In linguistica, l’ipotesi di Sapir-Whorf (in inglese “hypothesis of linguistic relativity” o “Whorfianism” o “Sapir-Whorf hypothesis“, da cui l’acronimo SWH), conosciuta anche come “ipotesi della relatività linguistica” o semplicemente “relatività linguistica“, afferma che Continua a leggere
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Favole nei bambini: quando iniziare a raccontarle e quanto sono importanti?
È già qualche anno che vivo il ritorno piacevole di ascoltare e raccontare favole. Favole della buonanotte, favole africane, fiabe medioevali, fiabe giapponesi. Ogni volta è come entrare in contatto con qualcosa di speciale, e la cosa più speciale che ad ogni lettura, ascolto o visione, la magia si ripete. Vedere una favola rappresentata a teatro, al cinema o sui fogli di un libro non cambia di molto il risultato. Perché in ognuno di noi c’è ancora una parte bambina che con le fiabe è cresciuta e attraverso le quali ha imparato a conoscere se stesso, ad accettarsi e a vincere le proprie paure.
Le favole guidano i bambini nella scoperta del proprio mondo emotivo
Le favole danno la possibilità ai bambini, e non solo, di entrare alla scoperta del proprio mondo emotivo. È possibile attraverso le fiabe apprendere schemi nuovi di comportamento, imparare a rispondere più efficacemente a situazioni difficili o di disagio. In questo modo si impara a non rimanere vinti dalle emozioni che si vivono. Riconoscersi nei protagonisti, identificandosi, darà loro modo di entrare in contatto con quelle emozioni, impareranno a riconoscerle, a dargli un nome e quindi ad esprimerle. Spesso, quando si ascolta una fiaba si viene totalmente assorbiti da questa. Ancora di più nel caso dei bambini. Il bambino infatti entra totalmente nel mondo fatato, si veste degli abiti e delle azioni dei suoi protagonisti. Eccolo diventare allora una fata, un leone, un mago, una Winx, un principe o una principessa.
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Un momento speciale
Il momento delle storie raccontate e ascoltate dalla mamma e dal papà, magari accoccolati tra le loro braccia, prende un significato emotivo molto più grande del gesto in sé. È unico nel suo genere. Il tempo del racconto prima di andare a ninna è molto importante per la relazione tra genitori e figli. Il tempo che un genitore dedica al proprio figlio parla di generosità, istruisce circa il piacere del dare e del ricevere. È un tempo che manifesta affetto e pazienza. È un tempo ricco di presenza, in cui il solo “stare” è già di per sé un momento che dona sicurezza al bambino, lo aiuta nella crescita delle sue capacità emotive e cognitive. Questo spazio può essere riempito di domande, racconti su come è andata la propria giornata, riflessioni, fantasie e immagini. È uno spazio fecondo in cui possono crescere la fiducia verso se stessi, la capacità di superare piccole paure, insicurezze e conflitti. Per cui è molto meglio far addormentare i bimbi in questo modo, piuttosto che davanti alla tv o nella stanza da soli. Le favole possono essere utili a favorire la fiducia in se stessi, a comprendere meglio alcuni eventi che possono essere fonte di disagio, e in ultimo forniscono e lasciano traccia, nella memoria emotiva, di cosa vuol dire “sentirsi accuditi e accolti”, esperienza fondamentale per la crescita. Lavorando con gli adulti, mi capita di rilevare nel mio lavoro, come alcuni di questi non abbiano sviluppato nella loro vita uno spazio di accoglienza e di accudimento verso le loro sensazioni dolorose, risultando incapaci di reperire dentro loro stessi momenti in cui si siano sentiti accuditi, accolti, ascoltati. Pensate, quindi, come può essere importante il momento delle favole della buonanotte: 15 minuti a sera potrebbero aiutare vostro figlio nel futuro a far fronte a numerose esperienze dolorose. Perché attraverso le favole, attraverso l’uso della metafora, si aiutano i bambini a scoprire diversi modi di interpretare le situazioni e a migliorare le loro capacità di risolverle. Le favole insegnano ad avere pazienza, a essere empatici, ad osservarsi, ad avere coraggio, ad apprendere regole di comportamento, a capire cosa sono la bellezza e la generosità. In questo modo aiutiamo i bambini a sviluppare l’intelligenza emotiva. Questa è una grande risorsa che non in tutti è sviluppata, ma è di fondamentale importanza per la gestione delle emozioni (ansie, paure, ecc) e per migliorare le capacità relazionali con gli altri.
Da che età?
Ci sono favole per ogni età. Per quanto possa sembrare incredibile, già ad un anno, i bambini possono prestare attenzione a brevi e semplici racconti, per esempio piccoli libricini fatti di figure semplici. Poi crescendo, si noterà che i bimbi sono in grado di seguire racconti via via sempre più complessi. Intorno ai 3-4 anni il loro interesse sarà focalizzato attorno a quelle storie che rimandano alle loro attività quotidiane, come per esempio mangiare, dormire, vestirsi, giocare, lavarsi denti. Invece attorno ai 4-5 anni gli piacerà ascoltare e identificarsi con storie riguardanti fate, principesse, cavalieri, maghi, animali. È importante sviluppare il “muscolo” dell’immaginazione, sia per l’età bambina che, in futuro, per quella adulta. E’ utile per capire e superare i drammi della vita, come l’abbandono, la cattiveria, la paura. La lettura delle fiabe viene vissuta piacevolmente da entrambi i sessi. E così come abbiamo detto all’inizio di questo scritto le favole non sono ad uso esclusivo dei bambini. Se un adulto rifiuta o si trova in difficoltà rispetto al contatto con questo mondo, ci sarebbero da porsi diverse domande riguardo alle cause di tale posizione. Quindi sceglietevi una bella favola, che sia in un libro, a teatro, al cinema e…buona immersione!
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L’abuso verbale ed emozionale nella coppia
Il partner abusatore, che sia maschio o femmina, ha un obiettivo fondamentale: vuole controllare e dominare il proprio compagno o la propria compagna. L’abuso verbale è il mezzo attraverso il quale raggiunge questo scopo. È egocentrico, impaziente, distaccato, poco empatico, estremamente geloso e sospettoso. Per mantenere il controllo sul partner e sulla situazione, l’abusatore cerca di isolare il partner dagli amici e dalla famiglia. Il suo umore tipicamente slitta dal romanticismo alla rabbia. La paura della rabbia (verbale) ti costringe alla sottomissione.
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Sei vittima di un abuso verbale?
L’abuso verbale e emozionale comincia in modo innocuo, ma cresce via via che l’abusatore comprende che non lo lascerete nonostante i suoi comportamenti. A volte gli eventi scatenanti sono il matrimonio o la maternità. Tuttavia, guardandoti indietro puoi riconoscere dei segnali dell’incubo che vivi ora: gelosia, sospetto, tentativi di controllo. Spesso sono gli amici e la famiglia ad avvertirti, ma ancora più spesso non vengono ascoltati. Le persone più a rischio sono quelle remissive. Se ti ritieni una di esse allora dovresti chiederti se qualche volta hai accettato il comportamento del tuo partner per evitare il confronto. Ti è familiare la sensazione di reprimere la tua rabbia per non scatenare la sua? Dopo aver risposto a tono agli attacchi del tuo partner ti senti in colpa? Vorresti dirgli un sacco di cose ma quando cominci poi ti rendi conto che sono tutte cose che non puoi dire? Se ti riconosci in questi comportamenti e pensieri probabilmente sei stato abusato verbalmente e emotivamente.
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Cosa sono l’abuso verbale ed emotivo nella coppia?
Sono comportamenti atti a denigrare, controllare, manipolare e punire il proprio partner. Se non ti senti libero di essere in un luogo senza che il tuo partner lo sappia significa che lui ha il potere di controllare i tuoi spostamenti. Se non ti senti libero di parlare con una persona perché sai che non farebbe piacere al tuo partner significa che lui può controllare le tue amicizie. Se non ti senti libero di contraddire il tuo partner perché temi di farlo arrabbiare significa che può controllare la tua vita.
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Tecniche di abuso verbale
Le principali tecniche di abuso verbale, sono:
- Opposizione: questa tecnica usati dall’abusatore consiste nell’attaccare tutto quello che dici, sfidare le tue percezioni, le tue supposizioni, i tuoi pensieri e le tue credenze. Ti tratta sempre come un avversario da combattere.
- Bloccaggio: in questo caso l’abusatore risponde alle tue parole chiudendo il discorso con delle frasi come adesso non ho voglia di parlare, che sciocchezze dici, ma figurati, non so di cosa parli, che tradotte significano tutte “stai zitto”!
- Sminuire le emozioni: minimizza o scredita i tuoi pensieri, le tue emozioni e i tuoi sentimenti. In questo modo sottolinea che non conta quello che provi o peggio che è sbagliato.
- Negazione: nega sia esistita discussione o litigio con te. Tu provi a sostenere la verità di quei ricordi ma alla fine ottieni solo di dubitare della tua memoria o della tua visione del mondo.
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Come contrastare l’abuso nella coppia?
Per prima cosa ricorda che l’obiettivo dell’abusatore non è vare ragione nella discussione, è avere il controllo su di te. Se ti focalizzi sui contenuti cadrai nella sua trappola e proverai a rispondere razionalmente, negando le accuse e cercando di difendere te stesso. Quando questo avviene hai perso, nel momento in cui senti il bisogno di giustificare le tue azioni (corrette e oneste) al tuo partner, significa che lui ti ha soggiogato. Quello che devi fare è metterti sempre sul suo stesso piano e devi farlo cercando di mantenere la calma, altrimenti se ti arrabbi rischi che lui faccia la vittima per scatenare il tuo senso di colpa. Nel concreto si tratta di rispondere a quello di cui ti accusa con lo stesso tono con il quale vieni accusato.
Se credi di essere intrappolata o intrappolato in una relazione tossica o che il tuo partner usi l’abuso verbale nei tuoi confronti, prenota subito la tua visita e, grazie ad una serie di colloqui riservati, ti aiuterò a gestire ed a superare questa situazione.
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine
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“Se lo fai ancora, mamma si arrabbia”: il senso di colpa nei bambini
Questa frase è la tipica espressione utilizzata dai genitori quando il loro bambino sta facendo qualcosa che loro non condividono. Ma è anche la frase che i genitori solitamente utilizzano quando non hanno altre risorse da mettere in atto per gestire alcune situazioni che riguardano il comportamento dei propri figli. Frasi come questa, e più avanti proveremo ad metterne in evidenza altre, sono le tipiche espressioni che producono e in qualche modo instillano il senso di colpa nei propri figli.
Le origini del senso di colpa
Il meccanismo del senso di colpa funziona più o meno così: qualcuno, per es. un genitore, invia un messaggio, destinato a ricordarti che, facendo o non facendo, dicendo o non dicendo una certa cosa, sei stato cattivo. Tu rispondi a quel messaggio, naturalmente, deprimendoti e il meccanismo del senso di colpa ecco qui che si è attivat0. Il senso di colpa viene così a far parte della tua struttura emotiva. Ma come mai da bambini non si è riusciti a respingere i messaggi di colpa che ci sono stati inviati? Probabilmente perché i messaggi provenivano da chi ci stava particolarmente a cuore, come i nostri genitori e non si poteva deluderli. Se qualcuno ci sta veramente a cuore, lo dimostriamo sentendoci in colpa per le cose orribili che pensiamo aver commesso. Il senso di colpa viene appreso in tenerissima età e persiste nell’adulto come modalità reattiva infantile. Le frasi che lo producono sono innumerevoli: hanno inciso nel bambino e questi, divenuto adulto, ancora se le porta dentro. Le implicazioni contenute in queste frasi possono quindi ancora ferire l’adulto che per esempio delude il capoufficio o persone nella quali egli ravvisi quasi dei genitori. Perciò sentirsi in colpa non significa soltanto crucciarsi per il passato; significa anche essere immobilizzati nel presente a cagione di un evento passato. Inutilmente infatti si continua a consumare energia nel presente, a sentirsi offesi, irritati, depressi per una cosa già successa.
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Frasi che producono senso di colpa
Vediamo alcune tipiche frasi che miranoad aiutare un figlio o una figlia a scegliere il senso di colpa come prezzo dell’appartenenza a quella famiglia:
- “Io mi sono sacrificato per te!”: un genitore con essa ti richiama alla memoria tutte le volte che ha dovuto rinunciare alla propria felicità perché tu avessi una data cosa. E tu allora ti domandi come hai potuto essere tanto egoista dopo che ti era stato ricordato di quanto sei debitore.
- “Quindici ore di parto solo per metterti al mondo!”: anche qui, ti senti colpevole per aver inflitto tanto dolore alla persona che conta di più, tua madre.
- “Sono rimasto con tua madre solo per amor tuo!”: questa frase mira a farti sentire colpevole del brutto matrimonio di tuo padre.
- “Va bene, noi restiamo soli. Tu divertiti pure, come d’altronde hai sempre fatto. Non darti pensiero per noi…”: frasi come queste servono ad ottenere che tu ti faccia vivo più spesso, che telefoni o che vai a trovare i tuoi con più regolarità.
- “Ci hai fatto fare una brutta figura!” oppure “Che penserà la gente di noi?”: forze esterne vengono chiamate in causa perché tu senta il rimorso di ciò che hai fatto e per impedirti di farlo ancora. Anche espressioni come “Se ti bocciano ad un esame ci farai fare una pessima figura!” potrebbero renderti quasi insopportabile la vita con te stesso dopo un esame andato male.
- “Mi farai morire!” oppure “Mi farai venire un infarto”: in questo caso la malattia di uno dei genitori è una fabbrica che produce un senso di colpa di primissima qualità. Frasi così accollano la responsabilità di praticamente tutte le malattie tipiche di chi sta invecchiando. Si ha bisogno di spalle ben salde per portare questo senso di colpa perché, potresti averlo tutta la vita e, se sei particolarmente vulnerabile, potresti addirittura sentirti colpevole della morte di uno dei tuoi genitori.
- “Dovresti vergognarti! Leggere riviste simili! Non dovrebbero nemmeno venirti certi pensieri!” oppure “Non ti stavi mica masturbando? Lo sai che non si fa, è male!”: esempi tipici del senso di colpa instillato dai genitori relativamente al sesso.
- “Ti sei dimenticato di dire grazie! Vuoi proprio che i nostri amici pensino che io non ti ho insegnato nulla?” oppure “Metterti le dita nel naso davanti all’amico di papà! Mi hai messo in imbarazzo!”: senso di colpa legato a comportamenti sociali. È possibile però insegnare ad un bambino a comportarsi in maniera accettabile senza instillargli alcun senso di colpa e spiegandogli invece i motivi per cui un dato comportamento è magari socialmente indesiderabile.
Il senso di colpa può alla lunga determinare alcuni disturbi di carattere psicologico come: indecisione, insicurezza, ipocondria e paure di diverso tipo, bassa stima di sé, enorme bisogno di essere considerati e amati.
Per risolvere i disagi psicologici collegati al senso di colpa è necessario certamente un lavoro su di sé, attraverso una psicoterapia mirata a conoscere i propri conflitti e a imparare a gestirli nel migliore dei modi attraverso lo sviluppo di nuove consapevolezze, nuove risorse e nuove competenze.
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Perché agli uomini piace così tanto il seno delle donne? Seconda parte
Prima di iniziare la lettura, leggi la prima parte dell’articolo seguendo questo link: Perché agli uomini piace così tanto il seno delle donne?
Il seno come segnale dell’età fertile e di ormoni ottimali
Il seno inizia a crescere nella donna proprio nel momento della pubertà, cioè il momento in cui il suo apparato riproduttivo è “operativo” e possibilitato a dare una prole. Avere un seno abbondante è un modo per mostrare inequivocabilmente al maschio che i caratteri sessuali secondari si sono sviluppati, i livelli ormonali sono ottimali e quindi si è in grado di generare dei figli: essere in età fertile rappresenta fin dalla preistoria una forte attrazione per l’uomo, senza che neanche ne sia conscio.
Leggi anche: Perché agli uomini e alle donne piace il sedere?
Il seno grande è una ottima “spia” dell’età della donna
Un seno prosperoso tende a “cadere” con l’avanzare dell’età a causa dell’aumento della sua componente adiposa a discapito della sua componente ghiandolare. Invece un seno poco pronunciato ha più possibilità di rimanere indifferente alla forza di gravità anche in una donna più in là con gli anni. Quindi per il maschio è più facile distinguere una ragazza giovane da una signora nel caso in cui entrambe sfoggino un seno prosperoso, mentre risulta più difficile al maschio distinguere l’età della donna se questa ha un seno piccolo. Questo sembra essere il motivo per cui la selezione naturale ha programmato l’uomo per fargli piaccere i seni grandi, giovani e non cadenti: indicano al maschioo la femmina più fertile e potenzialmente più sana ed in grado di allattare e partorire figli sani.
Leggi anche: Aumentare il desiderio sessuale femminile: guida completa
Il ruolo dell’ossitocina
C’è anche una spiegazione neurologica, un po’ più “noiosa” per i non addetti ai lavori ma più affascinante per i medici. Ha a che fare con i meccanismi del cervello che promuovono, fin dagli istanti immediatamente successivi alla nascita, il forte legame tra neonato e madre. Quando una donna partorisce, il bimbo entra subito in forte contatto con il seno di sua madre, basti pensare che il primo abbraccio lo riceve di solito stando appoggiato proprio sul seno della neo mamma. Questa stimolazione invia segnali lungo i nervi e nel cervello. In quest’ultimo, i segnali innescano il rilascio di un trasmettitore neurochimico chiamato ossitocina dall’ipotalamo del cervello. Il rilascio di ossitocina nei muscoli lisci nel seno di una donna consente poi di espellere il latte, rendendolo disponibile per il suo bambino.
Ma il rilascio di ossitocina ha anche altri effetti. Quando viene rilasciato per sollecitazione del bambino, l’attenzione della madre si concentra sul suo bambino. Il bambino diventa la cosa più importante del mondo. L’ossitocina, agendo di concerto con la dopamina, aiuta dunque a forgiare il legame madre-bambino. Questo legame non è solo il più bello di tutti i legami sociali, ma può anche essere il più duraturo, non spezzandosi per tutta la vita, innescando nel bambino un rinforzo positivo legato alle mammelle. Un’altra stranezza umana è che siamo tra gli animali più rari ad avere rapporti sessuali faccia a faccia, guardandosi l’uno negli occhi dell’altro. Si ritiene che questa stranezza della sessualità umana si è evoluta per sfruttare l’antico legame cerebrale madre-bambino come un modo per aiutare la formazione di legami tra gli amanti. Quando un uomo tocca la propria partner, la massaggia o le stuzzica il seno si suscitano in lei tutta una serie di eventi cerebrali di impronta infermieristica e che ricordano l’amore per il suo bambino.
L’ossitocina concentra l’attenzione del cervello al viso del partner, al suo odore e alla voce. La combinazione di rilascio di ossitocina dalla stimolazione del seno, e l’aumento di dopamina data dall’emozione dei preliminari e dal sesso faccia a faccia, contribuiscono a creare una associazione tra il volto e gli occhi dell’amante e le sensazioni piacevoli, la costruzione di un legame nel cervello delle donne. Quindi la passione maschile per il seno delle donne, lungi dall’essere inquietante, è un disco evolutivo inconscio che spinge ad attivare circuiti di legame potenti che aiutano a creare un legame di amore e nutrizione.
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
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Sindrome Genovese ed effetto spettatore: la diffusione della responsabilità e l’ignoranza collettiva
La Sindrome Genovese, nota anche come “effetto spettatore” o “complesso del cattivo samaritano” o “apatia dello spettatore” (in inglese bystander effect) è un fenomeno psicologico divenuto purtroppo noto a causa dell’omicidio Genovese. Kitty Genovese era nata a New York il 7 luglio del 1935, da una famiglia italoamericana appartenente alla middle class, ed era cresciuta a Brooklyn. Nel 1954, la sua famiglia decide di trasferirsi nel Connecticut, così Kitty decise di restare da sola a New York. Si trasferì nel Queens, dove iniziò a gestire un bar, il Ev’s 11th Hour Sports Bar, e prese un appartamento insieme alla socia e fidanzata, Mary Ann Zielonko.
L’omicidio
Era la notte del 13 marzo del ’64, quando la Genovese rincasò verso le 3 di notte, dopo aver chiuso il bar. Dopo aver parcheggiato l’auto, a circa 30 metri dal portone di casa, la Genovese fu accoltellata alle spalle da Winston Moseley. I vicini della Genovese gridarono all’aggressore di lasciar perdere la donna e, in un primo istante, l’uomo si allontanò. Dopo una decina di minuti Moseley tornò a cercare la giovane, ormai agonizzante, e la uccise. La durata complessiva dell’aggressione fu di circa mezz’ora: l’uomo abusò della vittima per lasciarla poi morente a terra. La Genovese aveva provato a chiedere aiuto ai vicini, ma nessuno si degnò di aiutarla. Si stima che ben 38 persone abbiano “assistito” alla scena, senza aver mosso un dito. Perché nessuno dei vicini aiutò Kitty Genovese?
L’ignoranza collettiva e la diffusione di responsabilità
Bibb Latané e John Darley hanno portato avanti una serie di studi, in relazione a questo caso, e hanno spiegato che l’effetto era stato generato da un duplice processo: l’ignoranza collettiva e la diffusione della responsabilità.
In base all’ignoranza collettiva, o “ignoranza pluralistica”, ciascun membro ritiene che gli altri abbiano più informazioni e/o competenze per agire su un determinato evento e quindi, in situazioni confuse e vaghe, si tende a dare per scontato che altre persone nelle vicinanze sappiano più cose di noi sull’evento nefasto e che quindi siano più “competenti” nell’aiutare o chiamare i soccorsi. Nessuno però valuta una cosa: anche gli altri fanno lo stesso. Questo determina, nella maggior parte dei casi, una probabile mancanza d’azione.
Un’altra componente che impedisce alle persone di aiutare qualcuno in difficoltà, è la diffusione della responsabilità, o “disimpegno morale”. Quando si è in tanti a fare un gesto reputato negativo o antisociale, tendiamo a non agire, visto che quel comportamento – condiviso da molti – diventa meno grave ai nostri occhi. “Se nessuno agisce, significa che non è poi così grave non agire, altrimenti lo farebbero tutti”.
Un esperimento molto famoso per valutare la diffusione della responsabilità fu condotto da Latané e Darley su un gruppo di persone. I soggetti in questione venivano fatti accomodare singolarmente in diverse stanze ed erano convinti di stare a partecipare ad un esperimento di psicologia, in cui dovevano esprimere delle opinioni su questioni personali. Queste stanze erano isolate tra di loro e i soggetti potevano comunicare solo per mezzo di un interfono. Durante l’esperimento, uno dei partecipanti raccontava di soffrire di attacchi di epilessia e, poco dopo, simulava di averne uno. Quando agli altri soggetti veniva detto che vi erano più partecipanti all’esperimento, la probabilità che uno di loro prestasse aiuto, diminuiva moltissimo. In particolare:
- se i partecipanti erano consapevoli di essere soli, l’85% di loro interventiva;
- se erano convinti che ci fosse almeno un altro individuo, la percentuale scendeva al 62%;
- se credevano che i partecipanti fossero almeno 4, solo il 31% dei partecipanti si precipitava ad aiutare il malato.
In parole semplici, paradossalmente più persone assistono a un’emergenza, più si riscontra la probabilità che ogni spettatore non intervenga o lo faccia più lentamente perché ci sentiamo maggiormente deresponsabilizzati; al contrario, se siamo da soli ad assistere alla stessa emergenza, aumentano le possibilità che noi agiamo, perché ci sentiamo maggiormente responsabilizzati.
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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine
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