Il senso del territorio (spiegato in QUESTO ARTICOLO), secondo gli etologi, è soltanto una delle tante espressioni dell’aggressività. Lungi dall’identificare l’aggressività con la violenza, l’etologo austriaco Irenäus Eibl-Eibesfeldt (Vienna, 15 giugno 1928 – Starnberg, 2 giugno 2018) ne dà una definizione molto ampia.
Io qui considero aggressivi tutti i moduli di comportamento che determinano la distribuzione spaziale dei membri della stessa specie mediante il principio dell’allontanamento o che portano al dominio di un membro sull’altro; dunque anche moduli di comportamento come i canti territoriali degli uccelli.
(Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra, cit.)
Eibl-Eibesfeldt quindi annovera tra le manifestazioni dell’impulso aggressivo non soltanto il nostro comportamento territoriale, ovvero il fatto che consideriamo un intruso la persona che si avvicina oltre un certo limite a noi. Secondo lo studioso austriaco, anche il dominio di un individuo sull’altro viene raggiunto tramite comportamenti aggressivi che, a loro volta, sarebbero determinati dal nostro patrimonio genetico. In altre parole, noi umani riprodurremo in modo innato, sempre ed in qualsiasi gruppo, una gerarchia sociale. Dobbiamo ammettere che tale tesi non è molto sorprendente. Dagli esperimenti con i gruppi sociali è emersa una tendenza generale ad assegnare un rango di diversa importanza a ciascun membro del gruppo non appena esso si forma, e nella gerarchia il ruolo del capo è sempre presente. La tesi che la ricerca del dominio sia innata sembra però dare adito a certe interpretazioni politiche secondo cui la lotta di tutti contro tutti sarebbe il comportamento più naturale, Occorre chiarire che cosa si intende per lotta, come vedremo nel prossimo paragrafo.
Il rango sociale e l’aggressività
Per supportare le sue affermazioni, Eibl- Eibesfeldt ha fatto ricorso agli studi della
biologa Jane van Lawick-Goodall (3 aprile 1934 Londra, Regno Unito), famosa in tutto il mondo per le sue osservazioni sulla vita di numerose tribù di scimpanzé e gorilla: la studiosa ha convissuto con lo stesso gruppo di scimmie per anni.
In seno alla comunità degli scimpanzé esiste un’evidente gerarchia sociale. I maschi di rango elevato si riconoscono perché sono raramente oggetto di attacchi, e spesso sono invece i destinatari di moduli comportamentali di sottomissione. Essi hanno la precedenza nella competizione per il cibo, per le femmine e anche per i luoghi di riposo, e più spesso degli altri esibiscono un comportamento d’intimidazione aggressiva. La posizione gerarchica viene conquistata sia con la lotta sia con la minaccia. Quando vogliono minacciare, gli scimpanzé impressionano l’avversario facendo del rumore: per esempio tambureggiano battendo le mani e piedi contro gli alberi. La van Lawick-Goodall descrisse il modo in cui il maschio alfa Golia nel 1964 fu vinto da Mike (essenzialmente con un raggiro). Mike si rese conto di poter produrre un fracasso particolarmente assordante percuotendo certi bidoni da benzina vuoti che aveva trovato nelle vicinanze; portata questa tecnica alla perfezione, alla fine riusciva a battere contemporaneamente su tre bidoni: ciò intimidò Golia al punto di convincerlo a darsi per vinto.
(I. Eibl- Eibesfeldt, Etologia della guerra)
Le scimmie emarginate
Se in un gruppo esiste una gerarchia, quindi un capo, diventa abbastanza intuitivo che, dall’altro lato della gerarchia sociale esistano (tra gli uomini ed anche nella società delle scimmie), gli espulsi o gli emarginati, coloro che, per un qualche motivo, non corrispondono alle norme del gruppo quindi vengono allontanati dal nucleo del gruppo. La studiosa van Lawick-Goodall racconta, per esempio, il destino di alcune scimmie sopravvissute a un’epidemia di poliomelite. Queste scimmie, semiparalizzate, vennero attaccate più volte dalle scimmie sane e non furono mai più ammesse nel gruppo. Tale è, tra le scimmie, la sorte di chiunque si distingua per difetti fisici o per un comportamento diverso da quello dominante nel gruppo. Non risulta difficile trovare tracce della stessa legge nella vita umana. Come nota Eibl- Eibesfeldt: “la tolleranza deve essere appresa, l’intolleranza no“. Tra gli uomini, la prima reazione al “brutto”, al “grasso”, al “malato”, al “deforme” ed al “diverso in generale” (ad esempio per stile di vita, orientamento sessuale, religione o colore della pelle) è la derisione, l’isolamento, il timore nei suoi confronti. In una sola parola, il razzismo.
Ridere come atto aggressivo
E’ interessante notare come l’atto di “ridere”, considerato da tutti come un gesto allegro e che – in teoria – dovrebbe unire un gruppo, sia invece a volte il primo passo dell’emarginazione sociale di uno o più membri considerati diversi.
Coloro che deviano dalla norma del gruppo, per prima cosa vengono beffeggiati e derisi, e la derisione è una forma filogenetica molto antica di espressione di odio. Nell’atto di ridere, le emissioni vocali ritmiche ricordano quelle sonore di minaccia e di odio tipiche di primati inferiori, e l’atto di scoprire i denti può essere derivato dai movimenti intenzionali del mordere. Ciò non è in contraddizione con il fatto che il ridere abbia funzione di legame, in quanto esso unisce soltanto coloro che ridono insieme. La persona derisa partecipa di rado alla risata, in quanto interpreta il fatto di essere deriso come un atto aggressivo; una persona che viene derisa per esempio quando si comporta in modo impacciato o comunque deviante dalla norma.
(I. Eibl- Eibesfeldt, Etologia umana)
In poche parole, se io e te ridiamo di una terza persona perché ha dei tratti considerati diversi dalla norma, la nostra risata è in certi casi interpretabile come una innata forma di odio e di spinta all’allontanamento dal gruppo di quella persona. Tale regola di esclusione ha, per i primati e nella vita dei nostri antenati, una chiara funzione per la sopravvivenza della specie: emarginare il diverso, aumenta infatti le possibilità che l’intero gruppo (e la specie) sopravviva. Allontanando i soggetti malati, il gruppo si protegge ad esempio contro le malattie infettive; isolando gli individui diversi in generale, la tribù elimina una possibile fonte di disordine sociale che, in una situazione che richiede un comune sforzo continuo per sopravvivere, potrebbe essere fatale. Individui sani e “normali”, permettono invece di diminuire il rischio di malattie, di difendersi meglio dai predatori, di predare meglio le prede e di mantenere un equilibrio di pace nel gruppo. Nella società moderna, tuttavia, tale tendenza a respingere tutto ciò che è strano oppure sconosciuto, dal vestito ai modi nuovi di concepire la vita o il mondo, costituisce un ostacolo per la nascita di idee nuove e la nostra evoluzione culturale e per fortuna viene (o dovrebbe essere!) contrastato dall’educazione.
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine
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