Mobbing sul lavoro: definizione, significato, prove, conseguenze, cosa fare

SETTEMBRE LUNEDI STRESSIl mobbing è una particolare condizione di isolamento in cui un lavoratore è costretto a vivere a causa di soprusi e comportamenti di esclusione messi in atto da colleghi o superiori. li termine deriva dal verbo inglese to mob, che significa “assalire tumultuando in massa, malmenare, aggredire”. Più precisamente, la parola “mobbing” perviene dall’etologia, disciplina all’interno della quale indica la reazione collettiva e aggressiva di alcune specie di passeracei all’invasione di estranei, spesso uccelli rapaci, nel proprio territorio. Riuniti in stormi, ed emettendo una sorta di grido di guerra, gli uccelli in questione compongono in volo una formazione volta ad accerchiare e a intimorire l’avversario, costringendolo ad allontanarsi. In USA ed in Gran Bretagna si tende a usare la parola bulling, un sinonimo che evoca un tipo di aggressione più violenta, più fisica di mobbing, che è invece più subdola e totalmente psicologica. Non esistono posti di lavoro più soggetti di altri a tale fenomeno: il mobbing si verifica nel settore pubblico come in quello privato, nelle fabbriche come nelle grandi aziende, nelle città di provincia come nelle metropoli.

Mabber, mobbizzati e side-mabber

In uno scenario di mobbing, si muovono tre tipi di soggetti:

  • mabber: sono coloro che mettono in atto comportamenti di aggressione e isolamento, possono essere singoli o multipli e coalizzati tra loro; possono essere capi o semplici pari grado del soggetto mobbizzato;
  • mobbizzati: sono i lavoratori costretti a subire le violenze;
  • side-mabber: sono i complici dell’aggressore, cioè colleghi che osservano la situazione senza far nulla; il loro atteggiamento passivo, per paura o per solidarietà con chi aggredisce, alimenta le situazioni di disagio lavorativo.

Tipi di mobbing

A seconda di chi porta avanti l’azione mobbizzante, è possibile distinguere due tipi principali di mobbing:

  • mobbing dall’alto, mobbing verticale o bossing: è il più frequente, è il mobbing che viene esercitato da un singolo superiore (o più superiori) che per diversi motivi oltrepassa i limiti della propria supremazia professionale fino ad esercitare atteggiamenti particolarmente aggressivi e punitivi nei confronti della propria vittima. Tali atteggiamenti di norma vengono poi assunti da altri dipendenti (altri superiori o pari), determinando un progressivo isolamento della vittima;
  • mobbing tra pari o mobbing orizzontale: il lavoratore è vittima degli stessi colleghi, di pari grado. E’ meno frequente del tipo verticale ma altrettanto drammatico.

A seconda delle cause scatenanti, è possibile distinguere due tipi principali di mobbing:

  • mobbing emozionale: l’aggressività dei colleghi, mossa da sentimenti di natura
    personale, per esempio da invidia, antipatia, competizione, scatena una sorta di  aggressività di gruppo, a volte inconsapevole, finalizzata all’allontanamento di chi viene vissuto come capro espiatorio. Questo tipo di mobbing può essere di tipo orizzontale o verticale. Nella forma orizzontale, il comportamento aggressivo è messo in atto tra colleghi di pari grado; nella forma verticale, da un superiore nei confronti di uno o più inferiori: in questo caso, spesso si usa il termine bossing;
  • mobbing strategico: le motivazioni sono legate all’organizzazione dell’azienda;
    l’aggressività è indirizzata verso uno specifico dipendente considerato ormai
    scomodo per spingerlo ad andarsene.

Cultura del profitto e fusione delle imprese

Di solito l’atto persecutorio non è la risposta a un sopruso subito, non è la difesa ad un attacco ricevuto precedentemente, ma deriva da una libera scelta fondata su motivazioni sconosciute alla vittima. Il mobbing è un fenomeno tipico degli ultimi decenni, in quest’epoca in cui il mondo del lavoro cambia a una velocità sorprendente e insieme a esso cambiano i bisogni e i consumi. Per soddisfarli, le imprese devono mantenere ritmi di produzione sempre più elevati, cercando di ridurre al minimo i costi: è la cultura del profitto. La fusione delle imprese ha inciso in modo decisivo sul fenomeno, portando al dimezzamento dei posti di lavoro. Nel lavoratore, di conseguenza, scatta la paura di essere licenziato dopo aver dedicato tempo ed energia a un’azienda che forse non lo vuole più. Il desiderio di opporsi e reagire al pericolo temuto evoca allora comportamenti di sfida, competitività, aggressività di fronte alle nuove difficoltà. La reazione può essere positiva in presenza di buone risorse dell’individuo mentre conduce a disagio e distress quando le richieste ambientali divengono insormontabili rispetto alle risorse. Inoltre, una risposta comportamentale nel segno di un maggiore impegno e coinvolgimento lavorativo può risultare comunque inutile di fronte a situazioni generali di crisi e di transizione macroeconomica, in cui il lavoratore viene licenziato, trasferito o posto in cassa integrazione indipendentemente dai suoi sforzi.

Identikit del mobbizzato

È difficile dire chi sia più predisposto al ruolo di vittima, perché persone dal carattere debole o forte hanno identiche probabilità di diventare un capro espiatorio. L’unica differenza è che persone dal carattere forte possono resistere più a lungo ai soprusi, ma ciò sfocia in un maggiore disagio proprio perché la sofferenza è protratta nel tempo. Una costante in tutti i casi è che la vittima del mobbing ha investito molto nel proprio lavoro, vi ha dedicato la propria energia. ha sempre creduto nell’azienda e nei colleghi: soffre tanto appunto perché non è un sottomesso. Anche il ruolo del lavoratore più predisposto alle vessazioni è difficile da individuare: le denunce più frequenti arrivano da soggetti con impieghi dirigenziali e livello culturale medio-alto, ma il dato non è significativo in quanto è più facile che si esponga un professionista, con maggiori probabilità di trovare un altro eventuale impiego, di un operaio più legato a un determinato posto di lavoro. In Italia, il mobbing verticale è presente in oltre metà delle situazioni di molestie morali; il mobbing orizzontale nel 40-45 dei casi. Molto più raro, anche se non impossibile, è il mobbing ascendente, ovvero dal basso verso l’alto, cioè il boicottaggio di un capo attuato da un gruppo compatto di subalterni. Il mobbing colpisce uomini e donne, con una leggera prevalenza femminile; il soggetto mobbizzato di solito ha almeno 45 anni che per l’azienda è spesso assimilato ad un lavoratore anziano, quindi più un costo che un vantaggio. Un lavoratore giovane ha meno pretese, si adatta maggiormente alle condizioni aziendali, spesso accetta in silenzio anche i soprusi pur di conservare il posto, al contrario di un lavoratore con più anzianità. Ancora più a rischio è l’età compresa tra i 55 e i 60 anni: sono persone che certamente hanno maturato una notevole esperienza, ma in alcune realtà aziendali ciò significa obsolescenza; la tecnica terribile a volte impiegata è proprio quella di spingere la persona alla pensione anticipata. In altri casi, l’essere considerato diverso per razza, religione di minoranza, handicap fisici o psichici può facilitare il fenomeno del mobbing.

Aspetti psicologici del mobbing

Ognuno di noi reagisce in maniera soggettiva allo stress negativo, di cui il mobbing è un esempio esasperato. In tale situazione, oltre a sviluppare sintomi fisici, di cui è difficile stilare una classifica a causa della soggettività della reazione, viene compromesso l’equilibrio psicologico della persona, con conseguenze anche all’interno delle relazioni familiari e amicali. Le modalità con cui il mobbing viene messo in atto sono molto diverse tra loro, in relazione alle realtà aziendali, al livello culturale dei soggetti coinvolti, ai motivi scatenanti, agli interessi che l’azienda intende tutelare. Le violenze psicologiche subite possono consistere in vere e proprie aggressioni verbali, urla, rimproveri continui e spesso immotivati; oppure il soggetto può subire un trasferimento non richiesto che lo mette in una situazione di difficoltà, per esempio, una sede di lavoro lontana da casa. In altri casi il mobbizzato può subire una dequalificazione, per esempio da capo reparto diventa semplice operaio, anche in questo caso senza giustificazioni; o al contrario, riceve una promozione inaspettata con lo scopo di assegnargli un compito che in realtà non sa svolgere. Altre forme di mobbing sono le seguenti:

  • in caso di assenze per motivi di salute, il lavoratore viene continuamente controllato dal medico fiscale;
  • il lavoratore viene controllato in modo ossessivo dal superiore o dai pari nello svolgimento del suo lavoro, così da essere colto prima o poi in un minimo ed insignificante errore;
  • può vedersi assegnato un carico di lavoro eccessivo, il cosiddetto “surmenage lavorativo”, che lo costringe a prolungare l’orario di lavoro al limite dello sfinimento, specie quando il lavoratore ha questioni familiari urgenti da svolgere.

Come è evidente, qualsiasi azione può essere usata per colpire e isolare il lavoratore.
Le cause del fenomeno sono diverse fra loro: una cattiva organizzazione dell’azienda; conflitti non risolti e amplificati dai silenzi; presenza di persone particolarmente aggressive, i potenziali “mobber”. Probabilmente è la combinazione di queste e altre cause a rendere il fenomeno una vera patologia.  All’inizio la vittima vive in uno stato di attesa detto tempo di allerta, fase in cui il soggetto tenta di carpire qualche messaggio che possa chìarirgli i motivi dell’accaduto, ha un’ottica più guardinga nei confronti dei colleghi, si aspetta che gli attacchi continuino nel tempo. La differenza tra stress e mobbing sta nel fatto che quest’ultimo rappresenta una fon-te di stress; è una stimolazione, a volte si parla di sovrastimolazione, proprio perché è eccessiva, proveniente dall’ambiente esterno che il soggetto non è in grado di sopportare. Alla fase di allerta segue quella definita dagli studiosi di anestesia reattiva: la vittima è immobile, non ha reazioni, subisce senza rispondere agli attacchi; non riconosce più il proprio ambiente di lavoro, ma nemmeno se stessa idepersonalizzazione). Infine, si definisce tempo del mobbing la fase in cui la vittima, ormai consapevole della propria condizione, si attiva al fine di ricercare le prove delle aggressioni. È il momento in cui la persona decide di intentare azioni legali verso gli aggressori, azienda o colleghi. Esistono opinioni discordanti su quanto tempo debba durare l’aggressione per essere definita mobbing. Negli anni Ottanta lo psicologo svedese contemporaneo Heinz Leymann, pioniere degli studi in materia, ha elaborato alcuni criteri per distinguere il mobbing dai normali conflitti di lavoro.

Situazioni tipiche del mobbing

Secondo Heinz Leymann, un lavoratore è sicuramente vittima di mobbing quando si verificano alcune di queste condizioni:

  • all’improvviso gli spariscono o si rompono, senza essere sostituiti, strumenti di lavoro come telefoni, computer e lampade, oppure vengono sostituiti con strumenti di minore qualità rispetto all’originale (ad esempio computer di vecchia generazione o lampade meno potenti);
  • all’improvviso gli spariscono documenti importanti dalla scrivania o dai cassetti;
  • all’improvviso gli spariscono oggetti “cari” dalla scrivania, come la foto dei figli o una piccola pianta;
  • litigi o dissidi con i colleghi sono sempre più frequenti;
  • quando entra in una stanza la conversazione generale si interrompe bruscamente;
  • viene escluso da notizie e riunioni utili per lo svolgimento del suo lavoro;
  • gli vengono dati orari o stanze sbagliati delle riunioni;
  • girano pettegolezzi infondati sul suo conto;
  • gli vengono affidati da un giorno all’altro incarichi inferiori alla sua qualifica;
  • gli vengono dati incarichi estranei alle sue competenze, che inevitabilmente svolgerà meno bene e per tale motivo verrà redarguito;
  • gli vengono dati incarichi che sono mal visti dai colleghi, come ad esempio controllare il lavoro degli altri (fare “la spia”) il che inevitabilmente li farà apparire malvisti dai colleghi;
  • gli vengono dati orari diversi dal solito, in genere in contrasto con quelle che sono le sue attività personali (ad esempio portare i figli in piscina alla 4 del pomeriggio);
  • è sorvegliato ogni giorno di più nei minimi dettagli, come orari di entrata e di uscita, telefonate, tempo passato alla macchinetta del caffè;
  • riceve rimproveri eccessivi per piccolezze: le sue richieste sia verbali sia scritte non ottengono risposta;
  • i superiori o i colleghi lo provocano per indurlo a reagire in modo incontrollato;
  • risulta escluso da feste aziendali o da altre attività sociali;
  • viene preso in giro per l’aspetto fisico o l’abbigliamento;
  • tutte le sue proposte sono rifiutate senza valide motivazioni;
  • è retribuito meno di altri colleghi che hanno incarichi di importanza minore.

Secondo Leymann, si può parlare di molestia morale sul lavoro quando le violenze verbali, gli attacchi alla vita privata e le vessazioni in genere si ripetono almeno una volta alla settimana per sei mesi. Si tratta di una gabbia un po’ rigida, ma rende l’idea di quanto il processo sia esteso nel tempo, reiterato e frequente. In media, la durata della molestia in Italia si aggira attorno ai quattro-cinque anni, ma può superare i dieci-quindici, mentre in Germania è inferiore ai due anni. Questo accade probabilmente perché la paura della disoccupazione porta gli italiani a tollerare più a lungo situazioni di disagio psicologico.

I colleghi del mobbizzato

Il mobbing si crea nel momento in cui il soggetto percepisce che qualcosa è cambiato, l’atmosfera di lavoro è diventata pesante e a volte insostenibile, i colleghi all’improvviso sono freddi e distaccati, manca la solidarietà, sparisce lo spirito di gruppo, si annienta ogni tipo di comunicazione: la vittima comincia a lavorare poco e male. Spesso i colleghi non sono solidali perché impauriti da eventuali conseguenze, l’egoismo è dettato da un distorto istinto di sopravvivenza, per cui se il capo se la prende con un altro, forse non se la prenderà con me. La mancanza di solidarietà, inoltre, complica ogni azione legale, perché raramente la vittima trova colleghi disposti a testimoniare a suo favore.

Conseguenze sul mobbizzato

Dal punto di vista psicologico, il primo meccanismo a scattare nella mente della vittima è l’autocolpevolizzazione; per un certo periodo di tempo egli vive nella convinzione di meritare ciò che gli sta accadendo, perché probabilmente non ha svolto a dovere quel determinato compito, quindi ricerca la causa di tutto ciò dentro se stesso. li tempo di solito aiuta a capire che le cose non stanno così, che la situazione va ben al di là delle sue responsabilità. I punti di riferimento abituali diventano fonti di insicurezza: il mobbizzato non sa più a chi rivolgersi, con chi confidarsi, con chi semplicemente parlare, non fidandosi più di nessuno. La solitudine che si crea attorno alla vittima è anche interiore: la persona pensa di essere l’unica a vivere tale condizione, ritiene che nessuno riuscirà a capirlo né a sostenerlo. Ecco quindi la chiusura nel silenzio: la vittima non parla neanche con i familiari, per vergogna. Tutto ciò mina l’equilibrio psicofisico della persona e da qui si affacciano sintomi fisici che a lungo termine sfociano in disturbi respiratori, come l’asma bronchiale, in disturbi dell’apparato digerente, per esempio l’ulcera duodenale, ma anche in vertigini, cefalee, disturbi del sonno, palpitazioni, lombalgie, eritemi, gonfiori. I disagi psicologici vedono anche l’instaurarsi di:

  • disturbi del comportamento alimentare come la bulimia o l’anoressia nervosa;
  • disinteresse per la sfera sessuale;
  • abuso di alcol e droghe;
  • insonnia;
  • incubi ricorrenti;
  • ansia;
  • depressione;
  • attacchi di panico;
  • crollo totale dell’autostima;
  • suicidio.

Mobbing e legge italiana

In Italia le dimensioni del problema non sono ancora così evidenti, ma rimane il fatto che il lavoratore colpito si trova di solito a lottare da solo contro un gruppo coalizzato, e decidere cosa fare per far valere i propri diritti non è cosa facile, perché c’è il rischio di peggiorare la situazione. Si può tentare la strada del dialogo con i propri aggressori, o chiedere il trasferimento, che spesso non viene concesso proprio per spingere la persona alle dimissioni, o cercare alleati o ancora rivolgersi a un avvocato. Lasciare il lavoro è comunque una sconfitta e può accadere che dopo qualche tempo ci si penta. Unico modo per chiedere un trasferimento in condizione di tutela è ricorrere al decreto di legge 626 del 1994, che autorizza il lavoratore a rivolgersi all’Ispettorato del Lavoro per chiedere un intervento di verifica delle proprie condizioni lavorative. Tale decreto prevede la figura del medico aziendale che può intercedere per il trasferimento a causa di motivi di salute. Questa strategia non è comunque esente da rischi: i motivi di salute, a volte fittizi, possono ritorcersi contro il lavoratore, che non viene considerato più idoneo a svolgere quella determinata attività e può incorrere comunque nel licenziamento. Per evitare situazioni di mobbing il datore di lavoro dovrebbe introdurre strumenti preventivi: stipulazione di accordi, codici di condotta, percorsi formativi. Per esempio in Francia, il Crédit Lyonnais ha istituito un osservatorio sullo stress, con medici e specialisti che tengono ai dirigenti lezioni sulle relazioni tra colleghi; sempre in Francia, la Hewlett-Packard suggerisce ai suoi dirigenti di fissarsi obiettivi non solo aziendali, ma anche relativi alla vita privata. In Germania, alla Volkswagen i lavoratori che ritengano di essere mobbizzati possono rivolgersi a un referente che può intervenire attraverso provvedimenti, trasferimenti o altro.
In Italia, per un certo periodo i sindacati nazionali Cgil, Cisl e Uil non hanno considerato il mobbing un fenomeno degno di attenzione, ritenendo riguardasse poche persone. Oggi alcune Camere del Lavoro aiutano le vittime indirizzandole a medici del lavoro o a specialistici del settore. È necessario ricordare che gli attori del mobbing non sono solo l’azienda e la vittima, ma anche l’intera collettività: se la vittima si ammala, ciò avrà un costo per il sistema sanitario nazionale; se va in pensione prima del tempo previsto, ciò peserà sul sistema previdenziale; se l’azienda subisce danni economici, ciò si rifletterà sul prodotto interno lordo.

Cosa fare e prove necessarie

Il mobbizzato dovrà per prima cosa spiegare la propria situazione al proprio medico di base ed a un avvocato esperto nel campo. E’ importante ricordare che – affinché il mobbizzato possa essere risarcito del danno subito – deve fornire una prova precisa e adeguata del fatto che il mobbing si stia effettivamente verificando, il che purtroppo non è sempre facile. Innanzitutto egli dovrà provare che, nei suoi confronti, è stata perpetrata una serie di comportamenti persecutori, con intento vessatorio. Costituiscono esempi di tali comportamenti, le critiche continue e immotivate, la dequalificazione, l’emarginazione, le molestie e gli altri comportamenti elencati nel paragrafo “Situazioni tipiche del mobbing”. Il mobbizzato dovrà provare che tali comportamenti non sono sfociati in un unico, isolato, evento, ma sono stati reiterati lungo un arco temporale medio-lungo, ovverosia per un periodo di tempo tale da rendere invivibile il contesto lavorativo di riferimento, ad esempio per mesi. Un’ulteriore fondamentale prova da fornire è quella relativa al danno subito: essa potrà essere data con dichiarazioni testimoniali e, ancor più efficacemente, con perizie e certificati medici che attestino lo stato di depressione e frustrazione. La prova più difficile da fornire, ma anche quella più importante, è lo stretto rapporto causale tra la condotta denunciata e il danno subito, cioè il mobbizzato deve dimostrare che le condotte subite sul posto di lavoro hanno prodotto in lui dei danni, ad esempio la depressione. Come intuibile non è quindi così semplice fornire prove del mobbing anche perché spesso, capi e colleghi, sono molto abili nel mobbizzare in modo molto ambiguo, agendo in una “zona d’ombra” di difficile dimostrabilità.

Risarcimento

Il mobbizzato può essere risarcito innanzitutto per le sofferenze non patrimoniali subite in conseguenza delle condotte persecutorie, che vanno valutate globalmente dando rilevanza alla lesione della salute psico-fisica del danneggiato (danno biologico), alla sofferenza interiore derivante dalle condotte persecutorie (danno morale) e al peggioramento delle sue condizioni di vita quotidiane (danno esistenziale). Egli in alcuni casi può essere risarcito anche del danno patrimoniale subito in conseguenza del mobbing e che comporta, in sostanza, un’incidenza negativa sulla sua sfera economica. Ad esempio, il danno patrimoniale subito dal mobbizzato può identificarsi nell’essere stato costretto a sostenere delle spese mediche, farmaceutiche o per visite specialistiche in conseguenza delle lesioni psico-fisiche derivanti dal mobbing o, anche, nel mancato guadagno conseguente all’impoverimento delle sue capacità professionali che si verifica in tutti i casi in cui il mobbing comporta un’inattività forzata del lavoro, la sua perdita di chances, il mancato avanzamento di carriera, la compromissione della sua immagine professionale e così via.

Film sul mobbing

Un ottimo film sul mobbing è “Mi piace lavorare (Mobbing)“, prodotto nel 2003 e diretto da Francesca Comencini, con Nicoletta Braschi che interpreta Anna, segretaria capocontabile da anni in un ufficio, che – dopo una fusione societaria – inizia un lungo calvario di mobbing da parte dei colleghi.
Altro lungometraggio che affronta in parte l’argomento è “Volevo solo dormirle addosso” del 2004, diretto da Eugenio Cappuccio e liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Lolli. In questo film il protagonista è Marco Pressi, giovane formatore del personale di una multinazionale, che – per avere una promozione – deve riuscire in pochi giorni a licenziare 25 dipendenti di vario livello senza creare tensioni visibili: per farlo userà qualsiasi mezzo, tra cui anche il mobbing.
Un personaggio del cinema emblema – almeno in parte – del mobbing è Ugo Fantozzi, il ragionere reso famoso da Paolo Villaggio, che nei suoi film descrive un lavoratore perennemente vessato dai colleghi e spesso oggetto di demansionamenti estremi e grotteschi, anche se in questo caso non è corretto parlare di mobbing vero e proprio, visto che l’obiettivo dei capi e dei colleghi di Fantozzi era orientato verso lo sfruttamento del lavoratore e non verso il suo allontanamento.

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