Terapie chirurgiche nel paziente con malattia di Parkinson

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma MORBO PARKINSON TERAPIE CHCIRURGICHE Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgPrima della scoperta del farmaco levodopa, trattare i sintomi motori con un intervento chirurgico, era una pratica comune, ma dal momento che venne introdotta la terapia farmacologica il numero degli interventi diminuì. Gli studi degli ultimi decenni hanno portato a grandi miglioramenti nelle tecniche chirurgiche, con la conseguenza che la chirurgia è nuovamente utilizzata nelle persone sofferenti la malattia di Parkinson e per le quali la terapia farmacologica non è più sufficiente.

Attualmente la tecnica più utilizzata è la chirurgia stereotassica che permette di trattare punti in profondità nel parenchima cerebrale con precisione millimetrica, grazie all’ausilio di dispositivi radiologici. Il trattamento chirurgico prevede diverse tecniche. I settori di intervento sono il talamo, il globo pallido o il nucleo subtalamico.

La stimolazione cerebrale profonda (DBS) è il trattamento chirurgico più comunemente utilizzato e permette una buona remissione clinica e una significativa riduzione della dipendenza da levodopa. Esso comporta l’impianto di un dispositivo medico, chiamato pacemaker cerebrale, che invia impulsi elettrici a zone specifiche del cervello. La DBS è raccomandata per i pazienti con Parkinson che soffrono di forte tremore che non viene adeguatamente controllato da farmaci o in coloro che sono intolleranti al trattamento farmacologico. Uno studio pubblicato nel Journal of the American Medical Association ed effettuato su un campione di 225 malati, ha evidenziato, nel 71% dei casi, decisivi miglioramenti nei movimenti e nella diminuzione dei tremori in seguito alla DBS, rispetto al 32% che prendeva solo farmaci.

Altre, ma meno comuni, terapie chirurgiche comportano la creazione di lesioni in specifiche aree sottocorticali (una tecnica nota come pallidotomia, nel caso che la lesione sia prodotta nel globo pallido).

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

Tumore del colon retto con metastasi: chirurgia, chemioterapia e terapie biologiche

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma COSA SONO METASTASI Riabilitazione Nutrizionista Medicina Estetica Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata Macchie Capillari Linfodrenaggio Pene Vagina Glutei PressoteAsportazione chirurgica delle metastasi

Nel paziente metastatico, in casi selezionati, la chirurgia può ancora essere utilizzata a scopo curativo: ad esempio, se le metastasi sono in numero limitato e di ridotte dimensioni, possono essere asportabili chirurgicamente. Tuttavia bisogna chiarire che solo una piccola percentuale di pazienti con metastasi da tumore del colon retto può essere sottoposta a rimozione chirurgica delle metastasi, a causa di alcuni fattori che possono rendere l’intervento di esecuzione difficile o troppo rischiosa.

Tali fattori sono:

  • condizioni generali del paziente;
  • dimensioni delle metastasi;
  • quantità delle metastasi;
  • localizzazione delle metastasi.

Per facilitare la rimozione chirurgica delle metastasi, si ricorre ai così detti trattamenti neoadiuvanti. Essi hanno lo scopo di ridurre le dimensioni delle masse tumorali per rendere più facile la loro asportazione chirurgica.
Il termine “trattamento di conversione” indica invece un trattamento che rende (converte in) operabile una metastasi non sarebbe operabile. I trattamenti di conversione consistono spesso in una combinazione di chemioterapia a farmaci biologici.

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Metastasi sincrone e metacrone

Se al momento della diagnosi di tumore del colon retto, il tumore primitivo ha già  dato origine a metastasi queste ultime si definiscono metastasi sincrone. Se i medici che hanno in cura il soggetto esprimono una valutazione favorevole sia dal punto di vista medico che chirurgico, si può procedere all’asportazione del tumore primitivo e delle metastasi, scegliendo tra due possibili approcci:

  • effettuare un unico intervento;
  • procedere a più interventi chirurgici, eventualmente preceduti e/o seguiti da altri trattamenti che verranno descritti nei paragrafi successivi.

Anche in caso di diagnosi di metastasi metacrone, vale a dire sviluppatesi dopo la rimozione del tumore primitivo, si deciderà  se procedere con la rimozione delle metastasi stesse e quali ulteriori trattamenti adottare. Gli specialisti coinvolti valuteranno tutte le informazioni e i dati disponibili poiché la chirurgia delle metastasi, in alcuni casi selezionati, può rappresentare la cura definitiva del tumore del colon retto metastatico.

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Chemioterapia

Nei pazienti in fase metastatica in cui sia praticabile la rimozione chirurgica delle metastasi, la chemioterapia può eventualmente precedere l’intervento chirurgico per ridurre le dimensioni delle metastasi e consentire di effettuare un intervento meno esteso e aggressivo (chemioterapia neoadiuvante). Si pratica una chemioterapia di conversione quando le metastasi non sono operabili al momento della diagnosi, ma lo possono eventualmente diventare a fronte di adeguata riduzione delle dimensioni. In questi casi di solito la chemioterapia si associa farmaci biologici. Quando invece la malattia metastatica è in uno stadio così avanzato da non essere più operabile, la chemioterapia diventa una soluzione obbligata. In questo caso si parla di chemioterapia palliativa, che ha la importante finalità  di rallentare la progressione della malattia, alleviare i sintomi e migliorare la qualità  della vita.
I regimi chemioterapici più comunemente utilizzati nel trattamento del tumore del colon retto metastatico sono combinazioni di più farmaci che prevedono sostanzialmente l’utilizzo di irinotecan od oxaliplatino in associazione al 5-fluorouracile o suoi derivati. I nomi dei regimi più comuni sono FOLFIRI (e la sua variante XELIRI) e FOLFOX (e la sua variante XELOX). Tuttavia esistono anche trattamenti più semplici, a base di un solo chemioterapico (ad esempio il 5-fluorouracile o la capecitabina utilizzati singolarmente), così come esistono regimi ancora più complessi, che associano contemporaneamente al 5-fluorouracile sia irinotecan che oxaliplatino, quale il regime FOLFOXIRI.
Negli studi clinici le combinazioni di più chemioterapici hanno dimostrato di essere più efficaci rispetto agli stessi farmaci utilizzati singolarmente. Analogamente, ulteriori studi clinici hanno provato che nel cancro del colon retto l’aggiunta di terapie biologiche alla chemioterapia consente di ottenere migliori risultati rispetto alla chemioterapia sola. Tuttavia, non tutti i farmaci sono adatti per tutti i pazienti e, il compito di scegliere la miglior cura per ciascun paziente, spetta agli specialisti che l’hanno in trattamento.
Ricordiamo infine che la chemioterapia utilizza farmaci citotossici, ovvero tossici per le cellule. In genere il loro effetto è quello di bloccare la divisione delle cellule in rapida replicazione, senza però distinguere tra cellule sane e cellule malate. Infatti, una delle caratteristiche meglio conosciute delle cellule tumorali è la loro capacità di dividersi (e quindi di moltiplicarsi) più rapidamente rispetto alla maggior parte delle cellule sane, la qual cosa rende le cellule tumorali altamente sensibili ai farmaci chemioterapici che bloccano la divisione cellulare. Tuttavia, hanno la capacità di dividersi molto rapidamente anche alcune cellule sane che fanno parte di tessuti che devono continuamente rinnovarsi. E’ il caso delle cellule del midollo osseo che formano i globuli rossi e i globuli bianchi e le cellule dette delle membrane (“epiteli”) che rivestono le superfici interne di organi che entrano in contatto con “materiali” provenienti dall’ambiente esterno all’organismo, come le vie aeree e il tubo digerente.
La maggior parte dei chemioterapici, interferendo con la divisione cellulare, uccide le cellule tumorali e qualche cellula sana che si divide rapidamente: per questo motivo molti farmaci chemioterapici danno come effetto collaterale, ad esempio, anemia e ulcere nella bocca e in gola.
Le moderne terapie biologiche vengono oggi sempre più associate alla chemioterapia per aumentarne l’efficacia e ridurne gli effetti collaterali.

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Le terapie biologiche

La “nuova frontiera” della terapia nel tumore del colon retto, come in molti altri tipi di tumore solido, è rappresentata dai farmaci biologici (detti anche farmaci intelligenti, farmaci “mirati”, o biotecnologici), già utilizzati con successo in alcune altre patologie (ad es. tumore del polmone e della mammella). Sono molecole create in laboratorio per interagire con una precisa funzione della cellula cancerosa e non hanno effetti, o hanno effetti minimi, sulle cellule normali.
L’efficacia delle terapie biologiche non dipende dalla velocità della divisione cellulare: alcune modalità con cui le cellule tumorali del colon retto differiscono dalle sane, sono state scoperte negli ultimi anni, e questo ha permesso agli scienziati di mettere a punto farmaci che agiscono in maniera selettiva. Sono stati scoperti anche alcuni processi importanti per la sopravvivenza del tumore, e si è potuto sviluppare farmaci che li contrastano.
Gli effetti indesiderati più di frequente associati alla chemioterapia non sono presenti con i farmaci biologici, che risultano meglio tollerati, ma è bene specificare che i farmaci biologici, pur essendo mirati contro un preciso bersaglio caratteristico delle cellule tumorali, non sono del tutto privi di effetti collaterali.
I farmaci mirati attualmente impiegati nella pratica clinica per la terapia del tumore del colon retto appartengono alla categoria degli anticorpi monoclonali alla quale accenniamo brevemente qui, e per approfondimenti rimandiamo alla scheda ad essi dedicata.
Gli anticorpi monoclonali sono proteine, simili a quelle che produce l’organismo umano, in grado di interferire con meccanismi chiave della proliferazione cellulare importanti per la sopravvivenza del tumore.

  • Per esempio, gli anticorpi monoclonali rivolti contro il fattore di crescita epidermico (anti-EGFR) sono in grado di agire in modo mirato sui meccanismi che regolano la crescita del tumore. La loro efficacia in associazione alla chemioterapia standard nei tumori in fase avanzata è ormai dimostrata, e il loro uso si sta diffondendo nella comune pratica clinica (cetuximab e panitumumab).
  • Oltre agli anti-EGFR, altre terapie sono già  comunemente in uso con successo nel trattamento di diversi tipi di tumore, quali gli inibitori di VEGF (VEGF: fattore di crescita dell’endotelio vascolare) (bevacizumab), ed esistono anche alcune ulteriori opzioni ancora in fase sperimentale.

Al momento, gli anticorpi monoclonali non sono ancora un’alternativa completa alla chemioterapia, ma un complemento da utilizzarsi preferibilmente in combinazione ad essa.

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Tumore del colon retto: trattamento chirurgico, radioterapia e chemioterapia

Negli ultimi dieci anni, grazie alla disponibilità di programmi di prevenzione, procedure diagnostiche che consentono la diagnosi precoce. l’avvento di nuovi farmaci, nonché al perfezionarsi delle tecniche chirurgiche, i risultati del trattamento del tumore del colon retto sono migliorati significativamente e, di pari passo, è aumentata sensibilmente anche la sopravvivenza media del soggetti nei quali esso viene diagnosticato. I protocolli di trattamento del tumore del colon retto vengono stabiliti in base alla fase della malattia: iniziale o avanzata.

  • Il cancro del colon retto in fase iniziale è solitamente curabile con un intervento chirurgico e, nei casi nei quali il cancro è meno diffuso, l’intervento rappresenta la soluzione definitiva e non sono necessari altri trattamenti. A volte invece la terapia chirurgica è seguita da chemioterapia, così detta adiuvante, per evitare il rischio che alcune cellule tumorali rimaste dopo l’intervento formino un’altra lesione tumorale (recidiva tumorale).
  • Il tumore del colon in stadio avanzato è caratterizzato, al momento della prima diagnosi o in occasione di una recidiva, dalla presenza di metastasi ad un altro organo (solitamente il fegato), oppure è talmente esteso laddove si è sviluppato da rendere impossibile un intervento chirurgico curativo. I protocolli di trattamento del tumore in fase metastatica combinano quasi sempre più approcci:
  • chirurgia;
  • chemioterapia;
  • terapie biologiche;
  • radioterapia.

Il tumore del retto, a differenza di quello del colon che tende a metastatizzare a distanza, ha la tendenza, dopo resezione chirurgica curativa, a ripresentarsi nello stesso sito (recidiva locale).

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Chirurgia del tumore primitivo
La terapia dal cancro del colon retto in fase iniziale consiste nell’asportazione chirurgica del tratto intestinale interessato dal tumore. A differenza di quanto accadeva in passato, oggi, la chirurgia è molto più “conservativa”, vale a dire che tende a mantenere il più possibile intatta la funzione intestinale, e ha maggiori probabilità  di successo, grazie al fatto che la diagnosi è effettuata più precocemente. Circa l’80% dei pazienti con cancro del colon-retto si presenta alla diagnosi con malattia completamente operabile. Il trattamento chirurgico diventa meno conservativo e più aggressivo se il soggetto è ad alto rischio di recidiva. Il tumore primario viene rimosso insieme ai linfonodi che “vigilano” sul segmento di intestino colpito dal tumore, in quanto di deve valutare la presenza di cellule tumorali al loro interno. Nella figura in basso è riportato un esempio di tumore del colon (disegno a sinistra) e di tumore del retto (disegno a destra). La parte colorata di violetto in ciascun disegno è il tratto di intestino da rimuovere insieme ai relativi linfonodi, tramite intervento chirurgico. A volte, se la parte asportata è particolarmente estesa, vi è necessità  di un intervento ricostruttivo, con il quale si cerca di ottimizzare la funzione intestinale, nonostante l’assenza del tratto asportato.

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Insieme al tumore, devono essere rimossi chirurgicamente i linfonodi associati e gli organi o tessuti adiacenti L’intervento chirurgico rappresenta un momento particolarmente delicato.

Complicazioni, impossibilità di intervento e recidive
L’asportazione chirurgica di un tumore intestinale può purtroppo comportare varie complicazioni, fra le più frequenti quelle di tipo infettivo. Nel colon e nel retto c’è normalmente un gran numero di batteri. Tali batteri, che nell’intestino non creano danni ma anzi contribuiscono al suo funzionamento, se raggiungono altre parti dell’organismo possono dare luogo ad infezioni (sepsi). Dato che la resezione di tratti dell’intestino espone a questo rischio, per prevenire questa complicanza, prima dell’intervento si somministrano antibiotici. Anche se nell’80% dei pazienti non metastatici la chirurgia appare definitiva, l’intervento chirurgico non sempre rappresenta la soluzione del problema. Infatti, in alcuni casi la rimozione totale del tumore non risulta possibile a causa della sua posizione, inoltre, se dopo l’intervento rimangono alcune cellule cancerose che causano una ripresa di malattia a distanza di tempo, si deve ricorrere ad ulteriori trattamenti, solitamente necessari per circa quasi la metà dei pazienti operati.

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Chirurgia palliativa nei pazienti terminali
La chirurgia del tumore primitivo, può essere effettuata anche con finalità  differenti dalla cura. In presenza di malattia metastatica molto progredita, senza speranza di cura, la rimozione chirurgica del tumore primitivo può essere effettuata lo stesso a scopo palliativo, cioè per alleviare i sintomi e prevenire o risolvere eventuali ostruzioni intestinali dovute alla sporgenza del cancro all’interno del lume. In tal modo si cerca di rendere la vita del paziente terminale, il più possibile dignitosa e meno dura da sopportare. Alcuni pazienti tuttavia, potrebbero non essere nelle condizioni adatte per affrontare un intervento chirurgico e le sue possibili complicanze, e quindi per essi purtroppo non è possibile adottare questa soluzione.

Mortalità
Per quanto riguarda la mortalità, nel 2002 in Italia si sono verificati 10.526 decessi per tumore del colon retto fra i maschi e 9.529 fra le donne.

Radioterapia
E’ più frequente l’utilizzo di radioterapia nel tumore del retto, piuttosto che del colon in cui se ne fa un limitato uso palliativo. Nel carcinoma del retto, le principali indicazioni all’impiego sono:

  • Trattamento neoadiuvante, per ridurre le dimensioni del tumore in stadio avanzato allo scopo di operarlo. L’intervento chirurgico avrà  finalità  curative.
  • Radioterapia adiuvante: per ridurre il rischio di recidiva locale e quindi prolungare la sopravvivenza dopo intervento chirurgico, eventualmente in associazione a chemioterapia,
  • Trattamento palliativo: per alleviare i sintomi in caso di recidiva di cancro del retto senza metastasi, ma non operabile.

Chemioterapia
La cura del cancro del colon-retto si può avvalere della chemioterapia già  a partire dallo stadio III, in associazione all’intervento chirurgico. In questo caso viene praticata, dopo l’intervento chirurgico, una chemioterapia adiuvante che ha lo scopo di diminuire il rischio di recidiva.

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Parto cesareo programmato: cosa mi succederà dopo?

MEDICINA ONLINE PARTO GRAVIDANZA NATURALE CESAREO DIFFERENZE CHIRURGIA FOTO WALLPAPER PICTURE UTERO CHIRURGO OPERAZIONE RISCHI VANTAGGI VANTAGGI ALLATTAMENTO MADRE FIGLIO NEONATO MORTAìE MORTA LIQUIDOQuando si affronta un parto cesareo programmato in genere, si preferisce ricorrere all’anestesia spinale, che consente alla futura mamma di essere cosciente e di avere un rapido recupero dopo l’operazione. Quanto dura la degenza in ospedale?Durante l’intervento viene applicato il catetere, che però viene rimosso appena possibile. Qualche volta è la neomamma stessa a chiedere di tenerlo ancora qualche ora, per evitare di usare la padella. Comunque, appena le gambe riacquistano la mobilità, all’incirca dopo 6-7 ore, la donna può muoversi e andare al bagno da sola.

Come accade dopo un parto naturale, la neomamma può tenere subito il proprio bambino tra le braccia e provare ad attaccarlo al seno. Anche i tempi della montata lattea saranno più o meno gli stessi. In genere, se tutto è andato bene, le dimissioni dall’ospedale avvengono in seconda giornata, contando come zero il giorno dell’intervento. Più o meno quanto accade dopo un parto naturale, per il quale è prevista una degenza di 48 ore.

E per quanto riguarda le lochiazioni?

All’inizio saranno probabilmente un po’ più scarse rispetto a chi ha partorito naturalmente, perché l’utero può non aver subìto grandi modifiche, poi però seguiranno l’andamento normale, con una durata media di quaranta giorni dal parto. Va detto, tuttavia, che spesso il taglio cesareo viene eseguito a travaglio già iniziato: in questo caso, le lochiazioni sono del tutto simili a quelle che si presentano dopo un parto naturale. Come già detto, grazie alla sutura intradermica non è necessario tornare dal medico per la rimozione dei punti; una visita di controllo viene consigliata, di solito, a circa un mese e mezzo dal parto.

E per quanto riguarda la ripresa della vita intima?

“Anche in questo caso non ci sono differenze rispetto a chi ha partorito naturalmente”, afferma il ginecologo. “Noi diciamo alla coppia di riprendere i rapporti semplicemente quando desiderano farlo. Secondo la mia esperienza, alla visita di controllo sono poche le donne che hanno già iniziato l’atti- vità sessuale, e questo indifferen- temente dal tipo di parto. Probabil- mente, più che un discorso di ripresa dell’organismo, conta il fatto che nei primi tempi le cure per il neonato assorbono quasi completamente le energie di tutte le neomamme”.

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Di nuovo il bisturi?

È importante sottolineare che aver messo al mondo il proprio bimbo con un cesareo non implica, neces- sariamente, che il secondo parto avverrà con il bisturi. Ma quanto tempo occorre aspettare prima di poter dare il via a una nuova gravidanza? Non è mai stato dimostrato che esista una soglia al di sotto della quale il parto naturale comporta rischi per chi ha subìto un cesareo, anche se le informazioni in merito non sono uniformi. Diverse donne che hanno già partorito con cesareo hanno potuto vivere una nascita naturale anche a distanza di solo un anno e mezzo o due dall’intervento, senza problemi.

Come sarà il baby blues?

Anche il fenomeno della malinconia dopo-parto, il cosiddetto baby- blues, può interessare in ugual modo le donne che non hanno avuto un parto naturale e quelle che hanno avuto un cesareo. Molto dipende dal modo in cui è stata vissuta questa esperienza. Più vulnerabili, da questo punto di vista, sono le neomamme che desideravano un parto naturale e per le quali l’intervento è stato avvertito come un’imposizione.

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Tumore delle ghiandole salivari: sintomi, diagnosi e terapie

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Il tumore delle ghiandole salivari è piuttosto raro e rappresenta meno dell’1% di tutti i tumori umani, il 2% circa dei tumori testa-collo. Secondo le stime più recenti, in Italia è diagnosticato ogni anno un nuovo caso di tumore delle ghiandole salivari negli uomini ogni 100.000 abitanti e meno di uno (0,7) ogni 100.000 abitanti nelle donne. Può comparire a qualsiasi età, ma in genere è raro prima dei 40 anni e nella maggior parte dei casi si sviluppa dopo i 60 anni. Colpisce uomini e donne senza differenze sostanziali (si apprezza solo un lieve aumento di incidenza negli uomini in età più avanzata).

Chi è a rischio
Studiare i fattori di rischio per tumori così rari non è semplice, ma nel caso delle ghiandole salivari si pensa che l’esposizione a radiazioni della zona di testa e collo soprattutto in giovane età (magari per un precedente trattamento medico) possa aumentare il rischio di sviluppare il tumore. Anche alcune esposizioni professionali – che si verificano cioè sul luogo di lavoro – potrebbero aumentare il rischio: maggiormente indiziate le polveri di metalli (leghe di nichel) o di minerali (silicio) e le sostanze radioattive. Tra gli altri probabili fattori di rischio ci sono anche un precedente tumore benigno sempre nella stessa area e il tipo di alimentazione, dal momento che seguire una dieta particolarmente povera di vitamine A e C (presenti soprattutto in frutta e verdura fresche) è associato a un’incidenza elevata della malattia.

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Tipologie
Molti tumori delle ghiandole salivari sono benigni, non daranno mai origine a un tumore maligno e nella maggior parte dei casi vengono rimossi grazie alla chirurgia.
Per quanto riguarda i tumori maligni, invece, più del 70% colpisce la ghiandola parotide e il 10-20% la ghiandola sottomandibolare, mentre sono rarissimi quelli che originano nelle ghiandole sottolinguali e nelle salivari minori. Tutti i tipi di cellule presenti nelle ghiandole salivari possono dare origine a un tumore e proprio in base al tipo di cellula dalla quale si sviluppano, i tumori assumono nomi differenti: carcinoma mucoepidermoide, che è il più comune e interessa spesso la parotide; carcinoma adenoide cistico, che è tipico delle ghiandole salivari minori e molti tipi differenti di adenocarcinoma (polimorfo di basso grado, a cellule basali, non specificato, mucinoso eccetera). Inoltre, nelle ghiandole salivari si possono generare altri tumori come, per esempio, carcinomi a cellule squamose, carcinomi indifferenziati, carcinoma anaplastico a piccole cellule, sarcomi e linfomi (molto rari).

Sintomi
I sintomi dei tumori delle ghiandole salivari si manifestano soprattutto nella regione della testa e del collo e possono presentarsi come presenza di una massa o dolore al volto, al collo o alla bocca, come difficoltà a inghiottire o come differenze visibili e mai notate in precedenza in forma, dimensioni e forza muscolare tra i due lati di volto, collo, bocca.
Da tenere sotto controllo anche le ostruzioni o i sanguinamenti del naso e il senso di intorpidimento a livello del volto. Sono segni e sintomi che non necessariamente indicano la presenza di un tumore, ma che meritano comunque attenzione e un parere medico.

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Prevenzione
In base ai dati oggi disponibili non è possibile stabilire una strategia di prevenzione efficace contro i tumori delle ghiandole salivari. Evitare l’esposizione a radiazioni, a sostanze pericolose come polveri di silicio, gomma o leghe di nichel e seguire un’alimentazione ricca di frutta e verdura può comunque contribuire a ridurre il rischio.

Diagnosi
L’esame di controllo delle ghiandole salivari da parte del medico permette di scoprire noduli o eventuali masse di nuova formazione, che, in alcuni casi, possono far sospettare un problema di tipo oncologico. La presenza di un nodulo non è però sufficiente per formulare una diagnosi certa: dopo aver valutato la storia clinica e familiare e i risultati della visita ambulatoriale, in caso di situazioni sospette, il medico di base può richiedere una visita specialistica da un otorinolaringoiatra. Tra gli esami più utilizzati per diagnosticare un tumore alle ghiandole salivari sono particolarmente importanti radiografie, TC (tomografia computerizzata) e risonanza magnetica. Infine, per determinare la tipologia del tumore, si procede con la biopsia, cioè il prelievo di un frammento del tumore e la sua analisi al microscopio.

Evoluzione
Come per molti altri tumori, anche per quelli delle ghiandole salivari viene utilizzato il sistema di stadiazione TNM, che consente di stabilire quanto la malattia sia estesa, prendendo in considerazione il tumore (T) e la presenza di cellule tumorali ai linfonodi (N) e in organi lontani (metastasi, M).

Come si cura
Una volta diagnosticata la presenza di un tumore delle ghiandole salivari, la scelta del trattamento più adatto ed efficace deve tenere conto di molteplici fattori, tra i quali il tipo di malattia, la posizione e dimensione della massa, lo stato di salute del paziente e il possibile impatto del trattamento sulla vita di tutti i giorni: intervenire su questi tumori potrebbe infatti influenzare funzioni importanti come parlare, masticare o inghiottire.
Rivolgersi a un centro specializzato è il primo fondamentale passo verso la cura di questi tumori piuttosto rari. Tenuto conto di queste premesse, la scelta del trattamento dei tumori delle ghiandole salivari ricade spesso sulla chirurgia, con la quale è possibile in molti casi rimuovere tutta la massa tumorale, oltre ad alcuni tessuti circostanti per essere certi di non lasciare cellule malate nella zona trattata. Gli interventi per la rimozione di questi tumori sono delicati, ma stanno diventando sempre più precisi e meno invasivi grazie ai continui progressi nelle tecniche chirurgiche e di ricostruzione facciale. Dopo l’operazione è possibile utilizzare la radioterapia che assume così un ruolo adiuvante: aiuta a distruggere le cellule tumorali rimaste in sede che, date le microscopiche dimensioni, non possono essere asportate con il bisturi. Ma la radioterapia rappresenta una valida opzione anche quando il paziente è troppo debole per affrontare l’operazione o quando il tumore, per dimensione o posizione, non può essere asportato chirurgicamente; appare inoltre efficace nell’alleviare i sintomi nel caso di malattia in stadio avanzato (ruolo palliativo della radioterapia). Tra le diverse tipologie di radioterapia, quella a base di neutroni (particelle subatomiche) sembra essere particolarmente efficace per trattare alcuni tumori delle ghiandole salivari, ma questa opzione di trattamento non è disponibile in tutti i centri oncologici. A differenza della chirurgia e della radioterapia, la chemioterapia non è molto utilizzata per i tumori delle ghiandole salivari e viene scelta come trattamento solo nel caso di tumori già diffusi in organi lontani e in pazienti che non possono essere trattati con chirurgia e radioterapia. Infine, in alcuni casi, la chemioterapia può essere associata alla radioterapia per aumentarne l’efficacia.

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Polimastia: quando la donna ha troppi seni

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO SENO MAMMELLA CAPEZZOLO AREOLALa polimastia – detta anche ipermastìamultimammìa – è un’anomalia congenita caratterizzata dalla presenza di mammelle in numero maggiore dalla norma, cioè più di due nell’essere umano.

Dove si sviluppa il seno in sovrannumero?

Il seno in più tende a svilupparsi lungo la “linea mammaria”, cioè la linea immaginaria che va dalle ascelle sino all’inguine. Solitamente il fenomeno di verifica presso la regione ascellare (5% dei casi totali di polimastia) o toracica (90%) e, solo nel restante 5% dei casi, sono state riscontrate mammelle accessorie sulla parete addominale, sull’inguine o sulla superficie interna della coscia. Il tessuto mammario riscontrato all’infuori della linea mammaria è da ritenere ectopico.

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Quanto è sviluppato il seno in sovrannumero?

Le mammelle soprannumerarie sono più o meno sviluppate: solitamente sono rudimentali, scarsamente fornite del tessuto ghiandolare (ma, in alcuni casi, possono essere sede degli stessi processi patologici che insorgono a livello della ghiandola normale o, se è presente un capezzolo, si può verificare secrezione di latte), e, talvolta, possono essere molto voluminose, tese e doloranti.

Vedi anche: foto di paziente con polimastia nella regione ascellare

Capezzoli in sovrannumero

Una condizione correlata è la politelia, ossia la presenza di uno o più capezzoli sovrannumerari, a tal proposito leggi anche: Politelia: quando i capezzoli sono troppi, cause e terapie.

Quanto è diffusa la polimastia?

Si tratta di un’anomalia non rara (incidenza di un caso su 200), a volte bilaterale, spesso ereditaria, che si può manifestare indifferentemente in entrambi i sessi, senza distinzione di razza.

Leggi anche: La ragazza con due vagine che ha dovuto perdere la verginità due volte

Diagnosi di polimastia

In alcuni casi, il seno accessorio può non essere visibile in superficie: è possibile distinguerlo con la risonanza magnetica (MRI). Il tessuto mammario accessorio dell’ascella è solitamente privo di capezzolo e dell’areola e può essere confuso con alcune lesioni patologiche che possono verificarsi con caratteristiche similari, quali la linfadenopatia, il lipoma o il tumore dei tessuti molli. In questo caso può essere necessario un esame istologico. Una diagnosi corretta è molto importante, in quanto il tessuto ectopico può essere sede degli stessi eventi patologici che si verificano a carico delle mammelle situate nel loco usuale, quali i carcinomi, il papilloma intraduttale, il fibroadenoma e le formazioni cistiche.

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Patogenesi della polimastia

Durante lo sviluppo embrionale alcune linee del latte accessorie, che solitamente spariscono in un secondo tempo, possono svilupparsi seguendo la cresta lattea, in basso o in alto rispetto ad essa e la polimastia potrebbe quindi risultare da un’anomala persistenza di queste linee accessorie. In molti mammiferi, possono svilupparsi mammelle anche da alcuni abbozzi mammari, che normalmente nella donna spariscono. In realtà, le mammelle soprannumerarie possono svilupparsi al di fuori di essi, anche se raramente si allontano dalla linea del latte. In particolare, le localizzazioni meno frequenti sono le seguenti: lato mediale del braccio, spalla, padiglione auricolare, dorso, regione inguinale, coscia, linea mediana dell’addome e del torace (Ottolenghi – Preti , 1969). Questi rari casi possono essere spiegati considerando che le ghiandole mammarie sono ghiandole sudoripare apocrine modificate. Inoltre, i pochi casi descritti possono rappresentare un dislocamento della linea del latte (è stata descritta un’estensione dorsale della linea del latte fino alla scapola) o possono essere realmente ectopici.

Trattamento della polimastia

Per il trattamento dei sintomi e motivi puramente estetici, la rimozione può avvenire mediante intervento chirurgico.

Curiosità sulla polimastia

Alcuni animali hanno normalmente mammelle in regioni in cui per l’uomo si parla di polimastia: l’opossum presenta mammelle sulla linea mediana dell’addome; l’Hapalemur griseus sulla scapola; il Capromys fournieri e altri roditori sul dorso; il Delphinus delphis e i Balaenidae sulla vulva; il Lagostomus maximus sulla superficie posteriore della coscia.

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Paratiroidectomia: intervento, convalescenza e conseguenze

MEDICINA ONLINE NERVO VAGO TIROIDE PARATIROIDE NERVO LARINGEO SUPERIORE ESTERNO INTERNO INFERIORE RICORRENTE SINISTRO DESTRO LESIONE CHIRURGIA TIROIDECTOMIA TIROIDITE TOTALE PARZIALE CORDE VOCALI PARALISILa maggioranza delle persone ha quattro ghiandole paratiroidee: due su ciascun lato del collo, poste dietro la tiroide, responsabili del mantenimento dei livelli di calcio nel sangue. Quando questi livelli si abbassano, le ghiandole paratiroidee secernono l’ormone paratiroideo (PTH) che preleva il calcio dalle ossa. Le ghiandole paratiroidee interrompono la secrezione dell’ormone PTH quando nel sangue c’è una quantità sufficiente di calcio. Quando le ghiandole sono sane, questo sistema di regolazione permette di mantenere nella normalità i livelli di calcio. Quando la concentrazione di calcio nel sangue è eccessivamente elevata si ha ipercalcemia, determinata principalmente da una produzione eccessiva di ormone PTH in una o più ghiandole. Si tratta di una forma di iperparatiroidismo chiamata iperparatiroidismo primario, due volte più frequente nelle donne che negli uomini. Quando le ghiandole paratiroidee ammalate causano un aumento dei livelli di calcio nel sangue, potrebbe essere necessario asportarle chirurgicamente (paratiroidectomia). Il medico deve innanzitutto determinare quante delle quattro ghiandole sono malate e quali devono essere asportate. La causa più frequente di iperproduzione di PTH è la presenza di tumore delle ghiandole paratiroidee, di solito benigno (adenoma). I tumori delle ghiandole paratiroidee raramente sono maligni. Un adenoma secerne ormone PHT come le ghiandole paratiroidee, ma a differenza di queste non interrompe la produzione di ormone in risposta a concentrazioni elevate di calcio nel sangue. I livelli di calcio nel sangue possono aumentare anche se soltanto una delle ghiandole è ammalata: infatti, ciò si verifica in circa l’80% dei casi

Negli stadi iniziali dell’ipercalcemia i sintomi possono essere vaghi e includere affaticamento, depressione e dolori muscolari. Con l’aggravarsi della malattia, potrebbero comparire:

  • inappetenza;
  • nausea e vomito;
  • sete eccessiva;
  • minzione frequente;
  • dolore addominale;
  • stipsi;
  • debolezza muscolare;
  • confusione;
  • calcoli renali;
  • fratture ossee.

Le conseguenze più gravi dell’ipercalcemia sono: insufficienza renale, ipertensione, aritmia, coronaropatia e cuore ingrossato, probabilmente a seguito dell’accumulo di calcio nelle arterie e nelle valvole cardiache.

Indicazioni

La paratiroidectomia è praticata in caso di iperparatiroidismo. L’estensione della paratiroidectomia dipende dalla causa dell’iperparatiroidismo. Un adenoma richiede l’ablazione della ghiandola colpita, mentre un’iperplasia può imporre l’ablazione di più paratiroidi. In questo caso, un frammento ghiandolare viene preservato nella sua posizione originaria o reimpiantato in un muscolo, al fine di mantenere la secrezione del paratormone.

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Come ci si prepara all’intervento chirurgico?

Circa una settimana prima dell’intervento sarà necessario smettere di prendere i farmaci che interferiscono con la coagulazione del sangue, tra cui aspirina, ibuprofene e naproxene, nonché i farmaci che li contengono. I pazienti che assumono farmaci su prescrizione come warfarina e clopidogrel dovranno interromperli sotto la supervisione del medico. L’anestesista esaminerà la storia clinica del paziente e deciderà quale tipo di anestesia usare. Nella maggioranza dei casi è necessario essere a digiuno prima dell’intervento.

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Procedura e conseguenze

La paratiroidectomia consiste nell’eseguire un’ampia apertura cervicale per via videoendoscopica, in anestesia generale, oppure una piccola incisione in anestesia locale, a seconda delle lesioni. Il ricovero ospedaliero è di breve durata. L’intervento comporta generalmente un calo della calcemia, la quale deve essere oggetto di attenta sorveglianza e, qualora fosse necessario, va corretta mediante la somministrazione di calcio e vitamina D.

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Tipi di intervento

L’accesso chirurgico alle paratiroidi in sede tipica può essere cervicotomico o cervicoscopico; solo in rari casi di ectopia mediastinica, in sedi non raggiungibili per via cervicotomica/scopica, si ricorre ad accessi toracoscopici o sternotomici. I tipi di intervento sono molteplici:

  • PARATIROIDECTOMIA SEMPLICE = asportazione di una paratiroide patologica; è indicata nei pazienti con IPT1 da adenoma ben localizzato alle indagini preoperatorie di sede;
  • ESPLORAZIONE CERVICALE BILATERALE CON PARATIROIDECTOMIA = esplorazione completa della regione antero-inferiore del collo per identificare le caratteristiche macroscopiche di tutte le paratiroidi, al fine di identificare e asportare la ghiandola (o le ghiandole) sede di patologia; è indicata nei casi di IPT1 non localizzati con sicurezza alle indagini preoperatorie;
  • PARATIROIDECTOMIA SUBTOTALE = asportazione di tre paratiroidi più 3/4 della quarta paratiroide; può essere associata a timectomia transcervicale (asportazione del timo attraverso il medesimo accesso cervicotomico); è indicata per IPT1 sostenuto da iperplasia multighiandolare, IPT2 e IPT3;
  • PARATIROIDECTOMIA TOTALE CON AUTOTRAPIANTO = asportazione di tutte le paratiroidi (ed eventualmente del timo), seguita dall’innesto di frammenti ghiandolari del diametro di 1-2 mm in un muscolo dell’avambraccio non dominante (avambraccio sinistro per i destrimani, avambraccio destro per i mancini); è indicata per IPT1 sostenuto da iperplasia multighiandolare, IPT2 e IPT3;
  • PARATIROIDECTOMIA OMOLATERALE CON EMITIROIDECTOMIA = asportazione di entrambe le paratiroidi del medesimo lato en bloc con il lobo tiroideo omolaterale; è indicata per carcinomi paratiroidei; può essere associata a linfoadenectomia delle stazioni linfonodali macroscopicamente interessate da diffusione metastatica.

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Possibili complicanze

Le possibili complicanze dopo un intervento di paratiroidectomia sono rare, riscontrandosi in una percentuale inferiore al 5%.

  • EMORRAGIA = la regione paratiroidea, come già illustrato a proposito della chirurgia della tiroide, è riccamente vascolarizzata: in corso di intervento, si pratica un’attenta emostasi. Emorragie postoperatorie si verificano in meno dell’1% dei pazienti, di solito nelle prime 24 ore dopo l’intervento, quando il paziente è ancora ricoverato e, dunque, in un ambiente monitorato e protetto: i sanguinamenti lievi si trattano conservativamente, mentre i sanguinamenti più importanti richiedono una revisione chirurgica della ferita, non tanto per la quantità di sangue persa (che di fatto è contenuta), quanto piuttosto perchè il collo è uno spazio piccolo e anche modeste quantità di sangue possono dare luogo a disturbi da compressione sulle vie aeree.
  • LESIONE DEL NERVO RICORRENTE = durante l’intervento si pone molta attenzione a identificare, dissecare e preservare i nervi ricorrenti; sezioni nette accidentali del nervo ricorrente sono eventi estremamente rari se l’intervento è eseguito da operatori esperti e specializzati; tuttavia, anche banali manovre di stiramento (talora inevitabili in spazi ristretti come il collo) posso traumatizzare indirettamente il nervo ricorrente, determinando una sua ipofunzione postoperatoria. In tal caso (meno dell’1% dei pazienti), la voce dopo l’intervento si abbassa (disfonia), con difficoltà a raggiungere i toni acuti e facile affaticabilità vocale: in genere, il problema tende a risolversi spontanemante nell’arco di qualche settimana; qualora non rientrasse a norma, dopo 1-2 mesi è possibile intraprendere la riabilitazione logopedica, con la quale la quasi totalità dei pazienti recupera appieno la funzionalità vocale.
  • IPOPARATIROIDISMO = è causato, in corso di esplorazione cervicale bilaterale, dal danno iatrogeno a carico delle paratiroidi normali, dopo asportazione di un adenoma;  è virtualmente assente in caso di esplorazione unilaterale; può essere transitorio o permanente (durata maggiore a 6 mesi); deve essere ben differenziato dall’ipocalcemia postoperatoria da hungry bone syndrome (o sindrome dell’osso affamato), in cui alla rimozione della paratiroide ipersecernente consegue un naturale, brusco calo della calcemia.
  • IPERPARATIROIDISMO PERSISTENTE = insuccesso dell’intervento, con persistenza dell’IPT; è dovuto alla mancata identificazione e asportazione di tutte le ghiandole patologiche iperfunzionanti; può essere notevolmente contenuto eseguendo accurate indagini di localizzazione preoperatoria, dosando intraoperatoriamente l’andamento del PTH e affidandosi a un chirurgo di sicura esperienza.

Cosa succede dopo l’intervento?

I pazienti potrebbero essere dimessi lo stesso giorno dell’intervento o trascorrere la notte in ospedale. Dopo l’intervento è normale avvertire dolore o un certo fastidio, simile a un mal di gola o un forte raffreddore. La maggioranza dei pazienti è in grado di riprendere le attività consuete dopo svariati giorni. I livelli di calcio si abbasseranno rapidamente dopo l’intervento. Alcuni pazienti potrebbero avvertire intorpidimento o formicolio sulla punta delle dita delle mani e dei piedi o sulle labbra, facilmente trattabili con integratori di calcio. I livelli di calcio nel sangue saranno monitorati per almeno sei mesi dopo l’intervento chirurgico. Alcuni medici prescrivono ai loro pazienti integratori di calcio per un anno dopo l’intervento per rinforzare le ossa indebolite dalla carenza di calcio.

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Lesione del legamento crociato anteriore: ricostruzione in artroscopia

Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma Ecografia Spalla Ginocchio Traumatologia Gambe Esperto Referto THD Articolare Sesso Sessualità Uomo ARTICOLAZIONE GINOCCHIO FATTA ESAMI PATOLOGIE Medicina Estetica Radiofrequenza Cavitazione Grasso HDIl legamento crociato anteriore (LCA) ed il legamento crociato posteriore (LCP) uniscono il femore con la tibia. I legamenti crociati controllano i movimenti di traslazione antero-posteriore tra il femore e la tibia.
LCA impedisce lo scivolamento in avanti della tibia rispetto al femore, mentre LCP lo scivolamento indietro. LCA controlla anche la rotazione del ginocchio ed impedisce la sua sublussazione nei movimenti di rotazione della gamba.
La rottura del legamento crociato anteriore rappresenta una delle lesioni di più frequente riscontro nella pratica clinica e dopo le lesioni meniscali è la lesione piu’ comune negli atleti.
La ricostruzione artroscopica del legamento crociato anteriore è divenuta nel corso degli anni la tecnica chirurgica di elezione.

Meccanismo della lesione
La lesione del legamento crociato anteriore avviene quando il ginocchio viene forzato in rotazione od in iperestensione. La maggior parte delle lesioni è legata all’ attività sportiva.

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Come accorgersi della lesione al crociato anteriore?
Nell’immediato il paziente:

  • avverte uno schiocco (crac) quando il legamento si rompe,
  • avverte dolore e deve abbandonare l’attività,
  • sviluppa una tumefazione entro poche ore dovuto al sanguinamento all’ interno del ginocchio,
  • sente il ginocchio instabile.

Fase cronica
I sintomi della fase cronica sono: dolore, gonfiore e cedimento.
Il dolore e il gonfiore solitamente si risolvono dopo due-quattro settimane, ma può persistere l’instabilità. All’inizio, i sintomi possono essere avvertiti soltanto praticando attività sportiva ma in seguito si possono manifestare anche nelle attività quotidiane. L’instabilità cronica può portare all’insorgenza di lesioni della cartilagine articolare ed all’instaurarsi precoce di artrosi per i movimenti anormali tra femore e tibia.

Una lesione del legamento crociato anteriore può guarire?
Il LCA è dotato di una scarsa vascolarizzazione che ne impedisce la guarigione in caso di rottura. L’unica possibilità terapeutica è rappresentata quindi, in questo caso, dalla sua ricostruzione.

Perché dovrei sottopormi ad un intervento chirurgico per ricostruire il legamento crociato anteriore?
La ricostruzione del legamento crociato anteriore è necessaria se si è fisicamente attivi e soprattutto se si praticano sport di contatto e che prevedono la rotazione del ginocchio come pallacanestro, pallavolo, rugby, calcetto e calcio. Se si praticano tali sport solo il 10% dei pazienti con una lesione del legamento crociato anteriore riesce a riprendere senza sottoporsi all’ intervento.
Alcuni pazienti possono usare un tutore, modificano però la loro attività e abbandonano lo sport. La soluzione migliore per i soggetti che praticano attività sportiva è l’intervento chirurgico per prevenire episodi di cedimento dovuti alla lesione dell’LCA. Con i successivi episodi di cedimento, c’è il rischio di ulteriori lesioni sia al menisco che alla cartilagine articolare. LCA può essere ricostruito con ottimi risultati, ma la prognosi a lungo termine dipende anche dalle lesioni meniscali e cartilaginee.
L’obiettivo dell’intervento chirurgico è stabilizzare il ginocchio e prevenire altri danni al menisco e alla cartilagine.

Ho bisogno dell’intervento chirurgico se non pratico sport di contatto?
Non sempre. LCA è coinvolto solo nei movimenti di rotazione. A volte la sensazione di cedimento può essere dovuta alla lesione meniscale, che può venire trattata con un intervento chirurgico più semplice.
Chi pratica sport a livello amatoriale ed ha un età più avanzata può anche evitare l’intervento chirurgico modificando le proprie attività ed utilizzando un tutore. Ogni intervento chirurgico comporta dei rischi, quindi chi riesce ad evitare i movimenti di rotazione nella propria attività, può fare a meno della chirurgia ed avere un ginocchio ben funzionante. 

Cosa dovrei fare se ho subito una lesione del LCA e voglio continuare con gli sport da contatto?
Continuando l’attività sportiva probabilmente si verificheranno episodi di cedimento con dolore e tumefazione. Chi vuole continuare a praticare gli sport da contatto deve sottoporsi all’intervento chirurgico.

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Come si può essere sicuri che il LCA è completamente rotto?
Non importa se il LCA è completamente o solo parzialmente rotto. Se il ginocchio è lasso, e ciò può essere misurato con l’esame clinico, il LCA non è più capace di proteggere il ginocchio dai movimenti di rotazione. La RMN può determinare se il legamento è completamente rotto, ma non può differenziare il grado di lassità e non è indispensabile nella maggior parte dei casi per la diagnosi. Trova invece grande utilità nel caso in cui si sospetti la presenza di lesioni associate (di altri legamenti, cartilagine articolare, menischi)

E’ possibile che altre strutture siano interessate oltre il LCA?
Dopo il trauma iniziale, c’è un 50% di possibilità di lesione al menisco (più frequentemente il menisco laterale). Nella fase acuta il menisco può essere riparato. Nella fase cronica la percentuale di lesione meniscale sale al 75% (più frequentemente il menisco mediale), ed in genere la porzione danneggiata va rimossa.

Cosa accade all’ articolazione se il menisco viene rimosso?
A lungo termine, la rimozione totale, o di parte del menisco, è associata ad un aumento dell’incidenza di osteoartrosi. In alcuni particolari tipi di lesione (circa il 10% delle lesioni) tuttavia il menisco può essere riparato.
In altri casi in cui si sia costretti a rimuovere la maggior parte del menisco, questo può essere sostituito con una protesi meniscale biologica.

Quando posso riprendere a camminare dopo l’intervento
Il giorno dopo l’intervento con le stampelle che vanno usate per le prime 4 settimane.

Quanto è mediamente il tempo di ripresa per l’attività sportiva dopo l’intervento?
4-6 mesi. A volte può essere necessario anche un anno per la completa ripresa.

Quanto tempo è necessario per tornare al proprio lavoro?
Dipende dal tipo di lavoro svolto. Se il lavoro comporta un’attività fisica assimilabile all’attività sportiva possono essere necessari 3-4 mesi; se il lavoro è di tipo sedentario si può riprendere in 3-4 settimane.

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Quando si può riprendere a guidare l’automobile?
Tale attività può essere ripresa quando si è in grado di deambulare senza stampelle. In genere 4 settimane

La fisioterapia riabilitativa è necessaria? E’ impegnativa?
Si è sia necessaria che impegnativa. Dopo l’intervento, è infatti necessaria una corretta fisioterapia riabilitativa impostata in modo da evitare eccessive sollecitazioni al trapianto durante la fase di guarigione che possano condurre alla sua rottura od al suo allungamento. La fisioterapia è necessaria dalla prima fino a circa la dodicesima settimana dall’intervento. Lo scopo della fisioterapia è di ridurre il dolore e la tumefazione, riottenere l’escursione articolare e di aumentare il tono muscolare. La terapia può essere modificata in base ai progressi individuali durante il periodo riabilitativo.

Le fasi del Programma di Riabilitazione prevedono:

  • Fase post-operatoria immediata (0-3° settimana) Recupero escursione articolare – Controllo del quadricipite –  Deambulazione;
  • Fase post-operatoria intermedia (4°-8° settimana) Forza – Propriocezione – Normali attività della vita quotidiana;
  • Fase funzionale (9°-24° settimana) Ritorno graduale all’attività sportiva.

Naturalmente la fisioterapia deve essere adeguata perché eccessive sollecitazioni potrebbero indurre sia ad una nuova rottura sia ad un allungamento eccessivo del legamento stesso 

C’è bisogno di un altro intervento per rimuovere i mezzi di sintesi?
No, frequentemente i mezzi di sintesi utilizzati sono costruiti con un particolare materiale che viene progressivamente riassorbito ed anche quando si utilizzano mezzi di sintesi metallici non è necessario rimuoverli.

Quanto è il tempo di degenza in ospedale?
Il ricovero in ospedale è di 1-2 giorni.

Avrò necessità di una ginocchiera dopo l’intervento?
Nella maggior parte dei casi non utilizzo nessun tipo di ginocchiera dopo l’intervento chirurgico 

Il cedimento può causare dolore anche passata la fase acuta?
Si. Può anche causare un danno ancora maggiore alla cartilagine delle superfici articolari ed ai menischi, portando in seguito alla osteoartrosi.

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TECNICHE CHIRURGICHE
La ricostruzione del legamento crociato anteriore è stata sottoposta a numerose modifiche in relazione alla tecnica chirurgica, al neolegamento utilizzato ed al tipo di fissazione. Le strutture tendinee autologhe più frequentemente utilizzate per la ricostruzione del legamento crociato anteriore sono il terzo centrale del tendine rotuleo ed i tendini del semitendinoso e del gracile.

Qual è il trapianto migliore tra semitendinoso e rotuleo?
La scelta tra i due trapianti non è fondamentale per il risultato dell’intervento. Il risultato finale della ricostruzione del LCA dipende non tanto dal tipo di trapianto utilizzato, quanto piuttosto dalla tecnica chirurgica impiegata, dal tipo di fissazione e dalla riabilitazione post-operatoria.

Trapianti artificiali?
In genere, non utilizzo tale tipo di trapianti, per la più alta incidenza di fallimenti. I trapianti artificiali possono essere indicati in situazioni particolari, come le lesioni legamentose multiple o alcuni re-interventi.

E per quanto riguarda i trapianti da cadavere?
Sono trapianti appunto ottenuti da cadavere. In questo caso esiste, anche se minimo, il rischio di trasmissione di malattie infettive. Il trapianto inoltre impiega più tempo per integrarsi con l’osso e spesso può determinare un allargamento del tunnel. I risultati a lungo termine presentano una più alta incidenza di fallimenti utilizzando questi trapianti. Possono essere indicati in caso di lesioni legamentose multiple o nei re-interventi.

Che tipo di anestesia farò?
In genere per questo tipo di intervento viene utilizzata una anestesia loco-regionale (blocco del nervo sciatico, del nervo otturatorio e del nervo femorale) che inibisce soltanto l’arto da operare seguita da una sedazione. Le altre possibilità sono rappresentate dall’anestesia epidurale che inibisce entrambi gli arti inferiori o dall’anestesia di tipo generale nella quale il paziente non è cosciente.
La scelta comunque del tipo di anestesia verrà concordata insieme all’anestesista in base alle possibili diverse indicazioni.

Come si svolge l’intervento?
Le metodiche che utilizzo più di frequente sono quelle che prevedono come trapianto i tendini del semitendinoso e del gracile (70% dei casi) o il tendine rotuleo (30% dei casi)

Semitendinoso e gracile: i tendini del semitendinoso e del gracile vengono prelevati, attraverso una incisione cutanea di circa 5 cm sulla faccia antero-mediale del ginocchio, con un apposito strumento (tendon stripper) che scolla i tendini dal muscolo.

Tendine rotuleo: si utilizza una striscia di circa 1 cm prelevato dalla parte centrale del tendine rotuleo con due bratte ossee alle sue estremità attraverso una incisione cutanea di circa 5 cm sulla faccia anteriore del ginocchio. Successivamente, in entrambi i casi, la ricostruzione viene eseguita interamente in artroscopia (tecnica chirurgica che permette di osservare l’articolazione del ginocchio attraverso piccole incisioni di circa 1 cm), in modo da ottenere un recupero funzionale più rapido ed un minor dolore post-operatorio. Il tendine viene fatto passare all’interno dell’articolazione attraverso due fori, uno sulla tibia (l’osso della gamba) e l’altro sul femore (l’osso della coscia) utilizzando dei puntatori specifici e viene generalmente fissato con mezzi di sintesi riassorbibili (2 chiodini sul femore ed una vite sulla tibia; oppure un mezzo di sintesi metallico, in titanio, sul femore ed una vite riassorbibile sulla tibia).

Quanto dura l’intervento?
L’intervento di ricostruzione del legamento crociato anteriore in artroscopia dura da 40 minuti ad un’ora. Naturalmente l’intervento può durare più a lungo se vi è necessità di trattare altre lesioni (menisco, cartilagine).

Quali sono le complicazioni potenziali nella ricostruzione dell’ LCA?
Grazie al miglioramento delle tecniche chirurgiche le complicanze post operatorie sono piuttosto rare anche se possibili. Le complicanze generali per questo tipo di intervento, sono le stesse che per ogni altro tipo di intervento: infezioni e flebotrombosi profonda (occlusione di una vena). Le complicanze specifiche sono diminuzione dell’escursione articolare del ginocchio (artrofibrosi), dolore anteriore del ginocchio, dolore e tumefazione persistenti e lassità residua del legamento dovuta al fallimento dell’intervento. Una lesione nervosa o vascolare dopo questo tipo di intervento è estremamente rara.

Le complicanze più frequenti sono quelle elencate di seguito

  • Infezioni della ferita o intra-articolari (artrite settica) (< 1%).
  • Sanguinamemto ed ematoma, frequente ma solitamente di nessun significato.
  • Dolore anteriore di ginocchio (dal 12% al 18%)
  • Lesioni nervose o vascolari: di solito vi è una diminuzione della sensibilità (ipoestesia o anestesia) intorno alla ferita per un danno su un ramo nervoso (il ramo infrapatellare del nervo safeno), ma raramente sono danneggiati i nervi o i vasi arteriosi che controllano l’arto inferiore.
  • Condromalacia della rotula: perdita di consistenza della cartilagine articolare (in particolare con il prelievo del tendine rotuleo).
  • Fratture della rotula (in particolare con il prelievo del tendine rotuleo).
  • Tendiniti del tendine rotuleo
  • Perdita del tono del quadricipite.
  • Rottura degli strumenti chirurgici dentro l’articolazione: rara.
  • Fallimento del trapianto: 5-10% a 10 anni.
  • Rigidità articolare. Questa può essere corretta durante la riabilitazione, può però residuare con una grave diminuzione del movimento dell’articolazione e può quindi essere necessario un nuovo intervento chirurgico.
  • Trombosi venosa profonda.
  • Complicanze legate all’anestesia.

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