Emorragia subaracnoidea: cause, sintomi, diagnosi e cura

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma EMORRAGIA SUBARACNOIDEA CAUSE SINTOMI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgL’emorragia subaracnoidea (anche abbreviata ESA e chiamata subarachnoid hemorrhage in inglese) è un’emorragia – ovvero una fuoriuscita più o meno copiosa di sangue da un vaso leso – che si produce all’interno dello spazio subaracnoideo (lo spazio tra le meningi in cui scorrono le arterie cerebrali). Tra le cause più frequenti all’origine di questo tipo di emorragia ci sono aneurismi intracranici, malformazioni artero-venose (MAV), angiomi cavernosi, neoplasie, traumatismi.

Nel caso abbiate legittimi sospetti che voi o un vostro caro siate stati colpiti da TIA o ictus cerebrale, leggete immediatamente questo articolo per sapere cosa fare: Ictus, emorragia cerebrale e TIA: cosa fare e cosa assolutamente NON fare

Quali sono le cause dell’emorragia subaracnoidea?

Tra le cause più frequenti all’origine di questo tipo di emorragia ci sono gli aneurismi intracranici (responsabili dell’80% di questo tipo di emorragia); il 5% dei casi è invece dovuto a malformazioni artero-venose (MAV), nel restante 15% dei casi trovano spazio altre cause, come i traumi cerebrali e le neoplasie cerebrali.

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Quali sono i sintomi dell’emorragia subaracnoidea?

In caso di emorragia subaracnoidea il quadro clinico può essere di gravità variabile, a seconda dell’entità del sanguinamento. Nei casi meno gravi può essere caratterizzato dal solo mal di testa che insorge improvvisamente e in modo violento (descritto come un mal di testa “diverso” mai avuto prima, spesso ad insorgenza nucale), mentre nei casi più severi può comportare intolleranza alla luce (fotofobia), nausea e/o vomito, comparsa di importanti deficit neurologici, fino a portare al coma. Infine in alcuni casi l’emorragia subaracnoidea può determinare morte improvvisa. Il 50% di tutte le emorragie sub aracnoidee andrà incontro a morte o gravi/medi deficit neurologici permanenti.

Prevenzione

Ad oggi, purtroppo, non sono noti procedure o comportamenti in grado di prevenire lo sviluppo dell’emorragia subaracnoidea se non il controllo della pressione in noti aneurismi non rotti.

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Diagnosi

È di fondamentale importanza avere il sospetto dell’emorragia subaracnoidea. La diagnosi di emorragia subaracnoidea viene effettuata mediante TAC encefalo (tomografia assiale computerizzata) che mostra il sangue a livello degli spazi subaracnoidei. Nei centri specializzati, una volta evidenziata l’emorragia subaracnoidea, si effetua una AngioTAC encefalo che prevede il mezzo di contrasto e permette una visualizzazione della causa del sanguinamento nella maggior parte dei casi.
Se anche l’AngioTAC è negativa viene eseguita l’angiografia cerebrale. Attraverso l’arteria femorale si raggiungono le carotidi dove viene iniettato il mezzo di contrasto che permette il riscontro di eventuali malformazioni.
In caso di TAC negativa, ma con una sintomatologia clinica fortemente sospetta e convincente, si può effettuare una puntura lombare per evidenziare la presenza di sangue nel liquido cerebro-spinale.

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Trattamenti

Il trattamento endovascolare non è un’alternativa a quello microchirurgico, ma una scelta di intervento vera e propria. Alcuni aneurismi infatti hanno un’indicazione alla chirurgia, altri al trattamento endovascolare. Sarà il team a valutare in base a ciascun caso il trattamento d’elezione. Il trattamento microchirurgico consiste nell’escludere la sacca aneurismatica mediante il posizionamento di una o più “clip” (piccole mollette) a livello del colletto della malformazione. Viene eseguito con l’ausilio delle più moderne tecnologie:

  • Microscopio operatorio
  • Fluoroangiografia intraoperatoria
  • Monitoraggio Neurofisiologico intraoperatorio
  • Endoscopia 3D
  • Microdoppler intraoperatorio

I rischi sono contenuti ricordando che i vasi cerebrali sono appoggiati sulla superficiedell’encefalo e non dentro, quindi l’intervento microchirurgico agisce sulla superficie senza superare il tessuto cerebrale. Fondamentale è l’uso dei monitoraggi intraoperatori per la valutazione motoria e sensitiva del paziente durante il corso del trattamento.
Il trattamento endovascolare è una normale procedura, angiografia cerebrale, che consiste nel raggiungere i vasi cerebrali attraverso l’arteria femorale e nel riempire la sacca aneurismatica con piccoli filamenti in titanio, o posizionando stent (piccoli cilindri di materiali malleabili) che escludono l’aneurisma dall’area cerebrale.
I rischi sono correlati alla possibilità di avere eventi ischemici transitori o permanenti(più alti nello stent che nelle spirali) e nella possibile rottura dell’aneruisma intraprocedurale.
I risultati del trattamento endovascolare possono non essere definitivi e necessitano di follow up seriati negli anni.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Emorragia cerebrale: cause, sintomi premonitori, diagnosi e cura

MEDICINA ONLINE CERVELLO CRANIO EMORRAGIA CEREBRALE ISCHEMIA EMORRAGICA ICTUS SANGUE EMATOMA EMIPARESI EMIPLEGIA TETRAPARESI TETRAPLEGIA MORTE COMA PROFONDO STATO VEGETATIVODECUBITO RECUPERO SUBARACNOIDEA PARALISI.jpgL’emorragia cerebrale (in inglese conosciuta come intracranial hemorrhage, intracranial bleed o ICH), corrisponde ad una fuoriuscita più o meno abbondante di sangue da un vaso arterioso o venoso, spesso sclerotico, dell’encefalo. Solitamente risulta associata a ipertensione ed aneurisma. L’emorragia cerebrale è caratterizzata dalla comparsa acuta di deficit neurologici dovuti alla rottura di un vaso arterioso cerebrale e al conseguente stravaso di sangue all’interno del cervello stesso.

Nel caso abbiate legittimi sospetti che voi o un vostro caro siate stati colpiti da TIA o ictus o emorragia cerebrale, leggete immediatamente questo articolo per sapere cosa fare: Ictus, emorragia cerebrale cerebrale e TIA: cosa fare e cosa assolutamente NON fare

Fattori di rischio e cause di emorragia cerebrale

La causa principale di emorragia cerebrale è l’ipertensione arteriosa, responsabile in modo diretto o indiretto di quasi il 70% dei casi. Elevati valori pressori cronici sono responsabili di importanti modificazioni strutturali a carico delle pareti delle arteriole cerebrali che possono predisporle alla rottura. Un’altra causa all’origine delle emorragie cerebrali è attribuita alla deposizione di sostanza amiloide all’interno delle pareti vasali (angiopatia amiloide). Altre cause e fattori di rischio di sanguinamento cerebrale sono:

  • traumi cerebrali (ad esempio da incidenti stradali o sportivi);
  • malformazioni vascolari (come gli aneurismi e le malformazioni artero-venose);
  • coagulopatie;
  • neoplasie;
  • alcuni farmaci (come gli anticoagulanti);
  • patologie delle pareti dei vasi sanguigni;
  • dieta sbilanciata ricca di grassi e sale;
  • ipercolesterolemia;
  • sovrappeso e obesità;
  • fumo di sigaretta;
  • precedenti eventi ischemici;
  • uso cronico di sostanze stupefacenti;
  • stress psicofisici prolungati;
  • famigliarità.

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Sintomi di emorragia cerebrale

I sintomi di norma compaiono all’improvviso e possono evolvere anche molto rapidamente. I “sintomi premonitori” possono non essere presenti o, in caso contrario, essere aspecifici, come mal di testa, stato di malessere generale e stanchezza: il paziente tende quindi a sottostimarli. Durante l’emorragia il paziente può presentare uno dei seguenti segni e sintomi:

  • cefalea intensa ed improvvisa (descritta spesso come un colpo di pugnale alla testa);
  • vomito;
  • nausea;
  • astenia (stanchezza);
  • facile affaticabilita;
  • letargia;
  • sudorazione elevata;
  • compromissione del controllo degli sfinteri;
  • emiparesi o emiplegia;
  • disturbi del linguaggio (disartria o afasia);
  • disturbi della sensibilità (ad esempio visione offuscata);
  • disturbi della coordinazione;
  • compromissione parziale dello stato di coscienza;
  • sincope (perdita della coscienza associata all’incapacità di mantenere la posizione eretta: il paziente tende a cadere).

Il decorso poi può essere complicato da:

  • tachipnea (aumento della frequenza respiratoria);
  • tachicardia (aumento della frequenza cardiaca);
  • irregolarità respiratorie;
  • crisi comiziali (epilessia);
  • instabilità o aumento della pressione arteriosa;
  • anomalie della temperatura corporea che peggiorano la prognosi del paziente.

Ai danni diretti provocati dalla mancata perfusione ematica, si associano i danni provocati da dalla comparsa di ematoma ed edema cerebrale che, per compressione in una regione inestensibile com’è il cranio, determinano un peggioramento del quadro neurologico fino al coma. Per approfondire leggi: Pressione intracranica e pressione di perfusione cerebrale

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Prevenzione dell’emorragia cerebrale

Ad oggi purtroppo non sono note procedure dirette in grado di evitare lo sviluppo dell’emorragia cerebrale, tuttavia, essendo tale patologia favorita da un numero elevato di fattori di rischio, si può prevenire efficacemente intervenendo su tutti quei fattori di rischio modificabili che ne aumentano il rischio, ad esempio:

  • mantenere la pressione arteriosa entro limiti accettabili;
  • curare l’eventuale ipertensione arteriosa con farmaci antipertensivi;
  • evitare una dieta sbilanciata ricca di grassi, seguire invece una dieta normocalorica ricca di frutta e verdura;
  • idratarsi bevendo adeguate quantità di acqua;
  • se si è sovrappeso o obesi, mettere in pratica comportamenti per perdere peso, ad esempio seguire una dieta ipocalorica e fare attività fisica;
  • prevenire l’ipercolesterolemia con una alimentazione adeguata e curarla con farmaci adeguati;
  • evitare stress psicofisici prolungati;
  • evitare fumo di sigaretta, alcolici e sostanze stupefacenti;
  • prevenire traumi cerebrali stradali e sportivi grazie a specifiche precauzioni;
  • diagnosticare precocemente malformazioni vascolari a rischio (aneurismi e malformazioni artero-venose);
  • curare in modo adeguato eventuali coagulopatie o patologie delle pareti dei vasi sanguigni;
  • fare attenzione al dosaggio dei farmaci anticoagulanti.

Tutti questi comportamenti sono ancor più raccomandati in quegli individui che hanno famigliarità con la patologia, ad esempio genitori e fratelli che hanno avuto ictus cerebrale o altri eventi ischemici come l’infarto del miocardio, oppure nei pazienti che hanno avuto precedenti episodi ischemico-emorragici.

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Diagnosi di emorragia cerebrale

Per la diagnosi di emorragia cerebrale, oltre ad anamnesi ed esame obiettivo, il medico usa generalmente i seguenti esami diagnostici per immagini:

  • tomografia computerizzata (TCTAC) cerebrale con o senza mezzo di contrasto, che permette di visualizzare il sanguinamento e permette la diagnosi differenziale nei confronti di un ictus ischemico;
  • risonanza magnetica dell’encefalo, con gadolinio come mezzo di contrasto: viene utilizzata per escludere la presenza di malformazioni sottostanti, pregresse emorragie e microsanguinamenti (che possono suggerire la presenza di angiopatia amiloide);
  • lo studio angiografico con angio-TC, angio-RM permette infine di evidenziare eventuali malformazioni vascolari;
  • esami ematici eseguiti su sangue venoso ed arterioso.

Trattamenti dell’emorragia cerebrale

Il primo obiettivo del personale medico, di fronte ad un paziente con emorragia cerebrale, è salvaguardare le sue funzioni vitali: ad esempio ventilazione meccanica e nutrizione enterale o parenterale. In alcuni casi è necessario un tempestivo intervento chirurgico che ha l’obiettivo di impedire ulteriore sanguinamento e ridurre l’ematoma. Nei pazienti per i quali non è necessario l’intervento chirurgico è fondamentale un attento e continuo monitoraggio dello stato neurologico e dei parametri vitali: particolare attenzione deve essere rivolta al controllo dell’ipertensione arteriosa, dal momento che un picco pressorio potrebbe peggiorare nettamente la situazione. In caso di importante edema cerebrale può essere richiesta la somministrazione di diuretici osmotici. In caso di emorragia cerebrale in concomitanza con una terapia anticoagulante si fa solitamente uso di preparati in grado di ripristinare rapidamente la normale coagulazione del sangue (vitamina K, protamina, concentrati piastrinici).

Dopo una emorragia cerebrale

Gli esiti di una emorragia cerebrale sono estremamente vari in base a molti fattori, tra i quali:

  • gravità dell’emorragia;
  • tempi di intervento del personale sanitario;
  • età del paziente (gli anziani recuperano con più difficoltà);
  • stato di salute generale del paziente (la presenza di ipertensione, obesità, infezioni estese, diabete peggiorano la prognosi).

In base a questi ed altri fattori, il paziente colpito da emorragia cerebrale può tornare ad una vita del tutto normale o, più spesso, avere lesioni cerebrali che determinano danni permanenti relativamente al comparto motorio e/o sensitivo (ad esempio difficoltà a parlare e/o a muoversi) che solo in parte possono migliorare grazie ad adeguato intervento fisioterapico. Nei casi più gravi il paziente può entrare in uno stato di coma che generalmente dura circa uno/due mesi e successivamente evolve nel suo decesso, oppure in uno stato vegetativo o di minima coscienza che hanno durata estremamente variabile. A tal proposito, leggi:

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Neurotrasmettitori: cosa sono ed a che servono

Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Specialista in Medicina Estetica Roma CERVELLO 75% DI ACQUA Radiofrequenza Rughe Cavitazione Peeling Pressoterapia Linfodrenante Dietologo Cellulite Dieta Pancia Sessuologia Sessualità Sex Filler BotulinoUn neurotrasmettitore è una sostanza che trasmette le informazioni tra le varie cellule che compongono il nostro sistema nervoso, cioè i neuroni, attraverso la trasmissione sinaptica. All’interno del neurone, i neurotrasmettitori sono contenuti in vescicole dette vescicole sinaptiche che sono addensate alle estremità distali dell’assone nei punti in cui esso contrae rapporto sinaptico con altri neuroni.

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Cosa avviene quando al neurone giunge uno stimolo?
Nel momento in cui il neurone viene raggiunto da uno stimolo:

  1. le vescicole sinaptiche si fondono per esocitosi con la membrana pre-sinaptica,
  2. le vescicole sinaptiche riversano il proprio contenuto nello spazio sinaptico o fessura inter-sinaptica
  3. i neurotrasmettitori rilasciati si legano a recettori o a canali ionici localizzati sulla membrana post-sinaptica
  4. l’interazione fra i neurotrasmettitore e il recettore/canale ionico scatena una risposta eccitatoria o inibitoria nel neurone post-sinaptico.

In relazione al tipo di risposta prodotta, i neurotrasmettitori possono essere eccitatori o inibitori (chiamati anche soppressori), cioè possono rispettivamente promuovere la creazione di un impulso nervoso nel neurone ricevente o inibire l’impulso. Tra i neurotrasmettitori inibitori, i più noti sono l’acido gamma-amminobutirrico (GABA) e la glicina. Al contrario, il glutammato rappresenta il più importante neurotrasmettitore eccitatorio del cervello.

Ricaptazione (reuptake)
Molti neurotrasmettitori vengono rimossi dallo spazio tra le sinapsi da specifiche proteine che risiedono nelle membrane dei neuroni e delle cellule della glia. Questo processo prende il nome di ricaptazione (reuptake) o, spesso più semplicemente, captazione (uptake). Senza la ricaptazione, i neurotrasmettitori potrebbero continuare a stimolare o deprimere il neurone post-sinaptico. Un altro meccanismo di rimozione dei neurotrasmettitori è la loro distruzione tramite un enzima. Ad esempio, nelle sinapsi colinergiche (quelle del neurotrasmettitore acetilcolina) l’enzima acetilcolinesterasi distrugge l’acetilcolina.

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Tipi di neurotramettitori
Sulla base della dimensione, i neurotrasmettitori possono essere distinti in neuropeptidi e piccole molecole. I neuropeptidi comprendono dai 3 ai 36 amminoacidi, mentre nel gruppo delle piccole molecole ci sono amminoacidi singoli, come il glutammato ed il GABA e i neurotrasmettitori come l’acetilcolina, la serotonina e l’istamina. I due gruppi di neurotrasmettitori presentano anche modalità di sintesi e rilascio differenti.

Farmaci e neurotrasmettitori
Farmaci, droghe ed altre sostanze possono interferire con il funzionamento dei neurotrasmettitori. Molte sostanze stimolanti e anti-depressive alterano la trasmissione dei neurotrasmettitori dopamina, norepinefrina (o noradrenalina) e epinefrina (adrenalina), chiamati nel complesso catecolamine. Ad esempio, la cocaina blocca la ricattura della dopamina, consentendole di rimanere più a lungo nello spazio inter-sinaptico. In particolare, la cocaina altera i circuiti dopaminergici del nucleus accumbens, una regione del cervello che è coinvolta nella spinta motivazionale e nel rafforzamento emozionale. La reserpina, che è stata impiegata dapprima come agente anti-ipertensivo e successivamente come antipsicotico nel trattamento della schizofrenia, causando una deplezione di neurotrasmettitori mediante la rottura delle vescicole sinaptiche e la degradazione da parte delle monoammino ossidasi (MAO-A e MAO-B). Infine, l’AMPT impedisce la conversione della tirosina in L-DOPA ed il deprenile inibisce l’azione della monoammina ossidasi B, aumentando il livello della dopamina tra le sinapsi.

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Malattia di Alzheimer: screening e diagnosi nelle fasi iniziali della malattia

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma MORBO ALZHEIMER SCREENING DIAGNOSI INIZI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgDiversi test di screening neuropsicologico vengono utilizzati per la diagnostica nei casi di Alzheimer. I test valutano diverse funzioni e competenze cognitive, come il saper copiare disegni simili a quelli mostrati nella foto, ricordare parole, leggere e sottrarre numeri in serie. Test neuropsicologici come il Mini Mental State Examination (MMSE), sono ampiamente utilizzati per valutare i disturbi cognitivi che vengono considerati per la formulazione della diagnosi. Una batteria di test più completa è necessaria per garantire la massima affidabilità dei risultati, in particolare nelle prime fasi della malattia. L’esame neurologico nelle prime fasi della malattia solitamente presenta risultati normali, fatta eccezione per evidenti deficit cognitivi che non differiscono però da quello derivanti da altre malattie di tipo demenziale.
Ulteriori esami neurologici sono cruciali nella diagnosi differenziale di Alzheimer dalle altre malattie. Colloqui con gli altri membri della famiglia sono inoltre utilizzate nella valutazione funzionale della malattia. I caregiver possono, infatti, fornire importanti informazioni sulla capacità di vita quotidiana, così come la diminuzione, nel tempo, della funzione mentale della persona. Il punto di vista di chi assiste il malato è particolarmente importante, dato che una persona con Alzheimer è spesso inconsapevole del suo deficit. A volte le famiglie hanno difficoltà nella rilevazione esatta dei primi sintomi di demenza nelle sue fasi iniziali, e per questo non riescono sempre a comunicare informazioni accurate al medico.
Un altro indicatore oggettivo delle prime fasi della malattia è l’analisi del liquido cerebrospinale per la ricerca di beta-amiloide o di proteine tau. La ricerca di queste proteine è in grado di prevedere l’insorgenza della malattia di Alzheimer con una sensibilità compresa tra il 94% e il 100%. Quando è utilizzata in combinazione con le tecniche di neuroimaging esistenti, i medici sono grado di identificare i pazienti che stanno già sviluppando la malattia.  Gli esami del liquido cerebrospinale sono disponibili più facilmente, a differenza delle tecnologie di neuroimaging più moderne.
Altri test clinici supplementari forniscono informazioni aggiuntive su alcune caratteristiche della malattia, o vengono utilizzati per escludere altre diagnosi. È comune eseguire test di funzionalità tiroidea, valutare i livelli di vitamina B12, escludere la sifilide, escludere problemi metabolici (tra cui test per la funzione renale, i livelli di elettroliti e per il diabete), valutare i livelli di metalli pesanti (ad esempio il piombo e il mercurio) e l’anemia. È anche necessario escludere la presenza di sintomatologia psichiatrica, come deliri, disturbi dell’umore, disturbi del pensiero di natura psichiatrica, o pseudodemenze depressive. In particolare vengono utilizzati test psicologici per la rilevazione della depressione, dal momento che la depressione può essere concomitante con l’Alzheimer, essere un segno precoce di deficit cognitivo, o esserne addirittura la causa.

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Imaging diagnostico

La Tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) e la Tomografia a emissione di positroni (PET), possono essere utilizzati per la conferma di una diagnosi di Alzheimer in associazione con le valutazioni dello stato mentale. In una persona già affetta da demenza, la SPECT sembra essere superiore nel differenziare la malattia di Alzheimer da altre possibili cause, rispetto all’analisi della storia familiare e all’osservazione del paziente. I progressi hanno portato alla proposta di nuovi criteri diagnostici di imaging biomedico.
Una nuova tecnica nota come PiB-PET è stata sviluppata per visualizzare direttamente e chiaramente immagini di depositi di beta-amiloide in vivo, utilizzando un radiotracciante che si lega selettivamente ai depositi A-beta.
La PiB-PET utilizza il carbonio-11 per la scansione PET. Studi recenti suggeriscono che la PiB-PET è precisa all’86% nel predire quali persone, già affette da decadimento cognitivo lieve, svilupperanno la malattia di Alzheimer entro due anni, e al 92% in grado di escludere la probabilità di sviluppare il malattia di Alzheimer.
Un radiofarmaco per PET chiamato (E)-4-(2-(6-(2-(2-(2-([18F]-fluoroethoxy) ethoxy) ethoxy) pyridin-3-yl) vinyl)-N-methyl benzenamine, o 18F AV-45, o florbetapir-fluorine-18, o semplicemente florbetapir, contenente il più duraturo radionuclide fluoro-18, è stato recentemente realizzato e testato come possibile supporto diagnostico nella malattia di Alzheimer. Il florbetapir, come il PiB, si lega alla beta-amiloide, ma grazie all’uso del fluoro-18 ha un’emivita di 110 minuti, in rapporto al tempo di dimezzamento radioattivo PiB che è di 20 minuti. La maggior durata permette di accumulare maggior tracciante nel cervello di persone con malattia di Alzheimer, in particolare nelle regioni note per essere associate a depositi di beta-amiloide.
La risonanza magnetica volumetrica è in grado di rilevare cambiamenti nella dimensione delle regioni del cervello. L’atrofia di queste regioni si sta mostrando come un indicatore diagnostico della malattia. Essa può risultare meno costosa di altre tecniche di imaging attualmente in fase di studio.

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Intervento psicosociale e cognitivo nel paziente con malattia di Alzheimer

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma MORBO ALZHEIMER PSICOSOCIALE COGNITIVO Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgNel paziente con malattia di Alzheimer, oltre al trattamento farmacologico, esistono interventi comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo che possono aiutare il soggetto. Tali misure sono solitamente integrate in maniera complementare con il trattamento farmacologico, e hanno dimostrato una loro efficacia positiva nella gestione clinica complessiva del paziente.

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I training cognitivi (di diverse tipologie, e con diversi obbiettivi funzionali: Reality-Orientation Therapy, Validation Therapy, Reminiscence Therapy, i vari programmi di stimolazione cognitiva – Cognitive Stimulation Therapy, ecc.), hanno dimostrato risultati positivi sia nella stimolazione e rinforzo delle capacità neurocognitive, sia nel miglioramento dell’esecuzione dei compiti di vita quotidiana. I diversi tipi di intervento si possono rivolgere prevalentemente alla sfera cognitiva (ad esempio Cognitive Stimulation Therapy), comportamentale (Gentlecare, programmi di attività motoria), sociale ed emotivo-motivazionale (ad esempio Reminiscence Therapy, Validation Therapy, etc.).
La Reality-Orientation Therapy, focalizzata su attività formali e informali di orientamento spaziale, temporale e sull’identità personale, ha dimostrato in diversi studi clinici di poter facilitare la riduzione del disorientamento soggettivo e contribuire a rallentare il declino cognitivo, soprattutto se effettuata con regolarità nelle fasi iniziali e intermedie della patologia. La maggior parte dei trattamenti sono in ambiente Snoezelen (Stimolazione Multisensoriale)
I vari programmi di stimolazione cognitiva (Cognitive Stimulation), sia eseguiti a livello individuale (eseguibili anche presso il domicilio dai caregiver, opportunamente formati), sia in sessioni di gruppo, possono rivestire una significativa utilità nel rallentamento dei sintomi cognitivi della malattia e, a livello di economia sanitaria, presentano un ottimo rapporto tra costi e benefici. La stimolazione cognitiva, oltre a rinforzare direttamente le competenze cognitive di tipo mnestico, attentivo e di pianificazione, facilita anche lo sviluppo di “strategie di compensazione” per i processi cognitivi lesi, e sostiene indirettamente la “riserva cognitiva” dell’individuo.
La Reminiscence Therapy (fondata sul recupero e la socializzazione di ricordi di vita personale positivi, con l’assistenza di personale qualificato e materiali audiovisivi), ha dimostrato risultati interessanti sul miglioramento dell’umore, dell’autostima e delle competenze cognitive, anche se ulteriori ricerche sono ritenute necessarie per una sua completa validazione.
Forme specifiche di musicoterapia e arteterapia, attuate da personale qualificato, possono essere utilizzate per sostenere il tono dell’umore e forme di socializzazione nelle fasi intermedio-avanzate della patologia, basandosi su canali di comunicazione non verbali.
Positivo sembra essere anche l’effetto di una moderata attività fisica e motoria, soprattutto nelle fasi intermedie della malattia, sul tono dell’umore, sul benessere fisico e sulla regolarizzazione dei disturbi comportamentali, del sonno e alimentari.

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Alcuni articoli apparsi in “The Lancet Neurology” sottolineano che acido folico e vitamina B12 possono avere un ruolo nella prevenzione dei disturbi del sistema nervoso centrale, nei disturbi dell’umore, incluso il morvo di Alzheimer e la demenza vascolare. Fondamentale è inoltre la preparazione e il supporto, informativo e psicologico, rivolto ai “caregiver” (parenti e personale assistenziale) del paziente, che sono sottoposti a stress fisici ed emotivi significativi, in particolare con l’evoluzione della malattia.
Una chiara informazione ai famigliari, una buona alleanza di lavoro con il personale sanitario, e la partecipazione a forme di supporto psicologico diretto (spesso tramite specifici gruppi di auto-mutuo-aiuto tra pari), oltre all’eventuale coinvolgimento in associazioni di famigliari, rappresentano essenziali forme di sostegno per l’attività di cura. Sempre nello stesso senso appare di particolare utilità, solitamente a partire dalle fasi intermedie della patologia, l’inserimento del paziente per alcune ore al giorno nei Centri Diurni, presenti in molte città (attività che può portare benefici sia per la stimolazione cognitiva e sociale diretta del paziente, sia per il supporto sociale indiretto ai caregiver).
La cura dell’Alzheimer è però ai primi passi: al momento non esistono ancora farmaci o interventi psicosociali che guariscano o blocchino la malattia. Si può migliorare la qualità della vita dei pazienti malati, e provare a rallentarne il decorso nelle fasi iniziali e intermedie.

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Malattia di Alzheimer: cura farmacologica

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma MORBO ALZHEIMER FARMACI CURA FARMACOLOGI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgAnche se al momento non esiste una cura efficace, sono state proposte diverse strategie terapeutiche per tentare di influenzare clinicamente il decorso della malattia di Alzheimer; tali strategie puntano a modulare farmacologicamente alcuni dei meccanismi patologici che ne stanno alla base.

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Intervento farmacologico

In primo luogo, basandosi sul fatto che nell’Alzheimer si ha diminuzione dei livelli di acetilcolina, un’ipotesi terapeutica è stata quella di provare a ripristinarne i livelli fisiologici. L’acetilcolina pura non può però essere usata, in quanto troppo instabile e con un effetto limitato. Gli agonisti colinergici invece avrebbero effetti sistemici e produrrebbero troppi effetti collaterali, e non sono quindi utilizzabili. Si possono invece usare gli inibitori della colinesterasi, l’enzima che catabolizza l’acetilcolina: inibendo tale enzima, si aumenta la quantità di acetilcolina presente nello spazio intersinaptico.
Sono a disposizione farmaci inibitori reversibili dell’acetilcolinesterasi, che hanno una bassa affinità per l’enzima presente in periferia, e che sono sufficientemente lipofili da superare la barriera emato-encefalica (BEE), e agire quindi di preferenza sul sistema nervoso centrale. Tra questi, la tacrina, il donepezil, la fisostigmina, la galantamina e la neostigmina sono stati i capostipiti, ma l’interesse farmacologico è attualmente maggiormente concentrato su rivastigmina e galantamina, il primo perché privo di importanti interazioni farmacologiche, il secondo poiché molto biodisponibile e con emivita di sole sette ore, tale da non causare facilmente effetti collaterali.
Un’altra e più recente linea d’azione prevede il ricorso a farmaci che agiscano direttamente sul sistema glutamatergico, come la memantina. La memantina ha dimostrato un’attività terapeutica, moderata ma positiva, nella parziale riduzione del deterioramento cognitivo in pazienti con Alzheimer da moderato a grave.
La tacrina non è più utilizzata perché epatotossica, mentre il donepezil, inibitore non competitivo dell’acetilcolinesterasi, sembrerebbe più efficace perché, con una emivita di circa 70 ore, permette una sola somministrazione al giorno (al contrario della galantamina, che ha una emivita di sole 7 ore). Ovviamente, però, il donepezil è più soggetto a manifestare effetti collaterali dovuti a un aumento del tono colinergico (come insonnia, aritmie, bradicardia, nausea, diarrea). Di contro, la galantamina e la rivastigmina possono causare gli stessi effetti, ma in misura molto minore.

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Altre ipotesi di approccio farmacoterapico

Oltre alle molecole e strategie di intervento già delineate, sono state variamente proposte altre ipotesi di intervento farmacologico, con evidenze cliniche di efficacia però insufficienti o non confermate.
Tra esse, un’altra ipotesi complementare di approccio alla patologia è legata alla proposta d’uso di FANS (anti-infiammatori non steroidei). Come detto, nell’Alzheimer è presente una dinamica infiammatoria che danneggia i neuroni. L’uso di antinfiammatori è stato quindi ipotizzato che potrebbe migliorare la condizione clinica dei pazienti. Si è anche notato che le donne in cura post-menopausale con farmaci estrogeni presentano una minor incidenza della patologia (infatti gli estrogeni bloccano la morte neuronale indotta dalla proteina beta-amiloide). Alcuni ricercatori avrebbero messo in evidenza anche la potenziale azione protettiva della vitamina E (alfa-tocoferolo), che sembrerebbe prevenire la perossidazione lipidica delle membrane neuronali causata dal processo infiammatorio; ma ricerche più recenti non hanno confermato l’utilità della vitamina E (né della vitamina C) nella prevenzione primaria e secondaria della patologia , sottolineando anzi i potenziali rischi sanitari legati all’eccessiva e prolungata assunzione di vitamina E.
Sul processo neurodegenerativo può intervenire anche l’eccitotossicità, ossia un’eccessiva liberazione di acidi glutammico e aspartico, entrambi neurotrasmettitori eccitatori, che inducono un aumento del calcio libero intracellulare, il quale è citotossico. Si è quindi ipotizzato di usare farmaci antagonisti del glutammato e dell’aspartato (come, ad esempio, inibitori dei recettori NMDA), ma anche questi ultimi presentano notevoli effetti collaterali.
Sono presenti in commercio farmaci definiti Nootropi (“stimolanti del pensiero”), come il Piracetam e l’Aniracetam: questi farmaci aumentano il rilascio di Acido glutammico; anche se questo parrebbe in netta contrapposizione a quanto detto sopra, si deve tenere presente che comunque tale neurotrasmettitore è direttamente implicato nei processi di memorizzazione e di apprendimento. Aumentandone la quantità, è stato ipotizzato di poter contribuire a migliorare i processi cognitivi. Anche in questo caso, l’evidenza clinica di efficacia è scarsa.
Ultimo approccio ipotizzato è l’uso di Pentossifillina e Diidroergotossina (sembra che tali farmaci migliorino il flusso ematico cerebrale, permettendo così una migliore ossigenazione cerebrale, e un conseguente miglioramento delle performance neuronali). Sempre per lo stesso scopo è stato proposto l’uso del ginkgo biloba, ma l’evidenza scientifica a supporto di questa tesi è negativa.

Interventi psicosociali

Oltre alla terapia farmacologica, per contrastare l’evolversi della malattia di Alzheimer, è opportuno integrare interventi psicosociali, cognitivi e comportamentali, che hanno dimostrato effetti positivi, sinergicamente all’uso dei presidi farmacologici, nel rallentamento dell’evoluzione dei sintomi e nella qualità della vita dei pazienti e dei caregiver. Per approfondire: Intervento psicosociale e cognitivo nel paziente con malattia di Alzheimer

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

Malattia di Alzheimer: le cause della malattia

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma MORBO ALZHEIMER FARMACI CAUSE MALATTIA Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgLa causa per la maggior parte dei casi di Alzheimer è ancora in gran parte sconosciuta, ad eccezione che per casi dall’1% al 5% in cui sono state individuate le differenze genetiche esistenti.

Diverse ipotesi cercano di spiegare la causa della malattia, che prendono in considerazione genetica, placche amiloidi e proteina Tau.

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Genetica

L’ereditabilità genetica della malattia di Alzheimer, sulla base di studi sui gemelli e familiari, comprendono dal 49% al 79% dei casi. Circa il 0,1% dei casi sono forme familiari autosomiche (non legati ai cromosomi sessuali) con ereditarietà dominante, che hanno un esordio prima dei 65 anni. Questa forma della malattia è conosciuta come Alzheimer giovanile. La maggior parte di questi casi, trasmissibili come caratteri mendeliani autosomici dominanti. possono essere attribuiti a mutazioni in uno dei tre geni: gene codificante il precursore dell’amiloide (APP 1) i geni codificanti per le Preseniline 1 (PS1) e 2(PS2). La maggior parte delle mutazioni nei geni APP e PS 1 e 2 aumentano la produzione di una piccola proteina chiamata Aβ42, che è la componente principale delle placche amiloidi senili. Alcune delle mutazioni alterano il rapporto tra Aβ42 e le altre principali forme come Aβ40 (non patologica) senza aumentare i livelli di Aβ42. Ciò suggerisce che le mutazioni della presenilina possono causare malattie anche se è inferiore la quantità totale di Aβ prodotto. Esistono varianti del gene APP che sono protettive.
La maggior parte dei casi di malattia di Alzheimer non presenta ereditarietà autosomica dominante e viene denominata AD sporadica, in cui le differenze ambientali e genetiche possono agire come fattori di rischio. Il fattore di rischio genetico più noto è l’eredità del allele ε4 della Apolipoproteina E (APO-E). Tra il 40 e il 80% delle persone con la malattia sono in possesso di almeno un allele APOEε4. L’allele APOEε4 aumenta il rischio della malattia di tre volte negli eterozigoti e di 15 volte negli omozigoti. Come molte malattie umane, effetti ambientali e modificatori genetici provocano penetranza incompleta. Ad esempio, alcune popolazioni della Nigeria non mostrano la relazione tra dose di APOEε4 e incidenza o età di insorgenza della malattia di Alzheimer, osservabile in altre popolazioni umane. Nei primi tentativi di screening, sono stati riconosciuti circa 400 geni associabili a AD sporadica con insorgenza tardiva (LOAD); ciò ha determinato una bassa resa dello screening. Più recenti studi di associazione sull’intero genoma (GWAS) hanno trovato 19 aree in geni che sembrano associate al rischio. Questi geni sono: CASS4, CELF1, FERMT2, HLA-DRB5, INPP5D, MEF2C, NME8, PTK2B, SORL1, ZCWPW1, SlC24A4, CLU, PICALM, CR1, BIN1, MS4A, ABCA7, EPHA1, CD2AP.
Mutazioni nel gene TREM2 sono state associate ad un rischio da 3 a 5 volte più elevato di sviluppare la malattia di Alzheimer..Si pensa che quando TREM2 è mutato ,i globuli bianchi nel cervello non sono più in grado di controllare la quantità di beta amiloide presenti.

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Placche amiloidi

La malattia è dovuta a una diffusa distruzione di neuroni, principalmente attribuita alla beta-amiloide, una proteina che, depositandosi tra i neuroni, agisce come una sorta di collante, inglobando placche e grovigli “neurofibrillari”. La malattia è accompagnata da una forte diminuzione di acetilcolina nel cervello (si tratta di un neurotrasmettitore, ovvero di una molecola fondamentale per la comunicazione tra neuroni, e dunque per la memoria e ogni altra facoltà intellettiva). La conseguenza di queste modificazioni cerebrali è l’impossibilità per il neurone di trasmettere gli impulsi nervosi e quindi la morte dello stesso, con conseguente atrofia progressiva del cervello nel suo complesso. A livello neurologico macroscopico, la malattia è caratterizzata da una diminuzione nel peso e nel volume del cervello, dovuta ad atrofia corticale, visibile anche in un allargamento dei solchi e corrispondente appiattimento delle circonvoluzioni. A livello microscopico e cellulare, sono riscontrabili depauperamento neuronale, placche senili (dette anche placche amiloidi), ammassi neurofibrillari, angiopatia congofila (amiloidea). Dall’analisi post-mortem di tessuti cerebrali di pazienti affetti da Alzheimer (solo in tale momento si può confermare la diagnosi clinica da un punto di vista anatomo-patologico), si è potuto riscontrare un accumulo extracellulare di una proteina, chiamata Beta-amiloide. La APP (Amyloid precursor protein, Proteina Progenitrice dell’Amiloide) che viene prodotta è degradata durante il processo di trasporto sulla superficie cellulare (processo di degradazione della APP) e vede coinvolti tre enzimi che operano tagli proteolitici: la α-secretasi e la β-secretasi in un primo momento e successivamente la γ-secretasi. Attraverso due tagli successivi operati prima dall’α-secretasi e poi dall’γ-secretasi, viene prodotto un peptide innocuo chiamato p3. La β-secretasi opera un taglio differente che, in seguito al successivo taglio da parte della γ-secretasi, porta alla produzione (pathway amiloidogenico) di due peptidi di 40 e 42 amminoacidi, chiamati beta-amiloide (Aβ40 e Aβ42): il secondo (Aβ42) è considerato il più tossico a livello neuronale. Nei soggetti sani il processo di degradazione della APP sembra essere operato principalmente dalla α-secretasi. Per motivi non totalmente chiariti, nei soggetti malati l’enzima che interviene sull’APP non è l’α-secretasi ma la β-secretasi, con una larga produzione di proteina beta-amiloide. Tale β-amiloide non presenta le caratteristiche biologiche della forma naturale, ma ha addirittura un effetto tossico sul neurone; ciò è già di per sé un aspetto atipico per una patologia amiloide, nelle quali generalmente il danno è mediato da aspetti citolesivi, compressivi e trofici dati dal deposito fibrillare stesso (il frammento amiloide è generalmente inerte da un punto di vista funzionale fisiopatologico). Alla morte del neurone (dovuta, nelle prime fasi, all’effetto tossico sopracitato) i frammenti amiloidi vengono liberati nello spazio extracellulare tendendo a depositarsi in aggregati fibrillari insolubili via via sempre più grandi, andando a formare le cosiddette placche amiloidi, rilevabili all’esame istologico. Tali placche neuronali innescano un processo reattivo infiammatorio mediato da astrociti e microglia, attivando una risposta immunitaria richiamando macrofagi e neutrofili, i quali produrranno citochine, interleuchine e TNF-α che danneggiano irreversibilmente i neuroni.

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Proteina Tau

Ulteriori studi mettono in evidenza che nei malati di Alzheimer interviene un ulteriore meccanismo patologico: all’interno dei neuroni una Proteina Tau, fosforilata in maniera anomala, si accumula nei cosiddetti “aggregati neurofibrillari” (o ammassi neurofibrillari). Particolarmente colpiti da questo processo patologico sono i neuroni colinergici, specialmente quelli delle aree corticali, sottocorticali e, tra queste ultime, le aree ippocampali. In particolare, l’ippocampo è una struttura encefalica che svolge un ruolo fondamentale nell’apprendimento e nei processi di memorizzazione; perciò la distruzione dei neuroni di queste zone è ritenuta essere la causa principale della perdita di memoria dei malati. Ipotesi più recenti sulle cause emergono da alcuni studi pubblicati nel 2014, dove si evidenzia l’associazione dell’insorgenza precoce della malattia con la presenza di rame non ceruloplasminico nel sangue.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Malattia di Alzheimer: sintomi delle fasi iniziali e tardive

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma MORBO ALZHEIMER SINTOMI FASI INIZIALI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgIl decorso della malattia di Alzheimer è diviso in quattro fasi, contraddistinte da sintomi diversi:

  1. pre demenza;
  2. fase iniziale;
  3. fase intermedia;
  4. fase finale.

Pre-demenza

I primi sintomi sono spesso erroneamente attribuiti all’invecchiamento o stress. I test neuropsicologici dettagliati possono rivelare difficoltà cognitive lievi fino a otto anni prima che una persona soddisfi i criteri clinici per la diagnosi. I primi sintomi possono influenzare molte attività di vita quotidiana. Uno dei sintomi più evidenti è la difficoltà a ricordare i fatti appresi di recente e l’incapacità di acquisire nuove informazioni. Piccoli problemi d’attenzione, di pianificare azioni, di pensiero astratto, o problemi con la memoria semantica (memoria che collega la parola al suo significato) possono essere sintomatici delle prime fasi dell’Alzheimer. L’apatia, che si osserva in questa fase, è il sintomo neuropsichiatrico più persistente che permane per tutto il decorso della malattia. I sintomi depressivi, irritabilità e la scarsa consapevolezza delle difficoltà di memoria sono molto comuni. La fase preclinica della malattia è stata chiamata “mild cognitive impairment” (MCI). Quest’ultima si trova spesso ad essere una fase di transizione tra l’invecchiamento normale e la demenza. MCI può presentarsi con una varietà di sintomi, e quando la perdita di memoria è il sintomo predominante è chiamato “MCI amnesico” ed è spesso visto come una fase prodromica della malattia di Alzheimer.

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Fase iniziale

La diminuzione della capacità di coordinazione muscolari di piccoli movimenti, come la tessitura, cominciano ad apparire nel paziente Alzheimer nelle fasi iniziali della malattia. Nelle persone con AD la crescente compromissione di apprendimento e di memoria alla fine porta ad una diagnosi definitiva. In una piccola percentuale, difficoltà nel linguaggio, nell’eseguire azioni, nella percezione (agnosia), o nell’esecuzione di movimenti complessi (aprassia) sono più evidenti dei problemi di memoria. L’AD non colpisce allo stesso modo tutti i tipi di memoria. Vecchi ricordi della vita personale (memoria episodica), le nozioni apprese (memoria semantica), e la memoria implicita (la memoria del corpo su come fare le cose, come l’utilizzo di una forchetta per mangiare) sono colpiti in misura minore rispetto a nozioni imparate di recente. I problemi linguistici sono caratterizzati principalmente da un impoverimento nel vocabolario e una diminuzione nella scioltezza, che portano ad un depauperamento generale del linguaggio orale e scritto. In questa fase, la persona con la malattia di Alzheimer è di solito in grado di comunicare adeguatamente idee di base.. Può essere presente una certa difficoltà d’esecuzione in attività come la scrittura, il disegno o vestirsi, coordinazione dei movimenti e difficoltà di pianificare movimenti complessi (aprassia) può essere presente, ma sono comunemente inosservati. Con il progredire della malattia, le persone con AD spesso possono continuare a svolgere molti compiti in modo indipendente, ma potrebbero avere bisogno di assistenza o di controllo per le attività più impegnative cognitivamente.

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Fase intermedia

Il progredire dell’AD ostacola l’indipendenza nei soggetti i quali lentamente non sono più in grado di svolgere le attività quotidiane. Le difficoltà linguistiche diventano evidenti per via dell’afasia, che porta frequentemente a sostituire parole con altre errate nel contesto (parafasie). La lettura e la scrittura vengono lentamente abbandonate. Le sequenze motorie complesse diventano meno coordinate con il passare del tempo e aumenta il rischio di cadute. In questa fase, i problemi di memoria peggiorano, e la persona può non riconoscere i parenti stretti. La memoria a lungo termine, che in precedenza era intatta, diventa compromessa. I cambiamenti comportamentali e neuropsichiatrici diventano più evidenti. Si può passare rapidamente dall’irritabilità al pianto; non sono rari impeti di rabbia o resistenza al “caregiving”. I soggetti perdono anche la consapevolezza della propria malattia e i limiti che essa comporta (anosognosia). Si può sviluppare incontinenza urinaria.

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Fase finale

Durante le fasi finali, il paziente è completamente dipendente dal “caregiver”. Il linguaggio è ridotto a semplici frasi o parole, anche singole, portando infine alla completa perdita della parola. Nonostante la perdita delle abilità linguistiche verbali, alcune persone spesso possono ancora comprendere e restituire segnali emotivi. Anche se l’aggressività può ancora essere presente, l’apatia e la stanchezza sono i sintomi più comuni. Le persone con malattia di Alzheimer alla fine non saranno in grado di eseguire anche i compiti più semplici in modo indipendente; la massa muscolare e la mobilità si deteriorano al punto in cui sono costretti a letto e incapaci di nutrirsi. La causa della morte è di solito un fattore esterno, come un’infezione, spesso una polmonite.

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