Il consenso informato è una procedura mediante la quale un soggetto accetta volontariamente di partecipare ad un particolare trattamento – medico o chirurgico – o esame diagnostico o studio clinico, dopo essere stato informato in modo comprensibile di tutti i possibili aspetti del trattamento, dell’esame o dello studio pertinenti alla sua decisione. Il consenso informato è documentato mediante Continua a leggere
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Outcome del paziente: significato e sinonimi in medicina
Il termine inglese “outcome” deriva dall’unione di out e come (“venir fuori”) e significa letteralmente “risultato“.
L’outcome di un paziente rappresenta appunto il risultato di Continua a leggere
Differenza tra fattori prognostici e predittivi
Si parla di “fattore prognostico” per indicare una caratteristica biologica della neoplasia tale da modificare la prognosi della paziente, cioè la sua sopravvivenza libera da malattia (DFS) e di “fattore predittivo” per indicare quei caratteri in grado di Continua a leggere
Quando si è depressi, l’oscurità non aspetta la sera per venire a prenderti
“E’ difficile far capire alla gente cosa significhi la parola “depressione” e cosa si prova ad averla. Spiegare quale sia la differenza tra “depressione” e “tristezza”, ad una persona che – per sua fortuna – non è stata mai depressa, è quasi impossibile, quasi quanto spiegare la differenza tra il colore blu ed il rosso ad una persona che è cieca fin dalla nascita. I due termini sono usati spesso come sinonimi, ma niente è più distante dall’essere vero. Quindi mi chiedi cosa significhi essere depressa? Forse sarebbe più facile dire quello che non significa…
La depressione è vivere in un corpo organico che lavora senza sosta per sopravvivere, con una mente che cerca invece di morire. E’ il non avere fiducia in sé stessi, è il non sopportarsi più. E’ vivere perennemente intorpiditi, svegliandosi la mattina con il terrore che ti assale al solo pensiero di dover affrontare la giornata. La verità è che ti svegli la mattina solo con la speranza di poter tornare a letto al più presto. E ti metti a letto con la speranza di poter vedere presto una mattina che però non arriva mai. Ti svegli è pensi che è soltanto un altro giorno, un giorno che non hai mai visto, ma un giorno che tu già conosci, perché ieri è come questo.
Quando si è depressi, l’oscurità non aspetta la sera per venire a prenderti: ne sei circondato perennemente, te la porti sempre intorno e non ti abbandona mai. La depressione è quando il sole è alto nel cielo e tu sei per strada circondato da persone felici, ma tu ti senti come se fossi solo, in un bosco, di notte.
La depressione non è dolore: ringrazierei il cielo se potessi provare dolore, almeno sarebbe una emozione. Io invece non provo nulla e quando provo qualcosa, è solo paura. Paura che il domani non arrivi, mista a paura che il domani arrivi. La depressione è la prigione del non desiderare nulla, del non avere niente a cui tendere nella vita. La depressione è non avere vita. La depressione è non avere morte. La depressione è sentirsi in un labirinto senza uscite, perennemente ad un passo dal baratro, soprattutto durante le feste, con nessuno che crede davvero tu sia malato.
La depressione è sentirsi costantemente soli nella folla, alla ricerca, come se avessi perso qualcosa, ma che non sai neanche tu cosa. Poi un giorno lo capisci e fa malissimo. Ti rendi conto che quello che hai perso è te stesso, e lo hai perso per sempre. Chissà dove. Chissà perché.”
Testimonianza di una paziente depressa
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Cos’è l’anamnesi? Significato medico e come si fa con esempi
Con “anamnesi” in medicina si intende la raccolta – se possibile dalla voce diretta del paziente – di tutte quelle informazioni, notizie e sensazioni che possono aiutare il medico a indirizzarsi verso una diagnosi di una certa patologia o verso un gruppo specifico di esami diagnostici, scremando tutte le possibilità meno probabili e gli esami che probabilmente possono essere di scarsa utilità per raggiungere la diagnosi. L’anamnesi è importante per il medico soprattutto la prima volta che incontra un paziente, dal momento che egli – per il professionista – è, dal punto di vista clinico, un perfetto sconosciuto. La parola anamnesi deriva dal greco ἀνά-μνησις, “ricordo”.
Quando il paziente non può rispondere
Esistono alcune situazioni in cui il paziente non può rispondere alle domande del medico, oppure le sue risposte non sono attendibili, ad esempio:
- neonati, lattanti o bimbi piccoli;
- soggetti con patologie psichiatriche gravi;
- soggetti in coma o con perdita di coscienza;
- soggetti con patologie che impediscono di parlare, come chi ha sofferto di ictus cerebrale;
- soggetti che non possono ricordare in modo adeguato, come persone anziane, con demenza senile, con Alzheimer;
- soggetti che parlano una lingua diversa da quella del medico.
In questi casi rispondere alle domande sarà cura dei suoi familiari (per esempio i genitori nel caso di un lattante o i figli nel caso di un anziano). In alcuni casi non è possibile eseguire l’anamnesi (ad esempio soggetto sconosciuto che giunge in coma da solo al pronto soccorso).
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Perché una corretta anamnesi è così importante?
Raccogliere le informazioni corrette senza tralasciare informazioni, può aiutare enormemente a raggiungere una diagnosi corretta e nel minor tempo possibile. Purtroppo negli ultimi tempi, grazie al miglioramento delle tecniche diagnostiche per immagini e di laboratorio, i medici hanno perso interesse verso un’attenta anamnesi relegando sempre più la pratica ad un semplice questionario da svolgere in modo rapido e sbrigativo, dimenticandosi che l’anamnesi è in assoluto il miglior modo per ottenere informazioni importanti e, grazie alla statistica e all’esperienza, ottenere una diagnosi esatta o quantomeno indirizzare il paziente verso gli esami diagnostici più rapidi e meno invasivi possibili. L’anamnesi è – insieme all’esame obiettivo del malato – di fondamentale ausilio nella formulazione della diagnosi poiché ricostruisce le modalità di insorgenza ed il decorso della patologia in atto, investigando inoltre sulle possibili inclinazioni genetiche (predisposizione alle malattie genetiche e famigliari) del gruppo familiare verso l’insorgenza di determinati tipi di malattie (anamnesi familiare). In questo senso è anche utilizzata per l’avvio di programmi di sorveglianza per i soggetti a rischio.
Quali sono i vantaggi dell’anamnesi?
I vantaggi di una corretta anamnesi sono vari e riassumibili nei seguenti punti:
- diagnosi più precisa;
- diagnosi raggiunta più velocemente;
- terapia intrapresa più rapidamente;
- paziente sottoposto al minor numero di esami diagnostici possibile;
- paziente sottoposto ad esami diagnostici il meno invasivi possibile;
- paziente che assume farmaci corretti e non farmaci errati;
- paziente che costa il meno possibile al sistema sanitario nazionale (cioè a tutti noi ed alle nostre tasse).
Tutto ciò determina in finale una maggiore possibilità di cura, in tempi brevi, con costi bassi per la collettività e meno disagio possibile per il paziente.
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Esempio di come una corretta anamnesi può aiutare il medico a fare diagnosi
Un paziente ultimamente si sente molto stanco ed assonnato e non capisce perché. Tramite l’anamnesi si scopre che suo padre è diabetico, che il paziente ha una dieta sbilanciata, che fa poca attività fisica ed è in sovrappeso, urina parecchio durante la giornata e non esegue da molto tempo una analisi del sangue. Già con una anamnesi di questo tipo il medico indirizzerà i suoi esami in una certa direzione per confermare il suo forte sospetto di diabete mellito. Dimenticarsi di raccogliere tutte le informazioni alla anamnesi potrebbe non far giungere a diagnosi o ritardarla e sappiamo quanto il fattore tempo è importante per alcune patologie.
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Come organizzare una diagnosi corretta
L’anamnesi si divide in più parti, principalmente una familiare e una personale. L’anamnesi personale si divide a sua volta in fisiologica, patologica remota e patologica prossima. La raccolta dei dati anamnestici sarà differente a seconda dell’età e del sesso della persona.
Raccolta delle generalità
Per primi vengono raccolti i dati relativi a nome, età, sesso, stato civile, luogo di nascita e di residenza. Tali dettagli servono per identificare la persona che si sta per interrogare. Questa parte viene redatta soltanto la prima volta che la persona viene all’osservazione del medico, diventando poi parte della scheda clinica (o della cartella clinica).
Alla raccolta delle generalità, seguono:
- l’anamnesi familiare;
- l’anamnesi fisiologica;
- l’anamnesi patologica prossima;
- l’anamnesi patologica remota.
Anamnesi familiare
L’anamnesi familiare prevede due soli ambiti: gli ascendenti (i genitori e i nonni) e i collaterali (fratelli e sorelle). Si indaga dunque sullo stato di salute dei genitori e dei collaterali del paziente o sulla loro eventuale età e causa di morte. Questo punto è molto importante per conoscere i fattori di rischio genetici (che possono essere visualizzati tramite un genogramma), ambientali, o l’eventuale predisposizione familiare. Alcune condizioni patologiche non si trasmettono con modalità ereditaria ma è provata la predisposizione familiare. Ne sono esempio l’ipertensione arteriosaessenziale, la cardiopatia ischemica, allergopatie, malattie del sistema immunitario. Possono anche essere richieste informazioni riguardo ai nonni soprattutto se si sospetta una malattia autosomica dominante a penetranza incompleta (vengono all’osservazione come fenotipi che saltano una generazione).
Qui di seguito troverete un esempio delle informazioni che necessariamente devono essere raccolte durante una corretta anamnesi.
Anamnesi personale fisiologica
- Nascita: vengono chieste al paziente informazioni riguardo alla propria nascita, se a termine o no, e al parto se naturale (parto eutocico o parto distocico) o operativo (parto cesareo), il peso alla nascita, l’allattamento materno, mercenario o artificiale, primi atti dell’infanzia (dentizione, primi passi, prime parole) ed eventualmente profitto scolastico.
- Pubertà: menarca, regolarità dei flussi mestruali, comparsa dei primi peli, profitto scolastico, sviluppo somatico (staturale e ponderale) e psichico.
- Servizio militare: per accertare la presenza di eventuali evidenti patologie alla visita di leva.
- Matrimonio e gravidanze: viene indagata l’attività riproduttiva, numero dei figli (parità) numero delle gravidanze e modalità dei parti, aborti, comparsa della montata lattea, allattamento. Vengono anche chieste informazioni sullo stato coniugale e sull’andamento del matrimonio in quanto il matrimonio può determinare l’insorgenza di alcune nevrosi (patologia del matrimonio)
- Sessualità: si indaga, con discrezione, la vita sessuale del paziente, in particolare la presenza di problemi sessuali, disfunzione erettile, calo della libido, dispareunia, presenza di comportamenti a rischio per malattie sessualmente trasmissibili come rapporti sessuali promiscui e senza protezione.
- Menopausa: età di esordio (precoce o tardiva) comparsa di manifestazioni e sintomi, eventuali complicanze, terapia sostitutiva.
- Abitudini alimentari: quantità e qualità dell’alimentazione.
- Stili di vita: uso di alcool, tabacco, sostanze stupefacenti. Sedentarietà. Relazioni sociali. Situazione economica, familiare, domiciliare, soprattutto nell’anziano spesso soggetto a modifiche del nucleo familiare e/o nei rapporti tra i congiunti oltre che soggetto a trasferimento di residenza.
- Allergie ambientali, a farmaci o a sostanze.
- Alvo: regolare o irregolare, frequenza, difficoltà o dolori alla defecazione.
- Minzione: viene indagata la quantità, la frequenza e il colore; se è presente minzione notturna, o se la stessa causa bruciore.
- Attività lavorativa: in questa fase si raccolgono informazioni sul tipo di attività che si svolge o che si è svolta, per comprendere se sia o sia stato in passato esposto ad agenti fisici, chimici o biologici o altre possibili condizioni potenzialmente responsabili di disturbi o malattie professionali. Proprio legati alla natura lavorativa della persona è stata individuata la maggior parte dei disturbi evidenziati, (un quarto dei casi) notificati grazie all’anamnesi.
- Tratti strutturali della personalità: Informazioni sul profitto di studio o lavoro.
- Tendenza a sovra o sottostimare l’importanza del proprio stato di salute. L’umore del paziente con particolare riferimento alla risposta psicologica allo stato di malattia (accettazione, volontà di guarire, il concetto di morte, fiducia nei medici).
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine
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Che significa “effetto placebo” e perché un placebo funziona?
Il placebo (dal latino placere, letteralmente “io piacerò”) è una una sostanza priva di principi attivi specifici, ma che sono amministrate come se avessero veramente proprietà curative o farmacologiche. Lo stato di salute del paziente che ha accesso a tale trattamento in teoria non dovrebbe migliorare grazie ad un placebo, dal momento che non contiene alcun principio attivo farmacologico, cioè nessuna sostanza che possiede una attività biologica terapeutica. Nonostante ciò, la salute di un paziente può realmente migliorare grazie ad un placebo, ma solo a condizione che il paziente riponga fiducia in tale sostanza o terapia. Questo miglioramento indotto dalle aspettative positive del paziente è detto “effetto placebo”.
L’effetto placebo non è circoscritto solo ad alcune patologie ma si può manifestare nel corso di terapie sia di malattie mentali che di psicosomatiche e somatiche, potendo coinvolgere quindi ogni sistema o organo del paziente.
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Sperimentazione in doppio cieco
Nel caso di una terapia con principi attivi specifici, l’effetto imputabile alle aspettative del paziente può sovrapporsi e aggiungersi all’effetto diretto della terapia: per distinguere tra l’effetto placebo e l’effetto diretto della terapia bisogna ricorrere a studi clinici controllati. In particolare, nella sperimentazione clinica, un nuovo farmaco si giudica efficace solo se dà risultati significativamente diversi da un placebo. La sperimentazione circa l’effetto placebo avviene in “doppio cieco”, cioè una sperimentazione dove né chi compie il test, né il paziente sono al corrente di quale sia il farmaco e quale il placebo.
Come è possibile che il placebo funzioni?
L’effetto placebo e i suoi principi di funzionamento sono prevalentemente stati compresi ed interpretati in termini psicologici: il meccanismo alla base è psicosomatico nel senso che il sistema nervoso, in risposta al significato pieno di attese dato alla terapia placebica prescrittagli, induce modificazioni neurovegetative e produce una serie numerosa di endorfine, ormoni, mediatori, capaci di modificare la sua percezione del dolore, i suoi equilibri ormonali, la sua risposta cardiovascolare e la sua reazione immunitaria. In una certa misura possono confondersi con l’effetto placebo anche la guarigione spontanea di un sintomo o di una malattia, così come pure il fenomeno della regressione verso la media. In altre parole il paziente si rivolge al medico “quando proprio non ne può più” e poi i suoi disturbi rientrerebbero comunque nella media. Questo ritorno ai livelli normali del disturbo può essere scambiato per effetto placebo.
Alcuni sostengono che sia difficile analizzare il fenomeno del placebo e dell’effetto, poiché in base ai propri modelli culturali si privilegiano ora le caratteristiche del placebo, ora le dinamiche del rapporto medico-paziente, ora l’ipotesi di una determinante personologica; da qui anche la distinzione tra chi risponde al placebo (placebo responders) e chi non è ricettivo all’effetto placebo (non responders). Alcuni autori affermano che ci siano alcuni fondamentali elementi costitutivi dell’effetto placebo: il farmaco placebo o mezzo, l’operatore o terapeuta, la capacità del paziente di rispondere o di essere refrattario al placebo, l’ambiente nel quale si effettua il trattamento.
Negli studi clinici controllati (in cui un farmaco “nuovo” lo si confronta spesso con il placebo per definirne l’efficacia specifica) il dilemma etico è invece se sia corretto usare come confronto il placebo quando esistono già in commercio farmaci di efficacia documentata i quali potrebbero venire essi usati per il confronto con il farmaco nuovo.
Ci sono al riguardo posizioni più radicali negative e altre più conciliative, secondo le quali l’uso del placebo è ammissibile anche in questo caso, ma condicio sine qua non è che: 1) i soggetti avviati a trattamento con placebo abbiano dato ad hoc un consenso libero e adeguatamente informato e 2) che la non erogazione di un trattamento efficace già disponibile non comporti comunque pericoli o conseguenze gravi.
La determinazione e l’accertamento dei meccanismi d’azione del placebo è complicata dal numero di variabili che intervengono nel determinare l’effetto e ogni studioso tende a privilegiare ora una strada ora un’altra (ad esempio i ricercatori di indirizzo biologico cercano spiegazioni dell’effetto placebo in meccanismi molecolari e neurochimici, così quelli di indirizzo psicologico si rifanno alle teorie psicodinamiche).
È tuttavia plausibile sostenere che nell’effetto placebo entrino in gioco molteplici fattori, tra questi:
- fattori biologici (ad es. le endorfine che medierebbero l’effetto antalgico placebo)
- suggestione e l’autosuggestione
In definitiva, il placebo, sebbene mal definibile in termini di causazione, può essere inteso come un insieme di fattori extrafarmacologici capaci di indurre modificazioni dei processi, anche biologici, di guarigione intervenendo a livello del sistema psichico: non per nulla molti autori considerano quasi sinonimi i termini placebo e suggestione.
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Effetti del placebo
Per delle patologie con una rilevante componente psicosomatica (p. es. emicrania o insonnia) l’analisi di prove “in cieco” dimostrano un effetto placebo fino all’80% con un valore medio tra il 35 ed il 40%, variabilità che in misura rilevante dipende (ma non solo) dalla patologia. Anche negli studi in doppio cieco si può dimostrare che, raddoppiando la dose di placebo (che pure è privo di attività specifica), si ottiene un effetto terapeutico superiore a quello indotto da una dose minore. L’effetto placebo è riscontrabile anche in patologie organiche come l’artrite reumatoide, l’osteoartrite o l’ulcera peptica e persino in pazienti sottoposti ad intervento chirurgico. In alcuni interventi di cardiochirurgia, o in artroscopia, o anche attuati in soggetti sofferenti di dolore addominale persistente, sottoposti a precedenti interventi sull’addome per rimuovere le aderenze, la terapia chirurgica fasulla (sham operation) ha prodotto gli stessi benefici di quella vera. Moerman sottolinea come non si tratti solo di un effetto di suggestione ma di una risposta biochimica, ormonale e immunitaria del corpo, in risposta al significato attribuito dal soggetto all’atto terapeutico. È dimostrato che qualunque terapia medica, comprese quelle complementari alternative, se attuata in un clima di fiducia reciproca tra paziente e terapeuta, anche grazie all’effetto placebo, può apportare benefici al paziente stesso. Alcuni studi hanno provato a dimostrare che i placebo possono anche avere effetti positivi sulla esperienza soggettiva di un paziente che è consapevole di ricevere un trattamento senza principi attivi, rispetto a un gruppo di pazienti controllato che consapevolmente non ha ottenuto un placebo.
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Intervento psicosociale e cognitivo nel paziente con malattia di Alzheimer
Nel paziente con malattia di Alzheimer, oltre al trattamento farmacologico, esistono interventi comportamentali, di supporto psicosociale e di training cognitivo che possono aiutare il soggetto. Tali misure sono solitamente integrate in maniera complementare con il trattamento farmacologico, e hanno dimostrato una loro efficacia positiva nella gestione clinica complessiva del paziente.
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I training cognitivi (di diverse tipologie, e con diversi obbiettivi funzionali: Reality-Orientation Therapy, Validation Therapy, Reminiscence Therapy, i vari programmi di stimolazione cognitiva – Cognitive Stimulation Therapy, ecc.), hanno dimostrato risultati positivi sia nella stimolazione e rinforzo delle capacità neurocognitive, sia nel miglioramento dell’esecuzione dei compiti di vita quotidiana. I diversi tipi di intervento si possono rivolgere prevalentemente alla sfera cognitiva (ad esempio Cognitive Stimulation Therapy), comportamentale (Gentlecare, programmi di attività motoria), sociale ed emotivo-motivazionale (ad esempio Reminiscence Therapy, Validation Therapy, etc.).
La Reality-Orientation Therapy, focalizzata su attività formali e informali di orientamento spaziale, temporale e sull’identità personale, ha dimostrato in diversi studi clinici di poter facilitare la riduzione del disorientamento soggettivo e contribuire a rallentare il declino cognitivo, soprattutto se effettuata con regolarità nelle fasi iniziali e intermedie della patologia. La maggior parte dei trattamenti sono in ambiente Snoezelen (Stimolazione Multisensoriale)
I vari programmi di stimolazione cognitiva (Cognitive Stimulation), sia eseguiti a livello individuale (eseguibili anche presso il domicilio dai caregiver, opportunamente formati), sia in sessioni di gruppo, possono rivestire una significativa utilità nel rallentamento dei sintomi cognitivi della malattia e, a livello di economia sanitaria, presentano un ottimo rapporto tra costi e benefici. La stimolazione cognitiva, oltre a rinforzare direttamente le competenze cognitive di tipo mnestico, attentivo e di pianificazione, facilita anche lo sviluppo di “strategie di compensazione” per i processi cognitivi lesi, e sostiene indirettamente la “riserva cognitiva” dell’individuo.
La Reminiscence Therapy (fondata sul recupero e la socializzazione di ricordi di vita personale positivi, con l’assistenza di personale qualificato e materiali audiovisivi), ha dimostrato risultati interessanti sul miglioramento dell’umore, dell’autostima e delle competenze cognitive, anche se ulteriori ricerche sono ritenute necessarie per una sua completa validazione.
Forme specifiche di musicoterapia e arteterapia, attuate da personale qualificato, possono essere utilizzate per sostenere il tono dell’umore e forme di socializzazione nelle fasi intermedio-avanzate della patologia, basandosi su canali di comunicazione non verbali.
Positivo sembra essere anche l’effetto di una moderata attività fisica e motoria, soprattutto nelle fasi intermedie della malattia, sul tono dell’umore, sul benessere fisico e sulla regolarizzazione dei disturbi comportamentali, del sonno e alimentari.
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Alcuni articoli apparsi in “The Lancet Neurology” sottolineano che acido folico e vitamina B12 possono avere un ruolo nella prevenzione dei disturbi del sistema nervoso centrale, nei disturbi dell’umore, incluso il morvo di Alzheimer e la demenza vascolare. Fondamentale è inoltre la preparazione e il supporto, informativo e psicologico, rivolto ai “caregiver” (parenti e personale assistenziale) del paziente, che sono sottoposti a stress fisici ed emotivi significativi, in particolare con l’evoluzione della malattia.
Una chiara informazione ai famigliari, una buona alleanza di lavoro con il personale sanitario, e la partecipazione a forme di supporto psicologico diretto (spesso tramite specifici gruppi di auto-mutuo-aiuto tra pari), oltre all’eventuale coinvolgimento in associazioni di famigliari, rappresentano essenziali forme di sostegno per l’attività di cura. Sempre nello stesso senso appare di particolare utilità, solitamente a partire dalle fasi intermedie della patologia, l’inserimento del paziente per alcune ore al giorno nei Centri Diurni, presenti in molte città (attività che può portare benefici sia per la stimolazione cognitiva e sociale diretta del paziente, sia per il supporto sociale indiretto ai caregiver).
La cura dell’Alzheimer è però ai primi passi: al momento non esistono ancora farmaci o interventi psicosociali che guariscano o blocchino la malattia. Si può migliorare la qualità della vita dei pazienti malati, e provare a rallentarne il decorso nelle fasi iniziali e intermedie.
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine
Mi dicevano “sei grassa” così decisi che non avrei mangiato più. Mai più. La testimonianza di una paziente anoressica
Ho diciassette anni e ancora oggi non riesco a capire come sia iniziato tutto. Questa è la mia testimonianza su come sono diventata anoressica, nella speranza possa servire a qualcuno.
Per salvarsi. Ho capito cosa fosse l’anoressia incontrando una mia amica che non vedevo da un po’ di tempo: era sempre stata bella, con un fisico invidiabile, bionda, occhi azzurri, gambe lunghissime, ma quando l’ho rivista, mi sono sentita male. Le si vedeva la tristezza negli occhi, i jeans che portava, anche se taglia XS, le andavano larghi e non fasciavano le sottilissime gambe. E quel poco trucco che si metteva non serviva a nasconderle il viso scavato da una magrezza esagerata.
A me non sarebbe mai potuto succedere
Poi, la mia migliore amica, che era molto legata a questa ragazza, un giorno mi ha detto “voglio provare a vomitare” e io la presi sul ridere, perché io e lei eravamo sempre rimaste lontane da questi problemi, non mi sarei mai sognata di resistere ad una bella pizza, o a un gelato, o alla Nutella: a me non sarebbe mai potuto succedere di diventare anoressica. Ero un po’ sovrappeso, oscillavo tra i 60kg e i 62kg per 171cm d’altezza, però sapevo di essere carina, e questo me lo confermavano tutte le persone che avevo accanto. Dopo la fatidica frase della mia migliore amica, lei entrò in quel tunnel per prima. Era il primo quadrimestre del 2006. Iniziò a dimagrire, a scuola non mangiava più come prima, non toccava proprio cibo, mentre io mi mangiavo due merendine ogni mattina; non era più quella di prima, la vedevo triste. Le altre sue amiche, più sveglie di me, cominciarono a darle i numeri di psicologi e di centri d’assistenza, le stavano sempre addosso, e piano piano mi isolarono, perché dicevano che non ero degna di essere la sua migliore amica, che non pensavo alla sua felicità. Non le parlai più, e dopo le vacanze di Natale tornai a scuola con qualche kilo in meno. Non avevo fatto nulla per dimagrire, ma le mie “amiche” mi guardarono subito storto, facendosi chissà quali storie in testa. Questa è l’introduzione del problema che poi è sfociato in qualcosa di molto più grave. E’ successo tutto nel giro di pochi mesi, tra febbraio e agosto del 2008.
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Vomito e cocaina
A febbraio, pesavo 60kg, e volevo dimagrire, a qualunque costo, ma ancora avevo poca forza di volontà, e non avevo dei supporti mentali che mi aiutassero ad andare avanti. Cominciai a vomitare, ma poi pensavo che stavo facendo un errore, mi piaceva troppo mangiare, quindi abbandonai tutto. *A giugno, coi pochi compiti che ci davano dato che stava per finire la scuola, avevo più tempo di navigare su Internet e decisi di fare un blog, e proprio quel blog, le persone che ho conosciuto e la piccola famiglia che si era creata, mi hanno in qualche modo rovinato la vita.
Inizialmente, provai a digiunare per qualche giorno, o a mangiare veramente poco, e bevevo tanto, ma davvero tanto, soltanto birra. Bevevo per dimenticare tutto quello che mi stavo facendo. E fumavo, sigarette e anche canne, tante. E una sera, durante una festa, ho anche sniffato cocaina, perché mi avevano detto che, anche se a lungo andare, faceva dimagrire, e faceva perdere il senso della fame, quel senso che mi rincorreva dalla mattina fino alla sera.
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Mi vedevo enorme
Una sera sono uscita col mio ragazzo, siamo andati in pizzeria, e quella pizza ha fatto scattare una serie di abbuffate, per tutta una settimana. Mi vedevo enorme e iniziai a piangere, giorno e notte. Credo sia proprio questo l’inizio della vera e propria storia perversa. Grazie al blog, avevo conosciuto ragazze che postavano i propri diari alimentari e si predisponevano un obiettivo da raggiungere. Diari alimentari che spesso non andavano oltre le 500 calorie giornaliere, quando il mio fabbisogno calorico giornaliero era almeno il triplo. Il primo blog che lessi, mi lasciò veramente perplessa, perché parlava di una ragazza (che effettivamente non rispondeva più a nessuno da settimane, era appena entrata in una clinica) che aveva raggiunto i 35 kili. Era una ballerina. Si abbuffava, e vomitava. Passava settimane a digiuno. Entrava nei supermercati e svaligiava il reparto dolciumi. Si condannava a morte ad ogni passo che faceva. Però, raccontava anche “dettagli” che in me fecero scattare qualcosa e, invece di farmi cambiare idea sul fatto di voler dimagrire, mi fecero sentire più forte.
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Cento calorie al giorno
Ho cominciato a cercare diete su diete, che non ho mai seguito, perchè cercavo solo quei pochi alimenti che, ad esempio,velocizzavano il metabolismo, o aiutavano ad andare in bagno, o bruciavano calorie. Il primo giorno della mia rovina l’ho passato con solo una pesca nello stomaco, mi sentivo forte e non volevo mangiare nient’altro. Segnavo tutto su un foglio di Word, calcolando le singole calorie di un alimento, e poi le sommavo a tutto quello che mangiavo in una giornata, e totalizzavo la somma finale.
Per una settimana, non sono andata oltre alle 100 calorie giornaliere. Avevo perso 2kg in una settimana. Mi sentivo sempre, ma sempre più forte, volevo andare avanti così. E più andavo avanti, più mi sembravano troppe quelle 100 calorie. Iniziai i digiuni. Sentivo lo stomaco brontolare, e mi piaceva, perché sapevo di poter controllare il mio corpo. Mi piaceva vedere quelle ossa del bacino sempre più sporgenti. Nel giro di 2 settimane, arrivai a pesare 56kg. E da lì a 10 giorni sarei dovuta partire con mio padre, e non avevo nessuna intenzione di farmi vedere in costume con tutto quel grasso che fuoriusciva da tutte le parti. Il digiuno andava avanti, colmavo i vuoti con delle tisane di thè verde e spremuta di limone diluita nell’acqua, perché avevo letto che faceva dimagrire. Acqua, thè verde e limonata.
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Scappavo in camera per vomitare
Intanto, cresceva in me l’ ossessione per il cibo, amavo cucinare e far da mangiare per gli altri. Preparavo porzioni enormi di cibo per gli altri, quasi come per compensare quello che non mangiavo io. Prima di partire, mi pesai: 53kg per 171cm. Ero in un albergo con pensione, dovevo mangiare per forza, ma la mia mente aveva escogitato vari piani. Convinsi mio padre a fare mezza pensione, così a pranzo mi sarei regolata io. Rimaneva il problema della colazione e della cena. A colazione, qualche cucchiaino di yogurt e un po’ di caffè amaro, senza zucchero. Preparavo 2 o 3 panini con formaggio e prosciutto, perché a pranzo sarei rimasta in camera, e quei panini finivano sempre in pattumiera; un giorno avevo portato su anche una pesca, e l’avevo addentata e avevo sputato tutto in un sacchetto, fino a lasciare il nocciolo, per lasciare le prove del mio pranzo consumato. A cena, qualche verdura scondita, quando andava male dovevo ingurgitare una piccola fetta di pesce o di carne, quasi mi mettevo a piangere, e scappavo sempre in camera, per vomitare. Mio padre ha passato una vacanza infernale, tra i miei e, sono sicura, i suoi pianti notturni. Diceva “Ma dove ti vedi grassa? Sei sottopeso, 52kg per la tua altezza sono troppo pochi. Se vuoi dimagrire ti mando da un dietologo, anche se più magra di così faresti schifo…” A causa di tutto il limone che mi ero bevuta prima di partire, per ben 10 giorni non riuscii ad andare in bagno e, tornata dalla vacanza, dovetti usare le perette che mi scaricarono completamente, facendomi *perdere altri 2 kg in una settimana.
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Volevo solo perdere altri 5kg
Ero arrivata a 50kg per 171cm. A luglio mia madre iniziò a controllarmi, mi diceva sempre di mangiare lo yogurt perché faceva bene, di mangiare la carne perché aveva i carboidrati, di mangiare la pasta perché… Non la sopportavo più, e ancora adesso non tocco né pasta né pane. Durante la giornata lavorava, quindi a pranzo ero sempre da sola, e il mio cibo spettava al mio cane. A cena, me la cavavo con anguria o un piattino di riso, perché, all’inizio, a mia madre bastava vedermi mangiare. Ma così, persi un altro kilo e i 49kg li raggiunsi, anche se faticosamente.
I miei amici dicevano che ero magrissima, persone che non mi vedevano da qualche mese mi guardavano con gli occhi fuori dalle orbite, e altre mi guardavano ammirate, pregando di diventare come me. Poi, in questo agosto, sono stata da un dottore con mio padre, per parlare di questo problema e farci consigliare uno psicologo. Dopo la “visita”, mio padre iniziò a dirmi che dovevo ascoltare il dottore, che 50kg (non gli avevo detto di aver perso un ulteriore kilo) erano pochi per me e che ero sottopeso, e io sono scoppiata a piangere gridandogli in faccia, in mezzo alla strada, che io volevo solo perdere altri 5kg per arrivare a 45, nient’altro. E per due giorni non l’ho più visto, così, senza la sua presenza, persi altri grammi arrivando quasi a 48kg. Poi, si è stabilito a casa mia, essendo divorziato da mia madre, perché voleva starmi vicino, e mi mise sulla bilancia che segnò i 48. Ricorderò per sempre quella scena. Guardò la bilancia e scoppiò in un pianto per me straziante, e lo abbracciai, mentre mi diceva che non voleva che morissi, che mi amava troppo per vedere la sua unica figlia condannarsi a morte da sola.
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Mi vedo grassa
Da quel giorno, iniziai a mangiare poco, ma tutti i giorni, a pranzo e a cena, cose che mi preparava lui, anche se continuavo ad avere il terrore dell’olio, dei cibi fritti… di tutto. Non sono ingrassata di un grammo. Ultimamente sono iniziate le abbuffate, ma non le abbuffate normali. Abbuffate di frutta e verdura. Avevo dei seri attacchi di fame che colmavo con uva, tantissima uva, e carote, zucchine, cetrioli, piselli, fagioli, prugne, kiwi e pesche. Tutte cose che mi riempivano orrendamente il ventre e lo stomaco, perché appena mangiavo una pesca vedevo lo stomaco gonfiarsi. E sono arrivata addirittura a vomitare l’uva dopo un’abbuffata. Spesso di sera arrivavo ai 51kg, quasi 52, per quanta frutta e verdura mangiavo.
E vedere quel peso, proprio qualche giorno fa, mi ha fatto scattare ancora qualcosa dentro, una voglia pazza di raggiungere quell’obiettivo, i 45kg. Ho passato un giorno a digiuno, così per vedere che effetto mi faceva non toccare cibo dopo tanto tempo che non lo facevo. E il giorno dopo sono arrivata a meno di 49kg. Stamattina, ero meno di 48kg. Non riesco a definirmi malata, ma ho sicuramente una visione contorta del mio fisico, perché più mi guardo allo specchio, più mi vedo grassa. E ho il pensiero che anche quando raggiungerò quei 45kg, mi vedrò lo stesso inappropriata, e allora la cosa continuerà, e rovinerò la vita a me e a chi ho intorno. Il punto è che non mi interessa, perché il pensiero che ho in testa ora è solo uno: perdere peso. Ripetuto cento mila volte.
FONTE DI QUESTO ARTICOLO
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Lo Staff di Medicina OnLine
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