Le statistiche delle forze dell’ordine sono di utilità limitata quando vogliamo comprendere la dimensione e la diffusione della criminalità nel nostro paese. La sociologia ha sviluppato due altri modi per indagare su questo argomento. Il primo è costituito dalla ricerca sulle vittime di reati. A un campione rappresentativo della popolazione si rivolge la domanda: “Lei è stata vittima, negli ultimi 12 mesi, di almeno un reato contro la proprietà?” Nel 2002, il 4,4 degli italiani ha risposto positivamente, mentre lo 0,9% ha dichiarato di essere stato vittima, negli ultimi 12 mesi, di “almeno un reato violento”.
Questo tipo d’informazione ci permette di paragonare le esperienze per varie fasce d’età. Le persone meno colpite dalla criminalità sono proprio coloro che tendono a esprimere maggiormente la loro preoccupazione per la sicurezza, ovvero, uomini e donne sopra i 55 anni: il 2,4% di questa fascia d’età ha subito reati contro la proprietà e lo 0,4% afferma di essere stato vittima di un atto violento. Il rischio più alto lo corrono i giovani tra 15 e 34 anni d’età: il 7,3% di essi, negli ultimi 12 mesi, ha subito dei reati contro la proprietà, e l’1,7% è stato aggredito.
Purtroppo, i dati procurati in tale modo ci sono utili per capire come i cittadini percepiscono la criminalità, ma non permettono di trarre direttamente delle conclusioni sulla natura del fenomeno stesso. Per esempio, una parte degli oggetti che le persone credono siano stati sottratti dai ladri sono semplicemente stati persi, inoltre le vittime non ci forniscono delle informazioni attendibili sui criminali.
Self report
Resta l’alternativa di chiedere alle persone, assicurando l’anonimato, se hanno commesso dei reati e quali atti illegali hanno compiuto. Tale forma d’indagine è denominato “self report” ed è praticata da decenni dalla ricerca. Essa ha, di regola, un esito piuttosto sorprendente per chi è abituato a vedere il criminale come una persona lontana dalla normalità: da numerosi se!! report risulta che, in un momento o nell’ altro della propria vita, praticamente tutti commettono dei reati. Dal furto in un negozio all’insulto a un poliziotto, dallo scarabocchio fatto sui sedili dei mezzi pubblici alla rissa, ognuno di noi si ricorda di aver compiuto qualche atto che avrebbe potuto portare a essere denunciato. Ma è vero? Anche in questo caso il fatto che l’interpretazione della parola “reato” sia lasciata ai soggetti interrogati, pone dei limiti all’utilizzo dei dati raccolti, tuttavia, distinguendo per gravità e numero dei reati ammessi, alcuni ricercatori giungono a conclusioni sufficientemente precise: la tendenza a commettere un numero elevato di reati gravi è più pronunciata nei ceti meno abbienti. Inoltre, si sono verificate differenze notevoli tra i luoghi di residenza e il tasso di criminalità, confermate anche dalla ricerca sulle vittime. In comuni con meno di 50 000 abitanti, la percentuale di persone vittime di reati contro la proprietà resta sotto il 4%, mentre giunge al 7% nei comuni centri di aree metropolitane (periferie: 5%).
Le sottoculture
Potremmo trarre due conclusioni dal materiale statistico fin qui esposto. La prima è che la maggior parte delle persone, stando ai self report, potrebbe finire nelle statistiche criminali ufficiali. La seconda, invece, sarebbe una conferma della teoria del sociologo statunitense Robert King Merton, secondo cui le persone economicamente e culturalmente svantaggiate, escluse dalle vie legali che portano al successo, tendono a perseguire il loro scopo con mezzi illeciti. Ma se è così, perché la criminalità si concentra nei centri delle aree metropolitane e non nelle periferie e nemmeno in campagna? Fuori città regna forse una cultura diversa che attribuisce meno importanza al successo? Secondo numerosi ricercatori, il concetto di “cultura dominante” utilizzato da Merton è semplicemente troppo vago. Occorre analizzare in modo più dettagliato i fattori culturali che influiscono sul comportamento delle persone. Il giovane che cresce in un determinato quartiere, per esempio, sarà meno influenzato dalla cultura generale dominante in tutto il paese che non dal gruppo di riferimento con cui trascorre il tempo libero, ovvero dal gruppo dei pari. Ognuno di tali insiemi di individui costituiscono una cultura a sé. Spesso, passando da un gruppo all’altro, ci si accorge delle differenze che riguardano lo stile musicale, la squadra preferita, il modo di muoversi, di vestirsi e anche di parlare. In questi casi si parla di sottoculture. Come sottocultura si intende un ambito culturale, ossia un insieme di norme, ideali e modelli, limitato geograficamente e/o socialmente che si distingue da una cultura circostante senza distaccarsene del tutto. Il termine non implica alcuna svalutazione del “valore culturale” delle espressioni di un gruppo.
“Teppisti” e “rammolliti”
“Sappiamo che è “il più bravo”. Non prende mai il metrò senza lasciare un segno. L’altro giorno ha spaccato la vetrata di un negozio in pieno centro. Quando c’è da fare a botte con quelli dell’altro quartiere, non si tira mai indietro. Aldo è un duro. Gigi, invece, è un rammollito. Non viene più con noi. Spesso usciamo di sera, portando ci dietro le bombole con gli spray, e Gigi resta a casa. Chissà se ha paura. Forse della sua ragazza. L’ha conosciuta al liceo. Gente che non ha mai trascorso una notte al commissariato, e di botte durante le partite, non ne hanno mai date né prese”.
Secondo due psicologi britannici, Nicholas Emler e Stephen Reicher, sia Aldo che Gigi si orientano nello stesso modo, costruendo e difendendo la loro reputazione. Come il bravo ragazzo non vuole sembrare un “teppista di periferia”, il “duro” non può rischiare di sembrare un “vigliacco”. Tali effetti da sottocultura sono molto forti tra gli adolescenti, quando il gruppo dei pari sostituisce la guida degli adulti, ne momento che precede l’ingresso nel mondo del lavoro. Non a caso, la devianza degli adolescenti costituisce un problema in tutte le grandi città europee. Per fortuna, soltanto una parte dei ragazzi che, tra i 14 e i 18 anni, commettono dei reati, dal vandalismo alla violenza nei confronti di altri poi, da adulti imboccano la strada del crimine.
Carriera criminale e teorema di Thomas
All’inizio ha voluto spiegare a tutti che era innocente. Certo, gli avevano risposto, anche noi lo siamo. Oggi non lo dice più. Si è abituato a essere uno di loro, uno come gli altri che, colpevoli o innocenti, dopo anni qui dentro, usciranno come ex detenuti, criminali. Troverà lavoro? Una casa? Incontrerà delle difficoltà. Potrebbe rinunciare a integrarsi in un mondo che gli oppone tanta resistenza, che lo considera un criminale a cui non si dà credito. La rete di conoscenze costruita in carcere sarà invece pronta ad accoglierlo. Uno volta classificato come criminale, è spesso più agevole comportarsi come tale.
In alcuni casi, un criminale diventa criminale perché è considerato da tutti un criminale. Avviene ciò che Merton chiama self fulfilling prophecy, tradotto in italiano con”profezia che si auto-avvera“, ovvero il teorema di Thomas:
“Se gli uomini definiscono come reali certe situazioni, esse sono reali nelle loro conseguenze”.
Tale teorema fu ideato nel 1928 dal sociologo statunitense William Thomas (Contea di Russell, 13 agosto 1863 – Berkeley, 5 dicembre 1947). Un buon esempio di situazioni che gli uomini “definiscono reali” viene riportato dallo stesso William Thomas. In un Paese è in corso una guerra civile tra due etnie che si contendono il potere politico. La stessa guerra si riflette su una piccola isola di questo Stato. Un giorno la guerra finisce, ma non è possibile comunicare in tempi brevi la notizia alla piccola isola, dove dunque gli abitanti delle due etnie, ignorando la pace avvenuta, continueranno a combattersi tra di loro. In questo esempio gli uomini hanno “definito una situazione come reale”, cioè si sono comportati come se la guerra non fosse ancora finita, ignorando la notizia, e di fatto hanno agito di conseguenza, cioè hanno continuato a combattere. Se non diamo la possibilità di lavorare a una persona perché la riteniamo un criminale e non ci fidiamo di lui, quest’uomo molto presto comincerà a comportarsi in modo che giustificherà la nostra sfiducia e si “rivelerà” criminale. Tale meccanismo, secondo Merton, è alla base di numerosi tipi di discriminazione sociale.
Se il gruppo dominante ritiene che i negri siano inferiori e provvede quindi che i fondi per l’educazione non siano “sciupati per questi buoni a nulla” e poi avanza come prova decisiva il fatto che i negri hanno in proporzione ai bianchi “soltanto” un quinto di diplomati universitari. Non si rimane sorpresi di fronte a questo troppo trasparente gioco di prestigio sociale. Avendo visto mettere con cura anche se non troppo abilmente il coniglio nel cappello, possiamo poi solo guardare con disdegno l’aria trionfante di chi alla fine lo tira fuori.
(Robert K. Merton, Teoria e struttura sociale, vol. II, Il Mulino, Bologna 2000)
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine
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