Malattia di Parkinson: cause, sintomi, decorso, terapie

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma DIFFERENZA MORBO PARKINSON CAUSE SINTOMI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgLa malattia di Parkinson (in passato denominata “morbo di Parkinson“; anche chiamata Parkinson, parkinsonismo idiopatico o parkinsonismo primario; in inglese denominata “Parkinson disease” o “primary parkinsonism” o “hypokinetic rigid syndrome” o “paralysis agitans” o “shaking palsy”) è una malattia neurodegenerativa extrapiramidale caratterizzata da rigidità muscolare che si manifesta con resistenza ai movimenti passivi; tremore che insorge durante lo stato di riposo e che può aumentare in caso di stato di ansia; bradicinesia che provoca difficoltà a iniziare e terminare i movimenti.

I sintomi e segni motori tipici della condizione sono il risultato della necrosi (morte) delle cellule che sintetizzano e rilasciano la dopamina. Tali cellule si trovano nella substantia nigra, una regione del mesencefalo. La causa che porta alla loro morte è sconosciuta. All’esordio della malattia, i sintomi più evidenti sono legati al movimento, ed includono tremori, rigidità, lentezza nei movimenti e difficoltà a camminare. In seguito, possono insorgere problemi cognitivi e comportamentali, con la demenza che si verifica nelle fasi avanzate. La malattia di Parkinson è più comune negli anziani; la maggior parte dei casi si verifica dopo i 50 anni.

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I segni motori principali sono comunemente chiamati parkinsonismo. La condizione è spesso definita come una sindrome idiopatica anche se alcuni casi atipici hanno un’origine genetica. Molti fattori di rischio e fattori protettivi sono stati indagati: ad esempio, l’aumento del rischio di contrarre la malattia nelle persone esposte ad idrocarburi solventi e pesticidi. La patologia è caratterizzata dall’accumulo di una proteina, chiamata alfa-sinucleina, in inclusioni denominate corpi di Lewy nei neuroni e dall’insufficiente formazione di dopamina. La distribuzione anatomica dei corpi di Lewy è spesso direttamente correlata all’espressione e al grado dei sintomi clinici di ciascun individuo.

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La diagnosi nei casi tipici si basa principalmente sui sintomi, con indagini di neuroimaging come conferma. I moderni trattamenti sono efficaci per gestire i sintomi motori precoci della malattia, grazie all’uso di agonisti della dopamina e del levodopa. Col progredire della malattia, i neuroni dopaminergici continuano a diminuire di numero, e questi farmaci diventano inefficaci nel trattamento della sintomatologia e, allo stesso tempo, producono una complicanza, la discinesia, caratterizzata da movimenti involontari. Una corretta alimentazione e alcune forme di riabilitazione hanno dimostrato una certa efficacia nell’alleviare i sintomi. La chirurgia e la stimolazione cerebrale profonda vengono utilizzate per ridurre i sintomi motori come ultima risorsa, nei casi più gravi in cui i farmaci risultano inefficaci. Diverse importanti organizzazioni promuovono la ricerca e il miglioramento della qualità della vita delle persone affette dalla malattia.

Persone famose con malattia di Parkinson

Alcune persone famose con malattia di Parkinson, come il pugile Muhammad Ali e papa Giovanni Paolo II, il cantautore Bruno Lauzi, hanno fatto crescere negli ultimi anni la consapevolezza della malattia a livello mondiale e contribuito ad abbatterne i tabù ed i pregiudizi. Una delle persone più famose che soffre di malattia di Parkinson è l’attore Michael J. Fox, famoso soprattutto per l’interpretazione di Marty McFly, protagonista della trilogia cinematografica di Ritorno al Futuro. Nel 1991, all’età di appena 30 anni, gli fu diagnosticata una grave forma di malattia di Parkinson: l’aggravarsi dei sintomi lo obbligò a ritirarsi quasi del tutto dalle scene cinematografiche dal 2000, ma gli consentì anche di lottare in prima fila per la ricerca sperimentale sulle cellule staminali. L’impegno dello sfortunato attore lo ha condotto ad istituire la Fondazione Michael J. Fox, che si dedica dal 31 ottobre del 2000 alla ricerca di una cura per la malattia di Parkinson, con un patrimonio di 450 milioni di dollari. Per tale impegno il 5 marzo 2010 l’Istituto Karolinska ha conferito a Michael J. Fox una laurea honoris causa. Leggi anche: Il commovente abbraccio tra Michael J. Fox e Christopher Lloyd

Eponimo

La malattia prende il nome dal medico inglese James Parkinson, che pubblicò la prima descrizione dettagliata nel suo trattato An Essay on the Shaking Palsy nel 1817. Un tempo chiamata “morbo”, il Parkinson viene attualmente chiamata “malattia”. L’espressione “morbo di Parkinson” è comunque ancora molto usata, anche dai medici, ed è a tutti gli effetti sinonimo di “malattia di Parkinson”. A tal proprosito leggi: Differenza tra malattia, patologia, sindrome, disturbo, disordine, morbo

Epidemiologia

La malattia di Parkinson è la seconda malattia neurodegenerativa più comune dopo la malattia di Alzheimer. La prevalenza della condizione nei paesi industrializzati è di circa lo 0,3%. La malattia di Parkinson è più comune negli anziani e la prevalenza aumenta dall’1% in quelli oltre i 60 anni di età, fino al 4% della popolazione sopra gli 80 anni. L’età media di insorgenza è circa 60 anni, anche se il 5-10% dei casi, classificati come ad esordio giovane, iniziano tra i 20 e i 50 anni. La malattia risulterebbe essere meno diffusa nelle popolazioni di origine africana e asiatica, sebbene questo dato sia contestato. Alcuni studi hanno proposto che sia più comune negli uomini rispetto alle donne, ma altri non hanno rilevato particolari differenze tra i due sessi. L’incidenza della malattia di Parkinson è tra 8 e 18 per 100 000 persone-anno.

Fattori di rischio e protettivi

Molti fattori di rischio e molti fattori protettivi sono stati proposti, a volte in relazione alle teorie riguardanti i possibili meccanismi della malattia, ma nessuno è stato definitivamente individuato da prove certe; per approfondire leggi: Morbo di Parkinson: fattori di rischio e fattori di protezione

Patogenesi e anatomia patologica

I gangli basali, un gruppo di strutture cerebrali innervate dal sistema dopaminergico, sono le aree cerebrali più colpite nella malattia di Parkinson. La principale caratteristica patologica della condizione è la morte delle cellule nella substantia nigra e, più specificamente, nella parte ventrale (anteriore) della pars compacta, causando nel tempo la morte delle cellule fino al 70% del loro totale. Al taglio del tronco cerebrale, si possono notare alterazioni macroscopiche in cui la perdita neuronale si può dedurre da una riduzione della pigmentazione della melanina nella substantia nigra e nel locus coeruleus. L’istopatologia (anatomia microscopica) della substantia nigra e delle diverse regioni cerebrali, mostra una perdita neuronale e corpi di Lewy in molte delle cellule nervose rimanenti. La perdita neuronale è accompagnata da morte degli astrociti (cellule gliali a forma di stella) e l’attivazione delle microglia (un altro tipo di cellule gliali). I corpi di Lewy sono un elemento patologico chiave nella malattia di Parkinson.

Fisiopatologia

I sintomi principali della malattia di Parkinson sono il risultato di una attività molto ridotta delle cellule secernenti dopamina, causata dalla morte cellulare nella regione pars compacta della substantia nigra. Nel cervello vi sono cinque circuiti principali che collegano le aree cerebrali ai gangli basali. Questi circuiti sono noti come: circuito motorio, circuito oculomotore, circuito associativo, circuito limbico e circuito orbitofrontale, con nomi che indicano le principali aree che vengono servite da ogni circuito. Nella malattia di Parkinson, tutti i circuiti elencati possono venire influenzati e ciò spiega molti dei sintomi. Infatti, una varietà di funzioni sono controllate da questi circuiti, tra le quali quelle del movimento, dell’attenzione e dell’apprendimento. Dal punto di vista scientifico, il circuito motorio è quello che è stato studiato con maggiore attenzione.
Un particolare modello concettuale del circuito motorio e del suo coinvolgimento nella malattia è stato, a partire dal 1980, di grande influenza, anche se nel tempo sono stati sollevati alcuni dubbi che hanno portato a modificarlo. In questo modello, i gangli della base normalmente esercitano una costante influenza inibitoria su una vasta gamma di sistemi motori, impedendo loro di attivarsi nei momenti inopportuni. Quando si decide di effettuare una determinata azione, l’inibizione viene ridotta. La dopamina agisce per facilitare questo cambiamento nell’inibizione: livelli elevati di dopamina tendono a promuovere l’attività motoria, mentre bassi livelli, come avviene nella malattia, richiedono maggiori sforzi per compiere un dato movimento. Così l’effetto reale della deplezione di dopamina è il verificarsi dell’ipocinesia, una riduzione complessiva dell’uscita dei segnali motori. I farmaci che vengono usati per trattare la malattia di Parkinson, viceversa, tendono a produrre una quantità troppo elevata di dopamina, portando i sistemi motori ad attivarsi nel momento non appropriato e causando pertanto discinesia.

Morte delle cellule cerebrali

Vi sono diversi meccanismi proposti per cui le cellule cerebrali, nella malattia, vanno incontro alla morte. Uno di questi prevede che un accumulo anomalo della proteina alfa-sinucleina, legata alla ubiquitina, danneggi le cellule. Questa proteina insolubile si accumula all’interno dei neuroni formando delle inclusioni, chiamate corpi di Lewy. Secondo la stadiazione di Braak, una classificazione della malattia sulla base del quadro patologico, i corpi di Lewy prima appaiono nel bulbo olfattivo, nel midollo allungato e nel tegmento pontino, con i pazienti che risultano asintomatici. Col progredire della malattia, i corpi di Lewy si sviluppano nella substantia nigra, nelle aree del mesencefalo e prosencefalo basale e, nell’ultima fase, nella neocorteccia. Queste zone del cervello sono le aree principali della degenerazione neuronale nella malattia di Parkinson. Tuttavia, i corpi di Lewy non possono essere la causa diretta della morte delle cellule. Nei pazienti con demenza una presenza generalizzata dei corpi di Lewy è comune nelle aree corticali. Ammassi neurofibrillari e placche senili, riscontrabili caratteristicamente nella malattia di Alzheimer, non sono comuni a meno che il paziente non presenti una forma di demenza.
Altri meccanismi che portano alla morte cellulare includono la disfunzione dei sistemi lisosomiali e proteosomiali e una ridotta attività mitocondriale. L’accumulo di ferro nella substantia nigra si osserva tipicamente in combinazione con le inclusioni proteiche. Ciò può essere correlato allo stress ossidativo, all’aggregazione proteica e alla morte neuronale, ma i meccanismi che regolano questo fenomeno non sono pienamente compresi.

Cause

La maggior parte delle persone con malattia di Parkinson presenta una condizione idiopatica (che non ha una causa specifica nota). Una piccola percentuale di casi, tuttavia, può essere attribuita a fattori genetici conosciuti. Altri fattori sono stati associati con il rischio di sviluppare la malattia, ma non sono state dimostrate relazioni causali.
La malattia di Parkinson è stata tradizionalmente considerata una malattia non genetica. Tuttavia, circa il 15% degli individui con malattia di Parkinson ha un parente di primo grado con la stessa condizione. Almeno il 5% delle persone è ormai noto per avere forme della malattia che si verifica a causa di una mutazione di uno dei numerosi geni specifici.
È stato dimostrato in modo definitivo che le mutazioni in geni specifici possono essere causa della malattia. Questi geni codificano per alfa-sinucleina (SNCA), parkina (PRKN), dardarina (LRRK2), PTEN chinasi indotta putativo 1 (PINK1), DJ-1 e ATP13A2. Nella maggior parte dei casi, le persone con queste mutazioni svilupperanno la malattia di Parkinson. Con l’eccezione di LRRK2, tuttavia, rappresentano solo una piccola minoranza dei casi della malattia. I geni correlati alla condizione e maggiormente studiati sono SNCA e LRRK2. Le mutazioni nei geni tra cui SNCA, LRRK2 e glucocerebrosidasi (GBA) sono stati individuati come fattori di rischio nello sviluppo della malattia di Parkinson. Le mutazioni in GBA sono note per causare la malattia di Gaucher.
Il ruolo del gene SNCA è importante in quanto l’alfa-sinucleina alfa è il componente principale dei corpi di Lewy. Mutazioni missenso del gene (in cui un singolo nucleotide viene cambiato) e duplicazioni e triplicazioni del locus che lo contiene, sono state trovate in diversi gruppi aventi familiari affetti dalla malattia di Parkinson. Le mutazioni missenso sono rare, tuttavia, moltiplicazioni del locus SNCA rappresentano circa il 2% dei casi familiari.
Il gene LRRK2 (PARK8) codifica per una proteina chiamata dardarina. Il nome dardarina è stato coniato da una parola basca che sta per tremore, poiché questo gene è stato identificato in famiglie provenienti dall’Inghilterra e dal nord della Spagna. Le mutazioni nel LRRK2 sono la causa più comune conosciuta di malattia di Parkinson famigliare e sporadica, esse rappresentano circa il 5% degli individui con una storia familiare della malattia e il 3% dei casi sporadici. Vi sono molte differenti mutazioni descritte in LRRK2, la prova inequivocabile di causalità esiste, tuttavia, solo per un piccolo numero.

Segni e sintomi

La malattia di Parkinson colpisce prevalentemente ma non esclusivamente il movimento, producendo sintomi (più propriamente “segni”) motori e non motori, a tal proposito leggi: Morbo di Parkinson: sintomi motori e non motori, iniziali e tardivi

Diagnosi e diagnosi differenziale

La malattia di Parkinson può essere diagnosticata partendo dalla storia clinica e da un esame neurologico. Non esiste attualmente un test che identifichi chiaramente la malattia, ma scansioni tomografiche cerebrali sono a volte utilizzate per escludere patologie che potrebbero dare luogo a sintomi simili; per approfondire leggi: Diagnosi e diagnosi differenziale del morbo di Parkinson

Terapia farmacologica

Attualmente non esiste una terapia definitiva per la malattia di Parkinson. I farmaci principalmente utilizzati nel trattamento di sintomi motori sono la levodopa, gli agonisti della dopamina e gli inibitori MAO-B (Inibitore della monoamino ossidasi). Per approfondire leggi: Levodopa ed altri farmaci usati nella terapia del morbo di Parkinson

Terapia chirurgica

Attualmente la tecnica più utilizzata è la chirurgia stereotassica che permette di trattare punti in profondità nel parenchima cerebrale con precisione millimetrica, grazie all’ausilio di dispositivi radiologici. Per approfondire leggi: Terapie chirurgiche nel paziente con morbo di Parkinson

Riabilitazione

I problemi di linguaggio e di mobilità, pur se irreversibili, sono in grado di migliorare parzialmente grazie alla riabilitazione, a tal proposito leggi: Riabilitazione e fisioterapia nel paziente con morbo di Parkinson

Alimentazione e disfagia

I muscoli e i nervi che controllano la digestione possono essere influenzati dalla malattia, con conseguente costipazione e gastroparesi, una alimentazione equilibrata è consigliata e deve essere finalizzata ad evitare la perdita o il guadagno di peso; a tal proposito leggi: Alimentazione e disfagia nel paziente con morbo di Parkinson

Le cure palliative

Il ricorso alle cure palliative è spesso richiesto nelle fasi finali della malattia, quando tutte le altre strategie di trattamento sono diventate inefficaci. Lo scopo delle cure palliative è quello di ottimizzare la qualità della vita, sia per il paziente che per tutti quelli che lo circondano. Alcuni obiettivi centrali delle cure palliative sono: cure adeguate nella propria comunità, riduzione o sospensione dell’assunzione dei farmaci per ridurre gli effetti collaterali, prevenzione delle piaghe da decubito nei pazienti allettati, supporto per il paziente e per le persone a lui vicine.

Altri trattamenti

È stato dimostrato che la stimolazione magnetica transcranica migliora temporaneamente la discinesia indotta dalla levodopa. La sua utilità nel trattamento della malattia di Parkinson è un argomento di ricerca ancora aperto, anche se studi recenti non hanno dimostrato alcun effetto. Diversi principi nutritivi sono stati proposti come possibili trattamenti, ma non vi sono prove che le vitamine o gli additivi alimentari siano in grado di migliorare i sintomi. Non vi sono prove a sostegno che l’agopuntura e la pratica del Qigong o del Tai chi abbiano alcun effetto sul decorso della malattia o sulla presentazione dei sintomi. Tuttavia, sono necessarie ulteriori ricerche sul Tai chi quando viene utilizzato al fine di migliorare la capacità di equilibrio. La mucuna pruriens e la vicia faba sono fonti naturali di levodopa e sono assunte da molte persone con la malattia. Sebbene in alcuni studi clinici si sia dimostrata una certa efficacia, la loro ingestione non è esente da rischi. Sono state, infatti, riportate delle reazioni avverse letali, come la sindrome neurolettica maligna.

Prognosi

La malattia di Parkinson progredisce sempre con il tempo. La scala di Hoehn e Yahr, che definisce cinque stadi di progressione, è comunemente usata per stimare l’avanzamento della malattia (vedi prossimo paragrafo).
I sintomi motori, se non trattati, progrediscono in modo aggressivo nelle fasi iniziali della malattia e più lentamente in seguito. Se non trattati, si può prevedere che i pazienti vadano incontro ad una perdita della deambulazione indipendente in media dopo otto anni e siano costretti a letto dopo dieci anni. Tuttavia, è raro, al giorno d’oggi, trovare persone che non ricevano un trattamento. I farmaci hanno migliorato la prognosi dei sintomi motori, mentre allo stesso tempo vi è una nuova fonte di disabilità a causa degli effetti indesiderati della levodopa, che si verificano dopo anni di utilizzo. Per le persone che assumono levodopa, il tempo di progressione dei sintomi – dall’esordio ad una fase di completa non autosufficienza – può essere di oltre i 15 anni. Tuttavia, è difficile prevedere il decorso della malattia per un dato paziente. L’età è il miglior predittivo della progressione della malattia. Il deficit cognitivo è più frequente in coloro che hanno più di 70 anni di età all’insorgenza dei sintomi.
Dal momento che le attuali terapie sono in grado di migliorare i sintomi motori, la disabilità è principalmente collegata alle caratteristiche non-motorie della malattia. Tuttavia, il rapporto tra la progressione della malattia e la disabilità non è lineare. Inizialmente la disabilità è legata ai sintomi motori, con l’avanzare della malattia essa risulterà più correlata con i sintomi che non rispondono adeguatamente al trattamento farmacologico, come ad esempio la deglutizione, la difficoltà di parola e di equilibrio. Inoltre vi è da tener conto delle complicanze relative al movimento, che appaiono nel 50% degli individui dopo 5 anni di utilizzo di levodopa. Infine, dopo dieci anni, la maggior parte dei pazienti sperimenta dei disturbi autonomici (ovvero del sistema nervoso autonomo), disturbi del sonno, alterazioni dell’umore e declino cognitivo. Tutti questi sintomi, in particolare il declino cognitivo, aumentano notevolmente la disabilità.

Scala di Hoehn e Yahr ed aspettativa di vita

La scala di Hoehn e Yahr è comunemente usata per descrivere i sintomi della progressione della malattia di Parkinson. L’aspettativa di vita del paziente con Parkinson è ridotta rispetto alla popolazione sana, a tale proposito leggi anche: Scala di Hoehn e Yahr e aspettativa di vita nel morbo di Parkinson

Conseguenze psicologiche

Nonostante gli enormi progressi fatti nel campo della ricerca e nelle terapie che sono in grado di rallentare la progressione della malattia, la diagnosi di Parkinson rimane attualmente una notizia estremamente shockante per i pazienti, che cambia completamente la visione sul resto della loro vita. Soprattutto quando i segni motori diventano invalidanti, il soggetto non si sente più autosufficiente, in alcuni casi deve abbandonare il lavoro e può succedere che venga lasciato dal partner. Il sentirsi un “peso” per la società e per i famigliari, unita alla vergogna per la malattia, può determinare una situazione di progressivo isolamento sociale. Non di rado il paziente può soffrire di depressione e di ideazioni suicidarie. La terapia della malattia di Parkinson deve quindi tener conto di questo fattore ed includere un eventuale intervento farmacologico psichiatrico con supporto di psicoterapia.

Costi per la società

La malattia di Parkinson costituisce un costo sanitario e sociale molto elevato a livello globale, ma è difficile determinare dati precisi sia per problemi metodologici nella stima che per le differenze esistenti tra i vari paesi. Il costo annuale nel Regno Unito è stimato tra i 449 milioni e i 3,3 miliardi di sterline, mentre il costo annuale per paziente negli Stati Uniti si aggira intorno ai $ 10 000, per un totale di circa 23 miliardi di dollari. Nonostante non esista alcuna analisi dell’impatto economico diretto ed indiretto della malattia in Italia, si può stimare una spesa annuale totale che oscilla tra i 2 ed i 3 miliardi di euro. La quota maggiore del costo diretto viene dai ricoveri e dai soggiorni nelle case di cura, mentre la parte proveniente dai farmaci è sostanzialmente inferiore. Oltre ai costi diretti, hanno un peso importante i costi indiretti, che sono elevati per via della riduzione della produttività (il malato ad un certo punto della progressione della malattia potrebbe essere costretto ad abbandora il lavoro a causa dei suoi sintomi e segni) e degli oneri che ricadono su chi assiste i pazienti. Oltre ai costi economici, la malattia riduce enormemente la qualità della vita di coloro che ne soffrono e di chi li assiste, non solo a livello di salute del corpo, ma anche a livello psicologico.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Malattia di Alzheimer: cause, sintomi, decorso, terapie

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma MORBO ALZHEIMER CAUSE DECORSO TERAPIE Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgLa malattia di Alzheimer, precedentemente denominata morbo di Alzheimer o semplicemente Alzheimer, è la forma più comune di demenza degenerativa progressivamente invalidante con esordio prevalentemente in età presenile (oltre i 65 anni, ma può manifestarsi anche in epoca precedente). Si stima che circa il 60-70% dei casi di demenza sia dovuta a tale condizione. Il sintomo precoce più frequente è la difficoltà nel ricordare eventi recenti. Con l’avanzare dell’età possiamo avere sintomi come: afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento. Ciò porta il soggetto inevitabilmente a isolarsi nei confronti della società e della famiglia. A poco a poco, le capacità mentali basilari vengono perse. Anche se la velocità di progressione può variare, l’aspettativa media di vita dopo la diagnosi è dai tre ai nove anni. La patologia è stata descritta per la prima volta nel 1906, dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer. Nel 2006 vi erano 26,6 milioni di malati in tutto il mondo e si stima che ne sarà affetta 1 persona su 85 a livello mondiale entro il 2050.

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La causa e la progressione della malattia di Alzheimer non sono ancora ben compresi. La ricerca indica che la malattia è strettamente associata a placche amiloidi e ammassi neurofibrillari riscontrati nel cervello, ma non è nota la causa prima di tale degenerazione. Attualmente i trattamenti terapeutici utilizzati offrono piccoli benefici sintomatici e possono parzialmente rallentare il decorso della patologia; anche se sono stati condotti oltre 500 studi clinici per l’identificazione di un possibile trattamento per l’Alzheimer, non sono ancora stati identificati trattamenti che ne arrestino o invertano il decorso. Circa il 70% del rischio si ritiene sia genetico con molti geni solitamente coinvolti. Altri fattori di rischio includono: traumi, depressione o ipertensione. Il processo della malattia è associata a placche amiloidi che si formano nel SNC.
Una diagnosi probabile è basata sulla progressione della malattia, test cognitivi con imaging medico e gli esami del sangue per escludere altre possibili cause. I sintomi iniziali sono spesso scambiati per normale invecchiamento. È necessaria la biopsia del tessuto cerebrale per una diagnosi definitiva. L’esercizio mentale e fisico possono diminuire il rischio di AD. Non esistono farmaci o integratori che scientificamente possano diminuire il rischio di AD.
A livello preventivo, sono state proposte diverse modificazioni degli stili di vita personali come potenziali fattori protettivi nei confronti della patologia, ma non vi sono adeguate prove di una correlazione certa tra queste raccomandazioni e la riduzione effettiva della degenerazione. Stimolazione mentale, esercizio fisico e una dieta equilibrata sono state proposte sia come modalità di possibile prevenzione, sia come modalità complementari di gestione della malattia.
La sua ampia e crescente diffusione nella popolazione, la limitata e, comunque, non risolutiva efficacia delle terapie disponibili e le enormi risorse necessarie per la sua gestione (sociali, emotive, organizzative ed economiche), che ricadono in gran parte sui familiari dei malati, la rendono una delle patologie a più grave impatto sociale del mondo.
Anche se il decorso clinico della malattia di Alzheimer è in parte specifico per ogni individuo, la patologia causa diversi sintomi comuni alla maggior parte dei pazienti. I primi sintomi osservabili sono spesso erroneamente considerati problematiche “legate all’età”, o manifestazioni di stress. Nelle prime fasi, il sintomo più comune è l’incapacità di acquisire nuovi ricordi e la difficoltà nel ricordare eventi osservati recentemente. Quando si ipotizza la presenza di una possibile malattia di Alzheimer, la diagnosi viene di solito confermata tramite specifiche valutazioni comportamentali e test cognitivi, spesso seguiti dall’imaging a risonanza magnetica.
Con l’avanzare della malattia, il quadro clinico può prevedere confusione, irritabilità e aggressività, sbalzi di umore, difficoltà nel linguaggio, perdita della memoria a breve e lungo termine e progressive disfunzioni sensoriali.
Poiché per la malattia di Alzheimer non sono attualmente disponibili terapie risolutive e il suo decorso è progressivo, la gestione dei bisogni dei pazienti diviene essenziale. Spesso è il coniuge o un parente stretto (caregiver), a prendersi in carico il malato, compito che comporta notevoli difficoltà e oneri. Chi si occupa del paziente può sperimentare pesanti carichi personali che possono coinvolgere aspetti sociali, psicologici, fisici ed economici.

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La malattia di Alzheimer è definibile come un processo degenerativo che pregiudica progressivamente le cellule cerebrali, rendendo a poco a poco l’individuo che ne è affetto incapace di una vita normale e provocandone alla fine la morte. In Italia ne soffrono circa 492 000 persone e 26,6 milioni nel mondo secondo uno studio della Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, Stati Uniti, con una netta prevalenza di donne (presumibilmente per via della maggior vita media delle donne rispetto agli uomini).
Definita anche “demenza di Alzheimer”, viene appunto catalogata tra le demenze, essendo un deterioramento cognitivo cronico progressivo. Tra tutte le demenze quella di Alzheimer è la più comune, rappresentando, a seconda della casistica, l’80-85% di tutti i casi di demenza.
A livello epidemiologico, tranne che in rare forme genetiche familiari “early-onset” (cioè con esordio giovanile), il fattore maggiormente correlato all’incidenza della patologia è l’età. Molto rara sotto i 65 anni, la sua incidenza aumenta progressivamente con l’aumentare dell’età, per raggiungere una diffusione significativa nella popolazione oltre gli 85 anni.
Da rilevazioni europee, nella popolazione generale l’incidenza (cioè il numero di nuovi casi all’anno) è di 2,5 casi ogni 1 000 persone per la fascia di età tra i 65 e i 69 anni; sale a 9 casi su 1 000 persone tra i 75 e i 79 anni, e a 40,2 casi su 1 000 persone tra gli 85 e gli 89 anni.

Fasi e sintomi delle varie fasi

Il decorso della malattia è diviso in quattro fasi, con un modello progressivo deterioramento cognitivo e funzionale; per approfondire leggi: Malattia di Alzheimer: sintomi delle fasi iniziali e tardive

Cause e fattori di rischio

La causa per la maggior parte dei casi di Alzheimer è ancora in gran parte sconosciuta, ad eccezione che per casi dall’1% al 5% in cui sono state individuate le differenze genetiche esistenti. Diverse ipotesi cercano di spiegare la causa della malattia; per approfondire leggi: Malattia di Alzheimer: le cause della malattia

Decorso

Il decorso della malattia può essere diverso, nei tempi e nelle modalità sintomatologiche, per ogni singolo paziente; esistono comunque una serie di sintomi comuni, che si trovano frequentemente associati nelle varie fasi con cui, clinicamente, si suddivide per convenzione il decorso della malattia. A una prima fase lieve, fa seguito la fase intermedia, e quindi la fase avanzata/severa; il tempo di permanenza in ciascuna di queste fasi è variabile da soggetto a soggetto, e può in certi casi durare anche diversi anni.
La malattia viene spesso anticipata dal cosiddetto mild cognitive impairment (MCI), un leggero calo di prestazioni in diverse funzioni cognitive in particolare legate alla memoria, all’orientamento o alle capacità verbali. Tale calo cognitivo, che è comunque frequente nella popolazione anziana, non è necessariamente indicativo di demenza incipiente, ma può in alcuni casi essere seguito dall’avvio delle fasi iniziali dell’Alzheimer.
La malattia inizialmente si manifesta spesso come demenza caratterizzata da amnesia progressiva e altri deficit cognitivi. Il deficit di memoria è prima circoscritto a sporadici episodi nella vita quotidiana, ovvero disturbi di quella che viene chiamata on-going memory (ricordarsi cosa si è mangiato a pranzo, cosa si è fatto durante il giorno) e della memoria prospettica (che riguarda l’organizzazione del futuro prossimo, come ricordarsi di andare a un appuntamento); poi man mano il deficit aumenta e la perdita della memoria arriva a colpire anche la memoria episodica retrograda (riguardante fatti della propria vita o eventi pubblici del passato) e la memoria semantica (le conoscenze acquisite), mentre la memoria procedurale (che riguarda l’esecuzione automatica di azioni) viene relativamente risparmiata fino alle fasi intermedio-avanzate della malattia.
A partire dalle fasi lievi e intermedie possono poi manifestarsi crescenti difficoltà di produzione del linguaggio, con incapacità nella definizione di nomi di persone od oggetti, e frustranti tentativi di “trovare le parole”, seguiti poi nelle fasi più avanzate da disorganizzazione nella produzione di frasi e uso sovente scorretto del linguaggio (confusione sui significati delle parole, ecc.). Sempre nelle fasi lievi-intermedie, la pianificazione e gestione di compiti complessi (gestione di documenti, attività lavorative di concetto, gestione del denaro, guida dell’automobile, cucinare, ecc.) cominciano a diventare progressivamente più impegnative e difficili, fino a richiedere assistenza continuativa o divenire impossibili.
Nelle fasi intermedie e avanzate, inoltre, possono manifestarsi problematiche comportamentali (vagabondaggio, coazione a ripetere movimenti o azioni, reazioni comportamentali incoerenti) o psichiatriche (confusione, ansia, depressione e, occasionalmente, deliri e allucinazioni). Il disorientamento nello spazio, nel tempo o nella persona (ovvero la mancata o confusa consapevolezza di dove si è situati nel tempo, nei luoghi e/o nelle identità personali, proprie o di altri – comprese le difficoltà di riconoscimento degli altri significativi) è sintomo frequente a partire dalle fasi intermedie-avanzate. In tali fasi si aggiungono difficoltà progressive anche nella cura della persona (lavarsi, vestirsi, assumere farmaci, ecc.).
Ai deficit cognitivi e comportamentali, nelle fasi più avanzate si aggiungono infine complicanze mediche internistiche, che portano a una compromissione progressiva della salute. Una persona colpita dalla malattia può vivere anche una decina di anni dopo la diagnosi clinica di malattia conclamata.
Come sottolineato, col progredire della malattia le persone non solo presentano deficit di memoria, ma risultano deficitarie nelle funzioni strumentali mediate dalla corteccia associativa, e possono pertanto presentare afasia e aprassia, fino a presentare disturbi neurologici e poi internistici; pertanto i pazienti, nelle fasi intermedie e avanzate, necessitano di continua assistenza personale (solitamente erogata da familiari e badanti, i cosiddetti caregiver, che sono a loro volta sottoposti ai forti stress tipici di chi assiste i malati di Alzheimer).

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Diagnosi

La malattia di Alzheimer è di solito diagnosticata clinicamente dalla storia del paziente, da osservazioni cliniche, dalla presenza di particolari caratteristiche neurologiche e neuropsicologiche e per l’assenza di condizioni alternative.
Sistemi avanzati di imaging biomedico, come la tomografia computerizzata (TC), la risonanza magnetica (MRI), la tomografia a emissione di fotone singolo (SPECT) o la tomografia ad emissione di positroni (PET) possono essere utilizzate per aiutare a escludere altre patologie cerebrali o altri tipi di demenza. Inoltre, si possono prevedere il passaggio da fasi prodromiche (decadimento cognitivo lieve) alla malattia di Alzheimer.
Gli assessment neuropsicologici e cognitivi, inclusi i test di memoria ed esecutivi, possono ulteriormente caratterizzare lo stato della malattia. Diverse organizzazioni mediche hanno creato i criteri diagnostici per facilitare e standardizzare il processo diagnostico. La diagnosi clinica viene confermata a livello patologico solo con l’analisi istologica del cervello post-mortem.

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Criteri diagnostici

Lo statunitense National Neurological Disorders and Stroke (NINCDS) e l’Associazione dei Malati di Alzheimer ha istituito il criterio diagnostico NINCDS-ADRDA nel 1984, in seguito aggiornato nel 2007. Questo criterio richiede che la presenza di deficit cognitivi e una sospetta sindrome di demenza debbano essere confermati da test neuropsicologici per porre la diagnosi clinica di Alzheimer. Una conferma istopatologica, tra cui un esame al microscopio del tessuto cerebrale (eseguibile solo post-mortem) è necessaria per una conferma della diagnosi definitiva a posteriori.
Sono otto gli ambiti funzionali cognitivi più comunemente compromessi: memoria, linguaggio, abilità percettiva, attenzione, abilità costruttiva, orientamento, risoluzione dei problemi e capacità funzionali. Questi ambiti cognitivi sono equivalenti ai criteri della NINCDS ADRDA, come elencati nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM) pubblicato dalla American Psychiatric Association.

Tecniche diagnostiche, screening e diagnostica per immagini

Alcuni test di screening neuropsicologico e la diagnostica per immagini possono essere utili nella diagnosi di Alzheimer; per approfondire leggi: Malattia di Alzheimer: screening e diagnosi nelle fasi iniziali della malattia

Terapia

Anche se al momento non esiste una cura efficace, sono state proposte diverse strategie terapeutiche per tentare di influenzare clinicamente il decorso della malattia di Alzheimer; tali strategie puntano a modulare farmacologicamente alcuni dei meccanismi patologici che ne stanno alla base. È inoltre opportuno integrare interventi psicosociali, cognitivi e comportamentali. Per approfondire i farmaci usati nella malattia di Alzheimer: Malattia di Alzheimer: cura farmacologica

Intervento psicosociale e cognitivo

Nel paziente con malattia di Alzheimer, oltre al trattamento farmacologico, esistono interventi comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo che possono aiutare il soggetto; per approfondire leggi: Intervento psicosociale e cognitivo nel paziente con malattia di Alzheimer

Prognosi

Le fasi iniziali della malattia di Alzheimer sono difficili da diagnosticare. Una diagnosi definitiva è posta solitamente una volta che si verifica una significativa compromissione cognitiva e una percepibile riduzione di capacità di svolgere le attività della vita quotidiana, anche se la persona è ancora in grado di gestirsi autonomamente. Il deterioramento della memoria e il peggioramento dei disturbi cognitivi e non cognitivi, associati alla malattia, riducono progressivamente l’autonomia nella vita quotidiana.
L’aspettativa di vita della popolazione con la malattia si riduce, con un tempo di vita media di circa sette anni dopo la diagnosi. Meno del 3% della popolazione vive più di quattordici anni. Malattie caratteristiche significativamente associate alla ridotta sopravvivenza sono un aumento della gravità del deficit cognitivo, diminuzione del livello funzionale, diverse cadute e disturbi neurologici. Altre patologie concomitanti, come problemi cardiaci, diabete o storia di abuso di alcool sono correlate con una sopravvivenza più breve. L’aspettativa di vita è particolarmente ridotta rispetto alla popolazione sana quando la malattia di Alzheimer colpisce coloro che sono più giovani. Gli uomini hanno una prognosi di sopravvivenza meno favorevole rispetto alle donne.
La malattia è la causa di morte nel 70% dei casi. La polmonite e la disidratazione sono le cause immediate più frequenti di morte, mentre il cancro è meno frequente rispetto alla popolazione generale.

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Prevenzione

Al momento non ci sono prove definitive per sostenere l’efficacia di una qualsiasi misura preventiva per la malattia di Alzheimer. Studi per identificarle hanno spesso prodotto risultati incoerenti. Tuttavia, studi epidemiologici hanno proposto correlazioni tra alcuni fattori modificabili (come la dieta, il rischio cardiovascolare, l’utilizzo di prodotti farmaceutici o lo svolgimento di attività intellettuali) e la probabilità per una popolazione di sviluppare la malattia. Solo ulteriori ricerche, tra cui gli studi clinici, riveleranno se questi fattori possono aiutare a prevenire o ritardare l’insorgenza della malattia di Alzheimer.

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Quadro clinico e dieta

Sebbene i fattori di rischio cardiovascolari, come l’ipercolesterolemia, l’ipertensione, il diabete e il fumo, siano associati con un rischio maggiore di insorgenza della malattia, le statine, che sono farmaci per l’abbassamento del colesterolo, non si sono dimostrate efficaci nel prevenire o migliorare il decorso. I componenti di una dieta mediterranea, che comprendono frutta e verdura, pane, grano e altri cereali, olio d’oliva, pesce e vino rosso, possono singolarmente o tutti insieme ridurre il rischio e ritardare il decorso della malattia di Alzheimer. I loro benefici effetti cardiovascolari sono stati proposti come meccanismo di azione. Esistono prove limitate che un consumo, da lieve a moderato, di alcool, soprattutto vino rosso, sia associato a un minor rischio di Alzheimer.
Ipotesi sull’uso di vitamine non hanno trovato prove sufficienti di efficacia per raccomandare la vitamina C, E, acido folico, con o senza vitamina B12, come agenti di prevenzione o per il trattamento dell’Alzheimer. Inoltre, la vitamina E, è associata a rischi per la salute. Studi compiuti esaminando la somministrazione di acido folico (B9) e di altre vitamine B non hanno mostrato alcuna correlazione significativa con il declino cognitivo.
L’utilizzo a lungo termine di farmaci anti-infiammatori non steroidei (FANS) è associato a una ridotta probabilità di sviluppare Alzheimer. Studi post-mortem umani, studi su modelli animali, o in studi in vitro, supportano l’ipotesi che i FANS possano ridurre l’infiammazione correlata alle placche amiloidi. Tuttavia, studi riguardanti il loro uso come trattamento palliativo non sono riusciti a dimostrare risultati positivi, mentre nessun processo di prevenzione è stato realizzato. La curcumina del curry ha mostrato una certa efficacia nel prevenire i danni cerebrali, nei modelli di topo, in virtù delle sue proprietà anti-infiammatorie. La terapia ormonale sostitutiva, anche se utilizzata in passato, non è più ritenuta efficace per prevenire la demenza e in alcuni casi può anche esserne ritenuta responsabile.

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Stile di vita

Esistono studi che mostrano correlazioni tra determinati stili di vita e l’incidenza del rischio di contrarre la patologia o con la sua progressione.
Le persone che si impegnano in attività intellettuali, come la lettura, i giochi da tavolo, i cruciverba, l’esecuzione con strumenti musicali, o che hanno una regolare interazione sociale, mostrano una riduzione del rischio di sviluppo della malattia di Alzheimer. Questo è compatibile con la teoria della riserva cognitiva, in cui si afferma che alcune esperienze di vita forniscono all’individuo una riserva cognitiva che ritarda l’insorgenza di manifestazioni di demenza. L’apprendimento di una seconda lingua, anche in tarda età, sembra ritardare la malattia di Alzheimer. La pratica di attività fisica è anch’essa un comportamento associato a un ridotto rischio di Alzheimer.
Alcuni studi hanno mostrato un aumentato rischio di sviluppare la malattia nel caso di assunzione di metalli, e, in particolare, alluminio, o in caso di esposizione a particolari solventi. La qualità di alcuni di questi studi è stata però criticata, e altri studi hanno concluso che non vi è alcuna relazione tra questi fattori ambientali e lo sviluppo di Alzheimer.
Mentre alcuni studi suggeriscono che l’esposizione a campi elettromagnetici a bassa frequenza può aumentare il rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, i revisori hanno rilevato che sono necessari ulteriori indagini epidemiologiche e di laboratorio per poter avvalorare tale ipotesi. Il fumo è un importante fattore di rischio per l’Alzheimer.
Alcuni studi compiuti presso il National Institute on Ageing di Baltimora ipotizzano che il digiuno a intervalli regolari (1 o 2 giorni a settimana) potrebbe avere un ruolo palliativo alle forme più gravi della malattia.

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Costi economico-sociali

La crescente incidenza di questa patologia nella popolazione generale in tutto il mondo è accompagnata da una crescita equivalente del suo enorme costo economico e sociale: allo Stato, secondo Lancet, il costo economico per la cura dei pazienti affetti da demenza a livello mondiale è di circa 600 miliardi di dollari all’anno, con un trend di crescita che lo porterà nel 2030 ad aumentare dell’85% (e con un carico crescente anche per i Paesi in via di sviluppo), facendolo divenire uno degli oneri con maggior impatto economico per i sistemi sanitari nazionali e le comunità sociali dell’intero pianeta.
Nonostante questo, la ricerca scientifica e clinica sulla demenza è ancora gravemente sottofinanziata: in Inghilterra, ad esempio, si calcola che il costo economico complessivo della cura dei pazienti affetti da demenza superi quello per i tumori e per le malattie cardiovascolari messe insieme, ma la ricerca sulle demenze riceve solo un dodicesimo dei finanziamenti di quella per i tumori.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

Demenza senile: cause, sintomi, decorso, cure, differenza con il normale invecchiamento

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma DEMENZA SENILE CAUSE DECORSO SINTOMI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgCon “demenza senile” si indica una patologia neurodegenerativa dell’encefalo, tipica dell’età avanzata e caratterizzata da una riduzione graduale ed irreversibile delle facoltà cognitive di una persona. La demenza senile rientra nella più ampia categoria delle demenze le quali sono patologie neurodegenerative dell’encefalo che possono colpire persone anziane ma non solo, e che determinano un progressivo declino delle facoltà cognitive di un individuo. E’ importante ricordare che non tutte le demenze sono irreversibili, sono reversibili ad esempio alcune forme di demenza da idrocefalo normoteso o da cause metaboliche. Un tempo “demenza senile” era sinonimo di malattia di Alzheimer. Successivamente, con la scoperta di altre forme di demenza tipiche dell’età avanzata, e con l’individuazione di una forma di Alzheimer giovanile, la dicitura demenza senile ha assunto un significato leggermente diverso, riportato nella definizione iniziale. Pur non essendo la demenza una causa diretta di morte, nella maggior parte dei casi sono i disturbi della deglutizione ad essa associata ad essere fatali per l’anziano. Tali disturbi, infatti, concorrono allo sviluppo di polmoniti da inalazione (o da aspirazione).
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Demenza senile o fisiologico invecchiamento?
Nonostante determinino manifestazioni simili, la demenza senile e il cosiddetto declino cognitivo legato all’età avanzata sono due condizioni mediche differenti.
Infatti, il declino cognitivo legato all’età avanzata – noto anche come deterioramento cognitivo dell’età avanzata – è un normale processo involutivo a cui va incontro il cervello di una persona sana, durante l’invecchiamento. Tale normale processo involutivo interessa tutte le persone anziane e comporta una graduale riduzione del volume cerebrale, la perdita di diversi neuroni e un’inefficiente trasmissione dei segnali nervosi; ovviamente questi processi possono essere più o meno gravi in funzione di molti fattori: un anziano in peso forma, che svolge attività fisica regolare, si alimenta bene e continua a mantenersi attivo (ad esempio leggendo libri, avendo hobby ed amici con cui parlare), avrà un declino più lento di un anziano obeso, pigro e sedentario, a parità di età biologica. Al contrario del fisiologico deterioramento cognitivo legato all’età avanzata, la demenza senile è una vera e propria patologia. Mentre tutti noi da anziani andremo incontro ad un deterioramento cognitivo, non tutti noi avremo la demenza senile.

TIPI DI DEMENZA SENILE
Le principali malattie neurodegenerative dell’encefalo, che fanno capo alla voce “demenza senile”, sono:

  • Il morbo di Alzheimer o malattia di Alzheimer. Il morbo di Alzheimer può colpire anche adulti giovani, trentenni. In questi frangenti, la malattia è nota come Alzheimer giovanile, ha probabilmente cause di tipo genetico e non rientra tra le forme di demenza senile.
  • La demenza vascolare.
  • La demenza a corpi di Lewy.

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EPIDEMIOLOGIA
Dati epidemiologici relativi, specificatamente, alla demenza senile non esistono.
Tuttavia, è possibile trarre alcune conclusioni interessanti dai numerosi studi statistici riguardanti la più ampia categoria delle demenze
Secondo tali studi, datati 2010, le persone dementi sparse in tutto il mondo sarebbero circa 36 milioni.
Di questi 36 milioni:

  • Il 3% ha tra i 65 e i 74 anni, il 19% ha tra i 75 e gli 84 anni e più della metà ha dagli 85 anni in su.
  • 6,8 milioni vivono negli Stati Uniti. Più della metà di queste persone con demenza è ultraottantenne.
  • 750.000-800.000 vivono nel Regno Unito.
  • Il 50-70% soffre di morbo di Alzheimer, il 25% di demenza vascolare, il 15% di demenza a corpi di Lewy e la restante percentuale è affetta dalle altre forme di demenza esistenti.

Per effetto dell’allungamento delle vita media dell’essere umano, gli esperti ritengono che il numero di persone con demenza senile sarà destinato ad aumentare progressivamente.
Per quanto concerne le demenze in generale, alcune previsioni sostengono che, nel 2020, il numero mondiale di dementi raggiungerà i 48 milioni circa.
In Italia, le persone con una forma di demenza sono circa l’1,5% della popolazione sopra i 65 anni e più del 30% della popolazione sopra gli 80 anni.

Cause
Le precise cause di demenza senile sono ancora poco chiare. A renderne difficile lo studio e la comprensione è la complessità strutturale dell’encefalo.
Al momento, il solo dato certo, in merito ai fattori scatenanti, è che la demenza senile è la conseguenza di due eventi: la morte delle cellule nervose cerebrali e/o un loro malfunzionamento a livello di comunicazione intercellulare (cioè la comunicazione esistente tra cellula e cellula).

CAUSE IPOTETICHE: AGGREGATI PROTEICI E  PROBLEMI CEREBROVASCOLARI
Studiando i vari tipi di demenza senile sopraccitati, i ricercatori hanno fatto alcuni importanti ritrovamenti e hanno ipotizzato, per questi, un possibile ruolo causale.
Per quanto concerne il morbo di Alzheimer e la demenza da corpi di Lewy, questi ritrovamenti consistono nei cosiddetti aggregati proteici, ossia aggregati di proteine con sede all’esterno e/o all’interno dei neuroni cerebrali.
L’idea degli studiosi è che questi aggregati vadano a interferire con il normale funzionamento dei neuroni, determinandone, in alcuni frangenti, anche la morte.
Tra le proteine costituenti gli aggregati proteici, rientrano: l’APP (o proteina precursore della beta amiloide), la proteina tau e l’alfa-sinucleina. L’APP e la proteina tau caratterizzano il morbo di Alzheimer, mentre l’alfa-sinucleina contraddistingue la demenza a corpi di Lewy.
Per quanto concerne invece la demenza vascolare, i ritrovamenti che potrebbero in qualche modo spiegare l’insorgenza della malattia consistono nelle alterazioni vascolari (cioè a carico dei vasi sanguigni), rinvenute in sede cerebrale. Secondo gli studiosi, queste alterazioni andrebbero a pregiudicare il normale flusso sanguigno cerebrale, il tutto con serie conseguenze a carico del tessuto nervoso del cervello.
All’origine delle alterazioni vascolari cerebrali possono esserci episodi di ictus omini-ictus, la cosiddetta malattia dei piccoli vasi sanguigni o l’aterosclerosi.

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Sintomi
I sintomi e i segni della demenza senile subiscono un peggioramento graduale, che è strettamente dipendente dalla progressiva morte delle cellule nervose cerebrali.
In genere, l’evoluzione sintomatologica della demenza senile è un percorso a tre stadi: iniziale, intermedio e avanzato.
Allo stadio iniziale, le manifestazioni più caratteristiche consistono in:

  • Piccoli problemi di memoria a breve termine (in genere amnesie);
  • Sporadici cambiamenti di personalità;
  • Occasionale mancanza di giudizio;
  • Lievi difficoltà di linguaggio, calcolo, ragionamento e comprensione di nuovi concetti;
  • Tendenza alla passività e alla mancanza d’iniziativa.

Allo stadio intermedio, i sintomi e i segni più comuni sono:

  • Perdita evidente di parte delle abilità cognitive, dalle capacità di ragionamento e apprendimento a quelle di giudizio;
  • Peggioramento dei problemi di memoria a breve termine;
  • Problemi di memoria a lungo termine;
  • Aggravamento delle difficoltà di linguaggio;
  • Problemi visivi, dall’incapacità di riconoscere i colori e leggere a quella di quantificare approssimativamente una distanza;
  • Confusione (o disorientamento) spazio-temporale, con il paziente che fatica a realizzare dove si trova, a dire con certezza il giorno della settimana ecc;
  • Difficoltà nel quotidiano, anche nelle attività più banali;
  • Lieve instabilità emotiva.

Infine, allo stadio avanzato, i disturbi tipici consistono in:

  • Perdita totale o quasi totale delle capacità cognitive;
  • Incapacità di accudire alla propria persona, quindi problemi nel mangiare, lavarsi ecc;
  • Incapacità di riconoscere le persone care;
  • Difficoltà di deglutizione;
  • Perdita di controllo della funzione intestinale e vescicale (incontinenza);
  • Perdita del controllo motorio, con il paziente che cammina sempre meno.

È importante precisare che ciascun tipo di demenza senile presenta alcune particolarità sintomatologiche.
Per esempio, chi soffre di morbo di Alzheimer può manifestare anche: aggressività insolita, agitazione, depressione, insonnia e/o delusione.
Chi è affetto da demenza vascolare può manifestare allucinazioni e una serie di disturbi dipendenti dall’area cerebrale interessata dalle alterazioni vascolari.
Infine, i malati di demenza a corpi di Lewy possono evidenziare problematiche analoghe alle persone con morbo di Parkinson (quindi andatura ricurva, passo strascicato ecc).

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DURATA DEL DECLINO COGNITIVO
La durata del graduale declino cognitivo dipende dal tipo di demenza senile in atto.
Ad esempio, la malattia di Alzheimer impiega, tipicamente, tra i 7 e i 10 anni per pregiudicare del tutto le capacità cognitive; dopodiché causa la morte.
La demenza vascolare agisce in maniera differente da paziente a paziente: in alcuni soggetti, il declino è molto rapido (pochi anni); in altri soggetti, invece, è decisamente più lento.
Infine, la demenza a corpi di Lewy presenta un declino cognitivo che raggiunge il suo apice nel giro di 7 anni.

Diagnosi
Non potendo contare su un test specifico per diagnosticare le demenze, i medici ricorrono a una lunga serie di esami molto diversi tra loro, che valutano le condizioni in cui versa il paziente e permettono l’esclusione di malattie differenti ma dai sintomi analoghi (N.B: questo modo di procedere, per esclusione, è noto come diagnosi differenziale).

Tra le valutazioni diagnostiche utilizzate, rientrano:

  • Un esame obiettivo accurato.
    Consiste nell’analisi dei sintomi e dei segni, riportati o manifestati dal paziente. Nonostante non fornisca alcun dato certo, rappresenta un passaggio obbligato e spesso ricco di informazioni diagnostiche utili.
  • L’analisi della storia clinica.
    Consiste nell’indagare: come e quando i sintomi hanno fatto la loro prima comparsa; se il paziente soffre o ha sofferto in passato di altre particolari patologie; se il paziente assume farmaci ecc.
  • Un esame neurologico completo.
    Consiste nell’analisi dei riflessi tendinei, delle abilità motorie (equilibrio ecc) e delle funzioni sensoriali.
  • Un esame cognitivo e neuropsicologico.
    Consiste nello studio del comportamento, delle capacità di memoria, delle abilità di linguaggio e della facoltà di ragionamento.
  • La risonanza magnetica nucleare (RMN) e la tomografia assiale computerizzata (TAC), entrambe riferite all’encefalo.
    Sono due procedure di diagnostica per immagini che permettono di valutare lo stato di salute dell’encefalo. Infatti, sono in grado di evidenziare eventuali processi di atrofia della corteccia cerebrale (tipici del morbo di Alzheimer) o eventuali alterazioni cerebrovascolari (tipiche della demenza vascolare).
  • Esami di laboratorio.
    Consistono in: analisi del sangue, misura della glicemia, analisi delle urine, test tossicologici, analisi del liquido cerebrospinale e, infine, misura degli ormoni tiroidei.
    La loro esecuzione è importante dal punto di vista della diagnosi differenziale.

Trattamento
Allo stato attuale, la demenza senile è una condizione che è possibile curare soltanto sotto il profilo dei sintomi, in quanto non è stato ancora trovato un trattamento specifico in grado di arrestare la neurodegenerazione e far regredire le sue conseguenze (ossia la riduzione delle facoltà cognitive).
Tra i vari tipi di terapia sintomatica a disposizione dei pazienti con demenza senile, rientrano:

  • Farmaci. I più noti e prescritti sono gli inibitori dell’acetilcolinesterasie la memantina, un preparato farmacologico che agisce sul sistema glutamminergico.
    La somministrazione di altri medicinali dipende dal tipo di demenza senile in atto.
    Per esempio, la demenza vascolare prevede l’impiego di antipertensivi e anticoagulanti (per far fronte ai problemi di natura cerebrovascolare), mentre la demenza a corpi di Lewy prevede l’uso di levodopa (per contrastare i problemi di natura parkinsoniana).
    Altri farmaci e preparati farmaceutici potenzialmente utili sono: gli antidepressivi, gli antipsicotici e le vitamine antiossidanti.
  • Fisioterapia
  • Terapia occupazionale
  • Terapia comportamentale
  • Terapia del linguaggio
  • Stimolazione cognitiva.

DIETA E STILE DI VITA
Diversi team di ricerca stanno cercando di capire se la dieta e lo stile di vita influiscano sulla demenza senile.
Nella fattispecie, stanno testando se, in qualche modo, il tipo di alimentazione e una regolare attività fisica siano capaci di rallentare il processo neurodegenerativo, indotto dal morbo di Alzheimer.

Prognosi e prevenzione
Date l’impossibilità di curarla in maniera specifica e l’inesorabile neurodegenerazione che provoca, la demenza senile ha, inevitabilmente, una prognosi negativa. Svariati studi scientifici hanno dimostrato che esistono alcune strategie per posticipare la comparsa della demenza senile.

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Differenza tra malattia di Alzheimer e malattia di Parkinson: sintomi comuni e diversi

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma DIFFERENZA MORBO ALZHEIMER PARKINSON SIN Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgLa malattia di Alzheimer e la malattia di Parkinson sono patologie spesso confuse tra i meno esperti, anche perché possono effettivamente avere sintomi simili, specie nelle fasi terminali, tuttavia eziologia, zona colpita, trattamenti e sintomi caratteristici sono diversi.

Malattie di Alzheimer

La malattia di Alzheimer è la forma più comune di demenza degenerativa progressivamente invalidante con esordio prevalentemente in età presenile, oltre i 65 anni ed è caratterizzato da accumulo di materiale inerte tra le cellule nervose, che vengono compresse e distrutte. Questo materiale è costituito da placche amiloidi e ammassi neurofibrillari riscontrati nel cervello, anche se non è ancora del tutto chiara la causa primaria della loro formazione. Il sintomo precoce più frequente è la difficoltà nel ricordare eventi recenti, successivamente possiamo avere sintomi come: afasia, disorientamento, cambiamenti repentini di umore, depressione, incapacità di prendersi cura di sé, problemi nel comportamento. Ciò porta il soggetto inevitabilmente a isolarsi nei confronti della società e della famiglia. A poco a poco, le capacità mentali basilari vengono perse. La patologia di Alzheimer determina quindi disturbi soprattutto comportamentali e compromette le attività corticali più complesse: parola, ragionamento, memoria.

Malattie di Parkinson

La malattia di Parkinson è dato dalla morte – causata da fattori eziologici ancora non del tutto chiari – delle cellule non corticali che sintetizzano e rilasciano la dopamina e che si trovano nella substantia nigra, una regione del mesencefalo, facendo parte di un complesso circuito di nuclei nervosi che prende il nome di “sistema dei gangli della base”.  Mentre la malattia di Alzheimer determina disturbi soprattutto comportamentali, la malattia di Parkinson determina disturbi soprattutto motori: all’esordio della malattia, i sintomi più evidenti sono legati al movimento, ed includono tremori, rigidità, lentezza nei movimenti e difficoltà a camminare.

Sintomi e segni comuni

Nelle fasi avanzate della patologia, nel soggetto affetto da Parkinson possono insorgere problemi cognitivi e comportamentali che si manifestano nella comparsa di demenza: in questo caso Alzheimer e Parkinson possono avere dei sintomi effettivamente sovrapponibili.

Età di esordio diverse

Entrambe le patologie sono diffuse negli anziani, tuttavia, mentre l’Alzheimer colpisce specialmente (ma non esclusivamente) dopo i 65 anni, invece la malattia di Parkinson tende a verificarsi prima: la maggior parte dei casi si verifica a partire dai 50 anni di età.

Terapie diverse

I sintomi legati alla malattia di Parkinson vengono trattati con l’uso di agonisti della dopamina e di levodopa. Col progredire della malattia, i neuroni dopaminergici continuano a diminuire di numero, e questi farmaci diventano inefficaci nel trattamento della sintomatologia e, allo stesso tempo, producono una complicanza, la discinesia, caratterizzata da movimenti involontari. Una corretta alimentazione e alcune forme di riabilitazione hanno dimostrato una certa efficacia nell’alleviare i sintomi. La chirurgia e la stimolazione cerebrale profonda vengono utilizzate per ridurre i sintomi motori come ultima risorsa, nei casi più gravi in cui i farmaci risultano inefficaci. I sintomi dell’Alzheimer sono invece trattati farmaci inibitori reversibili dell’acetilcolinesterasi, che hanno una bassa affinità per l’enzima presente in periferia, e che sono sufficientemente lipofili da superare la barriera emato-encefalica (BEE), e agire quindi di preferenza sul sistema nervoso centrale. Tra questi, la tacrina, il donepezil, la fisostigmina, la galantamina e la neostigmina sono stati i capostipiti, ma l’interesse farmacologico è attualmente maggiormente concentrato su rivastigmina e galantamina, il primo perché privo di importanti interazioni farmacologiche, il secondo poiché molto biodisponibile e con emivita di sole sette ore, tale da non causare facilmente effetti collaterali. Un’altra e più recente linea d’azione prevede il ricorso a farmaci che agiscano direttamente sul sistema glutamatergico, come la memantina. La memantina ha dimostrato un’attività terapeutica, moderata ma positiva, nella parziale riduzione del deterioramento cognitivo in pazienti con Alzheimer da moderato a grave. In entrambe le patologie è sicuramente utile un approccio parallelo non-farmacologico, che consiste prevalentemente in interventi comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo e motorio.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Differenza tra malattia di Alzheimer, demenza senile, vascolare e reversibile

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma DIFFERENZA MORBO ALZHEIMER PARKINSON DEMENZA SENILE VASCOLARE REVERS Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata.jpgCon demenza senile si indica un gruppo di patologie neurodegenerative dell’encefalo causate da diversi fattori eziologici; colpisce le persone anziane determinando in esse una riduzione graduale ed irreversibile delle facoltà cognitive.
Inizialmente, produce occasionali problemi di personalità, lievi problemi di memoria, linguaggio e ragionamento. Successivamente è responsabile di un peggioramento dei problemi di memoria, del declino di un parte delle facoltà cognitive. Negli stadi più avanzati la demenza senile porta alla perdita totale delle capacità cognitive, a gravi difficoltà di deglutizione, alla quasi totale incapacità di riconoscere le persone care. Esistono vari tipi di demenza senile. Le tipologie principali e più note sono:

  • la malattia di Alzheimer;
  • la demenza vascolare;
  • la demenza a corpi di Lewy.

Le demenze senili sono irreversibili, tuttavia esistono altri tipi di demenze che sono reversibili, cioè guariscono se viene corretta la causa. Esse sono:

  • determinate da cause metaboliche (carenza di vitamina B12, folati, pellagra, patologie tiroidee, epatiche e renali. La Sindrome di Wernicke-Korsakoff non è reversibile)
  • secondarie a patologie cerebrali (infezioni, infiammazioni, neoplasie)
  • da idrocefalo normoteso (caratterizzato da triade di sintomi che compaiono in sequenza: disturbi della marcia, incontinenza urinaria, declino cognitivo. Può venir drenato mediante shunt peritoneali).

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La malattia di Alzheimer è la più comune forma di demenza degenerativa che si manifesta dopo i 65 anni ed è determinata da cause ancora non del tutto chiare, probabilmente difetti genetici che favoriscono la sintesi di due proteine, la beta-amiloide e la tau, che favoriscono la formazione di ammassi in grado di danneggiare i neuroni. Chi soffre della malattia di Alzheimer ha forti disturbi delle memoria recente, avverte difficoltà di orientamento nello spazio e nel tempo, accusa problemi di concentrazione e – in definitivaprogressivamente tende a perdere l’autonomia. La malattia di Alzheimer è un tipo di demenza senile.

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Le demenze vascolari sono patologie neurodegenerative dell’encefalo provocate da:

  • piccoli infarti ripetuti cronicamente;
  • malattie dei piccoli vasi;
  • da ipoperfusione generalizzata;
  • da infarti strategici (sono colpite da danno aree cerebrali con funzioni specifiche);
  • emorragie.

Tali eventi determinano lesioni che portano alla distruzione progressiva del tessuto cerebrale con relativi disturbi cognitivi che possono essere accompagnati da difficoltà motorie.

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La demenza da corpi di Lewy è un ulteriore tipo di demenza senile, ed ha un profilo simile a quello della malattia di Alzheimer. Ma in questo caso compaiono anche i segni del parkinsonismo: tremore e rigidità muscolare. Per diagnosticare una demenza da corpi di Lewy è necessario che non intercorra più di un anno tra la comparsa dei disturbi cognitivi e quelli parkinsoniani. Chi ne soffre, inoltre, avverte allucinazioni importanti, che spesso non rispondono agli psicofarmaci, e disturbi del sonno nella fase Rem: spesso questi pazienti fanno sogni vivaci a contenuto angosciante.

Vi sono inoltre le demenze fronto-temporali: in questo caso l’atrofia cerebrale coinvolge i lobi frontale e temporale. Sono riconoscibili per una generale apatia, tendenza all’irritabilità e varianti linguistiche: come l’afasia (difficoltà di comporre o comprendere il linguaggio) e la disfasia (difficoltà nell’ordinare le parole secondo uno schema logico.).

E’ importante infine ricordare che, da un punto di vista clinico, si classificano le demenze in corticali e sottocorticali:

  • Demenze corticali: (rappresentate soprattutto dalla malattia di Alzheimer) con estesa atrofia corticale, precoci alterazioni della memoria e successivamente perdita del pensiero astratto, agnosia, afasia, aprassia.
  • Demenze sottocorticali: più precoce rallentamento dei processi cognitivi con conseguente rallentamento delle risposte motorie (chiamato bradifrenia), alterazioni della personalità tipiche dei disturbi affettivi come apatia e depressione, minore perdita della memoria e assenza di disturbi considerati “corticali” come agnosia, afasia, aprassia. Fra le altre: Malattia di Parkinson, Corea di Huntington, paralisi sopranucleare progressiva e alcune patologie cerebrali non degenerative.

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Diabete: come comportarsi col paziente anziano

MEDICINA ONLINE ANZIANO VECCHIO NONNO NONNI TERZA ETA SOLITUDINE DIABETE PATOLOGIE AIUTO SUPPORTO.jpgIl 65% di chi ha il diabete ha più di 65 anni, una su cinque più di 80, mentre l’età media dei diabetici italiani è 68 anni. Ciò significa che chi cura il diabete ha spesso a che fare con persone nella terza o nella quarta età. E il trattamento del diabete nell’anziano e nel grande vecchio deve seguire delle regole particolari. L’Organizzazione Mondiale della Salute stima che entro il 2040 nel mondo una persona su dieci sarà affetta da diabete, con una maggiore incidenza negli uomini rispetto alle donne. Dopo ipertensione e tabagismo, l’iperglicemia è il terzo fattore di rischio più importante per la mortalità precoce: solo nel 2015 i decessi nel mondo sono stati 5.000.000.

La prevalenza del diabete aumenta con l’aumentare dell’età
Secondo gli ultimi dati ISTAT in Italia nel 2015 i diabetici erano il 5,4% della popolazione, ma tra i 65 e i 74 anni il diabete interessa il 15,2% delle persone e tra gli ultra75enni ne è colpita quasi una persona su cinque. Oltre il 65% dei diabetici si colloca nella fascia di età superiore ai 65 anni, e quasi un paziente su quattro ha un’età pari o superiore agli 80 anni. Ecco tutti i consigli

La valutazione nutrizionale
La valutazione nutrizionale deve avvenire di routine e deve essere fatta con uno strumento di valutazione standardizzato, come il ‘Mini Nutritional Assessment’, un questionario su aspetti fisici e comportamentali riguardanti lo stato nutrizionale dell’anziano. Per la compilazione bastano 10 minuti. L’anziano è più portato a mangiare male, una condizione che si somma ai cambiamenti legati all’età, come la riduzione della massa ossea e muscolare e l’aumento della massa grassa.

Attenzione a dieta e attività fisica
Tutti i pazienti anziani con diabete e i loro caregiver (le persone che se ne occupano, ndr) devono ricevere assistenza qualificata sull’importanza dell’alimentazione e dell’attività fisica. La dieta va personalizzata in base alle preferenze e alle abitudini individuali, lo stato di salute fisica e mentale e la terapia che si sta seguendo. La dieta mediterranea è quella da preferire. L’apporto proteico non deve superare il 10-20% delle calorie totali in presenza di insufficienza renale. Quando la dieta da sola non basta a garantire i fabbisogni nutrizionali, si può ricorrere a integratori proteici, di vitamina B12, di vitamina D e di calcio. Va garantito un adeguato apporto di liquidi – principalmente attraverso acqua, frutta e verdura – per evitare la disidratazione. Gli anziani con diabete in buone condizioni vanno inoltre incoraggiati a fare attività fisica: 150 minuti a settimana di attività fisica aerobica di moderata intensità
suddivisa in tre giorni, associata ad esercizi di resistenza e di stretching. Dopo 90 minuti passati seduti o sdraiati è bene muoversi un po’.

Attenzione alle altre malattie dell’anziano
La persona anziana con diabete di tipo 2 dovrebbe essere sottoposto a una valutazione
multidimensionale geriatrica (misura delle funzioni globale/fisica, cognitiva e affettiva) e delle sindromi geriatriche. Un anziano con limitazioni potrebbe avere infatti difficoltà a gestire la terapia anti-diabete. Per lo stesso motivo bisogna vigilare sulla possibile comparsa del decadimento cognitivo (il diabete si associa ad un aumento del rischio di demenza del 47% e di Alzheimer del 39) o di depressione. Nella somministrazione dei farmaci va sempre tenuto presente il grado di funzionalità dei reni, sul quale va deciso il dosaggio dei farmaci. Lo screening annuale del diabetico anziano deve prevedere la ricerca dei sintomi di incontinenza e soprattutto di episodi di caduta a terra (che potrebbero anche essere dovuto a episodi di ipoglicemia, ma anche alla neuropatia periferica e ai disturbi della vista). Nei pazienti cosiddetti “fragili”, che sono un anziano su quattro, non vanno perseguiti obiettivi glicemici
troppo ambiziosi, per evitare il rischio di incorrere nell’ipoglicemia e nelle gravi
complicanze che può comportare (cadute, fratture, e così via).

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Obiettivi glicemici
Nei diabetici anziani, gli obiettivi glicemici da raggiungere con la terapia vanno modulati sulla base del farmaco utilizzato e il suo rischio di dare ipoglicemia.

  • Per i farmaci a basso rischio di ipoglicemia (metformina, DPP-4 inibitori, pioglitazone, SGLT-2 inibitori, GLP-1 agonisti e acarbosio) l’obiettivo di emoglobina glicata può essere minore del 7 per cento.
  • Nel caso in cui sia necessario somministrare farmaci a rischio di ipoglicemia (sulfoniluree, repaglinide, insulina o suoi analoghi), è bene avere un obiettivo meno restrittivo (emoglobina glicata 7,0/7,5 per cento) o anche più elevato (emoglobina glicata 7,5/8,0 per cento) in presenza di fragilità (complicanze gravi, decadimento cognitivo, demenza, pluripatologie).

Il glucometro
Il glucometro, ovvero l’apparecchio per l’automonitoraggio della glicemia, deve essere facile da usare e da leggere (caratteri di grandi dimensioni). Ne esistono alcuni con risposta vocale per i pazienti con problemi di vista. Va sempre sottolineata l’importanza del monitoraggio della glicemia. L’anziano deve sapere come gestire un’eventuale ipoglicemia e portare sempre con sé delle bustine di zucchero.

La terapia non insulinica
La metformina è il farmaco di prima scelta anche negli anziani, purché non vi sia un’insufficienza renale grave (filtrato glomerulare <30 ml/min), insufficienza cardiaca grave (classe III/IV NYHA), insufficienza respiratoria o epatica.

  • Chi non può assumere metformina, come prima linea di trattamento può ricorrere a un farmaco che non induca ipoglicemia (acarbosio, agonista del recettore GLP-1, inibitore DPP-4, inibitore SGLT-2 e pioglitazone). In caso di mancato controllo si può aggiungere un secondo, un terzo o un quarto farmaco.
  • Gli inibitori della DPP-4 sono da preferire a sulfoniluree e repaglinide nei pazienti anziani per la loro efficacia, l’elevata tollerabilità, la semplicità d’uso, il profilo di sicurezza cardiovascolare.
  • Attenzione invece oltre i 75 anni agli inibitori di SGLT-2 perché possono provocare una deplezione di liquidi.
  • Il pioglitazone va evitato in caso di rischio di fratture o di scompenso cardiaco. Sulfoniluree e repaglinide andrebbero evitate nell’anziano perché possono indurre ipoglicemia.
  • Nelle persone con pregresso evento cardiovascolare, è consigliabile scegliere un farmaco con documentati benefici cardiovascolari quali empagliflozin, liraglutide o pioglitazone.

La terapia insulinica
Quando è necessario passare all’insulina, la prima da prescrivere è un analogo basale (glargine U100 e U300, degludec, detemir). Nei pazienti con iperglicemia dopo i pasti può essere necessario iniziare anche una terapia insulinica ai pasti. Il paziente deve essere accuratamente istruito all’uso delle ‘penne’ o delle siringhe da insulina e alle modalità iniettive. L’automonitoraggio deve farsi più attento e va istruito a come gestire un’eventuale ipoglicemia.

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Femore rotto: tipi di frattura, sintomi, intervento, riabilitazione e conseguenze

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma FEMORE ROTTO TIPI FRATTURA INTERVENTO  Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgIl femore è il più lungo osso del nostro corpo ed è dotato di una straordinaria resistenza, tuttavia la frattura del femore è un incidente molto diffuso, che colpisce principalmente gli anziani a causa dell’osteoporosi e di un’elevata fragilità ossea in seguito alla quale anche un trauma lieve può comportare una frattura. Per approfondire anatomia e fisiologia di questo importante osso umano, leggi anche: Femore: anatomia e funzioni in sintesi

Frattura di femore negli anziani
Nella mia esperienza la maggior parte degli anziani con frattura di femore che seguo nel percorso riabilitativo post intervento, riferisce che la frattura è stata causata da banali cadute, quasi sempre accadute durante lo svolgimento di normali attività quotidiane, come lavarsi, cucinare, pulire casa. La frattura del femore negli anziani non è affatto banale anzi il suo evento può configurare una vera e propria tragedia, immobilizzando a letto per lunghi periodi (anche mesi nei casi più gravi) dei soggetti già debilitati, frequentemente diabetici e cardiopatici e che spesso hanno poca voglia di collaborare con medici, OSS, infermieri e fisioterapisti durante il periodo riabilitativo a causa dei forti dolori e della debolezza muscolare. I pazienti anziani tendono a “lasciarsi andare” ed a voler rimanere a letto, con tutti i rischi connessi, come ad esempio decubiti (da cui il frequente uso di materassi antidecubito ad aria). Molto del mio lavoro in questo caso è spronare con motivazioni convincenti l’anziano affinché compia i suoi giornalieri esercizi riabilitativi. La stessa cosa devono fare i famigliari del paziente.

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Com’è fatto il femore?
Il femore è l’osso più grande dello scheletro umano. Esso è contenuto nella coscia ed è formato da una parte centrale “diafisi” e due “epifisi”: la prossimale e la distale. La prossimale con una testa rotonda che si innesta nell’acetabolo del bacino forma l’articolazione dell’anca, la distale con tibia e rotula forma l’articolazione del ginocchio.
La testa del femore è legata alla diafisi tramite il collo del femore che forma con la diafisi stessa un angolo di circa 125°. Come già detto la testa tonda del femore è inserita nell’acetabolo del bacino ed è mantenuta in posizione da una forte capsula articolare che si lega alla base del collo del femore. Detta capsula articolare è coadiuvata nei movimenti di estensione dell’articolazione da robusti legamenti e contiene al suo interno i vasi sanguigni che sovraintendono al nutrimento della testa del femore.
Lateralmente al collo il femore presenta inoltre due sporgenze il piccolo trocantere e il grande trocantere, dove si inseriscono i muscoli.

Cosa significa “frattura del femore”?
La frattura del femore è quell’evento nel quale – in seguito ad un trauma di varia natura – il femore perde la sua continuità e si divide in due o più pezzi o se semplicemente subisce una lesione.

Un evento diffuso e pericoloso
Come accennato all’inizio dell’articolo, la frattura del femore è un evento diffusissimo, specie tra gli anziani ed anche piuttosto grave: degli 80000 e più casi che in Italia si verificano ogni anno, 15000 hanno esito funesto, 35000 degenerano invalidità più o meno grave e di questi 15000 richiedono, successivamente, un’assistenza continua. Di tutti questi drammatici eventi circa il 75% interessa donne anziane, per le quali il tasso di mortalità per frattura femorale è pari se non superiore a quello per il cancro al seno.

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Prevenire le fratture di femore
Per ridurre il rischio di caduta occorre riconoscere le classi a rischio (anziani e in particolare le donne), i fattori di rischio e intervenire su questi ultimi con interventi multifattoriali. I principali fattori di rischio per le fratture di femore sono:

  • età avanzata;
  • sesso femminile;
  • osteoporosi;
  • storia di precedenti cadute;
  • terapia con farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale;
  • difficoltà motorie e paura di cadere;
  • alterazione della vista.

La prevenzione dell’osteoporosi prevede invece misure non farmacologiche e farmacologiche. Gli interventi non farmacologici, fondamentali, sono: l’attività fisica ed una adeguata alimentazione. L’esercizio fisico anche moderato deve essere incoraggiato, specie nell’anziano, per mantenere una buona tonicità muscolare e una corretta coordinazione dei movimenti; la dieta deve essere adeguata, specie nell’apporto di calcio.

Classificazione delle fratture di femore
La frattura del femore, come ogni altra frattura, può essere di vari tipi:

  • Composta se in seguito al trauma l’osso conserva il suo naturale allineamento.
  • Scomposta se i tronconi dell’osso si allontanano dal consueto allineamento.
  • Una frattura scomposta del femore può essere esposta se uno o più frammenti ossei bucano muscoli e cute e fuoriescono.

A seconda del numero di interruzioni, la frattura può classificarsi in:

  • unifocale se vi è una sola rima (sede) di frattura
  • bifocale, se vi sono due rime
  • pluriframmentata se vi sono più rime di frattura.

In base alla sede anatomica si suddividono le fratture del femore in:

  • fratture della diafisi (parte centrale del femore)
  • fratture dell’epifisi prossimale o distale

Le fratture prossimali o distali possono a loro volta dividersi in

  • extra articolari o laterali se avvengono all’esterno della articolazione e che possono la base del collo, il grande trocanterio o il piccolo trocanterio (fratture trocanteriche).
  • intra articolari o mediali se avvengono all’interno dell’articolazione e che possono interessare il collo e la testa del femore. Le fratture infra articolari sono quelle più pericolose perché danneggiano i vasi sanguigni che sono deputati alla vascolarizzazione dell’articolazione e se tale danno non viene curato in maniera adeguata può procurare necrosi del tessuto osseo.
  • Se la frattura si localizza subito al di sotto della testa sferica dell’osso è detta sotto capitata.

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Quali sono i sintomi di una frattura di femore?
La frattura del femore ha una sintomatologia che varia in funzione delle tipologie sopra elencate, tuttavia vi sono dei sintomi comuni quali:

  • il dolore circoscritto
  • tumefazione e gonfiore
  • impossibilità di muovere l’arto e di stare in piedi.

Le fratture chiuse (in cui la cute non è lacerata) può verificarsi un sanguinamento interno che provoca un’ecchimosi viola nerastra (livido).

Quali sono le cause di frattura di femore?
In pazienti giovani ed in buona salute la frattura scomposta del femore è un evento molto raro conseguente a violentissimi traumi come può essere un incidente stradale o una rovinosa caduta di alcuni sportivi soprattutto ciclisti o sciatori di fondo. Purtroppo il discorso è totalmente diverso in caso di frattura del femore negli anziani che può essere anche conseguenza di un incidente lieve. Le cause di ciò possono essere varie:

  • mancanza di riflessi e tono muscolare dovuti al declino psicofisico legato all’età,
  • ambiente domestico non adatto alle persone di età avanzata,
  • capogiri o malesseri passeggeri,
  • alcuni farmaci quali analgesici antidepressivi e diuretici,
  • osteoporosi, malattia per cui si modifica la micro architettura delle ossa che in seguito a tale cambiamento vengono ad avere una densità più bassa (aumento della porosità),
  • cali di pressione,
  • problemi visivi.

Giovani ed anziani possono, inoltre, essere soggetti a fratture patologiche del femore, ovvero a fratture che possono verificarsi anche in assenza di trauma, causate da patologie che indeboliscono lo scheletro tra cui:

  • Infezioni, quali artriti o osteomielite (infiammazione del tessuto osseo dovuta a batteri),
  • tumori ossei o metastatici,
  • anoressia: la cattiva nutrizione, infatti provoca precoce osteoporosi e decalcificazione delle ossa,
  • iperparatiroidismo: disfunzione delle ghiandole paratiroidi che provoca una diminuzione dell’ormone paratormone deputato alla regolazione del calcio corporeo,
  • osteomalacia: patologia metabolica che causa fragilità ossea.

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Terapia delle fratture di femore
La diagnosi di una frattura del femore è alquanto facile. Comunque l’esame radiografico evidenzia chiaramente la frattura ed il conseguente stato dell’allineamento dei tronconi ossei. La miglior terapia possibile per la cura di fratture del femore è la riduzione con intervento chirurgico. Solo nei casi in cui complicanze di carattere internistico rendano impossibile l’intervento allora si procede all’immobilizzazione. Ma i progressi delle tecniche di anestesia hanno reso ormai possibile interventi su pazienti di 90/95 anni di età.

Riduzione della frattura di femore con intervento chirurgico
L’intervento (da praticarsi nelle 24/48 ore successive) non solo è consigliato ma è obbligatorio per un decorso privo di pericolose complicazione e per una completa riabilitazione funzionale. L’intervento varia al variare del punto di frattura e dell’età del paziente e può comportare l’utilizzo di perni, placche, protesi parziali o addirittura totali. Se il paziente ha più di 65 anni si preferisce impiantare una protesi completa dell’anca allo scopo di poterlo mettere in condizione di camminare nel più breve tempo possibile per evitare complicanze dovute a trombosi o embolie. Nel caso di pazienti più giovani e con una lunga aspettativa di vita l’intervento mira alla osteosintesi ovvero alla formazione del callo osseo, rimettendo in contatto le pari ossee con applicazioni di chiodi e placche. Una tecnica moderna nota come chiodo gamma, una protesi composta da un chiodo che va inserito nell’osso lungo e una vite che va inserita nel collo del femore, consente la ripresa funzionale subito dopo l’intervento.

Riabilitazione dopo una frattura di femore
Come si fa una corretta riabilitazione dopo una frattura di femore trattata chirurgicamente? Come controllare il dolore ed evitare i fenomeni trombotici tipici? Per rispondere a queste domande, leggi: Femore rotto: riabilitazione, profilassi antitrombotica e controllo del dolore

Conseguenze a breve e lungo termine delle fratture di femore
Quali sono le conseguenze di una frattura di femore? A tale proposito leggi anche: Fratture di femore: conseguenze a breve e lungo termine

I migliori prodotti per la cura delle ossa e dei dolori articolari 
Qui di seguito trovate una lista di prodotti di varie marche per il benessere di ossa, legamenti, cartilagini e tendini e la cura dei dolori articolari. Noi NON sponsorizziamo né siamo legati ad alcuna azienda produttrice: per ogni tipologia di prodotto, il nostro Staff seleziona solo il prodotto migliore, a prescindere dalla marca. Ogni prodotto viene inoltre periodicamente aggiornato ed è caratterizzato dal miglior rapporto qualità prezzo e dalla maggior efficacia possibile, oltre ad essere stato selezionato e testato ripetutamente dal nostro Staff di esperti:

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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A 85 anni batte il record mondiale di maratona

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma 85 ANNI RECORD MARATONA Riabilitazione Nutrizionista Medicina Estetica Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata Macchie Capillari Linfodrenaggio Pene Vagina Glutei TestaL’ingegnere Ed Whitlock, canadese ma inglese di nascita (è nato a Londra il 6 marzo 1931), alla veneranda età di 85 anni, ha polverizzato il record del mondo dei 42 km e 195 metri nella sua categoria (85-90), scendendo sotto il muro delle 4 ore: 3 ore e 56 minuti netti, ben 38 minuti in meno rispetto al precedente record di 4 ore 34 minuti 55 secondi. Ed Whitlock nel 2000 fu la persona più anziana a correre la maratona in meno di 3 ore col tempo di 2 ore 52 minuti e 47 secondi, inoltre è stato il primo ultrasettantenne a correre la specialità in meno di tre ore con il tempo di 2 ore 59 minuti e 10 secondi nel 2003.

Continuerò a correre finché potrò

“Miravo alle 3 ore e 50, ma dopo metà gara mi sono reso conto che era troppo difficile”, ha detto ai microfoni di CBC Radio One. “Nessuno sa quando arriverà l’ora dell’ultima corsa ma io continuerò a correre finché potrò”. Nel 2006 ha stabilito il record mondiale per il gruppo da 75 a 79 anni col tempo di 3h 08′ 35″ alla Toronto Waterfront Marathon e nella Maratona di Rotterdam il 15 aprile 2007 ha abbassato il suo tempo a 3h 04′ 54″. Il 26 settembre 2010 ha corso la Toronto Waterfront Half Marathon (mezza maratona) in 1h 34′ 23″.

PS Ed Whitlock è deceduto a Toronto, il 13 marzo 2017, ad 86 anni.

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