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Mal d’auto, di mare, d’aereo: cinetosi, rimedi e farmaci per bambini ed adulti
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L’ultimo sorpasso: la morte del grande Gilles Villeneuve
La nostra storia inizia qualche giorno prima dell’incidente. Era il 25 aprile 1982, si correva il Gran Premio di San Marino di Formula Uno, a Imola, ed i due piloti della Ferrari Gilles Villeneuve e Dider Pironi furono protagonisti di una rivalità che generò anche molte polemiche all’interno del team, a causa di alcuni ordini di scuderia poco chiari. A causa di queste incomprensioni, Villeneuve, che era saldamente in testa alla corsa, rallentò e si fece raggiungere da Pironi: i due battagliarono per diversi giri, ma alla fine Pironi superò il compagno di squadra alla quartultima curva della gara. Da quel giorno, dopo la gara di Imola, Villeneuve, infuriato, non rivolse più la parola a Pironi. Il canadese fino a quel momento aveva vinto poco ma era amatissimo dai tifosi della Ferrari per il suo stile di guida molto aggressivo e spettacolare. Sarebbe morto solo 13 giorni dopo in Belgio, a Zolder, durante le prove del successivo Gran Premio.
L’incidente
Era l’8 maggio 1982. La Ferrari 126 C2 di Gilles Villeneuve era scesa in pista per le qualificazioni e stava tornando ai box quando – alle 13.53, a sette minuti dalla fine delle qualifiche del Gran premio del Belgio – si trovò di fronte la March di Jochen Mass, che procedeva lentamente. Villeneuve cercava di passarla sulla destra, proprio dove il pilota tedesco indirizzava la sua vettura per dargli strada. La sfortuna volle che la ruota anteriore sinistra della Ferrari, molto più veloce, centrò la posteriore destra della March. La monoposto rossa è decollata letteralmente e quando la macchina rimbalzò sull’erba, uno dei pannelli honeycomb della scocca, posto tra lo schienale del sedile e la paratìa frontale del serbatoio, cedette, trascinando con sé gli attacchi delle cinture di sicurezza: Villeneuve fu sbalzato fuori dall’abitacolo con il sedile ancora attaccato a lui, e ricadde scompostamente dopo un volo di 50 metri. Nelle immagini televisive lo si intravede volare, e precipitare su un paletto di plastica che sostiene una rete di protezione. L’impatto contro il paletto di plastica provoca un distacco netto fra prima e seconda vertebra cervicale. La situazione appare drammatica fin da subito. Nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale Gilles verrà tenuto in vita grazie a stimolazioni elettriche al cuore ma le conseguenze dell’impressionante incidente furono purtroppo fatali per il pilota canadese. I rottami della macchina volarono in tutte le direzioni: nella carambola, Villeneuve perse anche le scarpe, che vennero ritrovate ben a duecento metri dal luogo dell’incidente, e il casco, che ricadde a cento metri, mentre il volante della Ferrari volò a centottanta metri di distanza.
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I soccorsi
Sul posto si trovavano alcuni commissari ed un medico, che immediatamente diedero l’allarme e soccorsero il pilota. La direzione di gara espose la bandiera rossa. Si fermarono nel frattempo alcuni piloti (lo stesso Mass, John Watson, René Arnoux, Derek Warwick, Eddie Cheever), che si precipitarono a verificare la situazione. Le condizioni di Villeneuve erano palesemente gravissime: era privo di sensi, flaccido, cianotico ed edematoso su viso e collo. Altre lesioni non si scorgevano, e il pilota presentava comunque attività cardiaca regolare, dunque gli uomini del soccorso e il dottor Sid Watkins (che giunse sul posto due minuti dopo il fatto) conclusero che doveva esservi una frattura della colonna vertebrale. Posero allora il suo collo in trazione e gli praticarono massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca. Una crescente folla di curiosi accorse sul luogo dell’incidente per capire cosa fosse accaduto: per evitare che intralciassero le operazioni di soccorso, commissari e piloti formarono un cordone umano per bloccare l’accesso, mentre altri nascondevano il corpo di Gilles con dei teli neri. Passò di lì nel frattempo anche Didier Pironi, che tuttavia si fermò per pochi secondi, tornandosene subito dopo ai box.
Il trasferimento
Dopo qualche minuto il pilota fu caricato a bordo dell’automedica, condotta dal direttore di gara Roland Bruynseraede, e trasferito al centro medico dell’autodromo, dove fu stabilizzato, per poi essere trasportato in elicottero alla clinica universitaria St. Raphael di Lovanio, dove un’équipe di medici rianimatori era pronta per prestargli le prime cure. Il dottor Watkins, che accompagnò Gilles lungo tutto il tragitto, nutriva tuttavia ben poche speranze. Gli stessi piloti che avevano visto le condizioni di Villeneuve tornarono ai box profondamente scossi: John Watson disse a tutti che Gilles era già morto. Intanto, Jody Scheckter, ex compagno di squadra di Villeneuve e suo caro amico, informato dell’accaduto dallo stesso dottor Watkins, telefonò alla moglie di Villeneuve, Joanna, che era rimasta a casa, a Monte Carlo, per la prima comunione della figlia Mélanie. Le disse che Gilles aveva avuto un incidente gravissimo, avvertendola di partire subito per il Belgio. Joanna diede in escandescenza, e la moglie di Scheckter, Pam, che era accorsa a casa Villeneuve, dovette somministrarle dei calmanti. Qualche ora dopo, Pam e Joanna salirono sul primo aereo per Bruxelles.
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La lesione
Giunto alla clinica di Lovanio, il capo rianimatore, professor De Looz, lo sottopose subito ad una TAC, che evidenziò la presenza di una grave lesione del tronco encefalico e la rottura (con conseguente distacco) delle vertebre cervicali, con gravissime lesioni midollari alla base del cranio. Tale lesione fu indotta o dall’impatto con il paletto della rete o dalla tremenda decelerazione (calcolata in 27 G) o, più probabilmente, dalla violentissima trazione esercitata sul collo dalle cinture di sicurezza nel momento in cui il sedile si era staccato dal telaio. De Looz concluse che non c’era nulla da fare e che se anche, per assurdo, Villeneuve fosse sopravvissuto, sarebbe comunque rimasto paralizzato dal collo in giù e in uno stato puramente vegetativo per quel che gli sarebbe restato da vivere. Gilles fu tenuto in vita artificialmente, fino alle 21,12 di quell’8 maggio 1982, il giorno della sua morte ad appena 32 anni.
Nella sua carriera ha disputato 68 Gran Premi (di cui 6 vinti), raggiunto 2 pole, 13 podi, 107 punti ed 8 giri veloci. Il suo miglior piazzamento fu il secondo posto nel campionato del 1979 con la Ferrari 312 T3 (T4 dal GP del Sudafrica).
Suo figlio Jacques è diventato nel 1997 il primo ed unico canadese campione del mondo dei piloti di Formula 1, sulla sua Williams Renault FW19, ai danni di Michael Schumacher sulla Ferrari F310B.
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine
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GP Imola 1989: l’auto di Gerhard Berger va a fuoco nell’incidente al Tamburello
Il Gran Premio di San Marino 1989 fu la seconda gara della stagione 1989, disputata il 23 aprile sul Circuito di Imola; venne vinto dal grande Ayrton Senna su McLaren Honda che partiva dalla pole, seguito dal compagno di squadra Alain Prost, che in griglia partiva da secondo, e dall’italiano Alessandro Nannini su Benetton Ford Cosworth che partiva col settimo tempo di qualifica. Nigel Mansell sulla Ferrari, che partiva terzo, si ritirò al 23 giro per problemi al cambio.
Quel GP però viene da molti ricordato per il terribile – e letteralmente pirotecnico – incidente capitato all’altro ferrarista, l’austriaco Gerhard Berger, alla tristemente nota curva Tamburello: a causa di un cedimento meccanico la sua Ferrari finì a muro a 290 km/h e prese drammaticamente fuoco facendo presagire il peggio.
L’incidente ed i soccorsi
L’austriaco partiva col quinto tempo di qualifica e sembrava lo aspettasse una bella gara, ma all’inizio del quarto giro di gara, mentre si trova in quarta posizione dietro all’italiano Riccardo Patrese (partito in quarta posizione con la Williams Renault) la 640 di Berger perde improvvisamente l’alettone anteriore. La sua vettura, diventata incontrollabile, si schianta contro il muro esterno del Tamburello, con una dinamica molto simile a quella del tragico incidente di Senna che avverrà cinque anni dopo, il primo maggio 1994. La Ferrari prende fuoco quasi immediatamente: il radiatore ha sfondato i serbatoi disposti lateralmente. Le efficienti squadre antincendio composte dagli eroici “Leoni” della CEA intervengono con le Alfa 75 rosse in meno di 15″ salvando la vita al pilota austriaco. 15 secondi che sembrarono un’eternità a quanti assistevano alla corsa, tra cui il sottoscritto, perché si vedeva un’auto completamente avvolta dalle fiamme e nessuna reazione da parte del pilota. Berger resta esposto alle fiamme per 23″ in tutto e dopo 30″ arrivano anche i soccorsi medici. In totale alla squadra CEA bastarono appena 8 secondi circa per spegnere l’incendio ed aiutare l’austriaco ad uscire dalla vettura: ancora oggi, a distanza di anni, quell’episodio è universalmente riconosciuto come esempio di grandissima efficienza da parte degli uomini della sicurezza di un GP.
La gara sospesa
La gara fu sospesa e si decise di organizzare una nuova procedura di partenza, disputando poi altri 55 giri oltre ai 3 già percorsi e stilando la classifica finale in base ai risultati complessivi. Per la cronaca, al secondo via Prost scattò meglio del compagno di squadra, ma questi lo sopravanzò alla Tosa, nonostante i due avessero stabilito di non superarsi tra loro in quella curva nel corso del primo passaggio: a fine gara il francese criticò aspramente Senna per la manovra, che diede inizio ad un’aperta rivalità tra i due. Il brasiliano condusse senza problemi fino al traguardo, precedendo il suo compagno di squadra; Nannini approfittò dei ritiri di Mansell e Patrese per conquistare il terzo gradino del podio, mentre i piazzamenti a punti andarono a Boutsen, Warwick e Palmer.
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Conseguenze sul pilota e le indagini di Maranello
Gerard Berger, a causa della frattura a una costa e alla scapola ma soprattutto per le ustioni alle mani, dovrà saltare la gara di Montecarlo. Per la sua sostituzione in vista del GP del Messico del 28 maggio si preparava Larini ma Berger riuscirà a recuperare quasi miracolosamente e tornerà in pista in tempi record all’Autodromo Hermanos Rodriguez di Città del Messico, appena un mese e cinque giorni dopo l’incidente.
Per una settimana alla Ferrari avevano cercato inutilmente il pezzo di musetto che si era staccato dalla vettura. Approfittando della confusione un tifoso lo aveva sottratto ai commissari ma poi aveva anche provveduto a inviare la documentazione fotografica del reperto, la quale confermava il cedimento strutturale di questo particolare, probabilmente dovuto a microfratture delle fibre di carbonio, causate forse da alcune uscite di pista del pilota austriaco durante le prove. Si sarebbe rotto dapprima lo spoiler anteriore sinistro e in un secondo momento il musetto. In seguito questo punto critico verrà adeguatamente irrobustito. L’incendio successe anche perché all’epoca si ammettevano serbatoi di carburante anche esterni, che però da quell’incidente in poi furono vietati dal regolamento.
Il ritorno in pista ed il resto della stagione
Dopo aver saltato solo il successivo Gran Premio a Montecarlo, come già prima accennato Berger si ripresentò al Gran Premio del Messico, ma il prosieguo della stagione fu caratterizzato da continui ritiri, complici le innumerevoli rotture del cambio semi-automatico. A luglio, intanto, venne ufficializzato il passaggio del pilota alla McLaren nel 1990, con un contratto triennale dal valore superiore ai trenta milioni di dollari. Durante la stagione l’austriaco ebbe anche modo di protestare contro la sua scuderia, accusandola di privilegiare il suo compagno di squadra. Solo al Gran Premio d’Italia poi Berger riuscì a realizzare i primi punti con un secondo posto, vincendo poi la successiva gara in Portogallo e concludendo ancora secondo in Spagna. Terminò la stagione con 21 punti, in settima posizione.
Impossibile spostare la curva
Alcuni anni fa il pilota austriaco ha raccontato un aneddoto riguardante le settimane seguenti al suo incidente della curva del Tamburello nel 1989.
“Dopo il mio incidente con la Ferrari, che avvenne proprio al Tamburello, Ayrton mi chiamò e decidemmo di andare a fare un sopralluogo in quella curva, per vedere se poteva essere modificata data la sua pericolosità. Nel corso dei test successivi alla mia dimissione dall’ospedale andammo insieme a vedere il Tamburello, ma constatammo che sarebbe stato impossibile spostare la curva, perché a pochi metri dal muro scorreva il fiume Santerno. Allora non pensammo di proporre una chicane, che invece oggi ha sostituito il vecchio layout della pista. Oggi però siamo qui a ricordare Ayrton. Ricordiamolo sempre“.
I due incidenti (di Berger e di Senna) sono effettivamente simili. L’austriaco però ebbe la fortuna di uscire in un punto dove il muro seguiva la stessa piega della pista: in questo modo la vettura andò a sbattere quasi lateralmente. Nel 1994 Ayrton Senna andò purtroppo fuori strada più avanti, poco dopo la “divisione” del muro: in quel punto la protezione era più “dritta” e la Williams picchió più frontalmente. Con le conseguenze che sappiamo. La differenza tra la vita e la morte – specie per un pilota di F1 – a volte è una questione di pochi centimetri.
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L’auto grande è davvero il prolungamento di un pene piccolo?
In questo momento di furiosi spostamenti estivi, in cui le autostrade si saturano e si saturano anche le statali, vorrei tornare su un argomento di cui occasionalmente si discute ma sempre senza approfondire abbastanza, senza arrivare al dunque, e senza dare qualche speranza che prima o poi ci possa essere una vera soluzione del problema. Il problema è quello solito dell’automobile come prolungamento fallico. La gente, cioè i maschi, hanno un fallo, o un pene, e però ne giudicano la lunghezza insoddisfacente per avere una propria vita felice, o almeno normale. Traducendo in un italiano d’uso un po’ più gergale ma più espressivo, quasi tutti gli uomini vorrebbero avere un cazzo un po’ più lungo, se possibile vorrebbero essere quelli che hanno il cazzo più lungo della loro città, o della nazione, e forse del mondo e dell’intero universo. Diciamo così, normalmente il tuo cazzo non ti basta, rispetto ai tuoi desideri è sempre un po’ un cazzino. Come risolvere il problema?
Secondo alcuni psicologi e sociologi l’uomo troverebbe un adeguato sostitutivo della carente lunghezza del suo pene nell’automobile, che diviene il suo confortante prolungamento fallico principale. E’ noto che qualsiasi automobile è più lunga di un pene, anche la Panda o la Smart, però si sottintende che l’uomo preferisca come prolungamento fallico le macchine di grossa taglia. Se puoi ti compri questa macchina molto grande che è come avere un pene molto lungo, e, tra l’altro, che tutti possono vedere parcheggiato davanti a casa tua, in modo da saperlo che ce l’hai; mentre il pene, quello vero, lo tieni sempre chiuso nelle mutande dove nessuno lo vede. Un maligno potrebbe pensare a questo punto che, seguendo una specie di proporzionalità inversa, tanto più lunga sia la macchina che riesci a acquistare, tanto più corto sia il tuo pene.
Se questo fosse vero, ogni volta che vedi passare uno con una Panda dovresti pensare che lui sia uno che ha un pene piuttosto lungo, e ogni volta che invece passa una Mercedes o una BMW, dovresti pensare che chi la sta guidando ha un pene piccoletto. In questo senso l’automobile di grossa taglia sarebbe per un verso il prolungamento fallico desiderato, ma per l’altro, diventerebbe una specie di confessione sulle scarse dimensioni della propria strumentazione intima (voglio dire che anche questo poi potrebbe non essere uno svantaggio perché tutte quelle donne che hanno una loro conformazione intima per cui troppo grosso dà più fastidio che piacere potrebbero vedere passare uno con una Audi di quelle grandi e dirsi: “Ve’ che macchinone, quello lì magari ha uno di quei cazzetti proprio come piacciono a me”).
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Ma tutto questo non mi sembra possibile, e mi sembra piuttosto una forma di moralismo veterocomunista. Se la cosa stesse veramente così, la macchina grande sarebbe diventata una specie di raccorciatore fallico, e tutti avrebbero comprato delle Smart che a quel punto sarebbero diventate loro l’autentico prolungamento fallico desiderato. Quindi, in assenza di dati reali che mettano in correlazione la lunghezza del fallo di x con la dimensione dell’automobile di x, possiamo dire che non sappiamo se ci sia una vera corrispondenza tra la lunghezza del proprio fallo e la lunghezza della propria automobile, ma restiamo sul fatto che la corrispondenza sia a livello di desiderio: visto che quasi tutti desidererebbero avercelo più lungo, la lunghezza del succedaneo (automobile) compensa la lunghezza del desiderio di avere un pene tal dei tali e non la lunghezza di un pene reale.
Ma vorrei ritornare qui al problema di cui si parlava all’inizio e lanciare una grande sfida alla bioingegneria dell’avvenire: non si potrebbe, grazie alle cellule staminali, riuscire a creare in laboratorio dei prolungamenti del pene fatti di pene, cioè dei tessuti cavernosi in più e dei pezzi di pelle, in modo che per esempio, se uno rispetto al suo desiderio gli sembra di non averlo lungo abbastanza, possa farsi un prolungamento del pene in pene e non in lamiera e motore a combustione interna e eccetera, con tutto quello che comporta di produzione di anidride carbonica e occupazione di spazio.
Per esempio, un prolungamento del pene fatto di automobile equivale a almeno dodici quintali di materie (ferro, plastica, gomme, etc), che occupa dodici metri quadrati di spazio e in un ora di uso produce tot grammi di anidride carbonica e consuma almeno quattro litri di petrolio. Un prolungamento del pene fatto di pene, per esempio un nuovo pezzo di pene lungo cinque centimetri da attaccarti al tuo che hai già occupa meno di dieci centimetri quadrati, peserà trentacinque grammi, tanto da starti comodamente nelle mutande se non lo usi, e in un ora di uso consumerà quattrocento calorie.
Secondo me puoi venderlo a qualche migliaio di euro, facciamo fino a cinquemila, che comunque è molto inferiore come costo a quello di una Mercedes, e il costo di manutenzione poi è molto minore e non devi neanche assicurarlo. Al momento l’unica pecca che vedo nella cosa è che come prolungamento fallico per venire in montagna nel weekend è meglio l’automobile, anche se poi, una volta arrivato in montagna con una signorina graziosa, ritorna migliore il prolungamento fallico fatto di pene con le staminali.
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Usare il navigatore satellitare fa male al tuo cervello
Se dovete trovare una strada o l’abitazione di un amico è meglio chiedere informazioni e orientarvi, seguendo le indicazioni presenti sui vari cartelloni. Per quanto possiate perdervi, in questa maniera, almeno non rischiate di spegnere il vostro cervello. Questi ha a disposizione delle zone atte all’orientamento. Parti che rischiano di essere danneggiate dall’uso costante di GPS e navigatore. A dimostrare tutto ciò uno studio pubblicato su Nature Communications. Sono stati osservati alcuni automobilisti mentre camminavano per uno dei quartieri più affollati di Londra, ossia Soho. Sono state effettuate vere e proprie scansioni cerebrali. In questa maniera sono state osservate le reazioni interne all’Ippocampo e alla Corteccia Prefrontale.
I risultati
Le scansioni cerebrali hanno dato risultati straordinari. Infatti, quando gli automobilisti si sono ritrovati in strade nuove e hanno dovuto fare delle scelte, senza l’aiuto del navigatore, gli strumenti hanno mostrato un’intensa attività cerebrale dell’Ippocampo e della Corteccia Prefrontale che nel giro di poco tempo raggiungeva il proprio apice. Al contrario, col navigatore nulla di tutto ciò accadeva. E ciò porta ad una mancanza di attività di due parti fondamentali del nostro cervello con conseguenze terribili. L’Ippocampo svolge il ruolo di immaginare percorsi futuri, mentre la Corteccia Prefrontale aiuta a scegliere i migliori. A spiegare ciò Hugo Spears a capo della ricerca.
Altre analisi
Queste parti non si sforzano se adoperiamo un navigatore satellitare. La ricerca però non si è fermata qui. L’indagine ha cercato di capire quale metropoli risultasse più complessa e dunque stimolante per il nostro cervello. A quanto pare, Londra ha una rete stradale davvero difficoltosa, mentre Manhattan appare più semplice da percorrere. La ricerca è stata effettuata dal The Centric Lab. L’indagine rientra in un progetto ampio finalizzato a capire in che modo l’essere umano possa evitare di spegnere il cervello. L’organizzazione, inoltre, cerca di realizzare spazi in cui sia meno difficoltoso muoversi. Da qui è nata l’idea alla base di questa fortunata ricerca. Si è infatti scoperto che il nostro cervello è anche e sopratutto influenzato dalla struttura della città in cui viviamo. Scoperta che potrebbe rivoluzionarie l’architettura futura.
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Ho paura di guidare l’auto, come faccio a superarla?
Attualmente la paura di guidare l’auto è uno dei disagi più diffusi. Nella maggior parte dei casi dietro il timore di mettersi al volante perché possano accadere degli imprevisti, come un incidente, si nasconde la mancanza di fiducia in se stessi e negli altri e il conflitto tra il bisogno di essere dipendenti e il desiderio di essere autonomi.Ma vediamo meglio.
Un individuo soffre di questa paura se…
Evidenziamo quali sono le caratteristiche di chi soffre della paura di guidare l’auto:
- la paura di guidare produce forti blocchi, come per esempio la rinuncia a spostamenti per il lavoro o a mantenere relazioni interpersonali e perciò una vita sociale;
- si ha paura di perdere il controllo del proprio mezzo o di essere investiti da altri veicoli;
- si è terrorizzati dal traffico, dal percorrere le autostrade o dall’attraversare gallerie;
- la paura di mettersi alla guida rende ansiosi e agitati in ogni caso, anche nelle situazioni più tranquille.
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Le radici della paura
Chi teme di guidare l’auto è ossessionato dall’ansia di controllare il suo ambiente e quindi tutto ciò che gli accade intorno. Questa paura nasce sostanzialmente dal timore di procurare o subire un incidente, di non sapere affrontare gli imprevisti, di perdere il controllo del proprio mezzo, di stare male improvvisamente senza potersi arrestare. Ma in fondo guidare l’auto vuol dire potersi spostare in modo autonomo, scegliendo di volta in volta dove dirigersi. Questo aspetto naturalmente può scatenare un conflitto interiore tra bisogni di natura opposta: da una parte il desiderio di autonomia e indipendenza come fuga da imposizioni e legami, dall’altra il timore di non essere in grado di pilotare la propria vita, che è più legato ad un bisogno di dipendenza, dagli altri naturalmente.
L’utilità della paura
Chiunque si trovi a fare i conti con la paura sa bene quanto possa essere difficile riuscire a padroneggiarla senza lasciarsene condizionare. Anzi, a volte più cerchiamo di liberarcene e più lei si attacca a noi. Succede che più tentiamo di superarla e più dentro di noi si aziona una forte resistenza al cambiamento. Come se di quella paura, in fondo in fondo, non potessimo più fare a meno. In realtà questo accade perché abbiamo bisogno delle paure, ci servono. Hanno perciò una funzione, ossia ci aiutano a mantenere il migliore equilibrio psicofisico che possiamo permetterci in una data situazione con le risorse e capacità che abbiamo in quel dato momento a disposizione. Quindi la paura svolge una precisa funzione che affonda le sue origini nella storia personale di ognuno di noi, o meglio ancora nel suo inconscio. Nel caso della paura di guidare l’auto il conflitto in gioco è appunto tra dipendenza dagli altri e desiderio, voglia di autonomia.
Come si può superare la paura di guidare?
Sembra un paradosso, eppure per poter vincere la paura di guidare l’auto, così come per qualsiasi altra paura, è necessario accettarla ossia accoglierla dentro di sé, dandogli spazio e ascolto, senza per questo sminuirci o sottostimarci. L’accettazione, l’accoglienza, il senso di inevitabilità sono tutti sentimenti che ci ricollegano con la realtà, facendo in modo che ci assumiamo la responsabilità della nostra sofferenza senza continuare sterilmente ad attribuirne la responsabilità ad altri o alle circostanze.
Guarire è convivere con il proprio male (abate Gelliani)
Il processo inverso, ossia il peggioramento verso la malattia, è proprio il rifiuto, la ribellione, la non accettazione. Spesso nel mio lavoro di psicoterapeuta mi viene rivolta questa domanda, ma cosa vuol dire accettazione? Io spiego che non significa passiva rassegnazione, che porta a chiudersi ancor più nel proprio guscio, in un atteggiamento di autocommiserazione e di recriminazione. E’ invece un atteggiamento di serena, attiva, deliberata accoglienza che pone l’individuo nella condizione di accettare l’ineluttabile e di agire per modificare quanto può essere trasformato. Quindi per superare una paura, come la paura di guidare, è necessaria accettazione a comprensione, rivolgendo la propria attenzione amorevole alla funzione che svolge questa paura all’interno della propria vita. Non serve infatti chiedersi quali sono le cause di questa paura, quando è nata, cercando a ritroso l’evento, spesso traumatico che l’ha generata.
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Perché queste strisce pedonali sono tridimensionali?
In India sono state realizzate delle particolarissime strisce pedonali in 3D, il motivo è assolutamente importante: l’illusione ottica creata dai disegni tridimensionali sulle strade del Paese che conta il più alto numero di morti per incidenti stradali nel mondo, servirà da dissuasore virtuale per l’alta velocità.
Le strisce pedonali in 3D sostituiscono i dossi artificiali creando una vera e propria illusione ottica. Chi guida, infatti, ha l’impressione di andare contro dei gradini posti in mezzo alla strada e, d’istinto, sarà costretto a rallentare la sua corsa a beneficio dell’incolumità dei pedoni e della sicurezza stradale.
Non si tratta di una soluzione nuova: l’espediente è già stato sperimentato nel 2008 a Philadelphia (Stati Uniti), è già da tempo adottato in Cina e riproposto ad Ahmedabad, in India da Saumya Pandya Thakkar e Shakuntala Pandya.
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