Il modello più rappresentativo di comunicazione interpersonale è costituito dal dialogo, ovvero la conversazione “faccia a faccia”, nella quale gli interlocutori hanno tutti la possibilità di intervenire, e devono tenere conto ciascuno delle reazioni dell’altro o degli altri. La conversazione è la forma più antica di comunicazione fra gli uomini. Il termine deriva da conversatio, e cioè il trovarsi insieme con finalità e motivazioni precise. A partire dal pensiero antico sino al filosofo greco Aristotele (384 a. C.-322 a.C.), la conversazione (nella sua forma di dialogo) ha rappresentato il modo privilegiato del discorso filosofico, e cioè il discutere, domandare e rispondere tra persone associate dal comune interesse per la ricerca. Si dialogava, in questa accezione, per conseguire insieme una più ampia conoscenza sull’uomo e sul mondo: sin dalle origini, dunque, la conversazione ha trovato la sua ragion d’essere nell’interazione fra gli individui. In questa prospettiva non è più possibile vedere la comunicazione come flusso unidirezionale di dati da codificare e decodificare. La comunicazione diviene un fatto interattivo in cui gli attori ricoprono, alternandosi, diversi ruoli: non ci sono mai un emittente completamente attivo e un destinatario del tutto passivo, ma ci sono soggetti impegnati congiuntamente nella produzione dei significati, in virtù di uno scopo comune e secondo norme e regole codificate. Le teorie psicosociali entrano in gioco per indagare la funzione inferenziale del linguaggio. La comunicazione, in questo senso, non è solo codifica e decodifica, ma presenta due caratteristiche fondamentali: l’incertezza e l’inferenza.
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Incertezza e inferenza
L’incertezza è sconosciuta ai codici matematici e dovuta all’ambiguità intrinseca delle lingue naturali: gli uomini, del resto, sono consapevoli dell’ambiguità della lingua, e la sfruttano strategicamente nel corso dell’interazione. L’inferenza è il lavoro che il destinatario deve compiere per risolvere l’incertezza del messaggio e, dunque, comprenderlo. A differenza di quanto sostenevano le teorie del passaggio dell’informazione, non basta che gli interlocutori condividano un codice per assicurare il buon esito della comunicazione. Se Mario va a trovare la sua ragazza, Lucia, e lei l’accoglie gridandogli: «Vattene!», Mario comprenderà perfettamente la frase (imperativo del verbo “andarsene”, cioè “allontanarsi, scomparire”). Sarà incerto, però, su almeno due punti. Il primo è: cosa intende dirgli realmente Lucia? Vuole davvero che lui se ne vada o, piuttosto, l’ordine è in realtà la richiesta implicita che resti e le chieda perché è arrabbiata? Ecco un esempio di incertezza. Il secondo è, invece: quali sono i motivi per cui Lucia gli rivolge quella frase? Per comprenderlo, Mario dovrà affidarsi alle inferenze: forse Lucia ha scoperto che, la sera prima, lui è uscito con la sua ex. L’inferenza, dunque, concorre a chiarire l’ambiguità del messaggio. Per avere conferma delle sue supposizioni, Mario replicherà a Lucia qualcosa come: «Perché vuoi che me ne vada?» e ascolterà cosa lei gli risponde, e così via. Col procedere della discussione, i due fidanzati arriveranno a far luce sulle rispettive intenzioni comunicative. L’interazione, dunque, è l’unico modo per governare l’incertezza della lingua e sciogliere le sue ambiguità. Un’altra componente fondamentale della conversazione è l’intenzionalità. Per comunicare, infatti, non basta interagire, ma occorre anche un certo grado di consapevolezza. La comunicazione umana è fondamentalmente un’azione intenzionale e volontaria da parte di almeno due soggetti. Per esprimere le proprie intenzioni, il parlante sceglie tra le alternative possibili quelle che più corrispondono a ciò che ha in mente: attua, cioè, una precisa strategia comunicativa, che dipende da regole condivise oltre che da fattori cognitivi e affettivi. Se la conversazione è prima di tutto una relazione fra individui, inoltre, dobbiamo tenere in considerazione sia l’analisi delle relazioni fra i gruppi, sia lo studio di variabili più demografiche come l’età, il sesso, la personalità, la classe sociale, l’istruzione, l’occupazione e la nazionalità dei soggetti in gioco. I concetti astratti di “emittente” e “ricevente”, dunque, non esistono più: al loro posto abbiamo’ “interlocutori” dotati di un’identità psicologica e sociale precisa. La conversazione, quindi, non è un semplice trasferimento di informazione. ma il risultato di un complicato intreccio di attività condotte da due o più individui che interagiscono fra loro. È un sistema e, come in tutti i sistemi, ogni componente incide e influisce sull’altra. Il significato della conversazione nasce dalla collaborazione degli interlocutori e dagli interlocutori è continuamente negoziato. Questa negoziazione dipende dalle caratteristiche sociali e cognitive di ciascuno, dal contesto in cui la conversazione si svolge e da alcune regole precise.
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Le regole della conversazione: i principi conversazionali di Grice
Quali sono le regole che governano una conversazione? Come si struttura nel concreto? Il filosofo britannico H. Paul Grice (1913-1988) ha cercato di individuare i principi impliciti (e spesso inconsci) alla base della conversazione, molto utili per comprenderne lo svolgimento. Lo studioso formula innanzitutto un principio generale della conversazione, che definisce “principio di cooperazione”, e che descrive in questi termini:
«Il tuo contributo alla conversazione sia tale quale richiesto, allo stadio cui av-
viene, dallo scopo e orientamento accettato dello scambio linguistico in cui sei im-
pegnato».
Perché una comunicazione funzioni, cioè, gli interlocutori devono cooperare fra loro e non prevalere l’uno sull’altro, essi devono muoversi insieme verso il fine stabilito della comunicazione. Il principio di cooperazione si articola poi secondo quattro massime che dovrebbero condurre il comportamento dei comunicanti, e che Grice così descrive:
Secondo la quantità
Riguarda la quantità di informazione da fornire, e sotto di essa cadono le massime seguenti:
- Dà un contributo tanto informativo quanto è richiesto
- Non dare un contributo più informativo di quanto richiesto.
Secondo la qualità
Tenta di dare un contributo che sia vero – e quindi, più nello specifico:
- Non dire ciò che credi essere falso
- Non dire ciò per cui non hai prove adeguate.
Secondo la relazione
I tuoi contributi siano pertinenti.
Secondo il modo
Riguarda il modo in cui si dice una certa cosa, partendo dalla supermassima «Sii
perspicuo», la quale si articola nelle seguenti:
- Evita l’oscurità di espressione
- Evita l’ambiguità
- Sii breve (evita la prolissità non necessaria)
- Sii ordinato nell’esposizione.
Le massime appena enunciate sono i punti di orientamento, o meglio i principi
regolatori, e non i principi descrittivi di ogni effettiva comunicazione: sappiamo infatti che nessuno nella realtà concreta le segue, anche se tutti credono, o fingono, di farlo. La stessa menzogna o la manipolazione del contesto partono dall’implicita condivisione di queste regole: per infrangere una norma, infatti, bisogna conoscerla. È su queste basi, inoltre, che si attua l’azione perlocutoria di molte frasi. Se una signora, a cena a casa di amici, dice al marito: «Sono un po’ stanca», egli capirà, in base al principio di cooperazione, che la moglie non sta dando informazioni sul suo stato fisico, ma sta dicendo che vorrebbe andare a casa. Consideriamo un secondo esempio. A scuola, Marco dice a Luca: «È arrivato il bidello?» e Marco risponde: «C’è una giacca nera sull’appendiabiti». Letteralmente, la frase di Marco non risponde alla domanda di Luca: viola cioè la massima di relazione (non è pertinente alla domanda) e di quantità (non dà sufficienti informazioni). È chiaro, però, che la cooperazione fra Marco e Luca si situa a un livello più profondo: si suppone che i due condividano informazioni comuni, come la
consapevolezza che il bidello possiede una giacca nera e che, quando arriva, solitamente la appende all’attaccapanni. Rilevare la presenza della giacca corrisponde, dunque, ad affermare la presenza del bidello. In questi casi, probabilmente i più frequenti, la cooperazione presuppone l’inferenza (che, come abbiamo visto, rappresenta uno dei principi di base della conversazione). Grice definisce tali inferenze “implicature conversazionali”.
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La scuola di Palo Alto e la teoria sistemico-relazionale
Con l’espressione “scuola di Palo Alto” in psicologia si indica un gruppo di studiosi provenienti da diverse discipline (antropologia, linguistica, matematica, psichiatria, sociologia che fa capo agli antropologi Gregory Bateson (1904-1980), Erving Goffrnan (1922-1982), EdwardHall (nato nel 1914) e agli psichiatri contemporanei Don Jackson, Albert Scheflen e Paul Watzlawick. Il luogo in cui svolgono la loro attività di ricerca è il Mental Research Institute, fondato nel 1959 da Don Jackson presso Palo Alto, un piccolo villaggio a sud di San Francisco. La scuola di Palo Alto studia la comunicazione attraverso una prospettiva definita “sistemico-relazionale”: la comunicazione, cioè, è vista innanzitutto come interazione, sistema aperto basato sullo scambio continuo di messaggi fra esseri umani in un preciso contesto. In un gruppo, cioè, il comportamento di ogni persona influenza ed è influenzato dal comportamento di ogni altra, e genera una catena di influenze in un meccanismo circolare. Rifiutando la teoria di Shannon e Weaver, per cui la comunicazione è un processo a senso unico, si sostiene invece che la comunicazione è un sistema complesso che integra al suo interno numerose modalità di comportamento strettamente connesse fra loro e dipendenti l’una dall’altra. Non viene data importanza solo alle parole, quindi, ai loro significati e alle loro regole, ma anche ai fatti non verbali concomitanti, come pure al linguaggio del corpo, ai gesti, al tatto. Si tratta dunque di un “modello orchestrale della comunicazione” perché, come in un’orchestra, il senso generale nasce dall’apporto reciproco di tutti gli strumenti. In questa prospettiva tutto il comportamento, e non soltanto il discorso, è comunicazione, e tutta la comunicazione – compresi i segni del contesto interpersonale – influenza il comportamento: ogni comunicazione provoca una reazione, produce cioè un comportamento negli interlocutori, e ogni comportamento è comunicativo.
Gli studiosi di Palo Alto non limitano il loro interesse all’effetto della comunicazione sul ricevente (come generalmente avveniva nei modelli unidirezionali della comunicazione finora visti), ma si occupano anche dell’effetto che la reazione del ricevente ha sull’emittente del messaggio, poiché ritengono che i due effetti siano inscindibili. La comunicazione non è vista come un fenomeno unidirezionale di cui interessa soltanto l’effetto sul ricevente, un evento lineare inteso come trasmissione di informazioni da un emittente a un destinatario, ma come un processo interattivo, o circolare nel quale gli interlocutori si influenzano a vicenda continuamente. Essi evidenziano in tal modo il concetto psicologico di relazione. Ogni comunicazione acquista così un preciso senso entro la relazione nella quale si svolge e tende a influenzare la relazione stessa. Secondo i ricercatori del Mental Research Institute la comunicazione sta alla base del lavoro psicoterapeutico, poiché molte delle più comuni malattie psichiche possono essere ricondotte a disturbi della comunicazione. Il comportamento patologico, infatti, non esiste nell’individuo isolato ma è soltanto una reazione a un tipo di relazione patologica fra gli individui. Rifiutando i procedimenti sperimentali di laboratorio, essi utilizzano i metodi di ricerca sociologica ed etnologica basati sull’osservazione diretta sul campo: analizzano il contesto in cui la comunicazione si svolge, le relazioni cui essa dà luogo, l’ambiente e gli effetti reciproci dei diversi comportamenti. Essi ritengono che solo in questo modo, studiando gli individui all’interno dei sistemi di relazioni in cui vivono (famiglia, classe, posto di lavoro, amici), sarà possibile individuare le “patologie” della comunicazione e dimostrare che sono queste a causare interazioni patologiche.
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Lo Staff di Medicina OnLine
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