I media sono spesso accusati di essere “violenti”, con particolare riferimento alle numerose scene di morte che vediamo quotidianamente in televisione, ma anche sui giornali online o cartacei. Alcuni psicologi hanno stimato che, guardando la televisione, un bambino assiste in media a ben 8000 omicidi prima di avere concluso le scuole elementari, e grazie ad internet questo numero potrebbe essere fin troppo ottimistico. Sono cifre che devono indurci a valutare il fenomeno, per cercare di comprenderne almeno gli aspetti più salienti. Perché la violenza, e in particolare la morte, è onnipresente nei media? E quali relazioni si instaurano con la percezione più generale della morte nella nostra società?
La morte è diventata un tabù
Antropologi e psicologi concordano nel rilevare che, nella società contemporanea, la morte è diventata un tabù. Mentre in passato era percepita come fatto naturale e celebrata con grandi cerimonie da amici e familiari, oggi la morte è oggetto di vergogna e divieto. Il sociologo tedesco contemporaneo Norbert Elias, in particolare, rileva che oggi si cerca di rimuovere la morte dal palcoscenico della vita pubblica per nasconderla dietro le quinte degli ospedali. Non si muore più in casa ma in asettiche strutture ospedaliere, non si è più circondati dai familiari, ma da medici e macchinari. Questo processo di “rimozione della morte” avviene sia a livello individuale che a livello sociale. Nel primo caso si parla del concetto di rimozione in senso freudiano, intendendo, cioè, quel meccanismo psicologico di difesa grazie al quale si blocca la memoria di esperienze dolorose. In senso sociale, invece, la rimozione è un aspetto del più generale processo di civilizzazione della società contemporanea, che Elias definisce come una cosciente repressione delle passioni e degli impulsi primordiali messa in atto dall’uomo di oggi.
Silenzio al posto di grida
La rimozione sociale della morte si può riscontrare in vari sintomi, come i crescenti tabù
linguistici (per esempio, il fatto che “non è bene” parlare di morte con i bambini) o la
progressiva perdita dei riti collettivi che da sempre avevano accompagnato l’evento funebre. Oggi, assai diffusa è la convinzione che l’unica reazione possibile alla morte sia il silenzio, mentre un tempo era usanza gridare, dare sfogo alla propria sofferenza, persino organizzando vere e proprie feste catartiche, cerimonie di elevato contenuto simbolico in cui la comunità si riuniva per celebrare collettivamente la purificazione dalle passioni negative. I riti avevano, così, il compito di trasformare l’evento naturale in un fatto sociale, fornendo ai superstiti le parole e i comportamenti adatti per affrontare il dolore. Oggi, invece, non abbiamo più a disposizione un formulario di gesti e parole che ci aiutano ad affrontare l’evento funebre, e ciò ci rende più deboli quando questo avviene. Non sappiamo cosa dire di fronte alla morte, e quindi l’avvertiamo sempre di più come evento privato, quasi imbarazzante, quindi da occultare.
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Sovrabbondanza di morte sui media
Si verifica, però, un fenomeno anomalo e contraddittorio. Alla rimozione della morte sul
piano individuale e sociale fa riscontro, come abbiamo detto, la sovrabbondanza di immagini e discorsi legati alla morte sui media. In secondo luogo, numerose recenti ricerche dimostrano che la tv rappresenta la morte attraverso forme stilistiche e modalità precise, che qui definiremo “spettacolarizzazione” Ciò non riguarda solo la fiction, ma anche le morti reali: ne è stato un esempio drammatico l’11 settembre 2001, probabilmente il più tragico e agghiacciante “film” di tutti i tempi. In generale, dunque, la rappresentazione della morte sui media segue precise tendenze:
- è raffigurata come “dramma“: un dramma è la rappresentazione di un conflitto, che può prevedere una conclusione felice, come nella commedia, o funesta, come nella tragedia. La morte presentata come dramma rimanda a qualcosa di teatrale, patetico, costruito per commuovere il più possibile il pubblico. Si dà la precedenza ai dettagli violenti, melodrammatici, di sicura presa sull’emotività degli spettatori;
- è una morte “scenografica“: i media comunicano l’evento luttuoso in forme sempre più simili a quelle tipiche del cinema. Nella cronaca si verifica una contaminazione fra il linguaggio giornalistico e quello di generi più vicini all’intrattenimento, come la fiction. I delitti, per esempio, vengono spesso ricostruiti seguendo lo stile proprio del racconto giallo: si crea suspence e si lascia grande spazio ai dettagli più torbidi, finché lo spettatore finisce per percepire le morti reali alla stregua di un vero e proprio spettacolo, sebbene dai contorni sgradevoli. Un esempio tipico è la trasmissione “Blu notte” dello scrittore Carlo Lucarelli, o i famosi “plastici” di Porta a porta, condotto da Bruno Vespa;
- è una morte “ipervisibile“: è sempre più frequente la tendenza al disvelamento di ogni segreto, alla soppressione di ogni barriera fra il pubblico e il privato, all’ostentazione visiva dei dettagli: inquadrature sempre più spinte, primissimi piani dei particolari più truculenti.
La funzione “rituale” e “sostitutiva” dei media
Cosa dobbiamo dedurre da ciò? La società contemporanea rifiuta ed evita la morte, mentre i media ne traboccano. Sembrerebbe quindi che le immagini e i discorsi connessi alla morte stiano migrando dalla vita quotidiana ai media, con regole e forme, però, del tutto diverse. Questa evidenza pare suggerire che i mass media ricoprono, in genere, una precisa funzione nei confronti della morte: quella di mediare la visione di ciò che nella vita sociale non può più essere osservato e percepito in maniera diretta. È come se ci permettessero di guardare il sole attraverso un filtro per far sì che non ci accechiamo. Se è vero che la morte oggi è un vero e proprio tabù sociale, inoltre, la sua ostentazione attraverso i media diviene più attraente per il fascino del proibito e la tentazione a infrangerlo. C’è anche un altro aspetto da non sottovalutare. Secondo lo storico contemporaneo Peppino Ortoleva, l’incremento di immagini di morte sui media dipende proprio dalla rimozione sociale della morte e dalla progressiva deritualizzazione del lutto: i media si sostituiscono agli scomparsi riti tradizionali proponendo riti sostitutivi, come programmi e film che mostrano esempi “sani” di reazione al lutto. Nel 2004, per esempio, sono usciti al cinema Big Fish di Tim Burton e Le invasioni barbariche di Denys Arcand, incentrati entrambi sul rapporto fra figlio e padre in fin di vita. Sebbene in modi diversi, i film propongono una visione del decesso come tragedia, ma anche come momento riflessivo e occasione per riallacciare i legami familiari.
Riti a bassa intensità
I media, dunque, rappresenterebbero un immaginario collettivo che ha assunto in sé la
funzione di metabolizzazione e riparazione della perdita che era dei vecchi riti. Si tratta,
però, di riti “a bassa intensità”: la signora che decide di confidare il proprio lutto alle telecamere, dando sfogo “rituale” al suo dolore, finisce col renderlo dozzinale, un momento che si perde nel flusso della programmazione e dissipa il suo senso sacrale.
Il dolore rappresentato è ben diverso, infatti, dal dolore vissuto. Diverso per intensità: il
dolore altrui, in un certo senso, provoca nello spettatore un senso di sollievo perché egli
ha la chiara percezione che non riguarda lui e vive quella morte, per-così dire, come uno
“scampato pericolo”. E diverso per i modi usati nella messa in scena: rappresentare la morte alla stregua di uno spettacolo fa sì che essa venga percepita come meno reale, e quindi ne favorisce la presa di distanza da parte del pubblico. In società sempre più impegnate ad allontanare il dolore, la vecchiaia e la morte, i media accolgono in sé alcune delle funzioni che prima erano dei riti funebri, ma l’esperienza che
ne fa il fruitore resta del tutto fittizia. Come nota il critico televisivo Aldo Grasso, i media, e in particolare la televisione, ci offrono «un dolore disinvolto, petulante, frequentatore assiduo di trasmissioni, un dolore che ci viene a cercare nelle nostre case, timoroso che nessuno lo voglia più incontrare di persona. Ma è dolore quello che la tv mostra? Lo spettacolo televisivo non mostra il dolore, ma intrattiene su di esso, lo trasforma in chiacchiera e soprattutto trasforma l’uomo in spettatore; guardando il dolore, noi non ci immedesimiamo in colui che soffre, ma lo compatiamo attraverso la maledizione della curiosità – spesso macabra – e di un voyeurismo perverso. La trasmissione televisiva allontana il dolore poiché, rappresentandolo, lo pone a distanza di palcoscenico».
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Lo Staff di Medicina OnLine
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