Gotta: sintomi, cause, dieta e rimedi per la malattia

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La gotta è una patologia infiammatoria caratterizzata dall’innalzamento plasmatico dei livelli di acido urico e dal deposito dei cristalli di questa sostanza a livello delle articolazioni. È una malattia ad esordio acuto, i sintomi cioè compaiono improvvisamente, e ha un decorso di circa una decina di giorni ma, in alcuni casi, può anche diventare cronica o comunque recidiva, difatti oltre il 50% dei soggetti che vengono colpiti da un attacco di gotta sono ad alto rischio di svilupparne un altro nel corso dello stesso anno.Vediamo ora che cosa succede.

La patologia è provocata dall’alterazione dei livelli di acido urico

La fisiopatologia della gotta si basa su un’alterazione del metabolismo dell’acido urico, il prodotto finale della degradazione delle purine (componenti delle basi azotate del DNA), e degli aminoacidi. Normalmente l’acido urico viene eliminato per via renale (si stima che il rene elimini quotidianamente 450 mg di acido urico con le urine).

Vediamo ora quali sono i normali valori nel sangue:

  • Uomo 3,2 – 8,1 mg/dl
  • Donna 2,2 – 7,1 mg/dl

Puoi approfondire cause e sintomi dell’iperuricemia.

Quando vengono superati questi valori il soggetto si troverà in una condizione chiamata iperuricemia, cioè un aumento dei livelli plasmatici di acido urico. Questa sostanza, quando presente in quantità elevate nell’organismo, tende a precipitare, cioè a depositarsi, sottoforma di cristalli a livello delle articolazioni, sotto la cute e a livello renale. Il meccanismo non è ancora conosciuto in maniera precisa ma si pensa che, oltre agli elevati livelli, la deposizione di acido urico sia correlata anche all’abbassamento delle temperature. Quali sono i soggetti colpiti.

I soggetti più colpiti rientrano nella fascia 30 – 60 anni

La gotta è una patologia che può colpire a tutte le età anche se è maggiormente diffusa nei soggetti che rientrano in una fascia compresa tra i 30 e i 60 anni. Può colpire qualsiasi categoria di soggetto ma in alcuni casi vi sono persone più predisposte di altre, per esempio:

  • Negli anziani: è frequente che si verifichino attacchi di gotta a causa dell’assunzione di alcuni farmaci per la pressione.
  • Gli uomini: rappresentano la categoria più colpita, si stima infatti che il 95% dei soggetti colpiti siano maschi.
  • Le donne: sono colpite più frequentemente nel periodo post – menopausale a causa del cambiamento del loro metabolismo dovuto al calo degli estrogeni.
  • Nei bambini: può manifestarsi anche nei bambini ma risulta essere estremamente rara durante l’infanzia.

Le cause e i principali fattori di rischio della gotta

Sappiamo che la gotta è causata dall’iperuricemia ma cosa determina quest’ultima? Le cause che portano ad un aumento dell’acido urico nel sangue sono molteplici e possono essere così schematizzate:

  • Insufficienza renale: quando i reni non funzionano più in maniera corretta non riescono a depurare il sangue da tutte le sostanze di scarto, tra cui anche l’acido urico. Di conseguenza questa sostanza si accumula nel sangue e può determinare la comparsa di gotta.
  • Diabete: alcuni studi mostrano una correlazione tra il diabete mellito e l’insorgenza di gotta. Sebbene il meccanismo non sia ancora ben chiaro, si ipotizza che, sia la condizione di acidosi metabolica causata dal diabete, sia il fatto che entrambe le malattie causino disordini endocrino – metabolici, possano essere alla base della correlazione tra le due patologie.
  • Farmaci: alcuni farmaci possono alzare i livelli di uricemia nel sangue. Tra questi abbiamo i diuretici, che causano una diminuzione della capacità del rene di eliminare l’acido urico, la levodopa (un farmaco che si utilizza nel morbo di Parkinson) e l’aspirina, che hanno la capacità di far aumentare i livelli di acido urico nel sangue, e alcuni immunosoppressori come le ciclosporine.
  • Sindrome metabolica: sembra che un aumento dell’uricemia sia anche correlato alla sindrome metabolica, quella condizione in cui si ha contemporaneamente la presenza di obesità, ipertensione, insulino – resistenza e iperglicemia. Non sono però ancora chiari i meccanismi con cui avviene questa correlazione.
  • Sindrome di Lesch-Nyhan: è una patologia genetica caratterizzata dall’alterazione di un enzima coinvolto nel metabolismo delle purine. Quest’alterazione provoca un’iperuricemia persistente e quindi l’insorgenza di gotta in forma cronica.
  • Tra le altre possibili cause di gotta vi è l’avvelenamento da piombo, alcuni tumori, l’anemia emolitica, patologie della pelle come la psoriasi, e inoltre eccesso di esercizio fisico e traumi.

Tra i fattori di rischio possiamo citare:Accanto alle cause vi sono anche dei fattori di rischio, cioè delle condizioni in cui si trova il soggetto che possono predisporlo alla comparsa della gotta ma che, di per sé, non possono essere considerati una causa.

  • Alimentazione: chi consuma in maniera eccessiva alimenti ricchi di purine può avere un innalzamento dei livelli di acido urico nel sangue che possono portare ad un attacco acuto di gotta. Tra gli alimenti che contengono molte purine vi sono le frattaglie animali (per esempio il fegato e i reni), i crostacei, alcuni pesci come le acciughe e gli sgombri, e alcuni legumi, come i fagioli secchi o i piselli.
  • Abuso di alcol: chi consuma abitualmente grandi quantità di alcol può avere un accumulo di acido urico. Questo è determinato sia dal fatto che in presenza di troppo alcol l’organismo, già impegnato nello smaltimento delle sostanze alcoliche, non riesce ad espellere correttamente la normale quantità giornaliera di acido urico, sia dal fatto che alcuni superalcolici, come la vodka o il whisky, contengono molte purine.
  • Fattori genetici: alcuni studi hanno identificato dei particolari geni (ABCG2 e SLC2A9) che sembrano essere correlati con l’insorgenza della gotta. Infatti piccole modifiche in questi due geni possono portare a variazioni nei livelli di acido urico di un soggetto e quindi al possibile sviluppo di gotta.

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I sintomi: sono correlati alla deposizione dei cristalli di acido urico

I principali sintomi della gotta sono causati dalla deposizione dei cristalli di acido urico. Questi tendono a depositarsi in punti ben precisi dell’organismo come:

  • Articolazioni: rappresentano il punto più colpito dalla gotta, specialmente quelle dei piedi, in particolare quella che si trova tra l’alluce e il metatarso, e quelle delle mani. Altre articolazioni maggiormente colpite sono quelle dei gomiti, del polso, delle ginocchia e delle caviglie. L’articolazione in cui si sono depositati i cristalli di acido urico è rossa, gonfia e dolente al tatto e mostra una superficie lucida, la pelle è screpolata e desquamata e talvolta può comparire anche un fastidioso prurito. Nella maggior parte dei casi la gotta colpisce solo un’articolazione, mentre in un 10% di soggetti colpiti le articolazioni coinvolte sono più di una, si avrà in questo caso una gotta definita poliarticolare.
  • Sottocute: i cristalli di acido urico si possono depositare sotto la superficie cutanea determinando la comparsa di un sintomo noto come “tofo”. I tofi sono delle piccole escrescenze simili a noduli che hanno una consistenza dura, non sono dolenti al tatto e sono di colore giallo – biancastro. Possono comparire sia in zone vicine all’articolazione colpita sia in altre zone corporee come per esempio i padiglioni auricolari. I tofi si formano solitamente quando la gotta inizia a cronicizzare.
  • Reni: i cristalli di acido urico possono accumularsi anche nei reni sotto forma di calcoli i quali provocano sia dolore sia la possibile comparsa di infezione delle alte vie urinarie. I calcoli di acido urico non compaiono sempre, ma soltanto nel 10 – 25% dei casi di gotta.

Attenzione agli attacchi acuti di gotta

Durante un attacco acuto di gotta possono manifestarsi anche dei sintomi sistemici come lieve rialzo termico, astenia, inappetenza e debolezza. Una caratteristica dei sintomi è che si manifestano in maniera più aggressiva durante la sera, mentre durante il giorno appaiono più leggeri, ma non se ne conosce il motivo. Se non curata adeguatamente la gotta può diventare pericolosa e cronicizzare provocando conseguenze molto gravi come danni permanenti alle articolazioni, che compromettono le capacità motorie del soggetto, e danni ai reni tali da determinare insufficienza renale.
Al fine di poter curare in maniera adeguata la gotta è necessario che il medico formuli una corretta diagnosi. Quando si sospetta un attacco di gotta ci si può rivolgere al proprio medico di base, il quale prescriverà degli esami clinici ed eventualmente, se necessario, indirizzerà verso un medico specialista (per esempio un esperto di scienze dell’alimentazione per stilare una dieta adatta o un ortopedico per valutare lo stato delle articolazioni.

La diagnosi: osservazione clinica ed esami.

  • Il medico sottopone il paziente ad un’anamnesi, durante la quale gli pone alcune domande per sapere quando è insorto il dolore, che tipo di dolore è, se si sono manifestati sintomi quali gonfiore e arrossamento e quali parti del corpo o articolazioni sono state colpite.
  • Dopo l’anamnesi il medico, mediante osservazione clinica, guarderà l’articolazione colpita al fine di identificarne i tratti distintivi della gotta.
  • Una volta terminato l’esame obiettivo il medico prescriverà un esame di sangue e delle urine per valutare i livelli di acido urico in questi due liquidi biologici.
  • Infine il medico potrà sottoporre il paziente all’esame del liquido sinoviale, un particolare liquido che si trova all’interno delle articolazioni e che, se vi è in corso un attacco acuto di gotta, mostra la presenza di cristalli di acido urico. Questo esame è quello più sicuro per identificare la gotta ma è anche difficile da eseguire se l’articolazione colpita è piccola perchè risulta difficile eseguire il prelievo del liquido con una siringa.
  • Nei casi più gravi, come per esempio nel caso in cui siano colpite più articolazioni in contemporanea o si è in presenza di gotta cronica, è possibile eseguire delle radiografie che evidenziano sia la deposizione dei cristalli di acido urico sia eventuali danni a carico delle articolazioni.

La dieta è importantissima in coloro che soffrono di iperuricemia e gotta, poichè un’alimentazione scorretta è ritenuta una delle maggiori cause di questa patologia. Chi soffre di gotta deve evitare alcuni alimenti, ricchi in purine responsabili dell’accumulo di acido urico, e prediligerne altri.

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Curare la gotta con l’alimentazione: la dieta corretta

  • Evitare: tutti gli alimenti che hanno un alto contenuto di purine (150 – 180 g in 100 g di alimento). Tra questi alimenti abbiamo frattaglie e interiora come fegato, reni, polmone, cuore, cervello, prodotti conservati come brodi, estratti di carne e salse piccanti, alcune tipologie di pesce come aringhe, sgombri, caviale, triglie, sarago e tonno, i crostacei, le cozze e i molluschi in generale, le carni come la selvaggina, tutti gli alcolici compresi il vino e la birra. Anche alcuni tipi di frutta sono da evitare come cocomero, castagne, nespole, datteri, prugne e mandorle.
  • Limitare: gli alimenti che hanno un contenuto medio di purine (50 – 150 mg per 100 g di prodotto). Tra questi alimenti abbiamo alcuni pesci come spigola, rombo, cernia, trota e nasello, le carni bianche come pollo, coniglio e tacchino, alcune verdure come peperoni, asparagi, melanzane, cavolfiori e funghi e alcuni tipi di legumi come lenticchie e piselli.
  • Preferire: gli alimenti che hanno un basso contenuto di purine (0 – 15 mg per 100 g di prodotto). Tra questi abbiamo pasta, riso, fette biscottate e cereali nel gruppo dei carboidrati, il latte e i suoi derivati (tranne i formaggi grassi e stagionati) come mozzarella, ricotta e scamorza, verdure come barbabietole, pomodori, rape, insalata, cavolini di bruxelles, zucca e indivia, frutta come albicocche mele, pesche, pere e ciliegie, le uova e le patate, e tra i condimenti l’olio di oliva e l’aceto.

Si consiglia inoltre di assumere anche alimenti ad alto contenuto di vitamina C (esempio fragole, arance, kiwi) poichè questa è in grado di abbassare i livelli di acido urico nel sangue.

Dieta per la gotta

La dieta per la gotta deve essere di tipo normocalorico, se il soggetto non ha problemi di sovrappeso, o ipocalorica nel caso in cui il soggetto sia sovrappeso o obeso. Non vi sono particolari indicazioni dietetiche eccetto le limitazioni alimentari già citate, ed un esempio di schema giornaliero per una dieta anti – gotta può essere il seguente:

  • La colazione: deve prevedere una fonte proteica (250 ml di latte parzialmente scremato oppure uno yogurt da 125 g), una fonte di carboidrati (ad esempio tre fette biscottate, oppure 35 g di cereali, o tre biscotti secchi) e una fonte limitata di zuccheri semplici (esempio due cucchiaini di marmellata o 200 ml di succo di frutta).
  • Metà mattina e metà pomeriggio: si consigliano due spuntini a base di frutta.
  • Pranzo e cena: devono prevedere una porzione di carboidrati (pane, pasta, riso) da almeno 60 – 80 g, una porzione di proteine da massimo 100 g (da preferire carni bianche), e una porzione abbondante di verdure. E’ possibile consumare massimo una volta a settimana 50 g di insaccati, ma nel caso di attacco acuto sarebbe bene evitare di consumare questi alimenti.

Rimedi naturali: le piante da associare  alla terapia farmacologica

E’ possibile fronteggiare un attacco di gotta utilizzando rimedi di tipo naturale, come per esempio alcune erbe. Le piante vengono solitamente utilizzate in combinazione con la terapia farmacologica per aumentarne l’effetto e consentire una guarigione più veloce.

  • Ortica: questa pianta contiene tra i suoi principi attivi mucillagini, xantofilla, flavonoidi, molte vitamine, tra cui la vitamina C e sali minerali, tutte sostanze che aiutano ad abbassare i livelli di acidi (compreso l’acido urico) nell’organismo. Per alleviare i sintomi degli attacchi di gotta si può utilizzare sotto forma di capsule o di tisana. Per preparare una tisana all’ortica anti – gotta è possibile utilizzare sia delle foglie di ortica fresche (in questo caso si mettono in infusione in una tazza d’acqua bollente circa 3 foglie di ortica, si lascia r circa 5 minuti, poi si filtra e si beve) sia foglie di ortica essiccate (in questo caso bastano due cucchiaini di foglie di ortica secche da mettere in infusione per circa dieci minuti in acqua bollente, filtrare poi il tutto e bere).
  • Frassino: utili contro la gotta sono anche le capsule di frassino (due capsule al giorno), questa pianta infatti contiene fraxoside, tannini flavonoidi e cumarine, sostanze che sono state identificate come utili per il trattamento della gotta e dei reumatismi artritici in generale.
  • Ribes nero: anche le capsule contenenti ribes nero (due -tre capsule un paio di volte al giorno) sono utili per il trattamento della gotta. Il ribes nero infatti contiene infatti acido citrico, acido malico e vitamina C, sostanze utili per il trattamento delle artriti in generale, compresa l’artrite gottosa.
  • Ciliegie: è consigliabile il consumo di ciliegie (circa una ventina al giorno) quando si ha un attacco acuto di gotta. Questi frutti infatti contengono antocianine che hanno un’azione antinfiammatoria e aiutano a ridurre il dolore e l’arrossamento alle articolazioni.
  • Caffè non forte: sebbene vi siano pareri contrastanti sembra che assumere il caffè un paio di volte al giorno (a patto che venga utilizzata una miscela leggera e non forte) possa aiutare a ridurre i livelli di acido urico nel sangue e che questo non dipenda dalla caffeina in sè poichè anche il caffè decaffeinato ottiene lo stesso effetto. Tuttavia non sono ancora chiari i meccanismi e gli studi sono ancora in corso.

I rimedi casalinghi

Tra le terapie naturali figurano anche tutti quei rimedi casalinghi che possono aiutare a provare sollievo dal dolore, tra questi un rimedio molto efficace qualora l’articolazione colpita sia quella dei piedi, è fare un pediluvio. Per ottenere un rimedio efficace bisogna riempire una bacinella con acqua calda e sciogliere al suo interno o della polvere di carbone o dei sali di Epsom, sostanze in grado di aiutare a diminuire il dolore e l’infiammazione, e lasciare in acqua i piedi per circa mezz’ora. Il pediluvio può essere ripetuto un paio di volte al giorno.

Farmaci

Per curare la gotta in maniera efficace è probabile che il medico affianchi alla terapia alimentare e a quella naturale anche una terapia farmacologica mirata. I farmaci che si utilizzano genericamente per il trattamento di questa patologia sono:

  • Allopurinolo: è un farmaco che si utilizza in pazienti che hanno la tendenza ad avere attacchi di gotta recidivi (almeno due – tre episodi all’anno) e non è utile durante gli attacchi acuti. La sua azione è quella di abbassare i livelli di acido urico nel sangue inibendone la sintesi endogena. Tuttavia non ha alcun effetto sulla sintomatologia per cui non è utile per diminuire dolore, gonfiore o arrossamento.
  • Colchicina: questo farmaco, al contrario del precedente, si utilizza durante gli attacchi acuti di gotta e ha la capacità di ridurre i livelli di acido urico favorendone l’eliminazione e di ridurre anche la sintomatologia dolorosa.
  • Uricosurici: sono farmaci che favoriscono l’escrezione di acido urico con le urine e vengono impiegati o come alternativa alla colchicina o all’allopurinolo oppure in quei casi difficili da curare. Tra questi abbiamo sulfinpirazone e probenecid.
  • Antidolorifici: vengono utilizzati per il trattamento del dolore e della sintomatologia infiammatoria allo scopo di ridurre i sintomi. Si utilizzano gli antinfiammatori non steroidei (come il ketoprofene) nel caso in cui si abbia un dolore da lieve a moderato, e i corticosteroidi (come il cortisone) quando il grado di infiammazione è severo.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Differenze tra allergia alimentare ed intolleranza alimentare

MEDICINA ONLINE NAUSEA MAL DI PANCIA REFLUSSO GE ESOFAGO STOMACO DUODENO INTESTINO TENUE DIGIUNO ILEO APPARATO DIGERENTE CIBO TUMORE CANCRO POLIPO ULCERA DIVERTICOLO CRASSO FECI VOMITO SANGUE OCCULTO MILZA VARICI CIRROSI FEGATOMoltissimi – quasi tutti a dir la verità – miei pazienti fanno estrema confusione tra allergia alimentare ed intolleranza alimentare, anche perché alcuni sintomi sono effettivamente comuni ad entrambe queste condizioni. Cerchiamo quindi di spiegare la differenza in maniera semplice.

Allergia alimentare

L’allergia alimentare è una forma specifica di intolleranza a componenti alimentari che attiva il sistema immunitario. Una proteina (detta Continua a leggere

HIV e AIDS: dopo quanto si manifestano i sintomi? I 4 stadi dell’infezione

medicina-online-dott-emilio-alessio-loiacono-medico-chirurgo-roma-zona-compare-acne-rivela-problemi-riabilitazione-nutrizionista-infrarossi-accompagno-commissioni-cavitazione-radiofrequenza-ecografiaIl virus dell’HIV (“virus dell’immunodeficienza umana“) causa una malattia del sistema immunitario nota come AIDS, acronimo di sindrome da immunodeficienza acquisita (in inglese Acquired Immune Deficiency Syndrome).

Cos’è l’AIDS?

L’AIDS è una patologia immunitaria che interferisce con il sistema immunitario limitandone l’efficacia, rendendo le persone colpite progressivamente più suscettibili alle infezioni, in particolare a quelle opportunistiche, ed allo sviluppo di alcuni tipi di cancro. Questa vulnerabilità aumenta con il progredire della malattia. Anche se i trattamenti per l’HIV e l’AIDS possono rallentare o praticamente arrestare il decorso dell’infezione e della sindrome, non vi è purtroppo ad oggi una cura conosciuta che elimini virus e sindrome od un vaccino specifico contro l’HIV. Molti pensano che l’AIDS si verifichi subito dopo l’infezione da HIV, ma ciò è un errore: può infatti verificarsi anche dopo decenni dalla trasmissione del virus.

Leggi anche: Sesso e AIDS: l’HIV si trasmette anche tramite il rapporto orale

Come si trasmette l’HIV?

L’HIV può essere trasmesso “orizzontalmente” attraverso il contatto diretto con il sangue e con i liquidi del corpo di una persona infetta, ad esempio scambiandosi aghi usati, tramite una trasfusione di sangue o avendo rapporti sessuali non protetti con persone infette. Un neonato può contrarre l’HIV dalla madre infetta “verticalmente” durante la gravidanza, il parto e l’allattamento al seno. Una volta che è avvenuta l’infezione, i sintomi non sono subito del tutto evidenti, anzi tendono inizialmente ad essere assenti (durante l’incubazione) e successavamente poco specifici per poi sparire anche per decenni, tanto che il soggetto può non sapere di essere affetto per un periodo molto lungo della sua vita, infettando altre persone inconsapevolmente.

Leggi anche: Si muore di AIDS? Qual è l’aspettativa di vita?

Fasi dopo l’infezione da HIV

Subito dopo che il virus HIV è penetrato nell’organismo, l’infezione da HIV può essere suddivisa in quattro stadi:

  1. incubazione (senza sintomi);
  2. infezione acuta (con sintomi simili a quelli di una influenza);
  3. periodo di latenza (senza sintomi);
  4. AIDS.

1) Incubazione

Il periodo di incubazione è totalmente asintomatico: ciò significa che il soggetto non ha alcun sintomo dell’infezione e generalmente non sa di essere infetto e quindi di poter infettare altre persone. L’incubazione del virus HIV dura da 1 a 4 settimane dal momento del contagio.

Leggi anche: Il liquido pre-eiaculatorio può indurre gravidanza e trasmettere l’HIV?

2) Infezione acuta

Al termine dell’incubazione, si verifica la fase dell’infezione acuta, che dura in media 28 giorni, in cui si manifestano sintomi tipicamente influenzali, tra cui:

  • febbre;
  • tosse;
  • astenia (mancanza di forze);
  • malessere generale;
  • sonnolenza;
  • rinorrea (naso che cola);
  • mal di gola;
  • difficoltà a deglutire;
  • mal di testa;
  • linfonodi ingrossati e doloranti;
  • dolori muscolari e articolari;
  • nausea e vomito;
  • perdita di peso;
  • inappetenza.

Il paziente in genere sottovaluta tali sintomi, interpretandoli come una semplice influenza. Se il paziente invece riesce a ricollegare i sintomi influenzali ad un evento accadutogli una settimana o alcune settimane prima (ad esempio un rapporto sessuale non protetto con uno sconosciuto o una trasfusione di sangue), potrebbe sottoporsi ad un analisi del sangue alla ricerca del virus HIV, ricerca che darà purtroppo esito positivo (cioè indicare che la persona si sia realmente infettata).

Leggi anche: HIV e AIDS: come, dove e quando si eseguono i test per la diagnosi?

3) Periodo di latenza

Al termine della fase dell’infezione acuta, si verifica il periodo di latenza che, al pari dell’incubazione, è generalmente priva di sintomi. Il periodo di latenza ha una durata estremamente variabile: può durare da 2 settimane a 20 anni. Ovviamente in questo lungo arco di tempo il soggetto può infettare altre persone.

4) AIDS

Nella fase dell’AIDS conclamato il sistema immunitario è debilitato e ciò si traduce in un maggior rischio dello sviluppo di infezioni (ad esempio polmoniti, micosi e soprattutto infezioni opportunistiche) e di vari tipi di tumore (come il sarcoma di Kaposi, tumori del cervello e linfomi). I sintomi e segni che possono essere riscontrati nella fase dell’AIDS sono molto vari e possono includere:

  • rash cutaneo;
  • rapida perdita di peso;
  • febbre anche alta;
  • forte stanchezza;
  • linfonodi ingrossati e doloranti;
  • nausea, vomito e diarrea persistenti;
  • agitazione e sudorazione notturna,
  • tremori;
  • sintomi e segni di qualsiasi infezione opportunistica, in particolare alcuni tipi di polmonite.

I primi sintomi legati alla presenza di HIV, si osservano quindi entro circa un mese dal contagio e sono sintomi simili a quelli dell’influenza, a tal proposito leggi: HIV: sintomi iniziali in donne e uomini

Per approfondire:

Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Lupus eritematoso sistemico (LES): cause, sintomi, diagnosi e terapie

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO LES CAUSE Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgIl lupus eritematoso sistemico (da cui l’acronimo “LES“, o semplicemente “lupus“; in inglese “systemic lupus erythematosus“, da cui l’acronimo “SLE“) è una patologia del connettivo cronica di natura autoimmune, che può colpire diversi organi e tessuti del corpo. Come accade nelle altre malattie autoimmuni, il sistema immunitario produce autoanticorpi che, invece di proteggere il corpo da virus, batteri e agenti estranei, aggrediscono cellule e componenti del corpo stesso, causando infiammazione e danno tissutale. Il meccanismo patogenetico è un’ipersensibilità di III tipo, caratterizzata dalla formazione di immunocomplessi. Il lupus è una patologia caratterizzata da manifestazioni eritematose cutanee e mucose, sensibilità alla luce del sole e coinvolgimento sistemico di quasi tutti gli organi e apparati come il rene, le articolazioni, il sistema nervoso centrale, le sierose e il sistema emopoietico, dovute a deposito di immunocomplessi e complemento. Colpisce più frequentemente le donne, soprattutto fra i 15 e i 40 anni.

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Etimologia

Il termine “Lupus” è una parola latina che significa “lupo” e si riferisce alla caratteristica eruzione cutanea a forma di farfalla riscontrata sul viso di molti pazienti affetti da LES, che ricordava ai medici i contrassegni bianchi presenti sul muso dei lupi. Secondo altri invece le lesioni cicatriziali successive al rash assomigliavano a quelle lasciate dai morsi o graffi dei lupi.

Che cos’è il lupus eritematoso sistemico?

Il lupus eritematoso sistemico (LES) è una malattia del connettivo (connettivite) caratterizzata da manifestazioni eritematose cutanee e mucose, sensibilità alla luce del sole e coinvolgimento sistemico di quasi tutti gli organi e apparati come il rene, le articolazioni, il sistema nervoso centrale, le sierose e il sistema emopoietico, dovute a deposito di immunocomplessi e complemento.

Tipologie

Esistono forme particolari di lupus:

  • lupus indotto da farmaci: caratterizzato dalla presenza degli anticorpi anti-istone;
  • lupus neonatale: causato dal trasferimento trans-placentare degli anti-SSA che possono causare nel neonato manifestazioni cutanee eritematose transitorie o blocchi atrio-ventricolari permanenti;
  • lupus cutaneo: caratterizzato solo dalle manifestazioni cutanee (anche se esistono dei casi che evolvono in forme sistemiche) le cui varianti principali sono il lupus discoide e il lupus cutaneo subacuto.

Epidemiologia

Il LES colpisce più frequentemente le donne, soprattutto fra i 15 e i 40 anni; il rapporto di incidenza tra femmine e maschi è di 9:1. Negli uomini con la sindrome di Klinefelter, caratterizzata dalla presenza di un genotipo 47,XXY, la prevalenza è simile a quella nel sesso femminile, suggerendo un possibile coinvolgimento del cromosoma X nella patogenesi della malattia. Possono verificarsi casi di familiarità, ma più spesso è una malattia sporadica. La prevalenza del lupus eritematoso sistemico varia considerevolmente a seconda del paese, dell’etnia e del genere.

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Cause e fattori di rischio del lupus

Le cause della malattia non sono note, si ritiene che alla base ci sia un’alterata clearance delle cellule apoptotiche con conseguente reazione autoimmune nei confronti del DNA e di altri antigeni intracellulari. Nella patogenesi della malattia è coinvolta anche l’esposizione di antigeni intracellulari da parte dei cheratinociti danneggiati dai raggi UV; infatti l’esposizione al sole nei soggetti lupici è in grado di provocare le manifestazioni cutanee e flare (riattivazioni) di malattia.
La differente incidenza della malattia tra uomini e donne sembra possa essere dovuta a un ruolo importante di fattori ormonali ed epigenetici nella suscettibilità alla malattia del sesso femminile.

Sintomi e segni del lupus

I sintomi e segni del lupus sono molto vari:

  • sintomi sistemici: febbre e stanchezza;
  • segni cutanei e mucosi: rash a farfalla al volto, lesioni eritematose nelle zone esposte al sole, alopecia areata e perdita diffusa di capelli, lesioni rosso-violacee del palato duro e nasali, vasculite cutanea;
  • coinvolgimento renale: sindrome nefritica e sindrome nefrosica;
  • coinvolgimento articolare: artralgie e artrite;
  • coinvolgimento delle sierose: pericarditi e pleuriti;
  • coinvolgimento del sistema emopoietico: leucopenia, anemia emolitica, piastrinopenia;
  • coinvolgimento del sistema nervoso centrale: deficit di concentrazione, epilessia, psicosi.

Alcuni pazienti con lupus hanno un più alto rischio di sviluppare depressione ed altre malattie psichiatriche.

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Diagnosi

I criteri classificativi del lupus comprendono la presenza di quattro tra le manifestazioni cliniche e laboratoristiche di malattia o una biopsia renale probante con ANA o anti-DNA positivi.

Alla base della diagnosi vi è la presenza degli anticorpi anti nucleo (ANA), positivi in più del 90% dei casi. Le specificità più frequenti e specifiche sono gli anti-DNA seguiti dagli anti-Sm/RNP; si è osservato che le variazioni dei livelli degli anti-DNA correlano con l’andamento della malattia. Ugualmente frequenti, ma non specifici, sono gli anti-SSA e gli anti-SSB.
Una percentuale significativa di pazienti affetti da lupus presenta positività degli anticorpi anti-fosfolidipi (LAC, anticardiolipina, anti-beta 2 glicoproteina I), anticorpi in grado di provocare trombosi e aborti.

Esami strumentali per la determinazione dell’attività di malattia e per la stadiazione del coinvolgimento d’organo sono:

  • Esami ematici: il dosaggio del complemento (C3 e C4, che si abbassa in caso di malattia attiva), l’emocromo, la creatinina;
  • Analisi del sedimento urinario e la determinazione della proteinuria nelle 24 ore;
  • Biopsia renale: consente di classificare l’eventuale coinvolgimento renale in 5 classi che prevedono protocolli terapeutici e prognosi diverse;
  • RMN encefalo con mezzo di contrasto;
  • Elettroencefalogramma;
  • Ecocardiogramma;
  • Rx torace;
  • Ecografia articolare.

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Trattamenti

Il trattamento delle fasi acute di malattia e delle manifestazioni d’organo più importanti si basa sull’uso di corticosteroidi endovena o per via orale, dapprima ad alte dosi poi alla più bassa dose sufficiente al controllo della malattia.

Gli antimalarici, come l’idrossiclorochina, se non controindicati, costituiscono la terapia di fondo di tutti i pazienti con lupus poiché riducono la frequenza dei flare, sono particolarmente efficaci nel controllare le manifestazioni cutanee e articolari di malattia e si possono utilizzare in gravidanza.
Agli anti-malarici si possono associare immunosoppressori come la ciclofosfamide, prima linea nel trattamento della glomerulonefrite lupica, l’azatioprina, comunemente utilizzata come terapia di mantenimento dopo ciclofosfamide e nel trattamento delle principali manifestazioni di malattia, il micofenolato mofetile, utilizzabile sia come terapia di induzione che di mantenimento della glomerulonefrite lupica, la ciclosporina, utile in caso di glomerulonefrite membranosa, ed il metotrexate, in caso di prevalenti manifestazioni artritiche non rispondenti agli anti-malarici.

Sono in studio numerosi farmaci biologici per il trattamento del lupus; è attualmente disponibile in commercio un anticorpo monoclonale (Belimumab) diretto contro la molecola BAFF, fattore di sopravvivenza dei linfociti B responsabili della produzione di anticorpi, che è efficace nel controllare il lupus attivo nonostante la terapia standard.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Differenza tra virus e batteri: chi è più pericoloso? Diagnosi, sintomi e terapia

MEDICINA ONLINE VIRUS BATTERI MICRORGANISMI VACCINI PERICOLO PATOGENIVirus e batteri sono microrganismi unicellulari, cioè organismi composti da una sola cellula, aventi dimensioni tali da non poter Continua a leggere

Febbre dopo vaccino: come curarla e quanto dura?

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO CHIRURGO NEONATO PIANGE BAMBINO FEBBRE LACRIME DOLORE LATTANTEA vostro figlio è venuta la febbre dopo aver fatto il vaccino? E’ un fatto assolutamente comune e che non deve destare eccessiva preoccupazione. Molti genitori sono spaventati dalla possibilità che si verifichi questo effetto collaterale, specie col primo figlio, e quasi 2 su 10 preferiscono – anche per questo – addirittura evitare del tutto i vaccini, incuranti dei grandi rischi che questa scelta, sempre più comune, comporta. La vaccinazione, infatti, resta il modo più sicuro ed efficace di combattere alcune gravi malattie e la febbre che può comparire dopo le vaccinazioni non deve in alcun modo spaventare: ecco perché viene e quanto dura.

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Vaccini neonati (e bambini): perché viene la febbre?

Le vaccinazioni (sia quelle obbligatorie che quelle facoltative) agiscono tramite l’iniezione nell’organismo dei virus che devono prevenire anche se in forma attenuata o non più vivi per attivare gli anticorpi necessari ad ottenere l’immunità. La comparsa di questi microrganismi aggressivi nel corpo, però, stimola una risposta immediata e la difesa attuata come reazione dal corpo – specialmente in neonati e bambini – può manifestarsi con la comparsa di qualche episodio febbrile.

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Febbre da vaccino: quali sono le tempistiche

Sulla durata della febbre dopo i vaccini non esiste uno standard fisso ma, generalmente, l’aumento della temperatura si manifesta tra 2 e 24 ore dopo l’iniezione e scompare entro un paio di giorni. Fa eccezione il caso del vaccino trivalente (contro morbillo, parotite e rosolia): in questo caso, infatti, la febbre da vaccino può manifestarsi tra 5 e 15 giorni dopo la somministrazione.

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Febbre post vaccino: i rimedi

La cura per la febbre dopo il vaccino è la stessa consigliata in caso di febbre in età pediatrica. Tra le azioni indispensabili c’è quella di tenere i piccoli ben idratati (somministrando loro acqua, tè deteinato e succhi di frutta o spremute) rinfrescandoli spesso con panni umidi o impacchi di ghiaccio. Dietro consulto con il medico, poi, è possibile somministrare paracetamolo o creme specifiche per far passare il gonfiore dalla zona dove è stata praticata l’iniezione.

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Cos’è il vaccino esavalente? Quando, come e perché farlo?

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO CHIRURGO VACCINO BAMBINI PUNTURA INIEZIONE SPALLACos’è il vaccino esavalente?

E’ una iniezione – generalmente da somministrare tre volte nel corso primo anno di vita del bambino, a 2, 5 e 12 mesi – che protegge i piccoli dal rischio di contrarre sei diverse malattie, vale a dire difterite, epatite B, infezioni da Haemophilus Influenzae tipo B, pertosse, poliomielite e tetano. Solo quattro di queste sei protezioni fanno parte delle vaccinazioni obbligatorie ma lo Stato – tramite il consenso informato – suggerisce e incentiva (assicurandone la gratuità) una copertura su tutti e sei i rischi di patologie. La protezione assicurata dal vaccino esavalente è molto lunga nel tempo e, per alcune delle patologie che combatte, può durare anche per l’intero arco della vita.

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Da cosa è composto il vaccino esavalente

Il vaccino esavalente è composto da tossoide difterico (contro la difterite), antigene di superficie ricombinante del virus dell’epatite B (appunto contro l’epatite B), polisaccaride dell’Haemophilus Influenzae tipo B (per combattere il rischio di infezioni da questo virus), antigeni della pertosse, virus inattivati della poliomielite tipo 1, 2 e 3 e tossoide tetanico oltre che aminoacidi, sali minerali e vitamine.

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Effetti collaterali vaccino esavalente

Le reazioni allergiche gravi al vaccino esavalente sono estremamente rare mentre è comune che, qualche ora dopo la somministrazione della vaccinazione, il bambino lamenti una sensazione di gonfiore e dolore nella zona dove è stata praticata l’iniezione (che, tra l’altro, potrebbe arrossarsi leggermente). La febbre dopo vaccino esavalente e una diminuzione dell’appetito seguita da irritabilità e sonnolenza sono reazioni normali a circa 48 ore dopo la vaccinazione.

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Richiamo vaccino esavalente

Oltre alle tre dosi da somministrare durante il primo anno di vita, per la poliomielite è previsto un richiamo a 6 anni mentre difterite, tetano e pertosse richiedono altri due richiami, il primo a 6 anni e il secondo a 14.

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Poliomielite: cause, sintomi, diagnosi, importanza del vaccino e controindicazioni

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO CHIRURGO VACCINO BAMBINI PUNTURA INIEZIONE SPALLA (2)Cos’è la poliomielite e come si trasmette?

La poliomielite è una grave malattia infettiva altamente contagiosa che colpisce il sistema nervoso centrale e si trasmette per via oro-fecale (attraverso l’ingestione di prodotti contaminati, tramite saliva dei soggetti ammalati o tramite contatto con le feci di persone colpite dal virus). La poliomielite è stata riconosciuta come malattia da Jakob Heine nel 1840, mentre il suo agente eziologico, il poliovirus, è stato identificato nel 1908 da Karl Landsteine.

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Classificazione della poliomielite

La poliomielite si presenta, generalmente, in tre forme distinte: la prima (poliomielite abortiva) porta solo a febbre alta senza interessare il sistema nervoso, la seconda (meningite asettica) porta a una paralisi lieve e momentanea, mentre la terza – che è la forma più grave in assoluto – comporta sia febbre che “paralisi flaccida” acuta che porta gli arti inferiori a perdere molto velocemente tono muscolare fino a diventare, appunto, flaccide (oltre che paralizzate).

Sintomi della poliomielite

Sebbene circa il 90% delle infezioni da polio non causi sintomi, gli individui affetti possono presentare una serie di condizioni se il virus entra nella circolazione sanguigna. In circa l’1% dei casi, il virus penetra nel sistema nervoso centrale, dove colpisce di preferenza i neuroni motori, portando a debolezza muscolare e paralisi flaccida acuta. A seconda dei nervi coinvolti, possono presentarsi diversi tipi di paralisi. La polio spinale è la forma più comune, caratterizzata da paralisi asimmetrica che spesso coinvolge le gambe. La polio bulbare porta alla debolezza dei muscoli innervati dai nervi cranici. La polio bulbospinale è una combinazione di paralisi bulbare e spinale.

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Cause della poliomielite

La poliomielite è causata dall’infezione con un virus appartenente al genere degli enterovirus, noto come poliovirus (PV). Questi virus a RNA colonizzano il tratto gastrointestinale, specificamente l’orofaringe e l’intestino. Il periodo di incubazione, ovverosia il tempo tra la prima esposizione e i primi sintomi, varia da tre a 35 giorni, con un arco più comune che va dai sei ai venti giorni. Il poliovirus infetta e provoca la malattia soltanto negli esseri umani. La sua struttura è molto semplice: è composto da un genoma a RNA racchiuso in un involucro proteico chiamato capside. Oltre a proteggere il materiale genetico del virus, le proteine del capside consentono al poliovirus di infettare alcuni tipi di cellule. Tre sierotipi di poliovirus sono stati identificati: il poliovirus di tipo 1 (PV1), di tipo 2 (PV2) e di tipo 3 (PV3), ognuno con una proteina del capside leggermente diversa. Tutti e tre sono estremamente virulenti e producono gli stessi sintomi della malattia. PV1 è la forma che si riscontra più frequente e quella più strettamente correlata alla paralisi. Gli individui che sono esposti al virus, tramite infezione o tramite l’immunizzazione con il vaccino antipolio, sviluppano l’immunità. Negli individui immuni, gli anticorpi IgA contro il poliovirus sono presenti nelle tonsille e nel tratto gastrointestinale e sono in grado di bloccare la replicazione del virus mentre gli anticorpi IgG e IgM possono prevenire la diffusione del virus ai neuroni motori del sistema nervoso centrale. L’infezione o la vaccinazione con un sierotipo di poliovirus non fornisce immunità contro gli altri sierotipi e l’immunità completa richiede l’esposizione a ciascun sierotipo.

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Trasmissione della poliomielite

La poliomielite è altamente contagiosa e si può trasmettere per via oro-orale (fonte orofaringea) e fecale-orale (di origine intestinale). Nelle aree endemiche, il poliovirus può infettare praticamente l’intera popolazione umana. Il virus si presenta per lo più stagionalmente nelle fasce climatiche temperate, con il picco di trasmissione che si verifica in estate e in autunno. Queste differenze stagionali sono molto meno pronunciate nelle aree tropicali. Il periodo di incubazione è di solito compreso tra sei e venti giorni, con un intervallo massimo che va dai tre ai trentacinque giorni. Dopo l’infezione iniziale le particelle virali sono escrete, per diverse settimane, con le feci, che pertanto risultano infette. La malattia si trasmette principalmente per via fecale-orale, con l’ingestione di cibo contaminato o acqua. Talvolta viene trasmessa via oro-orale, una modalità di trasmissione più comune nelle zone in cui vi è una buona igiene. La poliomielite è maggiormente infettiva tra i sette e i dieci giorni prima e dopo la comparsa dei sintomi, ma la trasmissione è possibile finché il virus rimane nella saliva o nelle feci. I fattori che aumentano il rischio di infezione da polio o influenzano la gravità della malattia comprendono: deficienza immunitaria, malnutrizione, tonsillectomia, attività fisica subito dopo l’inizio della paralisi, lesioni muscolo-scheletriche a causa di iniezione di vaccini e la gravidanza. Anche se il virus può attraversare la placenta, il feto non sembra essere influenzato da una infezione materna o dalla vaccinazione contro la polio. Anche gli eventuali anticorpi materni possono attraversare la placenta, fornendo l’immunità passiva che protegge il neonato dalle infezioni da polio durante i primi mesi di vita. Come precauzione contro le infezioni, durante le epidemie di poliomielite le piscine pubbliche delle zone colpite sono state spesso chiuse.

Diagnosi della poliomielite

La poliomielite paralitica può essere clinicamente sospettata in individui che con insorgenza acuta di paralisi flaccida a livello di uno o più arti e riflessi tendinei diminuiti o assenti negli arti colpiti, con conservazione delle funzioni sensoriale o cognitiva e in assenza di altre cause apparenti. Una diagnosi di laboratorio può essere effettuata in seguito all’isolamento del poliovirus in un campione di feci o in un tampone faringeo. Gli anticorpi anti-poliovirus possono essere trovati nel sangue durante la fase infettiva. L’analisi del liquido cerebrospinale (CSF) del paziente, prelevato tramite puntura lombare, mostra un elevato numero di globuli bianchi (principalmente linfociti) e un lieve incremento nella concentrazione proteica. L’individuazione del virus nel liquor attesta l’avvenuta infezione del sistema nervoso centrale ed è pertanto diagnostica per la polio paralitica, sebbene ciò si verifichi raramente. Se il poliovirus è isolato da un paziente che presenta paralisi flaccida acuta, viene ulteriormente testato tramite mappatura genetica o, più recentemente, mediante reazione polimerasica a catena (PCR), per determinare se esso è “wild type” (cioè, il virus che si incontra in natura) o “da vaccino” (derivato da un ceppo del virus della poliomielite utilizzato per produrre il vaccino antipolio). È importante determinare l’origine del virus, poiché per ogni caso segnalato di polio paralitica causato da poliovirus selvaggi si stima che possano esistere altri 200 a 3000 portatori asintomatici contagiosi.

Vaccino poliomielite

Il vaccino anti-polio, contro la poliomielite, come quella contro la difterite, l’epatite b e il tetano fa parte delle vaccinazioni obbligatorie per i neonati. Per l’immunizzazione dei nuovi nati, infatti, viene utilizzato il vaccino esavalente che viene somministrato in tre dosi, da praticare entro il primo anno di vita (al 3, 5 e 11 mesi), e in un richiamo da effettuare tra il 5 e i 6 anni. Esistono due tipi diversi di vaccino, quello inattivato (o di Salk) e quello vivo attenuato (o di Sabin), ma in Italia viene praticato solo il primo, mentre il Ministero della Salute mantiene una scorta del secondo in caso di emergenza.

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Controindicazioni vaccino

Non esistono controindicazioni alla vaccinazione nei bambini sani che possono essere vaccinati senza alcun pericolo. Se sono invece presenti malattie infettive in forme acute, con febbre o con diarrea, è preferibile rimandare la vaccinazione al momento in cui il piccolo abbia recuperato la buona salute. Oltre a questo, poi, è consigliato attendere almeno 4 settimane dall’iniezione prima di sottoporsi all’asportazione di tonsille o adenoidi.

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