Sinapsi chimica ed elettrica: cosa sono ed a che servono?

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma SINAPSI CHIMICA ELETTRICA COSO SONO SERV Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.gif

Una sinapsi chimica

La sinapsi (synapse in lingua inglese) è una struttura altamente specializzata che consente la comunicazione dei neuroni tra loro con altri tipi di cellule. Attraverso la trasmissione sinaptica, l’impulso nervoso (potenziale d’azione) può viaggiare da un neurone all’altro o da un neurone ad una fibra p. es. muscolare (giunzione neuromuscolare). La sinapsicazione può essere di vario tipo, si possono distinguere:

  • sinapsi asso-dendritiche in cui l’assone di un neurone contatta l’albero dendritico di un altro neurone;
  • sinapsi asso-assoniche in cui due assoni sono a contatto;
  • sinapsi asso-somatiche, che si stabiliscono tra l’assone di un neurone e il corpo cellulare (soma) di un secondo neurone;
  • autosinapsi: l’assone di un neurone forma una sinapsi con il dendrite o il soma dello stesso neurone.

Dal punto di vista funzionale, esistono due tipi di sinapsi: le sinapsi elettriche e le sinapsi chimiche. Nell’uomo prevalgono le sinapsi di tipo chimico.

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Sinapsi elettrica
Nella sinapsi elettrica, una cellula stimolabile e un neurone sono tra loro connesse mediante una giunzione comunicante detta anche gap junction. Le giunzioni comunicanti consentono il rapporto tra cellule per passaggio diretto di correnti elettriche da una cellula all’altra, quindi non si verificano ritardi sinaptici. In genere le sinapsi elettriche, al contrario di quelle chimiche, consentono la conduzione in entrambe direzioni. Esistono sinapsi elettriche che conducono preferenzialmente in una direzione piuttosto che nell’altra: questa proprietà prende il nome di rettificazione. Le sinapsi elettriche sono particolarmente adatte per riflessi (dette anche azioni riflesse) in cui sia necessaria una rapida trasmissione tra cellule, ovvero quando sia richiesta una risposta sincronica da parte di un numero elevato di neuroni, come ad esempio nelle risposte di attacco o di fuga. Le particelle intermembranarie delle giunzioni comunicanti sono costituite da 6 subunità che circondano un canale centrale. Le 6 subunità sono disposte a esagono e formano una struttura chiamata “connessone”. Ciascuna subunità è formata da una singola proteina, la connessina. Attraverso i connessoni passano molecole, soluzioni idrosolubili e ioni il cui passaggio determina una corrente elettrica.

Sinapsi chimica
Una sinapsi chimica è formata da tre elementi: il terminale presinaptico, o bottone sinaptico, spazio sinaptico (detto anche fessura inter-sinaptica o vallo sinaptico) e membrana post-sinaptica. Il terminale presinaptico è una area specializzata, nell’assone del neurone presinaptico (il neurone portatore del messaggio), che contiene neurotrasmettitori incapsulati in piccole sfere chiamate vescicole sinaptiche. Il terminale presinaptico include la membrana pre-sinaptica dotata di canali per lo ione Ca2+ al passaggio del quale si crea un potenziale d’azione e le vescicole sinaptiche si fondono con la membrana, rilasciando il neurotrasmettitore nello spazio sinaptico. Qui il neurotrasmettitore entra in contatto con la membrana postsinaptica ove sono presenti specifici recettori o canali ionici. Il neurotrasmettitore in eccesso viene riassorbito nella membrana presinaptica (ricaptazione), o scisso in parti inerti da un apposito enzima. Tali parti possono poi essere riassorbite dalla membrana presinaptica permettendo, all’interno del terminale presinaptico, una resintesi del neurotrasmettitore.

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Mediatori chimici 

Monomeri

  • L’acetilcolina (Ach) è l’unico mediatore che agisce nella giunzione neuromuscolare, ma agisce anche nelle sinapsi del SNC e del SNP. Le sinapsi il cui mediatore è l’ACh sono dette colinergiche. L’acetilcolina viene distrutta dall’enzima acetilcolinesterasi (acetil-colina-esterasi).
  • Le monoammine sono mediatori che presentano il gruppo funzionale (–NH2). Dopamina (DA), noradrenalina (NA) e adrenalina sono caratterizzate dal catecolo, perciò sono dette catecolammine, e sono presenti nelle sinapsi di SNC e SNP. Il Parkinson è dovuto a una degenerazione dei neuroni dopaminergici. Sia l’adrenalina (detta anche epinefrina) sia la noradrenalina (norepinefrina) si ritrovano nel circolo sanguigno, agendo anche come ormoni. I neuroni che utilizzano le monoammine sono detti aminergici e le monoamine vengono distrutte dal complesso delle Monoaminossidasi (MAO). La serotonina o 5-idrossitriptamina deriva dal triptofano ed è utilizzata in alcune regioni del SNC come quella ippocampica.
  • Amminoacidi come Glutammato, glicina e acido γ-idrossibutirrico o GABA (che deriva dal glutammato per perdita di COOH). Glicina e GABA sono inibitori a livello delle sinapsi del SNC, si legano sempre a una classe di recettori che provoca effetti inibitori.

Polimeri
I Peptidi neuroattivi sono polimeri di un numero limitato di amminoacidi (da 7 a 33-34). Questi peptidi neuroattivi sono sintetizzati all’interno del soma (a differenza dei monomeri di minute dimensioni). Questi sono trasportati lungo l’assone fino al bottone sinaptico. Alcuni sono prodotti nelle cellule nervose, altri in altre cellule. Il peptide inibitore gastrico è prodotto da una parte delle cellule intestinali, funziona come ormone ma ha anche funzione neuroattiva. Ogni neurone può produrre una classe di mediatori a piccola molecola (liberati anche solo con un potenziale d’azione) e uno o più peptidi neuroattivi (liberati dopo più potenziali d’azione a elevata frequenza).

Neurotrasmettitori

Sono più di cinquanta le sostanze chimiche di cui è stata dimostrata la funzione di neurotrasmettitore a livello sinaptico. Ci sono due gruppi di trasmettitori sinaptici:

  • trasmettitori a basso peso molecolare e a rapida azione;
  • neuropeptidi di dimensioni maggiori e ad azione più lenta.

Il primo gruppo è composto da trasmettitori responsabili della maggior parte delle risposte immediate del sistema nervoso, come la trasmissione di segnali sensoriali al cervello e di comandi motori ai muscoli. I neuropeptidi sono, invece, implicati negli effetti più prolungati, come le modificazioni a lungo termine del numero di recettori e la chiusura o l’apertura prolungata di alcuni canali ionici.
I neurotrasmettitori a basso peso molecolare vengono sintetizzati nel citosol della terminazione presinaptica e, successivamente, mediante trasporto attivo, sono assorbiti all’interno delle numerose vescicole presenti nel terminale sinaptico. Quando un segnale giunge al terminale sinaptico, poche vescicole alla volta liberano il loro neurotrasmettitore nella fessura sinaptica. Tale processo avviene in genere nell’arco di un millisecondo.
I neuropeptidi, invece, vengono sintetizzati come parti di grosse molecole proteiche dai ribosomi del soma neuronale. Tali proteine sono subito trasportate all’interno del reticolo endoplasmatico e quindi all’interno dell’apparato del Golgi, dove avvengono due cambiamenti. Dapprima, la proteina da cui originerà il neuropeptide viene scissa enzimaticamente in frammenti più piccoli, alcuni dei quali costituiscono il neuropeptide come tale oppure un suo precursore; successivamente, l’apparato di Golgi impacchetta il neuropeptide in piccole vescicole che gemmano da esso. Grazie al flusso assonale le vescicole sono trasportate alle estremità delle terminazioni nervose, pronte per essere liberate nel terminale nervoso all’arrivo di un potenziale d’azione. In genere i neuropeptidi vengono liberati in quantità molto minori rispetto ai neurotrasmettitori a basso peso molecolare, ma ciò è compensato dal fatto che i neuropeptidi sono assai più potenti.

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Dopammina: cos’è ed a che serve?

Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Specialista in Medicina Estetica Roma MAL DI TESTA VIVEVA CERVELLO Verme HD Radiofrequenza Rughe Cavitazione Cellulite Luce Pulsata Peeling Pressoterapia Linfodrenante Mappatura Nei Dietologo DermatologiaLa dopammina è un neurotrasmettitore endogeno della famiglia delle catecolammine. All’interno del cervello questa feniletilammina funziona da neurotrasmettitore, tramite l’attivazione dei recettori dopamminici specifici e subrecettori.

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La dopammina è prodotta in diverse aree del cervello, tra cui la substantia nigra e l’area tegmentale ventrale (ATV). Grandi quantità si trovano nei gangli della base, soprattutto nel telencefalo, nell’accumbens, nel tubercolo olfattorio, nel nucleo centrale dell’amigdala, nell’eminenza mediana e in alcune zone della corteccia frontale. La dopammina è anche un neuro ormone rilasciato dall’ipotalamo. La sua principale funzione come ormone è quella di inibire il rilascio di prolattina da parte del lobo anteriore dell’ipofisi. A livello gastrointestinale il suo effetto principale è l’emesi. Per approfondire, leggi: Quali sono le funzioni della Dopammina?

La dopammina può essere fornita come un farmaco che agisce sul sistema nervoso simpatico, producendo effetti come aumento della frequenza cardiaca e pressione del sangue. Gli antagonisti dopamminergici sono farmaci che trovano ampio utilizzo come neurolettico in ambito psichiatrico, mentre agonisti dopamminergici sono usati sia come terapia di prima scelta nella malattia di Parkinson, sia -in misura minore- come antidepressivi e contro la dipendenza. Va considerato che si possono avere gravi effetti collaterali, come indicato nei foglietti illustrativi solamente dal 2007, quali bulimia, ipersessualità, gioco compulsivo (gioco d’azzardo), acquisti compulsivi in circa l’8% di coloro che sono affetti dalla malattia di Parkinson.

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Atrofia muscolare spinale: sintomi, trasmissione, tipi e cure

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma ATROFIA MUSCOLARE SPINALE SINTOMI CURE Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata Macchie Capillari Ano PeneL’Atrofia muscolare spinale (Spinal muscular atrophy  anche detta SMA) è una malattia neuromuscolare ereditaria, caratterizzata dalla progressiva degenerazione dei nuclei motori del tronco encefalico e dei motoneuroni delle corna anteriori del midollo spinale da cui partono i nervi diretti ai muscoli, e che trasmettono i segnali motori (vedi foto). Il risultato di questa degenerazione è un’importante debolezza muscolare da cui conseguono varie complicanze.

Qual è la causa dell’Atrofia muscolare spinale?
Questa patologia è provocata da un’aberrazione genica che colpisce una regione del cromosoma 5 e determina una produzione di livelli insufficienti di una proteina chiamata SMN (survival motor neuron).

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Come viene trasmessa dai genitori ai figli?
Nella sua forma più comune, l’Atrofia muscolare spinale è una malattia autosomica recessiva, ossia si può manifestare solo se il soggetto affetto eredita da entrambi i genitori mutazioni nel gene coinvolto nella patologia. Nel caso in cui entrambi i genitori siano portatori, la probabilità, per ogni concepimento, che la mutazione venga trasmessa da entrambi al nascituro, rendendolo affetto da SMA, è del 25%, cioè un caso su quattro. Esistono anche alcune forme estremamente rare di SMA che possono manifestarsi come forma mutante o autosomica dominante.

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Qual è il periodo di esordio dell’Atrofia muscolare spinale?
I sintomi dell’atrofia muscolare spinale possono esordire in momenti diversi della vita del paziente, in particolare durante l’infanzia o in età adulta, a seconda del tipo (vedi più avanti nell’articolo).

Quanto è diffusa l’Atrofia muscolare spinale?
Negli USA colpisce secondo vari studi da 1 su 6.000 a 1 su 20.000 neonati all’anno. L’atrofia muscolare spinale rappresenta il secondo disordine neuromuscolare più frequente in età pediatrica. L’incidenza complessiva di tutte le forme di SMA è attualmente stimata essere di 1/10000 nati vivi. La prevalenza delle forme di SMA tipo II e III è stimata essere compresa tra 40 casi/milione di bambini e 12 casi/milione nella popolazione generale. In Italia, tuttavia, esistono regioni dove la diffusione della malattia conosce punte massime e queste medie vengono totalmente stravolte. I pazienti richiedono spesso un approccio multidisciplinare a causa della complessità del quadro clinico.

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Quali sono i sintomi ed i segni dell’Atrofia muscolare spinale?
I sintomi e segni dell’Atrofia muscolare spinale sono molti; alcuni di essi sono tipici, ma non esclusivi, del Atrofia muscolare spinale.

  • Artrogriposi (rigidità articolare presente già alla nascita in diversi distretti anatomici);
  • astenia (mancanza di forza);
  • paralisi muscolare;
  • ipotrofia/atrofia muscolare;
  • crampi muscolari;
  • disfagia (difficoltà a deglutire ed al corretto transito del bolo nelle vie digestive superiori);
  • dispnea;
  • fascicolazione muscolare;
  • ipostenia;
  • ritardo di crescita;
  • scoliosi;
  • spasmi muscolari.

Quanti tipi esistono di Atrofia muscolare spinale?
La malattia può manifestarsi, in particolare, in tre forme principali:

1) Atrofia muscolare spinale di tipo I (malattia di Werdnig-Hoffmann): è la forma più grave; in questo caso, la malattia risulta sintomatica entro i primi 6 mesi di vita. I neonati affetti presentano ipotonia (frequentemente significativa fin dalla nascita), ritardo di sviluppo, iporeflessia, fascicolazioni linguali, marcate difficoltà di suzione e disturbi della deglutizione. La debolezza muscolare è quasi sempre simmetrica ed interessa prima gli arti prossimali, poi le estremità distali (mani e piedi). I pazienti con atrofia muscolare spinale di tipo I non sono in grado di sedere senza supporto e non raggiungono mai la deambulazione. Purtroppo un bambino affetto dal tipo I non è mai in grado neppure di reggere autonomamente la testa. Inoltre, durante il decorso della malattia, sono presenti segni gravi e progressivi di insufficienza respiratoria, la quale provoca il decesso tra il primo e il quarto anno di età. Può manifestarsi altresì una mancanza di movimenti fetali nei mesi finali di gravidanza (SMA zero)

2) Atrofia muscolare spinale di tipo II (forma intermedia): i sintomi si manifestano solitamente tra i 3 e i 15 mesi; alcuni bambini affetti acquisiscono la capacità di stare seduti, ma non riescono a camminare autonomamente. Questi pazienti presentano debolezza muscolare con flaccidità e fascicolazioni, mentre i riflessi osteotendinei sono assenti. Inoltre, possono svilupparsi disfagia e complicanze respiratorie. La progressione della malattia può arrestarsi, lasciando il bambino con una debolezza muscolare permanente e una grave scoliosi.

3) Atrofia muscolare spinale di tipo III (malattia di Wohlfart-Kugelberg-Welander): rappresenta la forma meno grave; si manifesta solitamente tra i 15 mesi e i 19 anni. I segni sono simili a quelli riscontabili nella forma di tipo I, ma la progressione è più lenta e l’aspettativa di vita è più lunga o addirittura normale (quest’ultima dipende dall’eventuale sviluppo di complicanze respiratorie). La perdita di forza simmetrica e l’atrofia progrediscono dalle regioni prossimali a quelle distali e sono più evidenti a livello degli arti inferiori, insorgendo a livello dei muscoli quadricipiti e dei flessori dell’anca. Le braccia vengono colpite più tardivamente.

4) Atrofia muscolare spinale di tipo IV (età adulta): normalmente in questa forma di SMA i sintomi iniziano a manifestarsi dopo i trentacinque anni. Molto raramente l’Atrofia muscolare spinale si manifesta fra i diciotto e i trent’anni. La SMA adulta si caratterizza per un inizio insidioso e una lenta progressione. I muscoli bulbari, che si utilizzano per la deglutizione e per la funzione respiratoria, raramente vengono colpiti nel tipo IV.

Come si fa la diagnosi di Atrofia muscolare spinale?
La diagnosi si basa sulla valutazione clinica e può essere confermata dall’analisi genetica.

Quali cure esistono per l’Atrofia muscolare spinale?
Purtroppo, allo stato attuale della ricerca, non esiste una cura, anche se numerosi sono gli studi clinici che stanno cercando una soluzione definitiva. Sono in corso diversi trials con farmaci atti al potenziamento della forza muscolare che stanno avendo discreti risultati. In passato sono state già provate diverse terapie che prevedano la somministrazione di farmaci, ma studi approfonditi hanno dimostrato la non validità per le forme sia di tipo II che di tipo III. Sono state effettuate promettenti ricerche sull’uomo con l’uso della leuroprelina; inoltre due ricerche sperimentali su modelli in vitro ipotizzano l’uso della tetraciclina.
Il trattamento è di supporto e si basa su un approccio multidisciplinare finalizzato a migliorare la qualità della vita. Questo può prevedere fisioterapia, ventilazione assistita e gastrostomia. Talvolta è necessario ricorrere all’intervento chirurgico per eliminare una grave contrattura di uno o più muscoli.

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Qual è l’aspettativa di vita per i pazienti con Atrofia muscolare spinale?
La prognosi è strettamente correlata al tipo di Atrofia muscolare spinale.

  • La SMA I porta a decesso del paziente tra il primo ed il quarto anno di vita ma in rarissimi casi la malattia regredisce spontaneamente.
  • La SMA II riduce di qualche anno l’aspettativa di vita dei pazienti rispetto agli individui sani.
  • La SMA III e la SMA IV non riducono significativamente l’aspettativa di vita.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo

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Depressione maggiore e minore, suicidio, diagnosi e cura: fai il test e scopri se sei a rischio

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma DEPRESSIONE MAGGIORE MINORE SUICIDIO TEST CURA   Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari.jpgQuante volte, nella nostra vita, in un periodo triste abbiamo detto “sono depresso”? La realtà è che la depressione, nelle sue varie forme, è qualcosa di completamente diverso alla “semplice” tristezza: è il non provare più piacere, il sentirsi inutili, la fine di ogni speranza, il non vedere vie di uscita se non – a volte – addirittura il suicidio. Nel depresso non c’è bisogno che arrivi la sera per sentirsi avvolto dalle tenebre.

Cos’è la depressione maggiore?

La depressione maggiore (anche chiamata “depressione endogena” o “depressione unipolare” o “disturbo depressivo maggiore”) è un disturbo psichiatrico che appartiene al gruppo dei disturbi dell’umore, che colpisce ogni anno circa il 5% della popolazione, in particolare le donne tra i 30 ed i 40 anni, e può avere gravi conseguenze sulla qualità della vita di un individuo. Il disturbo depressivo maggiore si manifesta in prevalenza nel sesso femminile, con un rapporto di circa 2:1 rispetto al sesso maschile L’Organizzazione Mondiale della Sanità valuta la depressione maggiore come uno dei disturbi più invalidanti al mondo. Diversamente da una normale sensazione di tristezza o di un passeggero stato di cattivo umore, la depressione maggiore presenta caratteristiche di persistenza e può interferire pesantemente sul modo di pensare di un individuo, sul suo comportamento, sulle condizioni dell’umore, sull’attività ed il benessere fisico. Una considerevole parte (oltre la metà) di coloro che sono stati colpiti da un primo episodio di depressione potranno presentare altri episodi depressivi durante il resto della vita. Alcune persone sono colpite da più episodi durante l’anno; in questo caso si parla di depressione ricorrente. Qualora non vengano curati, gli episodi di depressione possono durare dai sei mesi a un anno. La Depressione Maggiore è solo una delle varie forme di disturbo depressivo. Altre forme di depressione sono la distimia (depressione minore), e la depressione bipolare (che è poi la fase depressiva del disturbo bipolare, anche chiamato disturbo maniaco-depressivo). Il disturbo depressivo maggiore è stato inserito nel 1980 all’interno del DSM-III, il Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali. La depressione maggiore è inserita anche nella quinta e più recente edizione del DSM (il DSM-5).

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Cos’è la depressione minore?

La depressione minore, o distimia o ancora disturbo distimico, è un disturbo cronico caratterizzato dalla presenza di umore depresso che persiste per la maggior parte del giorno ed è presente nella maggior parte dei giorni. Secondo la quarta e penultima edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-IV) le più caratteristiche manifestazioni del disturbo erano sentimenti di inadeguatezza, colpa, irritabilità e rabbia; ritiro sociale; perdita di interesse, inattività e mancanza di produttività. Il termine “distimia”, indicativo “di cattivo umore”, fu introdotto nel 1980 e modificato in disturbo distimico nel DSM-IV. Prima del 1980, la maggior parte dei pazienti ora classificati come affetti da disturbo distimico era classificata come affetta da nevrosi depressiva (detta anche depressione nevrotica). Il disturbo distimico è comune nella popolazione generale e colpisce il 3-5% di tutti gli individui. II disturbo distimico è più frequente tra le persone non sposate e giovani e in quelle a basso reddito. Inoltre, il disturbo distimico spesso coesiste con altri disturbi mentali, soprattutto il disturbo depressivo maggiore, i disturbi d’ansia (in particolare quello da attacchi di panico), l’abuso di sostanze e probabilmente il disturbo borderline di personalità.
I criteri diagnostici del DSM per il disturbo distimico richiedono la presenza di umore depresso per la maggior parte del tempo per almeno due anni. Perché i criteri diagnostici siano soddisfatti, il soggetto non dovrebbe presentare sintomi me­glio classificabili come disturbo depressivo maggiore. Il paziente non dovrebbe aver mai avuto un episodio maniacale o ipomaniacale.
II disturbo distimico è un disturbo cronico caratterizzato non da episodi di malattia, ma piuttosto dalla costante presenza dei sintomi. Tuttavia, il paziente con disturbo distimico può presentare alcune variazioni temporali nella gravità dei sintomi. Gli stessi sintomi sono simili a quelli del disturbo depressivo maggiore e la presenza di umore depresso – cioè il sentirsi triste, giù di corda, il vedere tutto nero e la mancanza di interesse nelle abituali attività – è un aspetto centrale del disturbo. La gravità dei sintomi depressivi nel disturbo distimico è di solito minore che nel disturbo depressivo maggiore, ma è la mancanza di episodi discreti a far pesare la bilancia a favore della diagnosi di disturbo distimico.
I pazienti con disturbo distimico possono spesso essere sarcastici, nichilisti, meditabondi, esigenti e reclamanti; possono essere tesi e rigidi e resistenti nei confronti degli interventi terapeutici, pur presentandosi regolarmente agli appuntamenti. Come risultato, il medico può provare rabbia nei confronti del soggetto e persino trascurarne le lamentele. Per definizione le persone con disturbo distimico non hanno sintomi psicotici.
I sintomi associati comprendono alterazioni dell’appetito e del sonno, ridotta autostima, perdita di energia, rallentamento psicomotorio, ridotta pulsione sessuale e preoccupazione ossessiva per i problemi di salute.
Una difficoltà nei rapporti sociali è talora la ragione per cui i pazienti con disturbo distimico cercano una cura. In effetti divorzio, disoccupazione e problemi sociali sono comuni in questi pazienti. Essi possono lamentarsi di avere difficoltà di concentrazione e riferire che le loro prestazioni scolastiche o lavorative sono scadenti. Lamentandosi di essere malati fisicamente, i pazienti possono perdere giorni di lavoro e appuntamenti sociali. I soggetti con disturbo distimico possono avere problemi coniugali derivanti da disfunzioni sessuali (ad esempio impotenza) o dall’incapacità di mantenere l’inti­mità emotiva.
Depressione doppia: il 40% circa dei soggetti con disturbo depressivo maggiore soddisfa anche i criteri per disturbo distimico. Questa combinazione di disturbi viene spesso definita depressione doppia. I dati disponibili sostengono la conclusione che i pazienti con depressione doppia hanno una prognosi peggiore di quelli con solo disturbo depressivo maggiore. Il trattamento dei casi di depressione doppia dovrebbe essere diretto verso entrambi i disturbi, poiché la risoluzione dei sintomi di un disturbo depressivo maggiore in tali pazienti li lascia ancora con un significativo problema psichiatrico.

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Differenze tra i vari tipi di depressione

Il disturbo depressivo minore è caratterizzato da episodi di sintomi depressivi meno gravi di quelli osservati nel disturbo depressivo maggiore. La differenza fra disturbo distimico e disturbo depressivo minore è legata principalmente alla natura episodica dei sintomi nel secondo. Fra un episodio e l’altro, i pazienti con disturbo depressivo minore hanno infatti umore eutimico, mentre quelli con disturbo distimico non hanno praticamente periodi eutimici.

Cause

Possibili cause di depressione maggiore e minore, sono:

1) Eventi della vita e stress ambientali. Un’osservazione clinica di vecchia data che è stata replicata è che eventi stressanti della vita molto più spesso precedono i primi episodi di disturbo dell’umore rispetto a episodi successivi. Questa associazione è stata riportata per pazienti sia con disturbo depressivo maggiore sia con disturbo bipolare I. Una teoria proposta per spiegare questa osservazione è che lo stress che accompagna il primo episodio determini alterazioni durature nella biologia del cervello. Tali alterazioni perduranti possono risultare in cambiamenti nello stato funzionale dei vari neurotrasmettitori e dei sistemi intraneuronali e possono anche includere la perdita di neuroni e una riduzione eccessiva nei contatti sinaptici. Il risultato netto di questi cambiamenti è che essi aumentano nella persona il rischio di manifestare episodi successivi di un disturbo dell’umore, anche in assenza di un evento stressante esterno. Da una prospettiva psicodinamica, il medico è sempre interessato al significato del fattore stressante. La ricerca ha dimostrato che il fattore stressante percepito dal paziente come maggiormente condizionante in modo negativo l’autostima più probabilmente produce depressione. Inoltre quello che può sembrare un fattore stressante relativamente lieve a persone esterne può essere devastante per il paziente a causa dei significati particolarmente idiosincrasici connessi all’evento. Alcuni medici sono assolutamente convinti che gli eventi della vita giochino un ruolo primario o principale nella depressione; altri suggeriscono che abbiano solo un ruolo limitato nell’esordio e nella cadenza degli episodi depressivi.
I dati più significativi mostrano che l’evento vitale più frequentemente associato al successivo sviluppo di depressi­ne è la perdita di un genitore prima dell’età di 11 anni. Lo stress ambientale maggiormente associato all’esordio di un episodio depressivo è la perdita del coniuge.

2) Famiglia. Molti articoli teorici e molte segnalazioni aneddotiche riguardano la relazione fra il funzionamento della famiglia e l’inizio o il decorso di un disturbo dell’umore, in particolare il disturbo depressivo maggiore. Numerosi dati mostrano che la psicopatologia osservata nella famiglia durante il periodo in cui il paziente identificato è stato trattato tende a rimanere anche dopo che il soggetto si è rimesso. Inoltre, il grado di psicopatologia nella famiglia può condizionare il tasso di recupero, la ricomparsa dei sintomi e l’adattamento del paziente dopo il recupero. Dati clinici e aneddotici sostengono l’importanza di valutare la vita familiare di un individuo e di prendere in esame tutti gli eventi stressanti riconosciuti come correlati alla famiglia.

3) Fattori della personalità premorbosaNessun tratto singolo e nessun tipo di personalità predispone da solo un soggetto alla depressione; tutti gli esseri umani, con qualunque personalità, possono diventare e in effetti divengono depressi in circostanze appropriate. Tuttavia alcuni tipi di personalità – dipendenti, ossessivo-compulsivi e isterici – possono avere un maggiore rischio di depressione rispetto a tipi di personalità antisociale, paranoide o altri tipi che possono utilizzare la proiezione e altri meccanismi difensivi di estemalizzazione per proteggere se stessi dalla rabbia interna. Nessuna evidenza indica che un particolare disturbo di personalità sia associato allo sviluppo successivo di un disturbo bipolare I, ma quelli con disturbo distimico e ciclotimico hanno un rischio maggiore di sviluppare successivamente un disturbo bipolare I.

Sintomi

I sintomi principali della depressione maggiore e minore, sono:

  • un persistente umore triste o irritabile;
  • importanti variazioni nelle abitudini del dormire (insonnia e altri disturbi del sonno), dell’appetito e del movimento;
  • difficoltà nel pensare, della concentrazione, e della memoria;
  • mancanza di interesse o piacere nelle attività che invece prima interessavano;
  • sentimenti di colpa, di inutilità, mancanza di speranze e senso di vuoto;
  • pensieri ricorrenti di morte o di suicidio;
  • sintomi fisici persistenti che non rispondono alle cure come mal di testa, problemi di digestione, dolori persistenti e generalizzati.

Non tutti questi sintomi possono essere presenti contemporaneamente.

Come si manifesta la depressione?

E’ raro che una persona depressa abbia contemporaneamente tutti i sintomi riportati precedentemente, ma se soffre quotidianamente dei primi due sintomi su descritti e di almeno altri tre è molto probabile che abbia un disturbo depressivo.
Spesso la depressione si associa ad altri disturbi, sia psicologici (frequentemente di ansia) sia medici. In questi casi la persona si deprime per il fatto di avere un disturbo psicologico o medico. 25 persone su 100 che soffrono di un disturbo organico, come il diabete, la cardiopatia, l’HIV, l’invalidità corporea fino ad arrivare ai casi di malattie terminali, si ammalano anche di depressione. Purtroppo la depressione può portare ad un aggravamento ulteriore, dato che quando si è depressi si ha difficoltà a collaborare nella cura, perché ci si sente affaticati, sfiduciati, impotenti e si ha una scarsa fiducia di migliorare. Inoltre, la depressione può complicare la cura anche per le conseguenze negative che può avere sul sistema immunitario e sulla qualità di vita già compromessa dalla malattia medica.
I sintomi depressivi possono alternarsi, e a volte presentarsi in contemporanea, a sintomi di eccitamento (euforia, irritazione, impulsività, loquacità, pensieri veloci che si accavallano e a cui è difficile stare dietro, sensazioni di grandiosità, infinita potenzialità personale o convinzioni di essere perseguitati). In questo caso si tratta di episodi depressivi o misti all’interno di un disturbo bipolare dell’umore.

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Decorso e conseguenze della depressione

La depressione è un disturbo spesso ricorrente e cronico. Chi si ammala di depressione può facilmente soffrirne più volte nell’arco della vita. Mentre nei primi episodi l’evento scatenante è facilmente individuabile in un evento esterno che la persona valuta e sente come perdita importante e inaccettabile, nelle ricadute successive gli eventi scatenanti sono difficilmente individuabili perché spesso si tratta di eventi “interni” all’individuo come un normale abbassamento dell’umore, che per chi è stato depresso già diverse volte è preoccupante e segnale di ricaduta.
Il disturbo depressivo può portare a gravi compromissioni nella vita di chi ne soffre. Non si riesce più a lavorare o a studiare, a iniziare e mantenere relazioni sociali e affettive, a provare piacere e interesse nelle attività. 15 persone su 100 che soffrono di depressione clinica grave muoiono per suicidio. Più giovane è la persona colpita, più le compromissioni saranno gravide di conseguenze. Per esempio un adolescente depresso non riesce a studiare e ad avere relazioni, e quindi non riesce a costruire i mattoni su cui costruire il proprio futuro.

Diagnosi

Secondo la quanti a più recente edizione del Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali (DSM-5), per poter stabilire una diagnosi di depressione maggiore, devono essere presenti almeno cinque dei seguenti sintomi:

  • perdita di interesse e piacere nel fare qualsiasi cosa;
  • agitazione psicomotoria o rallentamento psicomotorio;
  • difficoltà nel pensare e restare concentrati, oppure patologica indecisione;
  • stanchezza cronica;
  • umore depresso (ad esempio sentire di non avere un futuro, essere tristi, vuoti, senza speranza);
  • significativa perdita di peso o aumento di peso;
  • sentimenti di indegnità o sensi di colpa eccessivi o inappropriati;
  • ricorrenti pensieri di morte o di suicidio oppure reali tentativi di suicidio.

Per raggiungere una diagnosi, almeno uno dei sintomi sopra elencati deve essere umore depresso o perdita di interesse nel fare qualsiasi cosa.

Terapie

Come si cura la depressione? Esistono varie terapie disponibili. Le principali cure sono rappresentate da farmaci e psicoterapia, che agiscono in sinergia tra loro.

Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

La psicoterapia Cognitivo-Comportamentale (TCC): ha mostrato scientificamente una buona efficacia sia sui sintomi acuti che sulla ricorrenza. A volte è necessario associare la TCC ai farmaci antidepressivi o ai regolatori dell’umore, soprattutto nelle forme moderate-gravi. L’associazioni della Terapia Cognitivo-Comportamentale e i farmaci aumentano l’efficacia della cura. Nel corso della Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale la persona viene aiutata a prendere consapevolezza dei circoli viziosi che mantengono e aggravano la malattia e a liberarsene gradualmente attraverso la riattivarsi del comportamento e l’acquisizione di modalità di pensiero e di comportamento più funzionali. Inoltre, dal momento che la depressione è un disturbo ricorrente, la TCC prevede una particolare attenzione alla cura della vulnerabilità alla ricaduta. Per far questo utilizza anche specifici protocolli, come la Schema-Therapy, il lavoro sul Benessere Psicologico e la Mindfulness.

Farmaci

I primi farmaci antidepressivi furono scoperti verso la metà degli anni Cinquanta. Da allora numerosi sono stati gli antidepressivi immessi nel mercato. Non tutti hanno avuto successo, alcuni hanno resistito all’arrivo dei nuovi farmaci, altri sono usciti dal commercio perché o poco efficaci di per sé o perché surclassati dai nuovi arrivati o perché gravati da maggiori effetti collaterali. Generalmente gli antidepressivi si suddividono in gruppi in funzione della struttura chimica o del/i neuromediatore/i su cui agiscono. Ecco alcuni farmaci usati in caso di depressione:

  • gli inibitori delle monoaminoossidasi o I-MAO,
  • gli antidepressivi triciclici o TCA,
  • gli antidepressivi Atipici,
  • inibitori selettivi del reuptake di uno o più neuromediatori:
  • gli SSRI: serotonin selective reuptake inhibitors,
  • i NaRI: noradrenalin reuptake inhibitors,
  • gli SNRI: serotonin-noradrenalin reuptake inhibitors,
  • i NaSSA: noradrenergic and specific serotonergic antidepressants, modulatori della trasmissione serotoninergica e noradrenergica.

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Come può una sostanza chimica modificare emozioni e sentimenti?

Per comprendere come delle sostanze chimiche possano agire sulle emozioni e sui sentimenti è necessario fare una breve premessa sul funzionamento del cervello . Le cellule che consentono il funzionamento del cervello sono i neuroni, delle cellule specializzate nella trasmissione degli impulsi. I neuroni sono collegati tra loro a formare dei circuiti deputati prevalentemente a specifiche funzioni (sensazioni, movimento, emozioni/sentimenti, integrazione di esperienze diverse, funzioni vegetative, ecc.). Il sistema che si attiva quando il soggetto prova delle emozioni o agisce sotto la spinta delle emozioni è il sistema limbico. In condizioni di normale equilibrio, i neuroni di questo sistema controllano l’umore, l’iniziativa, la volontà, ecc. in risposta a stimoli provenienti dall’esterno e dall’interno del nostro organismo. Quando questo equilibrio si altera per qualsiasi ragione, interna o esterna, i neuroni non riescono più a comunicare tra loro in maniera efficiente perché i neuromediatori che consentono il passaggio dello stimolo tra i neuroni sono ridotti e/o è alterata la sensibilità dei rispettivi recettori. È così che compaiono i sintomi dei disturbi dell’umore. Nel caso si sviluppi la malattia, queste alterazioni tendono a stabilizzarsi e richiedono, perciò, un intervento terapeutico per essere riportate al normale funzionamento. Se è l’alterazione dei neuromediatori, ed in particolare di Noradrenalina, Serotonina e Dopamina, alla base dell’alterato funzionamento del sistema limbico e quindi del disturbo dell’umore, è ipotizzabile che normalizzando questi neuromediatori si possa ripristinare il funzionamento del sistema e riportare così l’umore al suo normale equilibrio.

Farmaci antidepressivi: quali i rischi?

Gli antidepressivi comportano – in varia misura – effetti indesiderati e rischi: in linea generale, la tollerabilità e la sicurezza di questi farmaci sono molto migliorate passando da quelli di prima generazione a quelli ad attività selettiva su specifici neuromediatori.

  1. Gli I-MAO comportano interazioni anche gravi se assunti assieme a determinati farmaci o alimenti; questo li rende farmaci da usare con molta cautela ed in pazienti che garantiscano (magari anche con l’aiuto dei familiari) il massimo rispetto delle regole alimentari e/o terapeutiche.
  2. I TCA sono farmaci gravati da numerosi effetti indesiderati, generalmente sgradevoli ma non pericolosi; gli elementi più critici, nel trattamento normale, sono rappresentati dal glaucoma ad angolo chiuso, dall’ipertrofia prostatica, dall’infarto miocardico recente e dai disturbi della conduzione cardiaca che possono aggravarsi provocando situazioni di rischio. I problemi maggiori sono legati all’overdose (accidentale o a scopo suicidario), che può risultare letale, ed all’associazione con gli I-MAO.
  3. Gli Antidepressivi Atipici si pongono, in generale, un gradino al di sopra rispetto ai TCA per tollerabilità e sicurezza (con le dovute eccezioni, danno meno effetti indesiderati e sono meno pericolosi anche nell’overdose (ma sono, forse, anche un po’ meno efficaci) e mantengono l’incompatibilità con gli I-MAO.
  4. Gli inibitori selettivi del reuptake sono molto più sicuri in caso di overdose, ma rimane la possibilità di effetti negativi, come la sindrome serotoninergica (una condizione tossica iperserotoninergica, la cui causa più comune è l’interazione tra agenti serotoninergici, come gli SSRI ed i TCA, e gli I-MAO).
  5. Degli SSRI (e di alcuni di essi in particolare) si è parlato, anche del tutto recentemente, come di farmaci potenzialmente capaci di indurre il suicidio in alcuni casi specifici. Generalmente, i principali effetti collaterali indotti dagli inibitori selettivi del riassorbimento della serotonina sono: nausea, diarrea, agitazione, ansia, insonnia e disfunzioni della sfera sessuale.

Test di autovalutazione della depressione

Per una valutazione iniziale, potete eseguire un test per valutare in modo autonomo la possibile presenza di una depressione, fermo restando che la diagnosi vera e propria spetta solo al medico. Per fare il test, scarica questo pdf e segui le istruzioni: test-di-autovalutazione-della-depressione-zung

Se hai spesso idee suicidarie, non riesci a trovare una “via d’uscita” ai tuoi problemi o credi di soffrire di depressione, prenota la tua visita e, grazie ad una serie di colloqui riservati, ti aiuterò a risolvere definitivamente il tuo problema.

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Com’è fatto il cervello, a che serve e come funziona la memoria?

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma COME FATTO CERVELLO SERVE FUNZIONA MEMORIA Riabilitazione Nutrizionista Medicina Estetica Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Linfodrenaggio Pene.jpgIl cervello è l’organo più importante del sistema nervoso centrale (SNC), presente in tutti gli animali a simmetria bilaterale, compreso ovviamente l’uomo.

A che serve il cervello?

Il cervello controlla tutte le funzioni del nostro corpo; quelle che permettono di restare in vita, poi le attività psichiche, motorie e sensoriali. Molte di queste funzioni sono sotto il controllo della volontà, mentre altre sono del tutto “autonome” (respiro, battito cardiaco, attività digestive ecc.). Nell’essere umano, inoltre, il cervello è la sede di funzioni cosiddette “superiori”, come il pensiero, il linguaggio, l’apprendimento ecc. Le funzioni “volontarie” del cervello si dividono in tre gruppi: quelle motorie (come camminare, deglutire, afferrare), quelle sensitive (cioè legate ai 5 organi di senso) e quelle cognitive (linguistiche, mnemoniche, logiche e di giudizio). Fra tutte le funzioni cognitive quelle più soggette all’invecchiamento sono quelle legate alla memoria.

Leggi anche: Sistema nervoso: com’è fatto, a che serve e come funziona

Quanto pesa un cervello?

Il peso è piuttosto variabile, normalmente non supera i 1500 grammi ed ha un volume compreso tra i 1100 e i 1300 cm³, tenendo presente la possibilità di significative variazioni tra individuo e individuo oltre al sesso (il cervello maschile è mediamente più grande di quello femminile) ed ovviamente all’età.

Qual è la differenza tra cervello ed encefalo?

L’encefalo (dal greco ἐγκέφαλος, enképhalos, “dentro la testa”, composto di ἐν, en, “in” e κεϕαλή, kephalè, “testa”) è quella parte del sistema nervoso centrale (SNC) completamente contenuta nella scatola cranica e divisa dal midollo spinale. L’encefalo è composto da tre parti:

  • tronco encefalico (diviso in bulbo, ponte e mesencefalo);
  • cervelletto;
  • cervello.

Da ciò si intuisce come l’encefalo sia la parte del SNC che è nel cranio, mentre il cervello è una parte dell’encefalo stesso.

Leggi anche: Tronco cerebrale (mesencefalo, ponte e bulbo) anatomia e funzioni in sintesi

Com’è fatto un cervello?

Il cervello è diviso in due parti:

  • Telencefalo (la porzione più superficiale dell’encefalo, costituito dagli emisferi cerebrali e dai nuclei della base. Il telencefalo è estremamente sviluppato e può essere suddiviso in quattro aree o lobi: lobo frontale, lobo parietale, lobo occipitale, lobo temporale. Il telencefalo include anche la corteccia cerebrale che è importantissima a livello funzionale essendo sede delle “funzioni cerebrali superiori”, quali il pensiero e la coscienza.
  • Diencefalo: posto internamente alla sostanza bianca telencefalica, è costituito da cinque porzioni (talamo, epitalamo, metatalamo, ipotalamo, subtalamo) strutturalmente e funzionalmente legate ai nuclei della base. Si trova in continuazione, caudalmente, con il mesencefalo tramite i due peduncoli cerebrali.

Leggi anche: Cervello maschile e femminile: quali sono le differenze?

Cos’è la “plasticità cerebrale”?

Il cervello possiede una proprietà straordinaria, chiamata “plasticità cerebrale”. Si tratta della capacità di modificare la propria struttura e la propria funzionalità in base all’attività dei neuroni e di rispondere all’esperienza o di essere addirittura modificato da quest’ultima. Nei primi tre anni di vita la plasticità cerebrale è altissima, ma anche il cervello adulto, sulla base delle ultime scoperte scientifici che, è in grado di rimodellarsi continuamente sulla base delle nuove esperienze, formando nuovi circuiti sinaptici o ristrutturando gli esistenti. Oggi sappiamo infatti che il cervello dell’uomo non è una struttura rigida e determinata dalla nascita ma può ancora crescere e cambiare la sua struttura fisica anche in età adulta. E siamo proprio noi, con le nostre abitudini di vita e le esperienze, a forgiare la nostra mente in un modo piuttosto che in un altro.

Leggi anche: Mark Sloan e il recupero fittizio: il mistero del cervello pochi attimi prima di morire

Cos’è la memoria?

La memoria è una delle funzioni principali del cervello. Essa consiste nella capacità di immagazzinare, mantenere e richiamare determinate informazioni. L’encefalo è in grado di elaborare impressioni figurate, verbalizzare quanto appreso e associarlo a informazioni precedenti. Maggiori sono le possibili associazioni, più è facile ricordare per tempi più lunghi quanto appreso.

Vari tipi di memorie

Classicamente si distinguono vari tipi di memoria. Uno dei criteri più frequentemente utilizzati è quello per cui, a seconda del carattere fugace o duraturo delle informazioni immagazzinate, si distinguono una memoria a breve termine (o immediata) e una memoria a lungo termine. La prima è quella che trattiene una bassa quantità di dati per pochi secondi o pochi minuti. La seconda invece consente di mantenere una maggiore quantità di informazioni per un periodo di tempo più duraturo (potenzialmente illimitato). Tutti hanno esperienze di memorie a lungo termine in cui i ricordi si associano a emozioni forti vissute in una determinata circostanza. Nella memoria a lungo termine si possono poi distinguere una memoria episodica che riguarda le esperienze personali o i ricordi e che dipende dal contesto, soprattutto affettivo, con cui sono state vissute e una memoria semantica che si riferisce ai ricordi dei fatti e alla conoscenza degli oggetti e del mondo (la cui rievocazione non riguarda il contesto spazio-temporale in cui queste informazioni sono state immagazzinate). Per esempio, ricordare che nell’estate di un tal anno siamo stati a Parigi riguarda la memoria episodica, ma sapere che Parigi è la capitale della Francia è conservato nella memoria semantica. Infine, con la memoria procedurale ci si riferisce alla capacità di ricordare una serie di movimenti che si compiono per svolgere un’azione automaticamente, senza averne una continua consapevolezza. Per esempio allacciarsi le scarpe, farsi il nodo alla cravatta ecc. Quest’ultima, a differenza delle altre due, è molto più resistente all’usura del tempo e al danno cerebrale. L’incapacità di ricordare si definisce invece “amnesia”. Si distinguono l’amnesia anterograda, quando non si riescono a immagazzinare nuovi dati dopo un trauma (per esempio uno shock psico- fisico, un lutto, un incidente) e l’amnesia retrograda quando non si ricordano più eventi accaduti immediatamente prima di un trauma (un fenomeno tipico degli incidenti e dei traumi cranici). Per approfondire, leggi anche:

Come funziona la memoria?

Nell’encefalo non esistono singole zone deputate alla memorizzazione dei singoli dati. Ogni informazione, infatti, viene distribuita attraverso un complesso di cellule deputate alla memorizzazione. Il funzionamento della memoria non è stato ancora del tutto chiarito: nuove memorie vengono immagazzinate all’interno di nuovi circuiti neuronali (ogni nuovo dato crea dei nuovi collegamenti nel nostro cervello). Continua la lettura con questo articolo: Come funziona la nostra memoria e come facciamo per aumentarla: guida per prendere trenta e lode agli esami universitari

Integratori per il cervello e la memoria

Prodotti ottimi per contrastare la stanchezza mentale e migliorare memoria e concentrazione, sono:

Per approfondire: Gli integratori per allenare il tuo cervello e sviluppare una memoria prodigiosa

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Dormire poco ti consuma il cervello ma correre te lo ricostruisce

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO SBADIGLIO NOIA SONNO DORMIREDormire troppo poco provoca la morte delle cellule cerebrali. Lo dicono i risultati di una ricerca condotta da un team di ricercatori della School of Medicine dell’Università della Pennsylvania, che ha condotto uno studio sugli effetti della deprivazione del sonno sui topi. E se le conclusioni degli scienziati americani dovessero valere anche per l’uomo, questo può significare una cosa sola, e cioè che è perfettamente inutile cercare di «recuperare il sonno perso» dopo un periodo particolarmente intenso.

Turni di notte e lavoro fino a tardi

La ricerca, pubblicata sul prestigioso Journal of Neuroscience e ripresa anche dalla BBC, potrebbe avere un’applicazione nel campo della farmacologia: potrebbe infatti nascere un farmaco in grado di «proteggere» il cervello dagli effetti della mancanza di sonno. Effetti che, almeno per quanto riguarda i topi, sono estremamente marcati: i roditori sono stati posti in un ambiente che replicava le cause tipiche della deprivazione di sonno, come i turni di lavoro notturni o, semplicemente, un sovraccarico di lavoro che, spesso, può obbligare chiunque a stare in ufficio fino a tardi. Dopo diversi giorni a questo ritmo – i topi potevano dormire solo quattro o cinque ore per notte – i roditori avevano perso il 25% delle cellule cerebrali, in gran parte appartenenti al tronco cerebrale.

Funziona così anche per gli umani?

Secondo i ricercatori si tratta di una prova evidentissima di come la mancanza di sonno porti alla perdita di cellule cerebrali: tuttavia sono necessari ulteriori studi per riuscire a stabilire se la deprivazione di sonno possa provocare gli stessi danni anche a un cervello umano. Danni che oltretutto sarebbero irreversibili, ma che non è detto si producano allo stesso modo anche sull’uomo, come sottolinea il professor Hugh Piggins della University of Manchester: «Gli autori hanno fatto un parallelismo tra i turni di lavoro notturni e la deprivazione da sonno e hanno concluso che la mancanza cronica di sonno può avere delle ripercussioni non soltanto sulla nostra salute fisica, ma anche su quella mentale – ha spiegato – Ma questa possibilità deve essere dimostrata da molte altre ricerche, nonostante sia fuori discussione che una buona igiene del sonno sia fondamentale per il benessere di una persona».

L’esercizio fisico “ricostruisce” il cervello

Dopo aver visto come il sonno “distrugge” il nostro cervello, passiamo ora alle buone notizie! Che l’esercizio fisico giovi non solo al corpo ma anche al cervello, grazie alla produzione di nuovi neuroni, è cosa nota. I ricercatori dell’Istituto di biologia cellulare e neurobiologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibcn-Cnr) di Roma hanno però dimostrato per la prima volta che la corsa è in grado di rallentare molto il processo di invecchiamento cerebrale e di stimolare la produzione di nuove cellule staminali, che migliorano le capacità mnemoniche. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Stem Cells.

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Il caffè aumenta la tua memoria

Per gli studenti universitari è un potente alleato nello studio, per chi è mattiniero è un aiuto per far cominciare bene la giornata, per chi lavora di notte è un amico insostituibile, per quasi tutti gli italiani è un rito, sto parlando del caffè. La caffeina in esso contenuto ha molte qualità e oggi un nuovo studio lo riconferma.

Leggi anche: Dieci buoni motivi per bere caffè

Caffè e memoria

Michael Yassa è un assistente universitario presso il Dipartimento di psicologia e neuroscienze della Johns Hopkins University. Ha appena riempito una tazza di caffè e seduto davanti a un camino ardente si accinge a berlo. «Da sempre sappiamo che la caffeina ha un effetto sul sistema cognitivo, ma non è mai stato dimostrato il suo effetto sulla memoria, la sua capacità di rinforzare i ricordi. Per la prima volta abbiamo dimostrato che la caffeina ha un effetto specifico nel ridurre le dimenticanze fino a 24 ore dopo la sua assunzione».

Leggi anche: Qual è l’orario migliore per bere il caffè?

L’esperimento

La ricerca condotta da Yassa e colleghi e pubblicata su Nature Neuroscience racconta come 150 persone – non regolari consumatori di prodotti contenenti caffeina – sono state sottoposte a uno studio in doppio-cieco, in cui la metà dei partecipanti ha ricevuto una tavoletta contenente 200 mg di caffeina (dose media consumata da un adulto, equivalente a circa una tazza di caffè forte) e l’altra metà un placebo, cinque minuti dopo aver visto una serie di immagini. Inoltre per valutare i livelli di caffeina di ciascun partecipante, sono stati prelavati dei campioni di saliva prima dell’assunzione della tavoletta, dopo una, tre e ventiquattro ore.

Leggi anche: La tazzina di caffè che ti salva dal suicidio

Gli effetti del caffè sulla memoria

Il giorno dopo a tutti partecipanti sono state mostrate altre immagini: alcune erano identiche a quelle viste il giorno prima, altre erano nuove, altre ancora simili ma non uguali a quella viste in precedenza. Gli è stato chiesto poi di individuare quali immagini avessero già visto durante il primo test: chi aveva assunto il prodotto con caffeina il giorno prima, è stato in grado più degli altri di distinguere le nuove immagini simili ma non identiche alle precedenti. La caffeina quindi secondo quanto affermano i ricercatori, è in grado di migliorare quello che gli scienziati chiamano il pattern separation, cioè la capacità del cervello di riconoscere la differenza fra due oggetti simili ma non identici. Un livello ancora più profondo della conservazione della memoria.

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La donna deve dormire più dell’uomo: il cervello di lei lavora più di quello di lui

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO SBADIGLIO NOIA DORMIRE LETTO SONNOMi dispiace per i colleghi maschi, ma sembra ormai provato dalla scienza che il cervello della donna lavori più di quello maschile ed è questo il motivo per cui, secondo il dott. Michael Breusun e il suo gruppo di ricercatori della Duke university nella Carolina del Nord, le donne hanno bisogno di più riposo per recuperare le energie che quotidianamente spendono nella loro abilità nel fare molte cose contemporaneamente. I risultati di tale studio sono stati pubblicati sulla rivista scientifica Science World Report.

Multitasking

Le donne sono nate per il multitasking. Che significa questo termine? In informatica, un sistema operativo con supporto per il multitasking permette di eseguire più programmi contemporaneamente, lo stesso termine, applicato ad una persona indica la capacità di svolgere più lavori in contemporanea, cosa in cui la donna è molto più brava di noi maschietti. Per i più convinti maschilisti si deve ricordare che anche qui la scienza (Gijsbert Stoet, ricercatore dell’università di Glasgow e Keith Laws dell’università di Hertfordshire) ha prodotto risultati abbastanza chiari: “gli uomini sono più lenti e meno organizzati delle donne quando devono passare rapidamente da un’attività a un’altra, almeno in certi casi”. Casi che, puntualizzano gli esperti, potrebbero includere anche tipiche attività da ufficio: inviare e-mail, rispondere a telefonate e incarichi assegnati, entrare e uscire dalle riunioni, il tutto contemporaneamente o quasi.

Leggi anche: Il cervello di un uomo? Fa bene solo una cosa alla volta

Sotto pressione

Ma c’è dell’altro: le donne sono più brillanti soprattutto quando si trovano sotto pressione, per esempio quando devono cercare velocemente qualcosa. “Sono più riflessive e organizzate, mentre gli uomini sono più impulsivi e alla fine si perdono”. Forse un retaggio dell’evoluzione, ipotizzano gli psicologi, dall’epoca in cui mentre il maschio era impegnato in “compiti lineari” come quello di uccidere una preda la donna già si destreggiava tra la cucina, la cura della casa e dei figli. “Se la donna non fosse stata multitasking fin dai tempi degli antenati cacciatori-raccoglitori, forse oggi non saremmo qui“, commentano gli scienziati.

Leggi anche: Sono più intelligenti gli uomini o le donne? Nuovi studi hanno decretato il vincitore

La donna senza sonno: maggiore rischio di depressione

Tornando al sonno, meccanismo naturale che consente a qualsiasi individuo, rallentandone i ritmi biologici, di recuperare le energie spese durante la giornata da corpo e cervello, per la donna la sua mancanza diventa particolarmente dannosa: per la parte psichica, può essere all’origine di depressioni e sbalzi d’umore, come ha riferito il dott. Michael Breusun in un intervista al The Australian. Ricordiamo inoltre che tutti gli studi del settore confermano che dormire meno ore di sonno del normale è un fattore di rischio per malattie cardiache, ictus, e riduzione delle difese immunitarie. Jim Horne, direttore del Sleep Research Centre della Loughborough University, sostiene che “il compito del sonno è di permettere al cervello di recuperare e autoripararsi“. Dunque, più viene utilizzato il cervello più è richiesto un certo numero di ore di sonno. Sicuramente sarà difficile per noi uomini accettare di lasciar riposare un po’ di più la propria compagna, dato che a tutti piace dormire tanto, ma se lo merita!

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