Differenze tra Fluimucil e Fluibron

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO RAFFREDDORE RINITE INFLUENZA FEBBRE TOSSE MAL DI GOLA SINUSITE FREDDO NASO CHE COLA BAMBINI BIMBI (4)Sia Fluimucil Mucolitico® che Fluibron® sono farmaci espettoranti – mucolitici, indicati quindi per il trattamento delle malattie dell’apparato respiratorio caratterizzate da un aumento della produzione di muco denso e viscoso (ipersecrezione densa e vischiosa) e da tosse grassa (produttiva): fluidificando il catarro – riducendo la viscosità del muco –  questi medicinali ne favoriscono l’eliminazione da trachea e bronchi all’esterno (espettorazione).

IMPORTANTE: quelle contenute in questo articolo costituiscono solo indicazioni generali. Consultare sempre il foglietto illustrativo contenuto nella confezione del farmaco o chiedere consiglio al proprio medico curante, prima di assumere qualsiasi farmaco.

Quali sono i principi attivi di Fluimucil Mucolitico e Fluibron?

Il Fluimucil Mucolitico contiene il principio attivo N-acetilcisteina, mentre il Fluibron contiene Ambroxolo (lo stesso presente anche nel Mucosolvan). Quindi pur essendo entrambi mucolitici, Fluimucil Mucolitico e Fluibron sono farmacologicamente diversi, con effetti collaterali e controindicazioni diverse.

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Controindicazioni generali che valgono sia per Fluimucil Mucolitico che per Fluibron

Non assumereassumere Fluimucil Mucolitico o Fluibron:

  • in caso di allergia al principio attivo, a sostanze simili o ad uno qualsiasi degli altri componenti di questo medicinale;
  • in caso di gravidanza o allattamento al seno, salvo indicazione del medico.

Farmaci antitussivi e Fluimucil Mucolitico non devono essere assunti contemporaneamente poiché la riduzione del riflesso della tosse potrebbe portare ad un accumulo delle secrezioni bronchiali.

IMPORTANTE: Fluimucil Mucolitico non deve essere somministrato nei bambini di età inferiore ai 2 anni per il trattamento di problemi respiratori perchè può ostruire i bronchi e impedire la normale respirazione.

Come prendere Fluimucil Mucolitico e dosaggio

Posologia negli adulti:

  • Fluimucil Mucolitico 200 mg granulato per soluzione orale (con o senza zucchero): 1 bustina di Fluimucil Mucolitico 200 mg granulato per soluzione orale o 2 bustine di Fluimucil Mucolitico 100 mg 2–3 volte al giorno.
  • Fluimucil Mucolitico 200 mg, compresse orosolubili e compresse effervescenti: 1 compressa 2–3 volte al giorno.
  • Fluimucil Mucolitico 100 mg/5 ml, sciroppo: 10 ml di sciroppo (1 misurino), pari a 200 mg di N–acetilcisteina, 2–3 volte al giorno.
  • Fluimucil Mucolitico 600 mg/15 ml sciroppo, Fluimucil Mucolitico 600 mg compresse effervescenti e Fluimucil Mucolitico 600 mg granulato per soluzione orale senza zucchero: un misurino da 15 ml o una compressa effervescente o una bustina (preferibilmente la sera).

Eventuali aggiustamenti della posologia per gli adulti possono riguardare la frequenza delle somministrazioni o il frazionamento della dose ma devono comunque essere compresi entro il dosaggio massimo giornaliero di 600 mg.

Posologia nei bambini di età superiore ai 2 anni (non somministrare PRIMA dei due anni di età):

  • Fluimucil Mucolitico 100 mg granulato per soluzione orale (con o senza zucchero): 1 bustina da 2 a 4 volte al giorno, secondo l’età.
  • Fluimucil Mucolitico 100 mg/5 ml, sciroppo: ½ misurino di sciroppo (5 ml), pari a 100 mg di N–acetilcisteina, da 2 a 4 volte al giorno secondo l’età.

La durata della terapia nei bambini è da 5 a 10 giorni nelle forme acute e nelle forme croniche andrà proseguita, a giudizio del medico, per periodi di alcuni mesi.

Modo di somministrazione:

  • Granulato per soluzione orale: sciogliere il contenuto di una bustina in un bicchiere contenente un po’ d’acqua mescolando al bisogno con un cucchiaino. Si ottiene così una soluzione gradevole che può essere bevuta direttamente dal bicchiere oppure, nel caso di bambini piccoli, essere data a cucchiaini o nel biberon. La soluzione va assunta appena pronta.
  • Compresse orosolubili: mantenere la compressa nella cavità orale fino al completo scioglimento della stessa.
  • Sciroppo: agitare prima dell’uso ed usare il dosatore per assumere la dose indicata dalla posologia. Una volta aperto, lo sciroppo ha una validità di 15 giorni.
  • Compresse effervescenti: sciogliere una compressa in un bicchiere contenente un pò d’acqua mescolando al bisogno con un cucchiaino. Per facilitare la fuoriuscita della compressa si raccomanda l’apertura a strappo del blister, utilizzando le tacche laterali.

Come assumere Fluibron e dosaggio

La dose iniziale di Fluibron 15 mg/5 ml sciroppo è di 10 ml di sciroppo 3 volte al giorno, salvo diversa indicazione del medico; successivamente 5 ml 3 volte al giorno. Per i bambini fare riferimento a questi dosaggi:

  • Bambini da 2 a 5 anni: la dose è di 2,5 ml di sciroppo, 3 volte al giorno, salvo diversa indicazione del medico.
  • Bambini oltre i 5 anni: la dose è di 5 ml di FLUIBRON sciroppo, 3 volte al giorno, salvo diversa indicazione del medico. Non superi le dosi consigliate.

Relativamente al modo di somministrazione di Fluibron sciroppo, usare il misurino con tacche graduate a 10 ml, 5 ml e 2,5 ml, che si trova nella confezione per assumere la dose corretta. Consultare il medico se dopo l’assunzione si verificano sintomi particolari.

La dose iniziale di Fluibron 30 mg compresse è di 1 compressa 3 volte al giorno; la dose di mantenimento è di 1 compressa 2 volte al giorno.

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Effetti collaterali di Fluimucil Mucolitico

Come tutti i medicinali, anche il Fluimucil Mucolitico può causare effetti indesiderati, tra cui:

  • reazioni allergiche (ipersensibilità);
  • mal di testa (cefalea);
  • ronzio all’orecchio (tinnito);
  • aumento della frequenza dei battiti del cuore (tachicardia);
  • vomito;
  • diarrea;
  • infiammazione della bocca (stomatite);
  • dolore addominale;
  • nausea;
  • irritazioni della pelle (orticaria, eruzione cutanea);
  • gonfiore dovuto ad accumulo di liquidi intorno alla bocca e agli occhi (angioedema);
  • prurito;
  • febbre (piressia);
  • pressione arteriosa ridotta.

Effetti collaterali di Fluibron

Come tutti i medicinali, anche il Fluibron può causare effetti indesiderati sebbene non tutte le persone li manifestino, tra cui:

  • prurito;
  • macchie sulla cute (orticaria, rash cutaneo);
  • gonfiore (angioedema) del viso, degli occhi, delle labbra e/o della gola con difficoltà di respirazione, dovuti ad allergia (ipersensibilità);
  • alterazione o diminuzione del senso del gusto (disgeusia);
  • diminuzione della sensibilità (ipoestesia) della bocca e della faringe (cavo orale);
  • nausea;
  • vomito;
  • diarrea;
  • difficoltà di digestione (dispepsia);
  • dolori dell’addome;
  • secchezza della bocca;
  • mal di testa;
  • ostruzione delle vie respiratorie (bronchi);
  • gola secca.

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Posso assumere Fluimucil Mucolitico e Fluibron insieme?

No, non assumere i due farmaci insieme contemporaneamente. In caso di dubbio chiedere al medico.

Quale dei due è più efficace?

Sia l’N-acetilcisteina che l’Ambroxolo sono principi attivi estremamente efficaci come espettoranti-mucolitici, quindi – salvo diverso parere medico che può dipendere ad esempio da eventuali allergie – sia Fluimucil Mucolitico che Fluibron possono essere usati in caso di tosse grassa.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

Fibrillazione atriale: farmaci e terapia dell’aritmia cardiaca

MEDICINA ONLINE FARMACO FARMACIA PHARMACIST PHOTO PIC IMAGE PHOTO PICTURE HI RES COMPRESSE INIEZIONE SUPPOSTA PER OS SANGUE INTRAMUSCOLO CUORE PRESSIONE DIABETE CURA TERAPIA FARMACOLOGICLa terapia della fibrillazione atriale deve essere praticata d’urgenza in caso di presenza di sintomi. Si articola in procedimenti distinti che devono essere selezionati e attuati contemporaneamente o anche in rapida successione a seconda delle condizioni cliniche del paziente.

La terapia della fibrillazione atriale può mirare al ripristino del ritmo sinusale normale (cardioversione) oppure a ridurre la frequenza cardiaca (controllo della frequenza cardiaca) e deve essere indirizzata a proteggere il paziente dalle conseguenze più gravi: ictus cerebrale e insufficienza cardiaca.

I procedimenti terapeutici per la fibrillazione atriale sono i seguenti:

  • Terapia di ripristino del ritmo sinusale in acuto
  • Terapia di controllo della frequenza cardiaca in acuto
  • Terapia di prevenzione del rischio tromboembolico (soprattutto ictus)
  • Terapia di controllo del ritmo a lungo termine
  • Terapia di controllo della frequenza cardiaca a lungo termine

Ripristino del ritmo sinusale o controllo della frequenza cardiaca?
Un importante studio condotto in Canada (Tsadok et al., 2012) ha messo a confronto le due strategie terapeutiche di ripristino del ritmo sinusale e del controllo della frequenza cardiaca nella fibrillazione atriale. I risultati hanno mostrato un numero di pazienti con ictus notevolmente minore nei pazienti con controllo del ritmo rispetto a quelli con controllo della frequenza cardiaca. Altri studi (Hohnloser et al., 2000; Roy et al., 2008) hanno però dimostrato che il controllo del ritmo e il controllo della frequenza non portano a sostanziali modificazioni dei rischi di ictus, scompenso cardiaco, mortalità.

Nei pazienti con fibrillazione atriale ed instabilità emodinamica e quindi a rischio di scompenso cardiaco acuto, deve essere considerata la cardioversione urgente.

Terapia di ripristino del ritmo sinusale in acuto
Il ripristino del ritmo sinusale e il suo mantenimento sono gli obiettivi della terapia della fibrillazione atriale.
La terapia di ripristino del ritmo sinusale o cardioversione può essere effettuata con farmaci (cardioversione farmacologica con farmaci antiaritmici) oppure con corrente elettrica (cardioversione elettrica).

In aggiunta alla cardioversione in acuto e necessario comunque curare le cause della fibrillazione atriale, i fattori di rischio e le patologie concomitanti.

I pazienti che sono sottoposti a cardioversione dovrebbero iniziare la terapia anticoagulante precocemente.
I pazienti con fibrillazione atriale che dura da meno di 48 ore possono essere sottoposti a cardioversione senza terapia anticoagulante che deve essere iniziata precocemente.
I pazienti in cui la fibrillazione atriale dura da più di 48 ore devono assumere la terapia anticoagulante per tre settimane prima della cardioversione e continuare per quattro settimane, sempre che non necessitino di proseguire la terapia anticoagulante a lungo termine.
In caso di cardioversione precoce si può eseguire ecocardiogramma transesofageo per escludere trombi in atrio sinistro.

La cardioversione farmacologica può mantenere il ritmo sinusale il doppio rispetto a nessuna terapia (Lafuente-Lafuente et al., 2012).

La cardioversione farmacologica in acuto non richiede sedazione e non necessita di digiuno.

Farmaci per la cardioversione farmacologica sono:

  • Dofetilide – pericolo di torsione di punta (aritmia ventricolare che mette in pericolo la vita)
  • Flecainide – uso limitato in malattie strutturali cardiache
  • Propafenone – uso limitato in malattie strutturali cardiache
  • Ibutilide – rischio di torsione di punta
  • Vernakalant – utile nei pazienti con insufficienza cardiaca lieve e media, nei pazienti con ischemia miocardica purché non presentino ipotensione (pressione arteriosa bassa) o stenosi aortica grave
  • Amiodarone – può essere utilizzato in pazienti con ischemia miocardica e in pazienti con scompenso cardiaco
  • Sotalolo

“Pill in the Pocket” (pillola in tasca): pazienti selezionati possono assumere la terapia per la conversione a ritmo sinusale autonomamente in caso di crisi di fibrillazione atriale.
I farmaci antiaritmici da utilizzare come “Pill in the Pocket” (pillola in tasca) sono flecainide e propafenone.

I farmaci antiaritmici devono essere stati somministrati in precedenza in ospedale e devono avere dimostrato di essere efficaci nel ripristino del ritmo sinusale.

La cardioversione elettrica sincronizzata con corrente diretta si utilizza in caso di pazienti con compromissione emodinamica perché può ripristinare il ritmo sinusale in un tempo più breve rispetto alla cardioversione farmacologica (Gitt et al., 2013). Richiede sedazione e digiuno e può provocare ustioni della cute.

La cardioversione elettrica è controindicata nell’intossicazione da digitale.

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Terapia di controllo del ritmo a lungo termine
La scelta di sostenere la terapia antiaritmica a lungo termine deve essere effettuata dal medico in accordo con il paziente che deve essere adeguatamente informato riguardo ai vantaggi ed agli effetti collaterali.

Le Linee guida 2010 e 2016 ESC (European Society of Cardiology) riportano le seguenti osservazioni (European Heart Rhythm Association et al., 2010; Kirchhof et al., 2016):

  • Obiettivo della terapia antiaritmica è di migliorare i sintomi della fibrillazione atriale
  • I farmaci antiaritmici non sono in grado di mantenere costantemente il ritmo sinusale
  • I farmaci antiaritmici riducono e non eliminano le crisi di fibrillazione atriale
  • I farmaci antiaritmici possono ridurre la frequenza ventricolare durante le crisi di fibrillazione atriale
  • Se il farmaco antiaritmico prescelto non è efficace può essere sostituito con un altro farmaco antiaritmico
  • I farmaci antiaritmici possono indurre altre aritmie anche gravi (effetto proaritmico) e possono avere effetti collaterali extracardiaci
  • La scelta del farmaco antiaritmico deve essere guidata da criteri di sicurezza piuttosto che di efficacia
  • I pazienti che assumono terapia antiaritmica conservano il ritmo sinusale il doppio rispetto a quelli che non la assumono
  • Non ci sono apprezzabili riduzioni della mortalità e delle complicazioni cardiovascolari nei pazienti che assumono terapia antiaritmica
  • Nei pazienti che assumono terapia antiaritmica dimunuisce il rischio di ospedalizzazione.

Per ridurre i rischi della terapia antiaritmica si può adottare il trattamento breve, ad esempio flecainide per quattro settimane dopo cardioversione; tale trattamento riduce le ricorrenze di fibrillazione atriale dell’80% rispetto alla terapia a lungo termine (ad esempio, flecainide per 6 settimane) (Kirchhof et al., 2012).

La terapia a breve termine è usata anche dopo ablazione transcatetere (trattamento chirurgico della fibrillazione atriale), nei pazienti con effetti collaterali da terapia antiaritmica e nei pazienti con basso rischio di ricadute.

Farmaci antiaritmici per il controllo del ritmo a lungo termine.
La scelta del farmaco antiaritmico nella terapia a lungo termine del paziente con fibrillazione atriale per il controllo delle ricadute, deve essere fatta con grande attenzione dal medico e deve essere condivisa dal paziente.
Il medico deve valutare (Al-Khatib et al., 2014):
a) la presenza di malattie cardiovascolari ed extracardiache concomitanti
b) il rischio cardiovascolare soprattutto in relazione al potenziale proaritmico (torsione di punta o altre aritmie pericolose per la vita) dei farmaci antiaritmici
c) gli effetti tossici extracardiaci
d) il peso dei sintomi

Prima di iniziare la terapia con i farmaci antiaritmici è necessario eseguire (Linee Guida ESC 2016) (Kirchhof et al., 2016):
a) un elettrocardiogramma per valutare se sono presenti alterazioni dell’attività elettrica cardiaca
b) ripetere l’elettrocardiogramma nei primi giorni di terapia per valutarne i risultati e gli effetti negativi
c) eseguire periodicamente un elettrocardiogramma per valutare il rischio proaritmico
d) effettuare un monitoraggio elettrocardiografico protratto da uno a tre giorni nei pazienti che assumono flecainide, propafenone o sotalolo

I farmaci antiaritmici per la terapia di controllo del ritmo cardiaco a lungo termine sono:

  • Amiodarone

L’amiodarone è raccomandato per la prevenzione delle ricadute di fibrillazione atriale nei pazienti con scompenso cardiaco; è un farmaco molto efficace ma presenta spesso effetti collaterali extracardiaci, pertanto altri farmaci devono essere considerati per primi (Chevalier et al., 2003; Khan et al., 2003).

  • Dronedarone

Il dronedarone è un farmaco raccomandato per la terapia di controllo del ritmo nei pazienti con normale funzione ventricolare sinistra, senza ipertrofia ventricolare sinistra patologica, nei pazienti con coronaropatia stabile e senza scompenso cardiaco (Singh et al., 2007; Hohnloser et al., 2009). È controindicato nello scompenso cardiaco (Kober et al., 2008).

  • Flecainide, Propafenone

Flecainide e propafenone sono farmaci raccomandati per la terapia di controllo del ritmo nei pazienti con normale funzione ventricolare sinistra senza ipertrofia ventricolare sinistra patologica. Sono controindicati nei pazienti con cardiopatia ischemica o con scompenso cardiaco significativi per il rischio di aritmie minacciose per la vita (NEJM, 1989).

  • Sotalolo

Il sotalolo è un farmaco raccomandato per la terapia di controllo del ritmo nei pazienti con normale funzione ventricolare sinistra senza ipertrofia ventricolare sinistra patologica. Per il rischio di torsione di punta le Linee guida ESC 2016 suggeriscono di limitare l’uso a situazioni specifiche (Waldo et al., 1996).

  • Chinidina, Disopiramide

Chinidina e disopiramide sono farmaci largamente utilizzati in passato per la terapia del controllo del ritmo: sono gravati da alta mortalità probabilmente per aritmie ventricolari gravi (torsione di punta) (Lafuente-Lafuente et al., 2012; Freemantle et al., 2011). La disopiramide può essere utile nella fibrillazione atriale mediata dal vago (fibrillazione atriale che si presenta negli atleti o durante il sonno). Le Linee guida ESC 2016 suggeriscono di limitare l’uso di questi farmaci a situazioni specifiche.

  • Dofetilide

Dofetilide è un farmaco utile per la terapia di controllo del ritmo nei pazienti con insufficienza cardiaca (Pedersen et al., 2001); le Linee guida ESC 2016 suggeriscono di limitarne l’uso a situazioni specifiche.

Effetti antiaritmici di farmaci non antiaritmici
Sono stati eseguiti e sono in corso studi per valutare l’efficacia di farmaci non antiaritmici per la prevenzione della fibrillazione atriale. I farmaci studiati sono ACE-inibitori (inibitori dell’enzima di conversione dell’angiotensina) e ARB (antagonisti recettoriali dell’angiotensina), antagonisti dell’aldosterone, statine, omega tre. Questi farmaci aldilà delle altre indicazioni d’impiego non hanno mostrato con sicurezza effetti antiaritmici.

Le Linee guida sul trattamanto della fibrillazione atriale raccomandano (Linee guida ESC 2010 e 2016) (European Heart Rhythm Association et al., 2010; Kirchhof et al., 2016):

a) ACE inibitori o ARB e betabloccanti dovrebbero essere considerati nella prevenzione della fibrillazione atriale di prima insorgenza nei pazienti con insufficienza cardiaca e ridotta frazione di eiezione ventricolare (la frazione di eiezione è la quantità di sangue espulsa dal ventricolo sinistro ad ogni battito cardiaco)
b) ACE inibitori e ARB dovrebbero essere considerati nella prevenzione della fibrillazione atriale di prima insorgenza nei pazienti con ipertensione in particolare se presente ipertrofia ventricolare sinistra
c) Il pre-trattamento con ACE-inibitori o ARB può essere considerato nei pazienti con fibrillazione atriale ricorrente che hanno in programma cardioversione elettrica e ricevono terapia antiaritmica
d) ACE-inibitori e ARB non sono raccomandati nella prevenzione secondaria della fibrillazione atriale parossistica in pazienti con non evidente patologia cardiaca.

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Terapia di controllo della frequenza cardiaca
La terapia di controllo della frequenza cardiaca nella fibrillazione atriale ha come obiettivo quello di ridurre la frequenza ventricolare elevata che da sola può comportare la presenza di sintomi e di instabilità emodinamica.
La riduzione della frequenza cardiaca nella fibrillazione atriale ad elevata frequenza ventricolare è spesso sufficiente a migliorare i sintomi.
Può essere considerata valida la riduzione della frequenza cardiaca nella fibrillazione atriale a circa 80 battiti per minuto a riposo e circa 110 battiti per minuto durante attività fisica moderata (Vaa Groenveld et al., 2010)
Il medico deve prendere altre decisioni terapeutiche nel paziente con fibrillazione atriale, deve valutare la presenza di patologie scatenanti che devono essere trattate con le terapie specifiche (infezioni, tireotossicosi, anemia, embolia polmonare, oltre che patologie cardiovascolari).
La terapia per il controllo della frequenza cardiaca nella fibrillazione atriale a lungo termine, in alternativa alla terapia di controllo del ritmo, deve essere decisa di comune accordo tra il medico e il paziente adeguatamente informato. Ambedue devono rinunciare alla terapia di controllo del ritmo, ma tale terapia può essere impostata qualora le successive valutazioni cliniche lo richiedessero (Linee guida ESC 2016) (Kirchhof et al., 2016).

Farmaci per il controllo della frequenza cardiaca in acuto
I farmaci per il controllo della frequenza cardiaca nella fibrillazione atriale in acuto sono:
Farmaci iniettabili endovena

  • Betabloccanti: metoprololo ed esmololo

Vantaggi: rapidità di azione ed efficacia sul tono simpatico rispetto alla digoxina.
Svantaggi: controindicati nello scompenso cardiaco acuto e nel broncospasmo grave.

  • Calcioantagonisti non diidropiridinici: diltiazem e verapamil

Vantaggi: rapidità di azione ed efficacia sul tono simpatico rispetto alla digoxina.
Svantaggi: possibili effetti negativi nei pazienti con insufficienza cardiaca (con frazione di eiezione 40%).

  • Digitale: digoxina e digitossina

Vantaggi: può essere utilizzata nello scompenso cardiaco.
Svantaggi: controindicata nei pazienti con vie accessorie (vie anomale di conduzione atrio ventricolare – preeccitazione ventricolare) e cardiomiopatia ipertrofica e con ostruzione nel tratto di efflusso del ventricolo sinistro.

  • Amiodarone

Vantaggi: può essere utilizzato in pazienti con grave insufficienza cardiaca.

Per ridurre la frequenza cardiaca nei pazienti con fibrillazione atriale al di sotto di 110 battiti per minuto si può valutare l’associazione di basse dosi di betabloccanti alla digoxina in caso di scompenso cardiaco congestizio con frazione di eiezione inferiore al 40%; in caso di scompenso cardiaco con frazione di eiezione superiore al 40% si possono associare betabloccanti o calcioantagonisti non diidropiridinici alla digoxina; in ambedue i casi esiste pericolo di bradicardia eccessiva (rallentamento eccessivo della frequenza cardiaca).

Farmaci per il controllo della frequenza cardiaca a lungo termine
I farmaci per il controllo della frequenza cardiaca nella fibrillazione atriale a lungo termine (linee guida ESC 2010-2016) sono (European Heart Rhythm Association et al., 2010; Kirchhof et al., 2016):

  • Betabloccanti – I farmaci betabloccanti indicati dalle Linee guida ESC 2016 sono: bisoprololo, carvedilololo, metoprololo, nebivololo (sono disponibili altri farmaci betabloccanti, ma non sono raccomandati per il controllo della frequenza cardiaca nella fibrillazione atriale)

Vantaggi: a) riducono la frequenza cardiaca con conseguente riduzione dei sintomi e miglioramento funzionale; b) sono ben tollerati; c) non arrecano danni sia nei pazienti con ritmo sinusale che nei pazienti con fibrillazione atriale.
Svantaggi: a) sono controindicati nello scompenso cardiaco acuto; b) sono controindicati nel grave broncospasmo (asma bronchiale).

  • Calcioantagonisti non diidropiridinici: diltiazem e verapamil

Vantaggi: riducono la frequenza cardiaca con conseguente riduzione dei sintomi e miglioramento funzionale.
Svantaggi: sono controindicati nei pazienti con scompenso cardiaco con ridotta frazione di eiezione per il loro effetto negativo sulla contrazione del muscolo cardiaco (effetto inotropo negativo).

  • Digitale: digoxina e digitossina (farmaci usati da circa due secoli)

Vantaggi: sono utili nello scompenso cardiaco.
Svantaggi: alti livelli plasmatici sono a rischio di mortalità; è necessario adattare la dose nei pazienti con insufficienza renale.

  • Amiodarone

Vantaggi: utile nei pazienti con vie accessorie (vie anomale di conduzione atrio-ventricolare o preeccitazione ventricolare) associata a fibrillazione atriale o ad anamnesi di fibrillazione atriale; è il farmaco da privilegiare per il controllo della frequenza cardiaca con il propafenone.
Svantaggi: numerosi effetti avversi extracardiaci (ultima risorsa per il controllo a lungo termine della fibrillazione atriale).

  • Propafenone

Vantaggi: utile nei pazienti con vie accessorie (vie anomale di conduzione atrio-ventricolare o preeccitazione ventricolare) associata a fibrillazione atriale o ad anamnesi di fibrillazione atriale è il farmaco da privilegiare per il controllo della frequenza cardiaca con l’amiodarone.

Terapia della fibrillazione atriale a frequenza ventricolare bassa: è una condizione clinica particolare che caratterizza malattie degenerative delle vie di conduzione elettrica del cuore, ma anche tossicità da farmaci. Una volta individuate le cause ne consegue la terapia
a) atropina endovena
b) Cardiostimolazione temporanea alla quale può fare seguito applicazione di pacemaker

L’ablazione del nodo atrio-ventricolare e l’impianto di pacemaker a frequenza tra 70 e 90 battiti per minuto può essere presa in considerazione in caso di fallimento della terapia di controllo del ritmo e della frequenza cardiaca.

Terapia di prevenzione del rischio tromboembolico a lungo termine
La prevenzione dell’ictus è tra i principali obiettivi della terapia nei pazienti con fibrillazione atriale (Linee guida ESC 2016). La terapia con anticoagulanti orali consente di ridurre notevolmente il rischio di ictus nei pazienti con fibrillazione atriale e tale terapia è utilizzata in tutte le forme di fibrillazione atriale.

Molti studi scientifici hanno avvalorato nel tempo e avvalorano l’impiego della terapia anticoagulante nel trattamento dei pazienti con fibrillazione atriale (Hart et al., 2007; Ruff et al., 2014). Dal confronto tra pazienti con fibrillazione atriale trattati con anticoagulanti orali, pazienti non trattati con anticoagulanti orali e pazienti trattati con acido acetilsalicilico (aspirina), è emerso che il rischio di ictus è ridotto in misura significativamente maggiore nei pazienti con fibrillazione atriale trattati con anticoagulanti orali rispetto agli altri due gruppi. La terapia con anticoagulanti orali non è scevra da rischi di sanguinamento, così come quella con acido acetilsalicilico, ma quest’ultimo non è in grado di prevenire l’ictus nei pazienti con fibrillazione atriale se confrontato con gli anticoagulanti orali.

Nonostante le evidenze scientifiche, la terapia con anticoagulanti orali è sottoutilizzata. Ciò è dovuto al timore di sanguinamento sia da parte del medico sia da parte del paziente, nonostante il rischio di ictus superi il rischio di emorragie, e alla necessità di frequenti esami del sangue per ottimizzare la terapia con anticoagulanti orali (mantenimento del valore dell’indice INR, International Normalized Ratio, nell’intervallo raccomandato, tra 2,0 e 3,0). A queste considerazioni si aggiunge la difficoltà da parte del paziente con fibrillazione atriale ad accettare terapie croniche, potenzialmente gravate da rischi, per evitare un rischio non presente, ma che si può verificare nel tempo nel corso della vita.

I pazienti con fibrillazione atriale maggiormente esposti al rischio di ictus dovrebbero essere sottoposti a terapia antitrombotica che protegge anche dal rischio trombo-embolico sistemico e dall’infarto del miocardio. Per l’individuazione dei pazienti con fibrillazione atriale maggiormente esposti a rischio di ictus le Linee guida ESC 2016 raccomandano di utilizzare il punteggio di rischio elaborato a seguito di grandi studi scientifici.

Per il calcolo del rischio di ictus nella fibrillazione atriale si utilizza il modello CHA2DS2-VASC.
CHA2DS2-VASC (Cardiac failure, Hypertension, Age ≥75 (doubled), Diabetes, Stroke (doubled), Vascular disease, Age 65-74, and Sex Category (female)) è l’acronimo in lingua inglese che sintetizza le condizioni cliniche, definite anche “fattori di rischio”, che pongono il paziente con fibrillazione atriale a rischio di ictus. Ad ogni fattore di rischio viene attribuito un punteggio come di seguito esposto:
a) Scompenso cardiaco evidenziato dai sintomi o dal riscontro di ridotta frazione di eiezione ventricolare sinistra (punteggio 1)
b) Ipertensione arteriosa con valori di pressione superiori a 140/90 o in terapia (punteggio 1)
c) Età oltre i 75 anni (punteggio 2)
d) Diabete identificato dalla glicemia a digiuno e superiore a 125 mg/ml o diabete in terapia (punteggio 1)
e) Precedente ictus cerebrale o attacco ischemico transitorio cerebrale (TIA) o tromboembolismo (punteggio 2)
f) Malattia vascolare, precedente infarto acuto del miocardio, arteriopatia periferica, placca aortica (punteggio 1)
g) Età 65-74 anni (punteggio 1)
h) Sesso femminile (punteggio 1)
I pazienti con fibrillazione atriale senza fattori di rischio di ictus non hanno bisogno di terapia antitrombotica.
I pazienti con fibrillazione atriale di sesso maschile con punteggio =/> 1 e le pazienti con fibrillazione atriale di sesso femminile con punteggio =/> 2 possono trarre vantaggio dalla terapia con anticoagulanti orali.
Sono in corso studi per valutare se sono utilizzabili marcatori biologici come la troponina ad alta sensibilità e il peptide natriuretico per definire ulteriormente il rischio di ictus e di emorragia nei pazienti con fibrillazione atriale.

Prima di prescrivere gli anticoagulanti orali nella fibrillazione atriale il medico deve calcolare anche il rischio emorragico oltre al rischio di ictus.

Gli anticoagulanti orali rendono il sangue meno coagulabile, di conseguenza riducono il rischio di formazione di trombi nel cuore e nei vasi sanguigni (arterie e vene).
La medicina dispone di due categorie di anticoagulanti orali ambedue efficaci per la prevenzione dell’ictus nella Fibrillazione atriale (Ruff et al., 2014)

  • Antagonisti della vitamina K, in uso da molti anni (anticoagulanti orali o OAC, oral anticoagulants)
  • Non antagonisti della vitamina K, di recente introduzione (anticoagulanti orali non vitamina K antagonisti o NOAC, new oral anticoagulants).

I NOAC ad alti dosaggi confrontati con il warfarin(principale anticoagulante antagonista della vitamina K) hanno dato i seguenti risultati:
a) riduzione significativa di ictus ed embolia sistemica del 19% a confronto con warfarin principalmente per riduzione di ictus emorragico
b) mortalità ridotta del 10%
c) emorragia intracranica dimezzata
d) sanguinamenti gastrointestinali più frequenti

Anticoagulanti antagonisti della Vitamina K
La vitamina K è introdotta nell’organismo con gli alimenti e in piccola parte viene prodotta dall’intestino. La vitamina K è necessaria per attivare alcuni fattori della coagulazione. Se la vitamina K viene antagonizzata i fattori della coagulazione da essa dipendenti non si attivano e il sangue diventa meno coagulabile.

Gli anticoagulanti orali antagonisti della vitamina K sono in uso da molto tempo per ridurre il rischio di ictus nei pazienti con fibrillazione atriale. Confrontati con l’acido acetilsalicilico (aspirina) (Hart et al., 2007a) riducono il rischio di ictus di due terzi e di mortalità di un quarto e analoghi risultati si ottengono rispetto ai controlli senza terapia.

Gli antagonisti della vitamina K sono i dicumarolici:

  • Warfarin
  • Acenocumarolo

La riduzione della coagulabilità dipende dalla dose di farmaco ed è diversa da individuo a individuo. Se la dose e troppo bassa permane il rischio di formazione di trombi. Se la dose è troppo alta il rischio è l’emorragia.

La corretta anticoagulazione si valuta con il dosaggio nel sangue del tempo di protrombina o meglio dell’INR (International Normalized Ratio o rapporto internazionale normalizzato). L’INR è una tecnica che permette di standardizzare i risultati indipendentemente dal laboratorio che li ha eseguiti. Il valore di INR nella terapia con antagonisti della vitamina K nei pazienti con la fibrillazione atriale deve essere mantenuto tra 2 e 3; nei pazienti con fibrillazione atriale e protesi valvolari meccaniche deve essere mantenuto tra 2,5 e 3,5.

Gli antagonisti della vitamina K sono gli anticoagulanti di scelta nei pazienti con fibrillazione atriale valvolare o con protesi valvolare (Eikelboom et al., 2013).

Sono necessari frequenti esami del sangue per mantenere l’INR nei limiti terapeutici.

In caso di emorragie gravi e in caso di dosaggio eccessivo l’assunzione di vitamina K antagonizza gli anticoagulanti orali vitamina K dipendenti. Anche una dieta ricca di vitamina K esplica un effetto inibitorio sull’azione degli anticoagulanti orali vitamina K dipendenti. Gli alimenti ricchi di vitamina K comprendono: alghe, avocado, bietole, broccoli e cavoli, ceci, cime di rapa, crescione, erba cipollina, fegato, indivia, kiwi, lattuga, lenticchie, maionese, olii di colza di oliva e di soia, pesce sott’olio, prezzemolo, senape, soia, spinaci, tè nero e verde, verza.

Il paziente che assume anticoagulanti orali vitamina K dipendenti deve chiedere consiglio al medico e al farmacista prima di assumere altri medicinali e medicinali e preparati a base di erbe.

Anticoagulanti non antagonisti della vitamina K
I farmaci anticoagulanti non antagonisti della vitamina K comprendono:

  • Dabigratan – inibitore diretto della trombina
  • Apibaxan, Edobaxan e Rivarobaxan – inibitori del fattore di coagulazione Xa

I farmaci anticoagulanti non antagonisti della vitamina K sono idonei alla prevenzione dell’ictus nei pazienti con fibrillazione atriale perché hanno mostrato la non inferiorità se non addirittura vantaggi rispetto agli anticoagulanti antagonisti della vitamina K. I farmaci anticoagulanti non antagonisti della vitamina K riducono il rischio di ictus e di embolia sistemica insieme con la riduzione delle emorragie gravi, soprattutto intracraniche, come risulta dagli studi in cui sono stati confrontati con i farmaci anticoagulanti antagonisti della vitamina K (Linee guida ESC 2016) (Kirchhof et al., 2016).

Tutti i farmaci anticoagulanti non vitamina K antagonisti hanno il vantaggio di avere un effetto anticoagulante prevedibile e pertanto non necessitano di un regolare monitoraggio dell’anticoagulazione. In pratica il paziente con fibrillazione atriale che assume anticoagulanti non vitamina K antagonisti non avrà la necessità di sottoporsi a continui prelievi per il controllo della coagulazione (controllo dell’indice INR).
Inoltre tali farmaci non sono influenzati da altri medicinali, da alcol e alimenti; è importante però tenere sotto controllo la funzionalità renale ed è necessario adeguare la dose secondo la funzionalità renale.
Per il Dabigratan è disponibile l’antidoto Idarucizumab.

La terapia antiaggregante piastrinica (acido acetilsalicilico) e la doppia terapia antiaggregante piastrinica (acido acetilsalicilico+clopidogrel), come alternativa all’anticoagulazione, non sono raccomandate per la prevenzione dell’ictus nella fibrillazione atriale (Linee guida ESC 2016) per i seguenti motivi:
a) i vantaggi (prevenzione dell’ictus, dell’embolia sistemica, dell’infarto acuto del mio cardio, della morte vascolare) sono più elevati con gli anticoagulanti orali rispetto alla singola o alla doppia terapia antiaggregante piastrinica;
b) il rischio di sanguinamento è simile a quello con la terapia anticoagulante orale ed è ancora più evidente con la doppia antiaggregazione

Rischio di sanguinamento nei pazienti con fibrillazione atriale che devono assumere terapia anticoagulante orale
I pazienti con fibrillazione atriale che assumono la terapia anticoagulante orale hanno una prognosi migliore.
Il rischio di sanguinamento nel paziente con fibrillazione atriale deve essere considerato prima di prescrivere la terapia anticoagulante orale (TAO), insieme alla valutazione del rischio di ictus cerebrale.
Il rischio di sanguinamento può allontanare il medico e il paziente con fibrillazione atriale dal corretto utilizzo della terapia anticoagulante orale. La valutazione dei fattori di rischio di sanguinamento nel paziente con fibrillazione atriale, è pertanto utile sia per il paziente che per il medico, anche in considerazione del fatto che molti fattori di rischio di sanguinamento possono essere modificati. Modificare i fattori di rischio emorragico con opportune terapie o con la sostituzione di alcune terapie che interferiscono con la coagulazione consente al medico di prescrivere con maggiore sicurezza la terapia anticoagulante orale.
Per queste ragioni le linee guida 2016 per il trattamento della fibrillazione atriale, dopo aver analizzato numerosi studi scientifici, raccomandano di utilizzare uno schema che suddivide i fattori di rischio di sanguinamento in “modificabili” e “non modificabili”.

Rischi modificabili:
a) Ipertensione arteriosa non controllata con valori di pressione sistolica (massima) superiore a 160 mmHg
b) difficoltà a mantenere l’indice INR nei valori terapeutici (2-3)
c) Assunzione di terapia antiaggregante piastrinica e di FANS (farmaci anti infiammatori non steroidei)
d) Eccessivo uso di bevande alcoliche (superiore a otto bicchieri a settimana; l’alcol interferisce con il metabolismo epatico dei farmaci anticoagulanti orali rallentandone l’eliminazione)

Rischi potenzialmente modificabili:
a) Anemia
b) Insufficienza renale
c) Insufficienza epatica
d) Riduzione del numero e della funzione delle piastrine.

Rischi non modificabili:
a) Età
b) Storia clinica di sanguinamenti maggiori
c) Precedente ictus emorragico
d) Dialisi o trapianto renale
e) Cirrosi epatica
f) Tumori maligni
g) Fattori genetici

La vautazione dei fattori di rischio di sanguinamento può essere supportata dal dosaggio nel sangue di alcuni marcatori biologici:
a) troponina ad alta sensibilità (la troponina da molti anni viene dosata nel sangue per la diagnosi precoce di infarto del miocardio essendo il marcatore più specifico e quello che dura più a lungo. L’esame della troponina ad alta sensibilità misura la stessa proteina e ne rileva una quantità molto bassa)
b) GDF-15 (fattore di differenziazione della crescita) (citochina rilasciata in caso di ischemia o aumento di pressione intracardiaca)
c) creatinina serica e clearance della creatinina (esami che consentono lo studio della funzionalità renale)
d) peptide natriuretico (in corso di studio)

Sono da considerare anche tra i fattori di rischio di sanguinamento l’eccessivo rischio di traumi e le malattie neuropsichiatriche.

Raccomandazioni per limitare il sanguinamento in pazienti con fibrillazione atriale in terapia anticoagulante orale:
a) Sospensione della terapia anticoagulante orale in corso di grave emorragia in atto fino a che non si risolvono le cause del sanguinamento
b) Adeguare o iniziare la terapia dell’ipertensione arteriosa
c) Se si usa il dabigratan come anticoagulante orale si può ridurre la dose nei pazienti con più di 75 anni
d) Nei pazienti ad alto rischio di sanguinamento gastrointestinale, anticoagulanti vitamina K dipendenti o altro anticoagulante non vitamina K dipendente dovrebbe essere preferito al dabigratan, al rivaroxabane all’edoxaban
e) Consigli e trattamento per evitare l’eccesso di alcol devono essere considerati in tutti pazienti con fibrillazione atriale in terapia con anticoagulanti orali
f) Raccomandazioni dietetiche nei pazienti che assumono anticoagulanti vitamina K dipendenti (alcuni alimenti possono influenzare l’attività anticoagulante di questo tipo di farmaci)
g) Valutazione di farmaci per patologie intercorrenti da parte del medico
h) Dopo sanguinamento, in tutti i pazienti dovrebbe essere presa in considerazione la ripresa della terapia anticoagulante orale da un team di medici esperti multidisciplinare.
i) La maggior parte degli interventi cardiovascolari (coronarografia o impianto di pacemaker) può essere eseguita con sicurezza in corso di terapia anticoagulante orale
l) L’interruzione della terapia anticoagulante orale e la sostituzione temporanea con eparina (bridging) è utile nei pazienti con fibrillazione atriale e protesi valvolare
m) L’interruzione della terapia anticoagulante orale deve essere minimizzata per prevenire l’ictus

Terapia combinata di anticoagulanti orali e antiaggreganti piastrinici in pazienti selezionati:
a) La combinazione di queste terapie deve essere effettuata da specialisti
b) Può essere utilizzata per un mese la tripla terapia con acido acetilsalicilico, clopidogrel e anticoagulanti orali nei pazienti con fibrillazione atriale dopo stent coronarico (dispositivo meccanico dilatatore delle coronarie) per prevenire ictus e attacchi ischemici transitori (TIA, transient ischemic attack)
c) Dopo sindrome coronarica acuta con impianto di stent, la tripla terapia può essere considerata per periodi fino a sei mesi
d) Dopo sindrome coronarica acuta senza stent la doppia terapia anticoagulante – anticoagulanti orali più acido acetilsalicilico oppure anticoagulanti orali più clopidogrel – dovrebbe essere continuata fino a 12 mesi
e) La doppia e la tripla terapia devono essere limitati a brevi periodi dopo valutazione di rischi e benefici

Per ridurre il rischio di emorragia le Linee guida ESC 2016 suggeriscono i seguenti trattamenti in tutti i pazienti con emorragia in atto (Kirchhof et al., 2016):
a) Tamponare l’emorragia meccanicamente quando possibile
b) Valutare e mettere sotto controllo lo stato emodinamico, la pressione arteriosa, i parametri della coagulazione, l’emocromo, la funzione renale
c) Nelle emorragie gravi valutare la somministrazione di antidoti e, se non disponibili, somministrare concentrati del complesso protrombinico o plasma fresco o piastrine se necessario, fluidoterapia, trasfusione di sangue e trattare le cause (es. gastroscopia)
d) Valutare la ripresa della terapia anticoagulante da parte di specialisti esperti

Chirurgia della fibrillazione atriale 
Il trattamento chirurgico della fibrillazione atriale si attua tramite l’ablazione, tecnica interventistica che mira a isolare, inattivare e/o distruggere le fibre situate tra l’atrio sinistro e l’interno delle vene polmonari dotate di attività elettrica anomala, rapida e irregolare, che innescano la fibrillazione atriale. La tecnica prevede il riscaldamento o il raffreddamento delle fibre anomale raggiunte da un catetere o tramite intervento cardiochirurgico. Si procede ad ablazione con corrente alternata ad alta frequenza per il riscaldamento o ad ablazione con palloncino (cryoballoon) per la refrigerazione.
L’ablazione con catetere nella fibrillazione atriale è utilizzata per il ripristino e il mantenimento del ritmo sinusale. La decisione di intervenire con l’ablazione dipende dal tipo di fibrillazione atriale e viene valutata in centri specializzati.

Pazienti selezionati possono trarre vantaggio dall’ablazione del nodo atrio-ventricolare o del fascio di His, per ottenere il controllo della frequenza cardiaca. L’intervento è definitivo ed è preceduto dall’impianto di un pacemaker; si utilizza più frequentemente l’ablazione transcatetere con radiofrequenza come fonte di energia (Linee guida ESC 2010) (European Heart Rhythm Association et al., 2010). Con questa tecnica vengono bloccati gli impulsi elettrici a frequenza elevata che provengono dagli atri mentre i ventricoli continuano a contrarsi (anche dai ventricoli si possono generare impulsi efficienti, la cui frequenza però è troppo bassa). Per consentire una frequenza ventricolare valida deve essere impiantato in precedenza un pacemaker. La procedura è irreversibile.

L’escissione chirurgica e l’occlusione chirurgica per via transfemorale sono interventi orientati a proteggere il paziente con fibrillazione atriale che non può assumere anticoagulanti orali per la protezione dall’ictus e i pazienti che hanno presentato ictus nonostante la terapia anticoagulante.
Questi interventi devono essere ulteriormente studiati perché potrebbero aumentare il rischio di ictus per incompleta chiusura dell’auricola sinistra (piccola struttura di forma variabile che comunica con l’atrio sinistro da cui possono originare trombi causa di ictus in pazienti con fibrillazione atriale) (Linee guida ESC 2016) (Kirchhof et al., 2016).

Pazienti particolari con fibrillazione atriale 
I pazienti con sindrome di Wolff-Parkinson-White e con altre forme di preeccittazione ventricolare presentano vie accessorie anomale di conduzione elettrica. In questi pazienti sono controindicati i farmaci digoxina, verapamil e diltiazem (Manolis, Estes, 1987) e deve essere usato con cautela l’amiodarone endovena per la possibilità di ritmi accelerati e fibrillazione ventricolare (Simonian et al., 2010).
Possono essere utilizzati endovena procainamide, propafenone e ajmalina per ridurre la frequenza cardiaca ventricolare (Boahene et al, 1990; O’Nunain et al., 1991).
Nei pazienti con via accessoria si raccomanda l’ablazione transcatetere della via accessoria quando documentabile (Tischenko et al., 2008).

Altre situazioni specifiche quali pazienti anziani, pazienti con una cardiomiopatia ipertrofica, canalopatie, cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro, sportivi, donne in gravidanza, pazienti che hanno subito o devono subire interventi chirurgici, pazienti con cardiopatie congenite, pazienti con insufficienza respiratoria, con insufficienza renale, devono essere esaminati in centri specializzati per le loro specificità.

Farmaci nella fibrillazione atriale 
Anticoagulanti orali antagonisti della vitamina K

  • Acenocumarolo (Sintrom)
  • Warfarin (Coumadin)

Anticoagulanti orali non antagonisti della vitamina K

  • Apixaban (Eliquis)
  • Dabigratan etexilato (Pradaxa)
  • Edoxaban (Lixiana)
  • Rivaroxaban (Xarelto)

Antidoti

  • Antidoto anticoagulanti orali vitamina K dipendenti (Vitamina K)
  • Antidoto Dabigratan: Idarucizumab (Praxbind)

Antiaritmici

  • Amiodarone (AmiodaroneAmiodarCordarone)
  • Idrochinidina (Idrochinidina Lirca, Idrochinidina Ritardo Lircaps)
  • Disopiramide (Ritmodan)
  • Dofetilide (Tikosyn)
  • Dronedarone (Multaq)
  • Flecainide (Almarytm, Flecainide, Fleiderina, Frequil)
  • Ibutilide (Corvert)
  • Procainamide (Procainamide Cloridrato)
  • Propafenone (Propafenone, Rytmonorm)
  • Vernakalant (Brinavess)

Betabloccanti

  • Bisoprololo (Bisoprololo, Cardicor, Concor, Congescor, Lodoz, Pluscor, Sequacor)
  • Carvedilolo (Acarden, Caravel, Carvedilolo, Carvipress, Colver, Curcix, Dilatrend, Omeria, Trakor)
  • Esmololo (Brevibloc, Brevinti)
  • Metoprololo (Lopresor, Metoprololo, Seloken)
  • Nebivololo (Lobivon, Nebilox, Nebiscon, Nebivololo, Nobistar)

Calcio antagonisti non diidropiridinici

  • Diltiazem (Altiazem, Angizem, Diladel, diltiazem, Dilzene, Tildiem)
  • Verapamil (Verapamil, Isoptin)

Digitalici

  • Digossina o digoxina (Eudigox, Lanoxin)
  • Metildigossina (Lanitop)

Altri

  • Atropina solfato

FONTE Pharmamedix

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Farmaci antiaritmici: meccanismo d’azione ed effetti collaterali

MEDICINA ONLINE CUORE ELETTROCARDIOGRAMMA SINUSALE DEFIBRILLATORE CARDIOVERSIONE ELETTRICA CON SHOCK FARMACOLOGICA FARMACI URGENZA EMERGENZA MASSAGGIO CARDIACO ARRESTO RESPIRAZIONE BOCCAfarmaci antiaritmici sono farmaci utilizzati per prevenire o per correggere le aritmie, cioè quelle condizioni in cui è alterato il normale ritmo cardiaco.

Fisiopatologia

Le fasi del potenziale d’azione: Fase 0: depolarizzazione rapida, Fase 1: della ripolarizzazione precoce Fase 2: di plateau Fase 3: ripolarizzazione finale Fase 4: ripristino

 

Il ritmo cardiaco è dovuto a due processi: alla formazione di un impulso, normalmente dal nodo del seno, e alla sua conduzione attraverso il sistema di conduzione cardiaco. Le aritmie sono dunque dovute ad un’anomala formazione dell’impulso, ad un’anomala conduzione dell’impulso, o ad una combinazione di queste.
I farmaci antiaritmici, agendo a vari livelli del processo di formazione e conduzione dell’impulso, tendono alla normalizzazione del ritmo cardiaco.

Classificazione di Vaughan Williams

Le cinque classi principali della classificazione Vaughan Williams degli agenti antiaritmici sono:

  • Classe I: gli agenti interferiscono con il canale di sodio (Na+);
  • Classe II:gli agenti sono agenti anti-simpatici del sistema nervoso. La maggior parte degli agenti di questa classe sono beta-bloccanti;
  • Classe III: agenti agiscono sull’efflusso di potassio (K+);
  • Classe IV:agenti agiscono sui canali di calcio e il nodo AV;
  • Altri agenti: agiscono su meccanismi eterogenei.

Per quanto riguarda la gestione della fibrillazione atriale, le classi I e III sono utilizzate nel controllo ritmico come agenti cardioversi medici, mentre le classi II e IV sono utilizzate come agenti di controllo della frequenza cardiaca.

Classificazione “Sicilian Gambit”

Anche se la classificazione di Vaughan Williams è la più conosciuta, essa è in realtà poco corretta, in quanto tiene poco conto della differenza del meccanismo delle aritmie, non identificando un corretto e migliore approccio, a questo si cerca di ovviare con la classificazione “Sicilian gambit”. Essa presenta i farmaci su due assi. Sull’asse Y ogni farmaco è elencato nell’ordine della classificazione di Singh-Vaughan Williams. Nell’asse X, i canali, i recettori, le pompe e gli effetti clinici sono elencati per ogni farmaco, con i risultati elencati in una griglia. Non è dunque una vera classificazione in quanto non aggrega i farmaci in categorie.

Meccanismo d’azione

A seconda della tipologia, gli antiaritmici esercitano un’azione bloccante sui 3 canali principali sodio (la prima classe), calcio e potassio o dei recettori beta-adrenergici. I farmaci anti-aritmici sono in grado di:

  • Influenzare il cronotropismo (battiti per minuto), rallentando il ritmo cardiaco.
  • Influenzare il dromotropismo (velocità di conduzione dell’impulso lungo il tessuto specifico), rallentando la velocità di conduzione dell’impulso dagli atri ai ventricoli e permettendo così il corretto svuotamento delle camere atriali.
  • Influenzare il batmotropismo (eccitabilità delle cellule miocardiche), diminuendo la soglia di attivazione delle cellule.

Classe IA

L’effetto dei farmaci della classe IA sul potenziale d’azione

 

 

 

I farmaci appartenenti a questa classe riducono la velocità di innalzamento della fase 0 (dovuta all’apertura dei canali per il sodio), prolungano la durata del potenziale d’azione cardiaco e si dissociano dai canali per il sodio con cinetiche intermedie. I canali del sodio sono i responsabili dell’eccitazione rapida delle cellule miocardiche: bloccando questi canali si rendono le cellule più refrattarie, ponendo un notevole limite alla genesi di impulsi troppo rapidi o ectopici.

In questa categoria rientrano:

  • Chinidina, utilizzata quasi esclusivamente nelle aritmie sopraventricolari, riesce ad interrompere flutter e fibrillazione atriale, il suo utilizzo alla fine del XX secolo è stato ridotto a seguito di ricerche cliniche.
  • Procainamide, aritmie sopraventricolari e ventricolari ha un effetto simile alla chinidina ma viene utilizzata quando alla prima si osserva resistenza.
  • Disopiramide, spesso utilizzata in combinazione con la mexiletina, previene recidive nel caso di tachicardie ventricolari

Effetti collaterali:

  • Chinidina (vomito, dolore addominale, diarrea, anoressia)
  • Procainamide (rash, mialgia, fenomeno di Raynaud)
  • Disopiramide (ritenzione urinaria, stipsi, glaucoma).

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Classe IB

L’effetto dei farmaci della classe IB sul potenziale d’azione

 

 

 

Benché siano in grado di legare il canale per il sodio, non influenzano significativamente il potenziale d’azione grazie alle rapidissime cinetiche di dissociazione. Sono farmaci relativamente sicuri che sono utilizzati soprattutto nelle emergenze (infarto del miocardio, prevenzione di eventi aritmici gravi).

I farmaci che rientrano in questa categoria sono:

  • Aprindina, utilizzata in passato nelle aritmie extrasistoliche ventricolari e nella sindrome di Wolff-Parkinson-White. Ora caduta in disuso.
  • Lidocaina, in caso di aritmie ventricolari e soprattutto in caso delle forme ricorrenti;
  • Mexiletina, utilizzato in tachiaritmie acute e croniche si ottengono efficaci risultati se somministrata in combinazione con propafenone o amiodarone. Per gli effetti indesiderati si deve interrompere il trattamento in quasi il 40% dei casi.
  • Fenitoina, utilizzata in caso di aritmie atriali e ventricolari da intossicazione di farmaci.
  • Tocainide.

Effetti collaterali:

  • Lidocaina (parestesia, vertigini, confusione, delirio);
  • Mexiletina (disartria, tremore, diplopia, nistagmo);
  • Fenitoina (vertigini, atassia, coma, nistagmo, più raramente malformazioni fetali congenite).

Classe IC

L’effetto dei farmaci della classe IC sul potenziale d’azione

 

 

 

I farmaci che rientrano in questa categoria sono caratterizzati da lente cinetiche di dissociazione e comprendono:

  • Flecainide, viene usata prevalentemente per flutter atriale e fibrillazione atriale. Viene utilizzata anche in età infantile e fetale.) il CAST (nome di una ricerca clinica) tuttavia ha evidenziato un aumento del tasso di mortalità dal 2,3 al 5,1 per infarto miocardico acuto non legato alle onde Q.
  • Encainide (non commercializzata in Italia): le indicazioni sono simili a quelle della flecainide.)
  • Moricizina, efficace quasi quanto la disopiramide contro aritmie anche letali, anche se si è riscontrato un aumento della mortalità in caso di aritmie ventricolari presenti dopo infarto miocardico acuto, soprattutto nei pazienti che assumevano diuretici.
  • Propafenone, utilizzato per la fibrillazione atriale parossistica e tachicardia sopraventricolare).

Effetti collaterali:

  • Flecainide (mostra talora effetti proaritmici);
  • Propafenone (broncospasmo, vertigini, disturbi al senso del gusto e alla visione);
  • Moricizina (nausea, vomito, diarrea).

Classe II

Bloccano i recettori beta-adrenergici. Tutti i farmaci hanno più o meno gli stessi effetti, ma quello che li differenzia è il tempo di impiego e gli effetti collaterali. Vengono suddivisi in beta1 e beta2, i primi hanno un effetto maggiore sul cuore i secondi invece hanno un maggiore effetto sui bronchi e vasi sanguigni. Si osserva un’emivita maggiore in quelli che vengono eliminati tramite l’azione dei reni. Vista l’azione simile, se uno non mostra effetti anche altri risulteranno inutili. Questi agenti sono particolarmente utili nel trattamento delle tachicardie supraventricolari. Diminuiscono la conduzione attraverso il nodo AV.

I farmaci che rientrano in questa categoria sono:

  • Acebutololo
  • Atenololo
  • Esmololo
  • Metoprololo
  • Propranololo
  • Timololo

Effetti collaterali: possono causare un peggioramento dell’asma o della broncopneumopatia cronica ostruttiva, fenomeno di Raynaud. Un brusca interruzione del trattamento può causare un peggioramento in caso di angina pectoris.

Classe III

 

L’azione della III classe dei farmaci antiaritmici sul potenziale d’azione

 

 

 

Bloccano i canali del potassio, hanno un effetto di allungamento sulla ripolarizzazione e refrettario sulle fibre di Purkinje, rendendo inagibile il circuito di rientro. Gli agenti della classe III hanno la caratteristica di prolungare l’intervallo QT dell’ECG e possono essere a loro volta proaritmici.

I farmaci che rientrano in questa categoria sono:

  • Amiodarone, più nuovo Dronedarone utilizzato per numerosi tipi di tachiaritmie, ha un effetto positivo pari o superiore rispetto agli altri farmaci simili
  • Azimilide, solitamente usato per interrompere fibrillazione o flutter atriale
  • Bunaftina.
  • Dofetilide, si è dimostrata che non altera l’incidenza di eventi mortali somministrata in seguito ad infarti.
  • Ibutilide, utilizzato in caso di interruzione di fibrillazione o flutter atriale
  • Nifekalant.
  • Sotalolo, utilizzato nella profilassi delle aritmie sopraventricolari di tipo parossistico.
  • Tedisamil.
  • Tosilato di bretilio, utilizzato nel reparto di terapia intensiva.

Effetti collaterali:

  • Amiodarone (dispnea, ipossiemia, tosse, febbre, effetti polmonari e gastrointestinali gravi non permettono l’utilizzo della somministrazione per molto tempo, anche se solo nel 18-37% dei casi il trattamento viene poi sospeso realmente).
  • Bretilio (ipotensione, nausea, vomito).

Classe IV

Bloccano i canali del calcio, agendo sulle fibre lente sia fisiologiche che patologiche. In particolare vengono utilizzati fenilalchilamine e benzotiazepine che hanno un effetto uso-dipendenza. Possono influenzare la contrattilità del cuore, quindi debbono essere impiegati con molta attenzione nell’insufficienza cardiaca cronica. I farmaci che rientrano in questa categoria sono:

  • Diltiazem,
  • Verapamil, controindicato in bambini con meno di 1 anno

Altri agenti

Nel sistema di classificazione di Vaughan Williams originale, non sono comprese alcune sostanze, che comunque vengono utilizzate in alcune patologie cardiologiche specifiche:

  • L’Adenosina viene usata per via endovenosa nel tentativo di interrompere alcune forme di tachicardie sopraventricolari.
  • La Digossina riduce la conduzione degli impulsi elettrici attraverso il nodo AV e per questo viene utilizzata ancora nel controllo della frequenza nella fibrillazione atriale.
  • Il Dronedarone.
  • Il Magnesio solfato viene somministrato, in genere, solo in aggiunta ad altri farmaci antiaritmici e qualora ne risultasse una carenza. Nel trattamento di alcune aritmie, tra cui le torsioni di punta, sono associati per un ripristino quanto più veloce del pool intracellulare di questo elemento, come succede anche per il potassio.
  • Potassio.

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Chemioterapia: durata, in pastiglie, come funziona, fa male, perché farla?

MEDICINA ONLINE CURA CHEMIOTERAPIA SISTEMICA REGIONALE LOCALE RADIOTERAPIA CHIRURGIA FARMACO FA MALE AIUTO INFERMIERA AMORE CURA FA MORIRE TUMORE CANCRO SENO EFFETTI COLLATERALI CALVI CAPELLI PASTIGLIA DURATA COME FUNZIONACon “chemioterapia” in medicina oncologica si descrive una modalità terapeutica che distrugge le cellule neoplastiche attraverso la somministrazione di farmaci particolari, chiamati chemioterapici. La chemioterapia può essere sistemica o loco-regionale (a seconda del campo d’azione del farmaco) e può essere neoadiuvante o adiuvante.

I farmaci chemioterapici sono di vari tipologie e possono essere assunti:

  • per bocca in forma di compresse;
  • iniettati per via endovenosa o intramuscolare;
    nella colonna spinale;
  • in una cavità organica;
  • in un organo.

Funzionamento della chemioterapia

La maggior parte dei chemioterapici antitumorali disponibili danneggia e provoca la morte delle cellule tumorali interferendo, con modalità differenti, con la sintesi del DNA e, quindi, con la capacità delle cellule di crescere e moltiplicarsi. Anche la chemioterapia, come la radioterapia, può purtroppo danneggiare cellule normali, in particolare quelle che si dividono più rapidamente, e ciò può determinare effetti collaterali tipici come perdita di capelli, nausea, vomito e anemia. La modalità di attuazione della chemioterapia dipende dal tipo e dallo stadio del tumore ma anche in base alle condizioni generali del paziente. La chemioterapia è spesso usata in associazione a chirurgia e radioterapia per trattare tumori diffusi e recidive o nel caso in cui ci sia forte probabilità di recidiva.

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Perché è utile sottoporsi a chemioterapia?

La scelta di sottoporre un paziente a chemioterapia può mirare nei diversi casi a obiettivi differenti:

  • eliminare definitivamente la malattia, nel caso di tumori molto sensibili a questi trattamenti;
  • ridurre il volume della massa tumorale  prima di un’operazione chirurgica o della radioterapia (chemioterapia neoadiuvante) così da rendere l’intervento più efficace e meno demolitivo e poter limitare l’irradiazione a zone più ristrette;
  • prevenire il ritorno della malattia trattata con un intervento chirurgico o con la radioterapia, eliminando cellule tumorali che  possono essersi staccate dal tumore e diffuse in altre parti del corpo, pur non avendo ancora dato luogo a metastasi rilevabili con gli strumenti diagnostici attualmente a disposizione (chemioterapia adiuvante o precauzionale);
  • prolungare la sopravvivenza o ritardare la progressione della malattia  quando questa non può essere eliminata del tutto, per esempio perché già diffusa nell’organismo;
  • migliorare i sintomi provocati dalla massa tumorale  quando questa non si può asportare chirurgicamente,  per limitare gli effetti legati all’ostruzione di canali (per esempio un bronco o l’intestino) e alla compressione degli organi vicini (per esempio all’interno della scatola cranica);
  • preparare l’organismo a un trapianto di midollo osseo o di cellule staminali. In questo caso si utilizzano dosi molto alte di farmaci.

Chemioterapia: durata

La somministrazione dei farmaci chemioterapici avviene in modo variabile in base a vari fattori (adiuvante, neoadiuvante, tipo ed estensione di tumore…). Generalmente vengono somministrati al paziente attraverso cicli di trattamento a cadenza variabile (settimanale, trisettimanale…). La durata di ogni somministrazione può variare (da minuti a ore) a seconda dei farmaci utilizzati; generalmente le sedute sono eseguite in regime ambulatoriale e solo in alcuni casi particolari può essere necessario il ricovero in ospedale.

In genere la chemioterapia si prolunga per un periodo che va da tre a sei mesi, nel corso del quale si effettuano in genere da tre-quattro a sei-otto cicli di trattamento.
Il programma tuttavia può cambiare in relazione al tipo di malattia, al singolo paziente e alla reazione individuale alle cure.

Ricordiamo che con “ciclo di trattamento” si intende il periodo in cui si riceve il trattamento e la fase di intervallo prima di quello successivo. Un ciclo di 3 settimane, per esempio, può prevedere la somministrazione dei farmaci solo al primo giorno, e 20 giorni senza trattamenti.

La chemioterapia fa male?

Alcune cellule del nostro corpo condividono con le cellule tumorali una caratteristica: la capacità di crescere molto rapidamente. Per questo i farmaci chemioterapici, che agiscono sulla capacità delle cellule di moltiplicarsi, possono distruggere anche alcune cellule sane che si riproducono attivamente, come già accennato all’inizio dell’articolo. Tra queste ci sono le cellule del sangue, quelle dei follicoli piliferi, che producono peli e capelli, le cellule che rivestono la bocca, lo stomaco e l’intestino, e quelle degli organi riproduttivi. Il danno a queste cellule è la causa dei principali effetti collaterali della chemioterapia, come la perdita di capelli, l’anemia, la stanchezza, la nausea, il vomito, la diarrea, le infezioni, la formazione di lividi o piccole emorragie. Tuttavia i tessuti normali hanno la capacità di rimediare a questi effetti negativi una volta che la terapia è terminata, e per questo la probabilità di effetti collaterali a lungo termine è molto ridotta, gli effetti collaterali stessi tendono a sparire precocemente al termine della terapia. In ogni caso i vantaggi della chemioterapia (adiuvante o neoadiuvante) sono comunque maggiori rispetto ai danni ed agli effetti collaterali: questo va tenuto sempre a mente.

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Differenza tra chemioterapia adiuvante e neoadiuvante

MEDICINA ONLINE CURA CHEMIOTERAPIA SISTEMICA REGIONALE LOCALE RADIOTERAPIA CHIRURGIA FARMACO FA MALE AIUTO INFERMIERA AMORE CURA FA MORIRE TUMORE CANCRO SENO EFFETTI COLLATERALI CALVI CAPELLI PASTIGLIA DURATA COME FUNZIONA.jpgCon “chemioterapia” in oncologia si indica una modalità terapeutica che distrugge le cellule neoplastiche attraverso la somministrazione di farmaci particolari, chiamati chemioterapici. La chemioterapia può essere sistemica o loco-regionale (a seconda del campo d’azione del farmaco) e può essere neoadiuvante o adiuvante:

Chemioterapia neoadiuvante

La chemioterapia neoadiuvante ha l’obiettivo di ridurre il volume della massa tumorale PRIMA che venga trattata con un’operazione chirurgica o con la radioterapia, così da raggiungere tre scopi fondamentali:

  • rendere l’intervento chirurgico meno demolitivo;
  • limitare l’irradiazione radioterapica a zone più ristrette.

Chemioterapia adiuvante

La chemioterapia adiuvante ha l’obiettivo di prevenire il ritorno della malattia DOPO che sia stata trattata con un intervento chirurgico o con la radioterapia, eliminando cellule tumorali che possono essersi staccate dal tumore e diffuse in altre parti del corpo, pur non avendo ancora dato luogo a metastasi rilevabili con gli strumenti diagnostici attualmente a disposizione, così da raggiungere tre scopi fondamentali:

  • rendere l’intervento chirurgico più efficace;
  • limitare il rischio di metastasi;
  • limitare il rischio di ricadute.

Obiettivi comuni

Entrambi i tipi di chemioterapia hanno obiettivi comuni, che sono principalmente:

  • aumentare in generale l’efficacia della terapia antitumorale;
  • prolungare la sopravvivenza o ritardare la progressione della malattia  quando questa non può essere eliminata del tutto, per esempio perché già diffusa nell’organismo;
  • migliorare i sintomi provocati dalla massa tumorale  quando questa non si può asportare chirurgicamente,  per limitare gli effetti legati all’ostruzione di canali (per esempio un bronco o l’intestino) e alla compressione degli organi vicini (per esempio all’interno della scatola cranica).

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Chemioterapia: quali effetti collaterali mi devo aspettare?

MEDICINA ONLINE NAUSEA MAL DI PANCIA REFLUSSO GE ESOFAGO STOMACO DUODENO INTESTINO TENUE DIGIUNO ILEO APPARATO DIGERENTE CIBO TUMORE CANCRO POLIPO ULCERA DIVERTICOLO CRASSO FECI VOMITO SANGUE OCCULTO MILZA VARICI CIRROSI FEGATOCon “chemioterapia” in oncologia si indica una modalità terapeutica che distrugge le cellule neoplastiche attraverso la somministrazione di farmaci particolari, chiamati chemioterapici. La chemioterapia può essere sistemica o loco-regionale (a seconda del campo d’azione del farmaco) e può essere neoadiuvante o adiuvante.

La chemioterapia porta con sé una serie di effetti collaterali molto comuni, come ad esempio:

  • nausea;
  • vomito;
  • stanchezza;
  • ulcere;
  • dolore e infiammazione in bocca;
  • perdita di appetito;
  • diarrea;
  • stipsi;
  • alterazione del gusto e perdita di appetito;
  • infezioni, anemia e sanguinamento;
  • caduta dei capelli, problemi con unghie e pelle;
  • alterazione nervosa;
  • problemi sessuali;
  • alterazione fertilità.

Astenia (stanchezza)

Il senso di stanchezza tipico della chemioterapia può dipendere non solo dai farmaci chemioterapici, ma anche da altri fattori, come:

  • l’impegno dell’organismo nella lotta contro la malattia;
  • la mancanza di sonno;
  • la difficoltà a mangiare adeguatamente;
  • la possibilità che subentri un’anemia;
  • il basso livello di globuli bianchi dovuto al trattamento;
  • il disagio psicologico di dover affrontare una situazione potenzialmente mortale.

Si può avvertire la stanchezza in maniera più marcata nei giorni in cui ci si sottopone alla chemioterapia e in quelli immediatamente successivi. È bene quindi chiedere aiuto a parenti e amici, per esempio per le incombenze domestiche e la cura dei figli, soprattutto in queste fasi e prevedere di potersi assentare dal lavoro, ridurre gli orari oppure portarlo avanti, per quanto possibile, da casa.

Nausea e vomito

Non tutti i medicinali usati in chemioterapia provocano nausea e vomito e comunque, anche per quelli che di solito provocano questi disturbi, è impossibile prevedere se lo faranno, e in che entità, nel singolo individuo. Quando si verificano, i disturbi compaiono a partire da alcuni minuti fino a diverse ore dopo la somministrazione del farmaco. Possono durare per ore, più raramente per qualche giorno. Se la sostanza ha determinato questi sintomi la prima volta, è probabile che lo farà anche nelle somministrazioni successive. I medici possono controllarli con farmaci detti antiemetici, che di solito vengono dati in vena insieme alla chemioterapia e poi proseguiti per via orale o intramuscolare a casa. Vanno presi regolarmente anche se ci si sente abbastanza bene, perché questi prodotti funzionano meglio a scopo preventivo che curativo. Se nonostante ciò, i disturbi fossero particolarmente impegnativi, è bene informare il medico, che potrà cercare altre soluzioni.

Inoltre, è bene avvisare il personale di cura se il vomito:

  • vi preoccupa perché è particolarmente violento o prosegue per più di uno o due giorni;
  • vi impedisce di bere;
  • compare senza ragione apparente (per esempio a distanza di tempo dall’ultima seduta di chemioterapia).

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Dolore, infiammazione e ulcere in bocca

Questi disturbi possono comparire da cinque a dieci giorni dopo l’inizio del trattamento e in genere si risolvono gradualmente nelle tre-quattro settimane dopo che è finito. Il medico potrà consigliarvi dei risciacqui, per evitare che le ulcere si infettino, e degli analgesici per tenere a bada il dolore, in modo che non vi impedisca di mangiare e bere.

Sapore cattivo in bocca o alterazione del gusto

Alcuni medicinali usati in chemioterapia modificano il gusto dei cibi, che può risultare più salato, amaro o metallico. Il fenomeno regredisce alla fine del trattamento ma prima che passi sono necessarie a volte alcune settimane.

Perdita di appetito, diarrea o stipsi

Non preoccupatevi se non riuscite a mangiare il giorno del trattamento o quello successivo, purché poi torni l’appetito tra una seduta e l’altra. È importante invece bere molto, per evitare la disidratazione, soprattutto se le cure causano diarrea. Se compare stipsi, si può cercare di rimediare anche con una dieta ricca di fibre. Tutti questi effetti collaterali si combattono con i medicinali prescritti o somministrati direttamente dal medico insieme alla chemioterapia, ma anche con un’alimentazione adatta.

Infezioni, anemia, sanguinamenti

I farmaci usati in chemioterapia ostacolano il rinnovamento delle cellule del sangue che quindi possono scendere a livelli pericolosi. Il calo dei globuli bianchi può favorire infezioni. Avvisate subito il medico in caso di:

  • febbre alta;
  • sensazione di freddo e brividi;
  • tosse;
  • mal di gola;
  • mal di testa;
  • mal di muscoli.

Il calo dei globuli rossi può portare ad anemia, per la quale ci si può sentire particolarmente stanchi o può mancare il fiato. Il calo delle piastrine può facilitare i sanguinamenti dalle mucose o la formazione di lividi (ecchimosi). Se questi effetti si fanno particolarmente impegnativi i medici possono provvedere con appositi farmaci o con trasfusioni di sangue.

Caduta dei capelli, disturbi alla pelle e alle unghie

La caduta dei capelli, dei peli, di ciglia e sopracciglia è considerato un segno caratteristico della chemioterapia, e anche per questo è una delle conseguenze più temute dai pazienti: non solo perché incide in maniera significativa sulla propria immagine, ma anche perché rende evidente a chiunque il proprio stato di malattia. In realtà, non tutti i farmaci usati per la cura dei tumori provocano questo effetto indesiderato, né tutti lo fanno con la stessa intensità. Alcuni rendono solo i capelli più fini e radi, altri non agiscono a questo livello. Inoltre è bene ricordare che il fenomeno è reversibile e i capelli ricominciano a crescere dopo poche settimane dalla fine del trattamento. In genere la capigliatura ha recuperato un aspetto normale entro quattro-sei mesi dal termine delle cure, anche se è possibile che ricrescendo i capelli acquistino un colore diverso o risultino più ricci. Nel frattempo, se non ci si sente a proprio agio, è possibile ricorrere a foulard, cappelli o parrucche, che però possono risultare fastidiose, soprattutto d’estate. In ogni caso conviene chiedere informazioni al personale infermieristico: molti centri prevedono consulenze specifiche anche su questi aspetti, compreso anche il make up adatto a mascherare gli effetti più visibili delle cure. In alcuni casi è possibile cercare di prevenire la caduta dei capelli indossando durante le sedute una particolare cuffia ghiacciata: riducendo l’apporto di sangue al cuoio capelluto si cerca di diminuire anche la quantità di farmaco che raggiunge i bulbi piliferi. Il metodo comunque non è utilizzabile in tutti i casi, per cui conviene discuterne in anticipo con il proprio medico. Alcuni farmaci usati in chemioterapia possono rendere la pelle secca e sensibile o provocare reazioni cutanee. È bene mettere sempre una crema protettiva quando ci si espone al sole. Anche le unghie ne possono risentire, diventando secche, scheggiate o striate.

Alterazioni nervose

Talvolta la chemioterapia può provocare una neuropatia periferica, che si manifesta con alterazioni della sensibilità, formicolii, sensazione come di punture di aghi soprattutto alle mani e ai piedi. In genere regredisce al termine delle cure, ma solo dopo diversi mesi. Le cure possono anche compromettere in varia misura l’udito. Anche questo fenomeno può essere transitorio ma se vi accorgete di sentire male, avvisate il medico che potrà talvolta adeguare il dosaggio dei farmaci.

Danni ad altri organi

Dei  trattamenti contro il cancro possono talvolta risentire, in maniera transitoria o permanente, i più importanti organi dell’organismo (cuore, fegato, reni e polmoni). Sarà cura dei medici cercare fin dall’inizio le cure più adatte al singolo paziente, in relazione ad altri eventuali problemi di salute preesistenti, oppure cambiare terapia nel caso si manifestasse sofferenza a livello di queste funzioni essenziali. Alcuni tipi di chemioterapia possono anche favorire la formazione di trombi, vale a dire vale a dire coaguli di sangue all’interno di una vena o un’arteria. Nel caso in cui una gamba si gonfiasse oppure il paziente si sentisse mancare il respiro è importante avvisare subito il proprio medico.

Conseguenze su sessualità e fertilità

La stanchezza provocata dalla malattia e dalle cure e la preoccupazione per la propria salute possono togliere interesse per la vita sessuale in questo periodo. È importante tuttavia mantenere aperto il dialogo con il partner anche su questo tema delicato, ed eventualmente cercare la collaborazione di personale esperto. Oltre agli aspetti psicologici ci possono essere anche difficoltà di tipo fisico: le mucose femminili, danneggiate dalla chemioterapia, possono rendere doloroso il rapporto. In questo caso ci si può aiutare con un gel lubrificante.
Per le coppie in età fertile è importante garantirsi una contraccezione sicura perché molti farmaci usati in chemioterapia potrebbero provocare malformazioni nel feto. Infine, sebbene i farmaci in genere non passino nello sperma e nel liquido vaginale, l’uso del preservativo può evitare di passare al partner anche piccole quantità di sostanze farmacologicamente attive. Una grossa preoccupazione di chi si deve sottoporre alla chemioterapia in giovane età è la possibilità che le cure compromettano la fertilità futura. È bene parlare di questo aspetto con il proprio medico prima dell’inizio delle cure perché nelle scelte terapeutiche si tenga conto anche del desiderio di avere in futuro dei figli. Oggi, soprattutto in funzione della sempre maggiore quota di bambini e ragazzi che guariscono dal cancro, e in particolare dalle leucemie, si presta molta attenzione a questo aspetto e molti ricercatori sono impegnati a cercare soluzioni su questo fronte: gli schemi di chemioterapia sono sempre meno aggressivi, si può prevedere la raccolta e il congelamento di sperma e ovociti prima del trattamento. Sono innumerevoli i racconti di persone che, guarite dal cancro, si sono formate una loro famiglia.

Effetti collaterali: solo brutte notizie?

Fortunatamente no, dal momento che è bene ricordare che:

  • la maggior parte di questi effetti collaterali è generalmente di breve durata;
  • tali effetti indesiderati spesso si attenuano o svaniscono del tutto al termine del trattamento o dopo poco tempo dal termine;
  • esistono farmaci e metodi efficaci per alleviare la maggior parte di questi effetti collaterali.

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Chemioterapia a domicilio o in ospedale: dove farla?

MEDICINA ONLINE ITALIAN AMBULANCE DOCTOR NURSE AMBULANZA STRADA EMERGENZA INFERMIERE MEDICO PORTANTINO ITALIA PRONTO SOCCORSO OSPEDALE BARELLA CORSA MORTE MALATTIA DOLORE INCIDENTE ICTUSCon “chemioterapia” in oncologia si indica una modalità terapeutica che distrugge le cellule neoplastiche attraverso la somministrazione di farmaci particolari, chiamati chemioterapici. La chemioterapia può essere sistemica o loco-regionale (a seconda del campo d’azione del farmaco) e può essere neoadiuvante o adiuvante. A seconda del tipo di malattia, dei farmaci utilizzati e delle diverse condizioni cliniche la somministrazione della chemioterapia può avvenire in diversi luoghi.

A domicilio

Se la terapia deve essere presa per bocca, la si può fare stando a casa. Qualche volta i medici possono ritenere opportuno effettuare la prima somministrazione in ospedale per verificare che non ci siano reazioni indesiderate, altrimenti ci si reca in ambulatorio solo per regolari controlli ed esami del sangue. La cura può avvenire a domicilio anche quando avviene tramite un’infusione continua di farmaci mediante una pompa per la chemioterapia collegata alla linea centrale o alla PICC. Ha le dimensioni di una bottiglietta d’acqua e può essere tenuta sempre con sé, in una apposita borsa o attaccata a una cintura che verrà consegnata in ospedale. Non richiede batteria ma periodicamente deve essere sostituita.

Durante un ricovero in ospedale

A volte può essere necessaria una permanenza in ospedale di una o più notti, soprattutto nei casi in cui:

  • i farmaci devono essere somministrati molto lentamente e in maniera controllata;
  • c’è la possibilità di reazioni indesiderate;
  • occorre somministrare molti fluidi tramite flebo prima e dopo il trattamento;
  • devono essere date alte dosi di medicinali (in questo caso la permanenza può durare anche settimane).

In appositi ambulatori

Sono i cosiddetti day-hospital, dove ci si reca nei giorni prestabiliti. Lì si resta per il tempo necessario a eseguire gli esami preliminari al trattamento e a ricevere l’infusione, per poi rientrare a casa in giornata. È questa la modalità più comune.

Le sostanze usate per la chemioterapia possono essere irritanti per la pelle e pericolose al di fuori del loro uso terapeutico. È per questo che il personale indossa guanti, mascherina, grembiuli di plastica e occhiali protettivi. Per la stessa ragione il materiale che è venuto a contatto con i farmaci deve essere smaltito in maniera differenziata e con particolari cautele.

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Chemioterapia: modi di assunzione dei farmaci chemioterapici

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  • chemioterapia sistemica: i farmaci sono assunti per bocca in forma di compresse, oppure iniettati per via endovenosa o intramuscolare ed in questo caso i farmaci entrano nella circolazione sanguigna e raggiungono e distruggono le cellule neoplastiche che si sono diffuse a distanza.
  • chemioterapia loco-regionale: il farmaco chemioterapico è somministrato direttamente nella colonna spinale, in una cavità organica, quale l’addome, o in un organo. In questo caso il farmaco agisce principalmente sulle cellule neoplastiche presenti in una data regione specifica.

Il metodo con cui la chemioterapia viene somministrata varia in base al tipo di cancro, alla sua localizzazione, allo stadio in cui si trova e alle condizioni del paziente. Le principali vie di somministrazione sono di seguito elencate.

VIA ENDOVENOSA

Questa modalità di somministrazione prevede un accesso al circolo sanguigno (accesso venoso), che dev’essere mantenuto aperto per il tempo necessario al completamento della cura.
La chemioterapia può essere somministrata tramite:

  • Siringa, quando il farmaco è somministrato in tempi brevi (al massimo alcuni minuti);
  • Flebo, quando il farmaco dev’essere somministrato in un intervallo che va da trenta minuti ad alcune ore;
  • Pompa per infusione, quando il farmaco dev’essere somministrato lentamente (goccia a goccia) anche per giorni;
  • Infusione continua per un periodo che va da settimane a mesi, in questo caso il paziente avrà sempre con sé la pompa per infusione.

La chemioterapia endovenosa comporta una ripetuta iniezione di sostanze irritanti che possono provocare flebiti. Per cercare di ovviare a questo problema sono stati ideati metodi alternativi di somministrazione endovenosa; con questi metodi l’accesso venoso è mantenuto aperto e non è necessario dover cercare ogni volta una vena per somministrare il farmaco.
Fra questi metodi alternativi troviamo:

  • Agocannula o catetere venoso periferico: è costituito da un tubicino sottile che, tramite un ago, è inserito in una vena della mano o del braccio. Con questo sistema possono essere sia somministrati farmaci che prelevati campioni di sangue. Può essere tenuto per alcuni giorni.
  • Cateteri venosi centrali, sono tubicini di materiale compatibile con l’organismo (di solito silicone o poliuretano) che raggiungono le grosse vene che si trovano vicino al cuore. Questi cateteri possono essere
    • esterni, vengono inseriti in anestesia locale, in ambiente sterile;
    • interni, sono inseriti con un piccolo intervento chirurgico.

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VIA ORALE

L’assunzione di chemioterapici per via orale può essere utilizzata da sola o in associazione a terapie per via endovenosa. Nel caso in cui si tratti di capsule o compresse, queste possono essere fornite direttamente al paziente, che può assumerle a casa.
In questo caso è importante che siano seguite con diligenza tutte le direttive del medico sulla modalità di assunzione e che sia letto attentamente il foglietto illustrativo.

VIA ARTERIOSA

Consiste nell’inserimento di una cannula all’interno dell’arteria principale che irrora la zona in cui è presente il tumore. Di solito è utilizzata per carcinomi al fegato (in tal caso i chemioterapici vengono somministrati attraverso l’arteria epatica).
È una tecnica che richiede un alto livello di qualificazione e viene praticata solo in centri specializzati.

VIA INTRACAVITARIA

La somministrazione avviene in una cavità naturale dell’organismo:

  • Via intravescicale, il chemioterapico è somministrato direttamente nella vescica attraverso l’uso di un catetere;
  • Via intraperitoneale, la somministrazione avviene fra i due strati costituenti il peritoneo (la membrana che riveste la parete e i visceri addominali);
  • Via intrapleurica, la somministrazione avviene fra i due strati che costituiscono la pleura (la membrana che riveste il torace e i polmoni).

VIA INTRATECALE

Impiegata solo in alcuni tipi di tumori cerebrali e leucemie. Il chemioterapico viene somministrato nel fluido cerebrospinale attraverso la colonna vertebrale.

VIA INTRAMUSCOLARE

È una via poco utilizzata. È praticata a livello della coscia o dei glutei e determina un rilascio del chemioterapico più lento rispetto alla via endovenosa.

VIA SOTTOCUTANEA

Questa via è impiegata soprattutto per farmaci ematologici. La somministrazione avviene a livello della coscia, dell’addome o del braccio.

Chemioterapia antineoplastica di combinazione

La chemioterapia antineoplastica di combinazione consiste nell’utilizzo di due o più farmaci antitumorali (cocktail di farmaci), con lo scopo ti trarre vantaggio dalle diverse modalità con cui questi agiscono sul tumore.
L’approccio chemioterapico combinato si basa sul presupposto che più farmaci, con diversi meccanismi d’azione, possano dare effetti sinergici (cioè operare insieme per ottenere un effetto non ottenibile se usati singolarmente) e/o che possano ritardare l’insorgenza della resistenza al singolo farmaco.
Talvolta, grazie alla somministrazione combinata, i farmaci possono essere somministrati con dosaggi inferiori rispetto a quelli che sarebbero necessari se venissero somministrati singolarmente. La somministrazione di un dosaggio minore di farmaci potrebbe tradursi in una riduzione della tossicità e degli effetti collaterali.
Tuttavia, questo approccio terapeutico può anche presentare svantaggi, quali l’eventuale insorgenza di effetti collaterali multipli e la possibilità che si verifichino interazioni negative fra i componenti del cocktail una volta che questi sono stati somministrati.

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