Con “vetrinizzazione sociale” in psicologia si intende un fenomeno sociale caratterizzato dalla spettacolarizzazione di sé stessi, della propria vita e di tutto ciò che è ad essa relativo. Il fenomeno è stato particolarmente enfatizzato dai primi anni del 2000 in poi dalla progressiva diffusione di piattaforme di streaming/live streaming e social network come Facebook, Instagram, YouTube, Twitch e Tik Tok, tuttavia è nato nel Settecento con la comparsa del concetto di “vetrina di negozio“. Il maggior studioso della vetrinizzazione sociale è considerato il sociologo italiano Vanni Codeluppi.
Dalla “vetrina di negozio” alla vetrinizzazione della società
Nel corso del Settecento le botteghe iniziarono ad avvalersi delle vetrine per mettere in mostra i prodotti che venivano precedentemente tenuti nei retrobottega e portati fuori dal venditore per essere mostrati ai clienti. La vetrina diventò quindi una forma di “pubblicità” che metteva in mostra i prodotti migliori e/o più convenienti ed attirava l’attenzione dei passanti, spingendoli ad entrare nel negozio e quindi ad acquistare. Le tecniche di produzione via via migliori permisero alle vetrine di essere sempre più ampie, luminose, trasparenti e quindi efficaci nel mostrare la merce ai passanti potenziali clienti e migliorare gli affari. Non a caso ancora oggi una regola fondamentale delle vetrine dei negozi è quella di essere tenute sempre ben pulite e senza macchie, in modo che l’oggetto posto in vetrina possa essere osservato facilmente e valorizzato. Non solo, l’oggetto in vetrina era (ed è ancora oggi) posto con determinate angolature e sotto specifici giochi di luce mutuati dall’illuminazione teatrale, in modo da essere valorizzato il più possibile: questa spettacolarizzazione si è estesa a luoghi di consumo sempre più grandi e di tutte le tipologie finché, negli ultimi decenni, si è esteso alle persone stesse.
Gli individui, grazie ai social network, alle possibilità di effettuare foto e manipolarle con app e di poterci addirittura guadagnare su, sono diventati essi stessi l’oggetto in vetrina, da esporre con determinate angolature e giochi di luce in modo da attrarre più “follower” possibile. La vetrina non è più quella del negozio, ma quella degli schermi dei nostri computer, tablet e smartphone. La gratificazione sociale, grazie a questa voluta sovraesposizione e spettacolarizzazione di ogni propria – anche banale – singola azione, è talmente fonte di dopamina (il neurotrasmettitore legato al piacere), da determinare vere e proprie dipendenze comportamentali come dipendenza da smartphone, dipendenza da notifiche, dipendenza da internet, dipendenza da social network… Gli individui rinunciano spesso alla privacy della propria sfera privata rendendola pubblica, alla ricerca di un modo per creare interesse verso sé stessi, non rinunciando neanche a mostrarsi agli occhi degli altri come grotteschi fenomeni da baraccone, disposti perfino a mostrare colonscopie in diretta, foto di neonati o a mettere a rischio la propria vita pur di avere i propri 15 minuti di celebrità.
L’essere umano schiavo della “gratificazione da social” è doppiamente oggetto: sia perché si pone da solo per vanità e/o guadagno come qualcosa da vendere agli occhi di masse sempre più ampie, ma anche perché – vista dall’ottica del proprietario di un social network – diventa un oggetto da sfruttare il più possibile, accingendo da esso quante più informazioni private, come orientamento sessuale, politico o religioso, come gusti in fatto di cibi, sport, vestiario, come geolocalizzazione e come tipo di interazione sociale. Tutto il processo è un feedback positivo: più è elevata la volontà di un individuo di mostrarsi al pubblico, più generalmente sarà la quantità di privacy che sarà disposto a barattare per ottenerla, più sarà la quantità di informazioni che il social otterrà da lui, più il social tenderà a mostrarlo nelle bacheche degli utenti, più egli sarà portato a mettere sul piatto tutta la sua vita, ecografie dei propri figli incluse. Gli algoritmi di Facebook lo capiscono benissimo se sei in cerca di visibilità o sei un tipo più riservato e ti danno quello che cerchi, al modico prezzo di qualsiasi informazione su di te.
Le grandi imprese del web passano le informazioni che l’utente stesso gli regala in cambio della speranza di notorietà, agli uffici di marketing ed agli inserzionisti pubblicitari che successivamente le riusano per catturare l’attenzione dell’utente, proponendogli pubblicità mirate ai suoi interessi e bisogni. Per esempio i cookies permettono di controllare i comportamenti degli individui sul web e creare banche dati contenenti le registrazioni dei comportamenti e dei gusti delle famiglie.
Il nostro essere è in vetrina e i clienti sono non solo “gli altri”, ma anche e soprattutto chi tiene in mano le catene che ci bloccano nella vetrina stessa.
Social network come megafono della vetrinizzazione sociale
I social network sono stati e continuano ad essere un enorme esca che imprigiona l’individuo nella perenne vetrinizzazione della propria vita, tuttavia hanno solo enfatizzato e velocizzato un fenomeno umano che era già presente prima del loro avvento. Già alla fine dell’Ottocento alcuni sociologi come Georg Simmel avevano evidenziato alcune conseguenze della sovraesposizione sociale dell’individuo causate dall’avvento delle metropoli. Nel suo libro La metropoli e la vita dello spirito, del 1903, Simmel mise a confronto gli individui che vivono in grandi città rispetto a quelli residenti in piccole comunità, notando come gli abitanti delle metropoli fossero sovrastimolati e come questo li portasse ad assumere un atteggiamento più spettacolarizzato e vetrinizzato. A partire dalla fine del Novecento e soprattutto con l’avvento del nuovo millennio, questa differenza è notevolmente diminuita con l’arrivo dei social network: tale tecnologia ha permesso anche a chi vive in zone isolate di rimanere connesso con il resto del mondo, col risultato che la sovraesposizione sociale – che prima colpiva soprattutto i cittadini metropolitani – colpisce quasi tutta la società industrializzata odierna.
I social network favoriscono il processo di vetrinizzazione dell’individuo e si basano su di esso, indebolendo il confine tra reale e virtuale; questa ipercomunicazione, che ha come peculiarità il rendere le persone continuamente esposte e senza un luogo in cui isolarsi, porta gli individui verso una condizione di fastidio ed insicurezza: come un animale che cade in una trappola in cui esso stesso si sia inconsapevolmente infilato. Se da una parte l’individuo avverte questa condizione di insicurezza, dall’altra sente anche una certa rassicurazione pensando che essere costantemente spiato e controllato significa che qualcuno prova interesse per ciò che lui è e fa: è da qui che parte la corsa verso la continua ricerca del consenso e dell’approvazione altrui. Il fastidio di non avere più un io privato, è ampiamente ripagato dai continui like che riceve l’io pubblico. Questa ricerca può essere identificata nella pratica comunicativa del selfbranding in cui l’individuo mostra le sue capacità e i suoi successi al fine di crearsi un’immagine o un brand unico associato alla sua persona, che diventa quella che io chiamo “azienda biologica”: questa pratica viene spesso utilizzata dagli influencer, categoria sempre più diffusa, soprattutto a causa della (in parte errata) percezione che basti mostrarsi il più possibile per guadagnare milioni di euro, anche senza non saper far nulla di particolare.
In tutto questo non stiamo ancora considerando due importanti effetti collaterali: il primo è che, se l’io pubblico non riceve abbastanza “like” (e da un certo punto in poi i like non sono mai abbastanza per un individuo, come i soldi), possono verificarsi fenomeni di ansia e depressione. Il secondo è che l’io pubblico a volte è talmente modificato, distorto, edulcorato, ridondantizzato e”photoshoppato”, da distanziarsi così tanto dall’io reale da creare parimenti ansia e depressione.
Il corpo-packaging
Nel Seicento ci fu una progressiva diffusione degli specchi nelle case benestanti che portò ad una maggiore attenzione all’aspetto fisico e ai modi per valorizzarlo; questa attenzione è cresciuta sempre più finché, negli ultimi anni, il corpo è andato a integrarsi con la cultura del consumo. Vanni Codeluppi utilizza il termine “corpo-packaging” per riferirsi ad un corpo che segue la tecnica di comunicazione del packaging e quindi che mira ad attrarre l’attenzione su sé stesso rispetto a tutti gli altri soggetti esposti. Il corpo è quindi il mezzo per definire una propria identità sociale; questo porta a mettere in secondo piano le qualità personali dell’individuo, la cui personalità viene identificata attraverso le scelte dei beni di mercato che compie per sé stesso: per questo è una personalità in continua evoluzione e strettamente legata ai cambiamenti delle tendenze. Per questo motivo il corpo viene definito anche come “corpo flusso“, cioè privo di un’identità fissa ma al contrario fluida e mutevole in base al cambiare delle circostanze, delle mode e – soprattutto – di quello che i follower richiedono. Attraverso l’apparenza ed il proprio corpo, l’individuo allude ad un qualcosa che sta al di là dell’apparenza stessa, qualcosa da scoprire oltre la soglia del visibile. Mostra quindi alla società molteplici immagini dell’io che è in continuo cambiamento come in una sala degli specchi in cui il riflesso di sé stessi si moltiplica, si divide e muta.
Dall’essere al sembrare
L’individuo spesso usa come mezzo per vetrinizzarsi e mettersi in luce gli status symbol, cioè oggetti come orologi, vestiti, gioielli, occhiali, automobili di lusso ed altri beni noti per il loro valore economico che, ostentati in società, comunicano una certa posizione sociale. Thorstein Veblen ha definito questo fenomeno consumo vistoso. Altri mezzi che possono essere utilizzati dall’individuo per lo stesso scopo possono essere tatuaggi, piercing, una particolare manicure, le acconciature stravaganti dei capelli, le lenti a contatto colorate e molto altro. Soprattutto tra le donne “vetrinizzate”, l’abbigliamento è uno strumento importantissimo per valorizzare la propria identità personale: l’abito viene usato dagli individui come maschera; cosa che, secondo Georg Simmel, è necessaria per sopravvivere alla società e alla vita urbana. Tipicamente gli individui vetrinizzati usano mostrarsi anche in posti esotici, dove l’andare in vacanza è molto costoso: qualcosa da vivere in maniera personale e spensierata, diventa così un “banale” status symbol che deve racimolare un certo numero di like, per evitare che l’investimento di tempo, di jet lag e di denaro sia un fallimento. Che poi ormai è così facile farsi un selfie in costume sulla spiaggia di Ostia e modificare lo sfondo, inserendo un paesaggio delle Maldive… Il dominio economico sulla vita sociale, che precedentemente aveva già portato alla degradazione dell’essere in avere, conduce adesso al passaggio dell’avere nell’apparire. Si, perché non è più importante essere ricchi, ma apparire ricchi. Non è più importante essere belli, ma apparire belli. Tutto questo rilievo dato al corpo in sé, combinato con la pressione dei modelli di bellezza imposti dalla società, porta l’individuo non solo alla cultura del possedere beni non per diletto, ma per piacere agli altri, ma porta anche ad un’ossessione per la cura del proprio aspetto fisico e ad una incessante ricerca del migliorarsi sul piano estetico, anche a costo di sottoporsi ad operazioni estetiche perfino in alcuni casi mortali (come tanti casi di cronaca dimostrano). Questa ricerca ha contribuito alla diffusione della sindrome da dismorfismo corporeo (dismorfofobia).
Continua la lettura con: Vetrinizzazione sociale: città come vetrina, Disneyzation, reality show e morte vetrinizzata
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine
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