jpgUn film di Paul Verhoeven, con Arnold Schwarzenegger, Rachel Ticotin, Sharon Stone, Ronny Cox, Michael Ironside. Titolo originale: Total Recall. Fantascienza, durata 113 min. – USA 1990.

Ispirato dal racconto breve Ricordiamo per voi dello scrittore di culto Philip K. DickAtto di forza viene riportato sul grande schermo in modo straordinario dal regista olandese Paul Verhoven nel 1990 che, a distanza di soli tre anni dal film del 1987 Robocop, torna dietro la cinepresa per eseguire magistralmente un’altra cruenta avventura fantascientifica.

Anno 2084. Doug Quaid (Arnold Schwarzenegger) è un uomo comune, salvo qualche chilo di muscoli non tanto comuni, che sogna continuamente Marte. Sua moglie Lori (Sharon Stone) sembra non dare credito alle attività oniriche del proprio caro, così Doug si rivolge all’agenzia di viaggi virtuali Recall per provare l’esperienza di un fittizio ricordo di Marte. Durante l’innesto del ricordo però Quaid si risveglia improvvisamente convinto di essere un agente segreto, aggredisce il personale e scappa via. Una volta tornato alla propria abitazione viene violentemente aggredito dalla presunta moglie che in realtà si rivela essere a sua volta un agente sotto copertura con l’incarico di sorvegliarlo. L’uomo, una volta fuggito, riesce finalmente a raggiungere Marte dove incontra Melina (Rachel Ticotin), la donna che in modo ricorrente affollava i suoi sogni passati. Fra realtà e finzione, umani, mutanti e cospirazioni congeniate, Doug Quaid scoprirà di essere l’agente Hauser cercando così di prendere una giusta posizione nel conflitto.

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Realtà o…

I temi principali di Dick già analizzati ne Il cacciatore di androidi vengono nuovamente esposti in questo racconto: identità violate, percezione extrasensoriali, ricordi veri o indotti artificialmente. A questo subentra la bravura del regista, capace di lasciare il giusto spazio alla riflessione senza perdere di vista l’azione. Ed è proprio questo elemento unito agli ottimi effetti speciali a rendere il film scorrevole e godibile. Successivamente tali effetti hanno portato al raggiungimento di un Oscar Speciale nel settore tecnico nonché a creare un’esperienza visiva estrema, violenta, raccapricciante ma indispensabile.

Viaggio nell’ego

Lo spettatore – a lungo durante il film – non sa decidersi se quanto sta accadendo sia il viaggio nell’ego voluto dal protagonista o la sua avventura reale – un’avventura che si imprigiona e si snoda, nella migliore tradizione del film di azione, tra inseguimenti, sparatorie e disvelarsi dei personaggi. Un film stimolante, da vedere almeno due volte per apprezzarlo appieno. Un film che fa riflettere anche: dopo averci mostrato la città del futuro con i suoi comfort (gli schermi televisivi a parete, gli ologrammi per intrattenimento, i simpatici e cortesi robot taxi) ed i suoi lati oscuri (i quartieri bui, la violenza diffusa, la manipolazione delle coscienze) presenta nella colonia marziana una suggestiva riproposta futuribile delle ambite esotiche mete turistiche odierne – dalla Tunisia a Rio De Janeiro, dove – sotto il perenne controllo delle forze dell’ordine – accanto ai quartieri destinati ai “villeggianti facoltosi” convive la miseria della massa degli emarginati – nel caso specifico, dei coloni sfigurati dalle radiazioni, quasi fenomeni da baraccone per turisti in cerca di forti emozioni.

Film cult

Grazie ad una struttura a scatole cinesi, Atto di Forza è una suggestivo racconto narrativo – esplosivo. Paul Verhoven a differenza del romanzo, racconta la storia aumentandone i toni violenti, sottolineando le possibilità di un futuro artificiale, dove dei bei ricordi possono essere impiantati a pagamento e dove il povero attuale è diventato il mutante costretto a rimanere sotto terra per sopravvivere. Fino alle ultime battute il regista lascia il giusto spazio riflessivo allo spettatore, che si impersonifica nel protagonista domandandosi come lui su quale sia il vero confine fra sogno e realtà. 113 minuti di puro cult palpitante per un fanta-thriller pregno di contenuti che, grazie ai continui alleggerimenti grotteschi e talvolta erotici, non annoia mai mostrandoci uno dei migliori film sviluppati sul proibitivo pianeta rosso.

Remake

Nel 2012 ne è stato fatto un remake da Len Wiseman con Kate Beckinsale, Colin Farrell e Jessica Biel, ma al contrario di quello originale, secondo noi è da dimenticare. Due ore di azione, senza l’ironia di Arnold Schwarzenegger e con effetti speciali che – paradossalmente – sembrano più vecchi dell’originale di 22 anni prima, oltre alla presenza veramente troppo ingombrante della Beckinsale (forse perché sposata col regista?). Atto di forza, quello con Arnold, invece è assolutamente da vedere e rivedere!

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Black Mirror: trama e spiegazione del finale di Giochi pericolosi (Playtest)

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Se cercate la spiegazione del finale, andate direttamente in fondo all’articolo

Questa terza stagione di Black Mirror, di cui questo episodio è il secondo, prodotta da Netflix risulta indubbiamente più matura rispetto agli inizi, probabilmente grazie alla consapevolezza di aver ormai conquistato una fetta di pubblico decisamente maggiore rispetto a quando fu lanciata. Ma la cosa che mi fa piacere ancor di più questa serie incredibile è che questa consapevolezza non si esplica con il ripetersi, con quell’auto-citazione fine a se stessa che contraddistingue alcune serie e film che sembrano campare di rendita per il solo fatto di avere un nome ormai consolidato; e fortunatamente non si percepisce comunque alcuno sforzo di banalizzazione (leggi “commercializzazione”) mirata a raggiungere a tutti i costi un pubblico tanto ampio. No, al contrario, Black Mirror continua sulla stessa strada ideologica innovando al punto giusto, tirando fuori dal cappello idee nuove come solo la fantascienza più cerebrale e matura riesce a fare, fregandosene di ogni aspettativa, liberandosi da qualunque tipo di ansia di prestazione che può colpire quando si produce il seguito di qualcosa che già prometteva bene.
La sperimentazione è sempre stata una costante di questa serie, e in quest’ultima stagione questo è particolarmente evidente: ogni puntata, infatti, omaggia un genere diverso. In questa seconda puntata, i creatori riescono abilmente a giocare non solo con la fantascienza, che nelle loro mani è come il pongo per un bambino, ma anche con l’horror, fondendo i due aspetti in un inquietante finestra su un futuro decisamente non molto lontano, e sfruttando il potere della paura di raggiungere la parte più primitiva del nostro io. Non a caso, alla regia troviamo Dan Trachtenberg (noto ultimamente per quel piccolo gioiellino di 10 Cloverfield Lane), che dimostra che con il genere ci sa fare, e che, come nel sopracitato seguito di Cloverfield, si destreggia tra i cliché tipici dell’horror con la giusta dose di ironia e ci regala qualche riflessione interessante sul perché siamo così attratti da un genere tanto inquietante.

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Trama senza spoiler

La parte iniziale dell’episodio ci introduce al protagonista, Cooper, in viaggio alla ricerca di sé stesso ed in fuga da un passato con il quale ha un rapporto complesso. A Londra, l’incontro con una ragazza del luogo, Sonja, è la scusa per spiegare allo spettatore i motivi del viaggio e del complicato rapporto con la madre, che continua a chiamarlo inutilmente, essendo Cooper non intenzionato a sentirla fino al ritorno a casa. Quando, finalmente, egli sembra aver completato il suo lungo viaggio attorno al globo e si appresta a tornare, la mancanza di denaro lo spinge a sottoporsi alla sperimentazione pagata di un nuovo gioco, creato da una famosa casa di sviluppo di videogame horror. In linea con il suo atteggiamento, Cooper non ci pensa due volte e pur di ottenere i soldi per tornare si reca al centro di sviluppo del prestigioso brand. Qui lo spettatore comincia ad avere un assaggio di quella che sarà la puntata: paura. Senza voler fare eccessivo spoiler, cominciate a questo punto a porre estrema attenzione a quello che accade dopo l’entrata di Cooper nell’edificio dove avverrà la sperimentazione, anche agli elementi apparentemente secondari.

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Spaventare qualcuno che sa che sta per essere spaventato

Ma se il gioco da testare è horror, in quanto è noto che la casa produca giochi di genere, la domanda che viene da porsi è: come si fa a spaventare qualcuno che sa che sta per essere spaventato? È qui che entra in gioco la sperimentazione: il gioco si installa direttamente nel sistema nervoso, con un semplice chip sul retro del collo. E tramite l’analisi del cervello dell’individuo plasma le sue percezioni audiovisive per spaventarlo, studiando le sue debolezze, le sue paure, le sue conoscenze pregresse e i suoi “scheletri nell’armadio”. Questa è pressappoco la presentazione che il fondatore della “SaitoGemu” fa della sua creazione, mostrandosi entusiasta di aver raggiunto un nuovo livello di intrattenimento, certo che questa nuova tecnologia rivoluzionerà il mondo del gaming. Con queste premesse, la puntata non può che costruirsi in modo intricato (poiché, come vedremo, il fatto di trovarsi in un gioco mentale complica di molto le cose) e inquietante, sfruttando la paura dell’ignoto portata all’ennesima potenza (non è l’ignoto in fondo il fondamento della paura?) tanto da spingere lo spettatore stesso a mettere in dubbio quello che sta vedendo, ben oltre quello che la trama di per sé suggerisce.

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Inganno

È questo uno dei temi fondamentali della puntata: l’inganno, che supera i limiti dello schermo e si instilla direttamente nella testa di chi guarda. È straordinaria la capacità di immedesimare lo spettatore nello stesso inganno in cui si ritrova catapultato Cooper, nonostante il primo sia pronto ad ammettere che la simulazione possa andare ben oltre quello che invece il protagonista crede. Di fatto, quindi, non solo Cooper si autoinganna, ma anche la nostra mente, nel tentativo di giustificare gli eventi mostrati, tende ad ingannarci, portandoci a costruire una serie di scenari per spiegare la situazione: scenari certamente plausibili, così tanto da convincerci di essere esatti. Ma, esattamente come avviene al protagonista, i suddetti scenari si riveleranno poi con tutta probabilità errati, per il semplice motivo che è quello lo scopo del gioco, ed è quello lo scopo della puntata.

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Realtà aumentata

Veniamo quindi al secondo tema che segue logicamente il primo: la potenza della mente. Questa non è l’unica puntata di Black Mirror a sfruttare come pilastro narrativo una realtà simulata a livello percettivo, ma è la prima volta che tale realtà viene ad essere costruita puramente dalla mente di chi la vive. Ecco che una semplice regola forzata all’interno della mente (spaventati!) diventa un’ossessione, e le percezioni vengono plasmate di conseguenza, con una realtà che di fatto non è più possibile definire tale, riaccendendo il dibattito eterno tra realisti e nominalisti (esiste una realtà indipendente dall’uomo?). In questo caso è interessante notare come una volta che il nostro “strumento di analisi percettivo” (la mente) viene impostato su un certo obiettivo, la realtà perde completamente di significato, come avveniva nel film Inception per Mal, che una volta convintasi di star vivendo un sogno, forzava ogni percezione a diventare una prova a favore della sua ossessione. La puntata ci mostra però come una realtà esterna esista e come, anzi, questa abbia un valore importante nel modo in cui il protagonista costruisce la propria esperienza, riconducendo tutto ad un unico elemento, proposto fin dall’inizio dell’episodio, che funge da collante per tutta la storia (per chi non avesse visto l’episodio, quest’ultima affermazione potrebbe sembrare confusa, ma una volta visto diverrà chiaro). Molta della produzione fantascientifica moderna, non a caso, ha concentrato gli sforzi non più su mondi lontani, alieni, navi spaziali o simili, ma sull’individuo, sulle costruzioni mentali e sulle possibilità praticamente illimitate del nostro cervello (a livello di complessità, si paragonano spesso mente e universo, con la prima che spesso sembra detenerne il primato). Allo stesso modo, la scienza stessa, a partire dalla psicoanalisi e dal dibattito sulla conoscenza, ha cominciato sistematicamente a concentrarsi su questo magnifico strumento: nel tentativo di spiegarlo, si continua ad evidenziarne la complessità.

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Basta un particolare anche innocuo, per distruggere tutto

Veniamo dunque alla fine della puntata che, come la serie di ha abituato, lascia un profondo senso di rassegnazione, paura e inquietudine. Ma in che modo siamo guidati fino a queste emozioni? La risposta risiede in quella che potrebbe essere definita “provocazione narrativa”. Quel che accade, ancora una volta, è che nonostante la storia ci inganni in vari modi, l’inganno realmente disturbante è quello che sfrutta le conoscenze pregresse di uno spettatore moderno (esattamente come il gioco sfrutta le conoscenze di Cooper per ingannarlo). Siamo abituati ad associare ad un protagonista ottimista, positivo e allegro dei risvolti che in fine saranno proporzionali al suo carattere. È il ritorno finale alla realtà che scombussola lo spettatore, lo nausea, mostrando un contrasto netto tra il mondo delle costruzioni mentali, in cui tutto deve avere senso, positivo o negativo che sia, e quello della realtà, che non segue alcuno schema e non ha alcuno scopo. Nella realtà “reale” basta un particolare apparentemente innocuo e insignificante per distruggere qualsiasi cosa, anche la nostra stessa vita. La puntata funziona quindi come un’enorme monito sul potere della tecnologia in relazione però a prerogative tutte umane: se questa vuole imporsi come strumento con il quale il sogno dell’uomo dell’onnipotenza può finalmente prendere vita, la realtà sarà sempre un passo avanti, imprevedibile, spietata, e sempre completamente indifferente alla nostra volontà.

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Spiegazione del finale (SPOILER)

I momenti più importanti per capire il finale sono quattro, mentre i colpi di scena sono due:

MOMENTO 1: Cooper è nella stanza bianca del test assieme a Katie, l’assistente afroamericana del direttore Saito. Katie ritira e spegne il cellulare di Cooper. Katie esce un momento dalla stanza e Cooper ne approfitta per sbloccare la rete sul cellulare e scattare e inviare foto a Sonia, ma il ritorno di Katie gli impedisce di rimettere il cellulare in modalità aereo, e riceve l’ennesima chiamata dalla madre, che Katie blocca. Nonostante l’imprevisto, tutto procede bene e la donna gli inserisce dietro il collo un chip di controllo neurale che chiama “fungo”: dopo un primo momento di attivazione, Cooper vede gli ologrammi della talpa ed inizia a giocarci.

MOMENTO 2: Subito dopo il momento 1, Cooper viene portato da Saito e Katie collega il “fungo” di Cooper ad un cavo per qualche secondo, per caricare un “pacchetto di rete neurale”. Finita l’istallazione Katie lo accompagna presso la casa degli orrori.

MOMENTO 3: Cooper all’interno della casa, comincia ad aver davvero troppa paura e chiede di terminare l’esperimento, va nella “stanza di recupero” ed impaurito, tenta di estrarsi il fungo da solo, ma Katie, Saito e due collaboratori intervengono e lo fermano: a quanto pare il fungo ha interagito troppo a fondo con il sistema nervoso di Cooper, facendogli dimenticare il suo passato: Saito, dopo avergli chiesto scusa, ordina ai due assistenti di portarlo via. Cooper urla e si risveglia: è ancora nell’ufficio di Saito, che si scusa sentitamente: forse i parametri erano troppo alti e l’esperimento è durato solo un secondo.

COLPO DI SCENA 1: Arrivati al termine del “momento 3” lo spettatore capisce il “colpo di scena 1”: tutto quello che ha visto tra il momento 2 ed il momento 3 in realtà non è mai esistito, bensì è stato solo il frutto di quel secondo di “iperattività cerebrale” che ha provato Cooper grazie al pacchetto di rete neurale, mentre era seduto nella stanza di Saito. In pratica tutta la fase della casa degli orrori sarebbe solo una specie di “bad trip” causato dai “parametri troppo alti”. Lo spettatore è così rassicurato: Cooper sta bene e lo vede tornare a casa. Tutti vissero felici e contenti? Non proprio.

MOMENTO 4: Cooper tornato a casa, incontra la madre in lacrime in stato apparentemente confusionale, che non lo riconosce e gli dice che deve chiamare suo figlio per sapere come sta. La madre compone il numero e… Cooper nuovamente si risveglia nel momento in cui la madre lo aveva chiamato al suo incontro con Katie e muore in preda agli spasmi.

COLPO DI SCENA 2: Al termine del momento 4 il corpo di Cooper viene portato via. Lo spettatore capisce quindi che tutto quello che è successo tra il momento 2 ed il momento 4, in realtà non è esistito se non nella mente di Cooper: è stato tutto un enorme “bad trip” causato dall’interferenza della chiamata ricevuta sul cellulare che sarebbe dovuto essere spento. Questo bad trip include quindi buona parte della puntata: Cooper non è mai stato davvero nella casa degli orrori, non è mai stato seduto nella stanza di Saito, non ha mai subito l’istallazione del “pacchetto di rete neurale” e nemmeno ha mai giocato con le talpe virtuali. Tutto questo, come anche il colpo di scena 1, col protagonista che torna a casa, è stato solo immaginato da Cooper in quegli 0.04 secondi che sono stati la durata reale dell’esperimento.

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Riflessioni sul finale

Lo spunto di riflessione principale è dato dal fatto che la fine definitiva del gioco è dettata dal non rispetto di una regola che vietava l’utilizzo del cellulare durante la fase di beta testing, cellulare utilizzato al fine di raccogliere prove sulla nuova tecnologia da vendere alla stampa di settore. Un po’ come quando sull’aereo ti dicono di spegnere il cellulare ma tu lo vuoi lasciare acceso. La fatalità della chiamata ricevuta dalla madre nel momento più sbagliato possibile, a sua volta conseguenza proprio dell’irrisolutezza da parte di Cooper nell’affrontare la propria paura di riallacciare i rapporti con lei, contribuisce a chiudere il cerchio, nel momento in cui scopriamo che quasi tutto l’episodio è avvenuto – esclusivamente all’interno della mente iperstimolata del protagonista – nell’intervallo di 0,04 secondi, il tempo impiegato da Cooper per dire “Mamma”.

L’intero episodio si rivela, solo a questo punto, un excursus delle paure irrisolte del protagonista, un viaggio sempre più in profondità nella sua mente e nelle sue paure: la paura di rimanere solo, la paura di non ricordare, la paura del lutto familiare e la conseguente difficoltà di riallacciare un legame con i propri affetti rimasti, tutte terribilmente vissute in forma “reale” dal protagonista all’interno della propria mente.

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Django Reinhardt, l’uomo che con sole due dita riuscì a scrivere la storia della chitarra

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma IL MIO MITO DJANGO REINHARDT Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgIl mio mito è Django Reinhardt. Django Reinhardt nacque a Liberchies, una città del Belgio, il 23 gennaio del 1910 da una famiglia di etnia sinti, che girovagava in varie nazioni europee e nord-africane, fino a stabilirsi a Parigi. Ancora giovanissimo, Django era già un apprezzato suonatore di banjo, ma la sua vita era destinata a cambiare per sempre. Quando aveva appena diciotto anni la roulotte di famiglia dove lui viveva, fu infatti divorata da un incendio: Django riportò gravi ustioni, tanto da perdere l’uso della gamba destra e di buona parte della mano sinistra, cioè quella che usava sulla tastiera del proprio strumento musicale. L’anulare e il mignolo, distrutti dal fuoco, furono saldati insieme dalla cicatrizzazione e divennero inutilizzabili. Subito dopo l’incendio del caravan, Django rifiutò fermamente l’amputazione della mano sinistra e del piede destro e riuscì fortunosamente a superare il rischio di cancrena che gli si prospettava, ma per lui ogni aspirazione di essere musicista, era ormai del tutto svanita.

Qualsiasi persona al mondo, dopo un incidente del genere, avrebbe probabilmente smesso per sempre di suonare. Ma Django non aveva intenzione di piegarsi al suo destino tragico.

Dopo i primi tempi di nera disperazione e più di un anno di riabilitazione, ricominciò a suonare, ma aveva solo due dita a disposizione e doveva trovare un nuovo strumento e – soprattutto – un modo nuovo per usare al meglio la sua mano menomata. Un modo che nessuno aveva mai usato al mondo. A causa del danno alla mano sinistra, Reinhardt dovette per prima cosa abbandonare il banjo ed iniziare a suonare una chitarra che gli era stata regalata, meno pesante e meno ruvida. Nonostante le dita atrofizzate, o forse proprio “grazie” ad esse, sviluppò una tecnica chitarristica rivoluzionaria e del tutto originale e particolare riuscendo in questo modo a vincere la menomazione fino a tornare sulla scena assieme a diverse orchestre che giravano per la Francia. La sua condizione lo costringeva a ricorrere a tecniche diverse dalla maggioranza degli altri chitarristi e questo contribuì a plasmare il suo stile unico e inimitabile. L’originalissimo modo di suonare di Django, acclamato da musicisti di tutti i generi come geniale ed innovativo, divenne famoso in tutto il globo ed è ancora oggi studiato da molti chitarristi di fama mondiale. Django Reinhardt è tuttora considerato uno dei migliori musicisti della storia ed un esempio di come la volontà e l’amore per le proprie passioni possa far superare ogni difficoltà.

Il mio mito è invece Django Reinhardt, l’uomo che con sole due dita riuscì a scrivere la storia della chitarra e della musica.

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