Tumore del colon retto: trattamento chirurgico, radioterapia e chemioterapia

Negli ultimi dieci anni, grazie alla disponibilità di programmi di prevenzione, procedure diagnostiche che consentono la diagnosi precoce. l’avvento di nuovi farmaci, nonché al perfezionarsi delle tecniche chirurgiche, i risultati del trattamento del tumore del colon retto sono migliorati significativamente e, di pari passo, è aumentata sensibilmente anche la sopravvivenza media del soggetti nei quali esso viene diagnosticato. I protocolli di trattamento del tumore del colon retto vengono stabiliti in base alla fase della malattia: iniziale o avanzata.

  • Il cancro del colon retto in fase iniziale è solitamente curabile con un intervento chirurgico e, nei casi nei quali il cancro è meno diffuso, l’intervento rappresenta la soluzione definitiva e non sono necessari altri trattamenti. A volte invece la terapia chirurgica è seguita da chemioterapia, così detta adiuvante, per evitare il rischio che alcune cellule tumorali rimaste dopo l’intervento formino un’altra lesione tumorale (recidiva tumorale).
  • Il tumore del colon in stadio avanzato è caratterizzato, al momento della prima diagnosi o in occasione di una recidiva, dalla presenza di metastasi ad un altro organo (solitamente il fegato), oppure è talmente esteso laddove si è sviluppato da rendere impossibile un intervento chirurgico curativo. I protocolli di trattamento del tumore in fase metastatica combinano quasi sempre più approcci:
  • chirurgia;
  • chemioterapia;
  • terapie biologiche;
  • radioterapia.

Il tumore del retto, a differenza di quello del colon che tende a metastatizzare a distanza, ha la tendenza, dopo resezione chirurgica curativa, a ripresentarsi nello stesso sito (recidiva locale).

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Chirurgia del tumore primitivo
La terapia dal cancro del colon retto in fase iniziale consiste nell’asportazione chirurgica del tratto intestinale interessato dal tumore. A differenza di quanto accadeva in passato, oggi, la chirurgia è molto più “conservativa”, vale a dire che tende a mantenere il più possibile intatta la funzione intestinale, e ha maggiori probabilità  di successo, grazie al fatto che la diagnosi è effettuata più precocemente. Circa l’80% dei pazienti con cancro del colon-retto si presenta alla diagnosi con malattia completamente operabile. Il trattamento chirurgico diventa meno conservativo e più aggressivo se il soggetto è ad alto rischio di recidiva. Il tumore primario viene rimosso insieme ai linfonodi che “vigilano” sul segmento di intestino colpito dal tumore, in quanto di deve valutare la presenza di cellule tumorali al loro interno. Nella figura in basso è riportato un esempio di tumore del colon (disegno a sinistra) e di tumore del retto (disegno a destra). La parte colorata di violetto in ciascun disegno è il tratto di intestino da rimuovere insieme ai relativi linfonodi, tramite intervento chirurgico. A volte, se la parte asportata è particolarmente estesa, vi è necessità  di un intervento ricostruttivo, con il quale si cerca di ottimizzare la funzione intestinale, nonostante l’assenza del tratto asportato.

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Insieme al tumore, devono essere rimossi chirurgicamente i linfonodi associati e gli organi o tessuti adiacenti L’intervento chirurgico rappresenta un momento particolarmente delicato.

Complicazioni, impossibilità di intervento e recidive
L’asportazione chirurgica di un tumore intestinale può purtroppo comportare varie complicazioni, fra le più frequenti quelle di tipo infettivo. Nel colon e nel retto c’è normalmente un gran numero di batteri. Tali batteri, che nell’intestino non creano danni ma anzi contribuiscono al suo funzionamento, se raggiungono altre parti dell’organismo possono dare luogo ad infezioni (sepsi). Dato che la resezione di tratti dell’intestino espone a questo rischio, per prevenire questa complicanza, prima dell’intervento si somministrano antibiotici. Anche se nell’80% dei pazienti non metastatici la chirurgia appare definitiva, l’intervento chirurgico non sempre rappresenta la soluzione del problema. Infatti, in alcuni casi la rimozione totale del tumore non risulta possibile a causa della sua posizione, inoltre, se dopo l’intervento rimangono alcune cellule cancerose che causano una ripresa di malattia a distanza di tempo, si deve ricorrere ad ulteriori trattamenti, solitamente necessari per circa quasi la metà dei pazienti operati.

Leggi anche: Stomie: cosa sono, a che servono, quanti tipi esistono?

Chirurgia palliativa nei pazienti terminali
La chirurgia del tumore primitivo, può essere effettuata anche con finalità  differenti dalla cura. In presenza di malattia metastatica molto progredita, senza speranza di cura, la rimozione chirurgica del tumore primitivo può essere effettuata lo stesso a scopo palliativo, cioè per alleviare i sintomi e prevenire o risolvere eventuali ostruzioni intestinali dovute alla sporgenza del cancro all’interno del lume. In tal modo si cerca di rendere la vita del paziente terminale, il più possibile dignitosa e meno dura da sopportare. Alcuni pazienti tuttavia, potrebbero non essere nelle condizioni adatte per affrontare un intervento chirurgico e le sue possibili complicanze, e quindi per essi purtroppo non è possibile adottare questa soluzione.

Mortalità
Per quanto riguarda la mortalità, nel 2002 in Italia si sono verificati 10.526 decessi per tumore del colon retto fra i maschi e 9.529 fra le donne.

Radioterapia
E’ più frequente l’utilizzo di radioterapia nel tumore del retto, piuttosto che del colon in cui se ne fa un limitato uso palliativo. Nel carcinoma del retto, le principali indicazioni all’impiego sono:

  • Trattamento neoadiuvante, per ridurre le dimensioni del tumore in stadio avanzato allo scopo di operarlo. L’intervento chirurgico avrà  finalità  curative.
  • Radioterapia adiuvante: per ridurre il rischio di recidiva locale e quindi prolungare la sopravvivenza dopo intervento chirurgico, eventualmente in associazione a chemioterapia,
  • Trattamento palliativo: per alleviare i sintomi in caso di recidiva di cancro del retto senza metastasi, ma non operabile.

Chemioterapia
La cura del cancro del colon-retto si può avvalere della chemioterapia già  a partire dallo stadio III, in associazione all’intervento chirurgico. In questo caso viene praticata, dopo l’intervento chirurgico, una chemioterapia adiuvante che ha lo scopo di diminuire il rischio di recidiva.

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Differenza tra controindicazioni ed effetti indesiderati

MEDICINA ONLINE FARMACO FARMACIA AEROSOL ASMA PHARMACIST PHOTO PIC IMAGE PHOTO PICTURE HI COMPRESSE INIEZIONE SUPPOSTA PER OS INTRAMUSCOLO PRESSIONE DIABETE CURA TERAPIA FARMACOLOGICA EFFETTI COLLATERALI CONTROINDICAZIONIAd alcuni potrebbe sembrare una domanda banale ma nessuna domanda è mai banale in medicina, specie quando si ha a che fare con i farmaci. Spieghiamo oggi in maniera semplice, la differenza tra le controindicazioni di un farmaco ed i suoi effetti collaterali.

Le “controindicazioni” (in inglese “contraindication“) sono tutte quelle circostanze che sconsigliano l’impiego di un farmaco in quanto aumentano il rischio nell’utilizzo di quel farmaco. Ad esempio ci sono tanti farmaci che sono controindicati in gravidanza perché possono avere effetti negativi sul bambino. O altro esempio è controindicato bere alcolici in caso di assunzione benzodiazepine. Le controindicazioni non valgono solo per i farmaci: ad esempio la gravidanza è una controindicazione relativa per l’uso diagnostica per immagini che usi raggi X, mentre il portare un pacemaker è una controindicazione assoluta per la risonanza magnetica. Leggi anche: Differenza tra controindicazione assoluta e relativa con esempi

Con “effetto collaterale di un farmaco” (anche chiamato “effetto indesiderato”, in inglese “side effect” o SE) si intende uno o più effetti non intenzionali che insorgano alle dosi normalmente impiegate nell’uomo e che siano connesso alle proprietà del farmaco, insomma un qualsiasi effetto non previsto o non desiderato (e non necessariamente nocivo) legato all’azione farmacologica di una sostanza terapeutica; tali effetti sono illustrati nel rispettivo foglietto illustrativo. Esempi classici di effetti collaterali sono: letargia, insonnia, cefalea e nausea. Alcuni effetti collaterali sono lievi e “banali”, mentre altri possono essere decisamente più gravi e pericolosi.

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Stenosi carotidea, placche, ictus cerebrale ed attacco ischemico transitorio (TIA)

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma STENOSI CAROTIDEA PLACCHE ICTUS TIA ATTA Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgPrima di iniziare la lettura, ti consiglio di leggere prima questo articolo: Carotide comune, interna, esterna: dove si trova ed a che serve

Le arterie carotidi sono flessibili e dotate di pareti interne lisce, tuttavia – a seguito di un processo chiamato aterosclerosi – le loro pareti possono tuttavia andare incontro ad un progressivo irrigidimento accompagnato dalla riduzione del lume interno; tale fenomeno è causato dal graduale accumulo di depositi (placche ateromatose) costituiti da grassi, proteine, tessuto fibroso ed altri detriti cellulari. Nel tempo, queste placche possono formare una grande massa che riduce il diametro interno dell’arteria, limitando il flusso sanguigno (si parla di stenosi carotidea). I depositi ateromasici si formano soprattutto nel seno carotideo, cioè a livello della biforcazione che divide l’arteria carotide comune in carotide interna ed esterna.
La malattia ostruttiva dell’arteria carotidea si sviluppa lentamente e spesso passa inosservata: il primo indizio della presenza dell’ateroma può essere già molto grave, come la comparsa di un ictus cerebrale o di un attacco ischemico transitorio (TIA).
Il trattamento della stenosi carotidea mira a ridurre il rischio che venga ridotto significativamente l’apporto di sangue al cervello, rimuovendo la placca ateromatosa e controllando la coagulazione del sangue (per prevenire l’ictus tromboembolico).

Nel caso abbiate legittimi sospetti che voi o un vostro caro siate stati colpiti da TIA o ictus o emorragia cerebrale, leggete immediatamente questo articolo per sapere cosa fare: Ictus, emorragia cerebrale cerebrale e TIA: cosa fare e cosa assolutamente NON fare

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Sintomi e segni

Nelle fasi iniziali, la malattia ostruttiva dell’arteria carotidea spesso non produce alcun segno o sintomo. La stenosi potrebbe rendersi evidente solo quando diviene abbastanza grave da privare il cervello di sangue, causando un ictus o un attacco ischemico transitorio (TIA), entrambi segno di allarme precoce per un futuro attacco apoplettico. Segni e sintomi di un attacco ischemico transitorio o di un ictus possono includere:

  • improvviso intorpidimento del volto o debolezza degli arti, spesso su un solo lato del corpo;
  • incapacità di spostare uno o più arti;
  • difficoltà a parlare e a comprendere;
  • improvvisa difficoltà nella visione, in uno o entrambi gli occhi;
  • vertigini e perdita di equilibrio;
  • un improvviso, forte mal di testa, senza causa nota.

Anche se i segni e sintomi durano solo poco tempo (talvolta, meno di un’ora) è possibile che il paziente abbia sperimentato un TIA. Se si verifica una qualsiasi di queste manifestazioni è importante cercare cure d’emergenza, per aumentare le possibilità che la malattia dell’arteria carotidea venga individuata e trattata tempestivamente, prima che si verifichi un ictus invalidante. Non è escluso che un TIA possa essere dovuto alla mancanza di flusso di sangue anche in altri vasi: il medico è in grado di stabilire quali test sono necessari per accertare la condizione.

Complicanze della stenosi carotidea

La complicanza più grave della malattia ostruttiva dell’arteria carotidea è l’ictus, in quanto può provocare danni permanenti al cervello e, nei casi più gravi, può essere fatale.
Ci sono tre diversi modi in cui la presenza di una placca ateromatosa aumenta il rischio che questo possa verificarsi:

  • Riduzione del flusso di sangue. A seguito dell’aterosclerosi, il lume della carotide può andare incontro ad una tale riduzione, che l’apporto di sangue non è sufficiente per raggiungere alcune parti dell’encefalo. L’ateroma può eventualmente occludere completamente l’arteria.
  • Rottura della placca. Un pezzo di placca ateromatosa può rompersi e staccarsi, viaggiando fino alle più piccole arterie nel cervello. Il frammento può rimanere bloccato in una di queste arterie cerebrali, creando un’ostruzione che blocca l’afflusso di sangue alla zona del cervello che il vaso sanguineo irrora.
  • Ostruzione da coagulo di sangue. Alcune placche sono inclini alla fessurazione e a deformare la parete dell’arteria. Quando questo accade, il corpo reagisce come ad una lesione, inviando localmente piastrine, per agevolare il processo di coagulazione. In questo processo, può svilupparsi un grande coagulo di sangue e bloccare o rallentare il flusso di sangue attraverso un’arteria carotidea o cerebrale, fino a provocare un ictus.

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Fattori di rischio

La combinazione di diversi fattori può aumentare il rischio di lesioni, la formazione di placche e l’insorgenza della stenosi carotidea sono:

  • Pressione alta. L’ipertensione arteriosa è un importante fattore di rischio per la malattia ostruttiva dell’arteria carotidea. Un eccesso di pressione sulle pareti delle arterie può indebolirle e renderle più vulnerabili ai danni.
  • Fumo. La nicotina può irritare il rivestimento interno delle arterie. Inoltre, aumenta la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna.
  • Età. Le persone anziane hanno più probabilità di essere colpite da stenosi carotidea, in quanto con l’età, le arterie tendono a essere meno elastiche.
  • Livelli anormale di grassi nel sangue. Alti livelli di lipoproteine €‹a bassa densità (LDL, il colesterolo “cattivo”) e di trigliceridi nel sangue, favoriscono l’accumulo di placche ateromatose.
  • Diabete. La patologia non solo influenza la capacità di gestire il glucosio in modo appropriato, ma anche la capacità di elaborare in modo efficiente i grassi, disponendo il paziente a maggior rischio di ipertensione e aterosclerosi.
  • Obesità. I chili in eccesso contribuiscono ad altri fattori di rischio, come l’ipertensione, le malattie cardiovascolari e il diabete.
  • Eredità. Se il paziente presenta una storia familiare di aterosclerosi o di malattia coronarica, presenta un rischio aumentato di sviluppare queste patologie.
  • Inattività fisica. La mancanza di regolare esercizio fisico predispone ad una serie di condizioni, tra cui l’ipertensione, il diabete e l’obesità.

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Diagnosi

Oltre a considerare l’anamnesi completa, la presenza di fattori di rischio ed eventuali segni o sintomi, il medico può effettuare diversi test per valutare la salute delle arterie carotidi:

  • Esame obiettivo. Il medico può auscultare la carotide posizionando uno stetoscopio a livello del collo, per rilevare suono simile ad un “risucchio”, caratteristico del flusso sanguigno turbolento causato dall’aterosclerosi. Il medico può eseguire una valutazione neurologica per verificare lo stato fisico e mentale del paziente, come la capacità di resistenza, memoria e parola.

Uno o più test diagnostici possono essere eseguiti per valutare il restringimento di una carotide:

  • Ecografia Doppler: test non invasivo che si avvale di onde sonore riflesse per valutare il flusso di sangue attraverso il vaso sanguineo e verificare la presenza di una eventuale stenosi. La sonda ad ultrasuoni è collocata sul collo, a livello delle arterie carotidee. L’ecografia Doppler rivela come fluisce il sangue attraverso l’arteria e in che misura l’apporto è ridotto (stenosi carotidea minore 0-49%, moderata 50-69% e grave 70-99%, fino alla completa ostruzione).
  • Angio-CT (CTA): fornisce immagini dettagliate delle strutture anatomiche del collo e del cervello. L’indagine comporta l’iniezione di un agente di contrasto nel flusso sanguigno, in modo da evidenziare le anomalie di vasi sanguigni (tramite angiografia) e tessuti molli (mediante tomografia computerizzata). La CTA consente ai medici di visualizzare la carotide ristretta e determinare il grado patologico della stenosi.
  • Angiografia tramite risonanza magnetica (MRA): come la CTA, questo test di imaging utilizza un mezzo di contrasto, per evidenziare le arterie che irrorano il collo e l’encefalo. Il campo magnetico e le onde radio vengono utilizzate per creare immagini tridimensionali.
  • Risonanza magnetica (MRI): consente di visualizzare il tessuto cerebrale per evidenziare precocemente un ictus o altre anomalie.
  • Angiografia cerebrale: è un test minimamente invasivo che utilizza i raggi X e un agente di contrasto iniettato nelle arterie, attraverso un catetere infilato direttamente nelle carotidi. L’angiografia cerebrale consente ai medici di visualizzare in dettaglio tutte le arterie che irrorano l’encefalo.

L’imaging può anche rivelare le prove di molteplici attacchi ischemici transitori. I medici possono definire la diagnosi di stenosi carotidea, se le prove dimostrano che il flusso sanguigno è diminuito in una o entrambe le arterie carotidi.

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Trattamenti e farmaci

L’obiettivo dalla terapia è di ridurre il rischio di ictus. Le opzioni di trattamento per la stenosi carotidea variano a seconda della gravità del restringimento arterioso e se si verificano sintomi o meno (asintomatica).

Stenosi carotidea da lieve a moderata

  • Cambiare stile di vita. Cambiamenti nel comportamento possono aiutare a ridurre la pressione sulla carotide e rallentare la progressione dell’aterosclerosi. Tali cambiamenti includono smettere di fumare, perdere peso, bere alcol con moderazione, mangiare cibi sani, ridurre la quantità di sale e praticare regolare esercizio fisico.
  • Gestire le condizioni croniche. Con il medico è possibile stabilire un piano terapeutico per affrontare correttamente specifiche condizioni croniche, come la pressione alta, l’eccesso di peso o il diabete, che possono produrre effetti patologici anche sulle arterie carotidi.
  • Farmaci. I pazienti asintomatici o che presentano una stenosi carotidea di basso grado sono trattati con farmaci. Il medico può prescrivere un antiaggregante piastrinico (come aspirina, ticlopidina, clopidogrel), da assumere quotidianamente per fluidificare il sangue e prevenire la formazione di pericolosi coaguli di sangue. Possono essere raccomandati anche farmaci antipertensivi per controllare e regolare la pressione sanguigna (ACE-inibitori, bloccanti dell’angiotensina, beta-bloccanti, calcio-antagonisti ecc.) e delle statine per abbassare il colesterolo e contribuire a ridurre la formazione della placca nell’aterosclerosi. Le statine possono ridurre il colesterolo LDL “cattivo” in media del 25-30%, quando combinate con una dieta ipocalorica e a basso contenuto di colesterolo.

Grave ostruzione della carotide

Quando si dispone di una grave stenosi, soprattutto se il paziente ha già subito un TIA o un ictus correlato all’occlusione, è meglio procedere chirurgicamente ripulendo l’arteria dalla placca ateromatosa.

  • Endoarteriectomia carotidea. Questa procedura chirurgica è il trattamento più comune per rimuovere l’ateroma in presenza di un grave quadro clinico. L’intervento viene eseguito in anestesia generale. Dopo aver effettuato un’incisione lungo la parte anteriore del collo, il chirurgo apre l’arteria carotide colpita e rimuove la placca ateromatosa. L’arteria viene riparata con punti di sutura o, preferibilmente, con un innesto. L’endoarteriectomia carotidea è generalmente indicata per i pazienti sintomatici (ictus o TIA) e con un’ostruzione superiore al 50%. Si raccomanda anche per i pazienti che non hanno sintomi (asintomatici), con blocco superiore al 60%. Gli studi hanno dimostrato che, in caso di ostruzione moderata, la chirurgia apporta benefici duraturi ed aiuta a prevenire un eventuale ictus su un periodo di circa cinque anni. Un’endoarteriectomia carotidea non è raccomandata quando la posizione dell’ostruzione o del restringimento è di difficile accesso per il chirurgo o quando si dispone di altre condizioni di salute che rendono l’intervento chirurgico troppo rischioso. In questi casi, il medico può raccomandare una procedura chiamata angioplastica carotidea associata ad uno stenting.
  • Angioplastica carotidea e stenting. Il posizionamento di uno stent carotideo è una procedura meno invasiva rispetto all’endoarteriectomia carotidea, in quanto non comporta un’incisione nel collo. L’angioplastica carotidea con inserimento di uno stent permette di ottenere buoni risultati nel breve termine, ed è tipicamente indicata per pazienti che: 1) presentano un grado di stenosi carotidea moderato-grave; 2) soffrono di altre condizioni mediche che aumentano il rischio di complicanze chirurgiche; 3) manifestano una recidiva. Nell’angioplastica carotidea, un catetere viene infilato fino all’area carotidea ostruita nel collo. Un filtro appositamente progettato su un filo guida (chiamato dispositivo di protezione embolica) viene inserito per raccogliere eventuali detriti che possono staccarsi dalla placca durante la procedura. Una volta in posizione, viene gonfiato un piccolo palloncino all’estremità del catetere per alcuni secondi, allo scopo di aprire o allargare l’arteria. Uno stent viene inserito in modo permanente per costituire una impalcatura, che aiuti a sostenere le pareti delle arterie e a mantenere pervio il lume della carotide. Il palloncino viene poi sgonfiato ed il catetere e il filtro vengono rimossi. Dopo diverse settimane, l’arteria guarisce attorno allo stent. Come per l’endoarteriectomia carotidea, esistono alcuni rischi connessi alla procedura (ictus o decesso). Lo stenting sarà pertanto consigliato solo in caso di una grave stenosi.

Angioplastica carotidea Stent

Il recupero dalle procedure chirurgiche generalmente richiede una breve degenza in ospedale. I pazienti spesso ritornano alle normali attività entro una o due settiman. Dopo un’endoarteriectomia carotidea, la stenosi può recidivare ed è spesso correlata alla progressione della malattia aterosclerotica. Queste nuove placche possono essere trattate con la ripetizione dell’intervento chirurgico.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Tumore delle ghiandole salivari: sintomi, diagnosi e terapie

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Il tumore delle ghiandole salivari è piuttosto raro e rappresenta meno dell’1% di tutti i tumori umani, il 2% circa dei tumori testa-collo. Secondo le stime più recenti, in Italia è diagnosticato ogni anno un nuovo caso di tumore delle ghiandole salivari negli uomini ogni 100.000 abitanti e meno di uno (0,7) ogni 100.000 abitanti nelle donne. Può comparire a qualsiasi età, ma in genere è raro prima dei 40 anni e nella maggior parte dei casi si sviluppa dopo i 60 anni. Colpisce uomini e donne senza differenze sostanziali (si apprezza solo un lieve aumento di incidenza negli uomini in età più avanzata).

Chi è a rischio
Studiare i fattori di rischio per tumori così rari non è semplice, ma nel caso delle ghiandole salivari si pensa che l’esposizione a radiazioni della zona di testa e collo soprattutto in giovane età (magari per un precedente trattamento medico) possa aumentare il rischio di sviluppare il tumore. Anche alcune esposizioni professionali – che si verificano cioè sul luogo di lavoro – potrebbero aumentare il rischio: maggiormente indiziate le polveri di metalli (leghe di nichel) o di minerali (silicio) e le sostanze radioattive. Tra gli altri probabili fattori di rischio ci sono anche un precedente tumore benigno sempre nella stessa area e il tipo di alimentazione, dal momento che seguire una dieta particolarmente povera di vitamine A e C (presenti soprattutto in frutta e verdura fresche) è associato a un’incidenza elevata della malattia.

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Tipologie
Molti tumori delle ghiandole salivari sono benigni, non daranno mai origine a un tumore maligno e nella maggior parte dei casi vengono rimossi grazie alla chirurgia.
Per quanto riguarda i tumori maligni, invece, più del 70% colpisce la ghiandola parotide e il 10-20% la ghiandola sottomandibolare, mentre sono rarissimi quelli che originano nelle ghiandole sottolinguali e nelle salivari minori. Tutti i tipi di cellule presenti nelle ghiandole salivari possono dare origine a un tumore e proprio in base al tipo di cellula dalla quale si sviluppano, i tumori assumono nomi differenti: carcinoma mucoepidermoide, che è il più comune e interessa spesso la parotide; carcinoma adenoide cistico, che è tipico delle ghiandole salivari minori e molti tipi differenti di adenocarcinoma (polimorfo di basso grado, a cellule basali, non specificato, mucinoso eccetera). Inoltre, nelle ghiandole salivari si possono generare altri tumori come, per esempio, carcinomi a cellule squamose, carcinomi indifferenziati, carcinoma anaplastico a piccole cellule, sarcomi e linfomi (molto rari).

Sintomi
I sintomi dei tumori delle ghiandole salivari si manifestano soprattutto nella regione della testa e del collo e possono presentarsi come presenza di una massa o dolore al volto, al collo o alla bocca, come difficoltà a inghiottire o come differenze visibili e mai notate in precedenza in forma, dimensioni e forza muscolare tra i due lati di volto, collo, bocca.
Da tenere sotto controllo anche le ostruzioni o i sanguinamenti del naso e il senso di intorpidimento a livello del volto. Sono segni e sintomi che non necessariamente indicano la presenza di un tumore, ma che meritano comunque attenzione e un parere medico.

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Prevenzione
In base ai dati oggi disponibili non è possibile stabilire una strategia di prevenzione efficace contro i tumori delle ghiandole salivari. Evitare l’esposizione a radiazioni, a sostanze pericolose come polveri di silicio, gomma o leghe di nichel e seguire un’alimentazione ricca di frutta e verdura può comunque contribuire a ridurre il rischio.

Diagnosi
L’esame di controllo delle ghiandole salivari da parte del medico permette di scoprire noduli o eventuali masse di nuova formazione, che, in alcuni casi, possono far sospettare un problema di tipo oncologico. La presenza di un nodulo non è però sufficiente per formulare una diagnosi certa: dopo aver valutato la storia clinica e familiare e i risultati della visita ambulatoriale, in caso di situazioni sospette, il medico di base può richiedere una visita specialistica da un otorinolaringoiatra. Tra gli esami più utilizzati per diagnosticare un tumore alle ghiandole salivari sono particolarmente importanti radiografie, TC (tomografia computerizzata) e risonanza magnetica. Infine, per determinare la tipologia del tumore, si procede con la biopsia, cioè il prelievo di un frammento del tumore e la sua analisi al microscopio.

Evoluzione
Come per molti altri tumori, anche per quelli delle ghiandole salivari viene utilizzato il sistema di stadiazione TNM, che consente di stabilire quanto la malattia sia estesa, prendendo in considerazione il tumore (T) e la presenza di cellule tumorali ai linfonodi (N) e in organi lontani (metastasi, M).

Come si cura
Una volta diagnosticata la presenza di un tumore delle ghiandole salivari, la scelta del trattamento più adatto ed efficace deve tenere conto di molteplici fattori, tra i quali il tipo di malattia, la posizione e dimensione della massa, lo stato di salute del paziente e il possibile impatto del trattamento sulla vita di tutti i giorni: intervenire su questi tumori potrebbe infatti influenzare funzioni importanti come parlare, masticare o inghiottire.
Rivolgersi a un centro specializzato è il primo fondamentale passo verso la cura di questi tumori piuttosto rari. Tenuto conto di queste premesse, la scelta del trattamento dei tumori delle ghiandole salivari ricade spesso sulla chirurgia, con la quale è possibile in molti casi rimuovere tutta la massa tumorale, oltre ad alcuni tessuti circostanti per essere certi di non lasciare cellule malate nella zona trattata. Gli interventi per la rimozione di questi tumori sono delicati, ma stanno diventando sempre più precisi e meno invasivi grazie ai continui progressi nelle tecniche chirurgiche e di ricostruzione facciale. Dopo l’operazione è possibile utilizzare la radioterapia che assume così un ruolo adiuvante: aiuta a distruggere le cellule tumorali rimaste in sede che, date le microscopiche dimensioni, non possono essere asportate con il bisturi. Ma la radioterapia rappresenta una valida opzione anche quando il paziente è troppo debole per affrontare l’operazione o quando il tumore, per dimensione o posizione, non può essere asportato chirurgicamente; appare inoltre efficace nell’alleviare i sintomi nel caso di malattia in stadio avanzato (ruolo palliativo della radioterapia). Tra le diverse tipologie di radioterapia, quella a base di neutroni (particelle subatomiche) sembra essere particolarmente efficace per trattare alcuni tumori delle ghiandole salivari, ma questa opzione di trattamento non è disponibile in tutti i centri oncologici. A differenza della chirurgia e della radioterapia, la chemioterapia non è molto utilizzata per i tumori delle ghiandole salivari e viene scelta come trattamento solo nel caso di tumori già diffusi in organi lontani e in pazienti che non possono essere trattati con chirurgia e radioterapia. Infine, in alcuni casi, la chemioterapia può essere associata alla radioterapia per aumentarne l’efficacia.

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Differenze tra effetto collaterale, effetti indesiderati, reazione avversa, evento avverso

MEDICINA ONLINE FARMACO FARMACIA PHARMACIST PHOTO PIC IMAGE PHOTO PICTURE HI RES COMPRESSE INIEZIONE SUPPOSTA PER OS SANGUE INTRAMUSCOLO CUORE PRESSIONE DIABETE CURA TERAPIA FARMACOLOGICTermini come effetto collaterale, reazione avversa, evento avverso non sono affatto sinonimi e non vanno usati indifferentemente, come spesso succede. Proviamo a spiegarne qui le differenze.

Con “effetto collaterale” (in inglese “side effect” o SE) si intende uno o più effetti non intenzionali che insorgano alle dosi normalmente impiegate nell’uomo e che siano connesso alle proprietà del farmaco, insomma un qualsiasi effetto non previsto o non desiderato (e non necessariamente nocivo) legato all’azione farmacologica di una sostanza terapeutica; tali effetti sono illustrati nel rispettivo foglietto illustrativo. Esempi classici di effetti collaterali sono: letargia, insonnia, cefalea e nausea. Alcuni effetti collaterali sono lievi e “banali”, mentre altri possono essere decisamente più gravi e pericolosi.

L’espressione “effetti indesiderati” è un sinonimo di “effetti collaterali”.

Con “reazione avversa a un farmaco” (in inglese “adverse drug reaction” o ADR) si intende un effetto nocivo e non voluto conseguente all’uso di un medicinale. Si distinguono anche reazioni avverse di tipo A (augmented), di tipo B (bizzarre), di tipo C (chronic), di tipo D (delayed), di tipo E (end of use) e di tipo F (failure). Secondo altre fonti si parla invece di reazioni avverse di tipo A, B e C. Una reazione avversa è sempre nociva. Una reazione avversa può anche essere inaspettata quando non è riportata nel foglietto illustrativo o nella autorizzazione alla commercializzazione del farmaco o quando sia inattesa rispetto alle caratteristiche del farmaco stesso (e va comunicata ai centri di farmacovigilanza). Un esempio di reazione avversa ad un farmaco è l’allergia.

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Con “evento avverso” (in inglese “adverse event” o AE) si intende un qualsiasi fenomeno clinico spiacevole che si presenta durante un trattamento con un farmaco ma senza avere necessariamente un rapporto di causalità o di relazione con il trattamento stesso. Quindi, l’evento avverso potrebbe essere causato dal farmaco assunto come da altri fattori e non esiste un legame tra l’evento e il farmaco.

Effetti collaterali e reazioni avverse: alcuni consigli
Molte persone si spaventano nel leggere il lungo elenco di effetti indesiderati riportati sul foglietto illustrativo e a volte decidono di rinunciare alla cura o di sospenderla o di modificare arbitrariamente i dosaggi e le modalità di somministrazione. In questo modo però rinunciano anche ai possibili benefici di un determinato trattamento. A volte inoltre è più pericoloso interrompere la cura che tollerarne i disturbi come accade ad esempio con i farmaci per la pressione alta, quindi il mio consiglio è quello di non interrompere mai una cura a meno che non sia il medico a dirlo.
Al momento della prescrizione di un farmaco si dovrebbero sempre richiedere, laddove non vengano offerte spontaneamente, informazioni sui possibili effetti indesiderati e, soprattutto, su come riconoscerli al loro esordio. Un capogiro può indicare un calo eccessivo della pressione del sangue, un gonfiore improvviso delle labbra può essere il segno di una allergia potenzialmente pericolosa, un semplice mal di gola può essere il segno di una aumentata sensibilità alle infezioni indotta da un farmaco. In caso sospettiate un effetto collaterale o una reazione avversa ad un farmaco, specie se è la prima volta che lo assumete, contattate il vostro medico.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Differenza tra pressione arteriosa, venosa e venosa centrale

MEDICINA ONLINE PRESSIONE ARTERIOSA VENOSA SANGUIGNA CENTRALE PERIFERICA CUORE SANGUE BRACCIO VENE ARTERIE VASI PETTO DESTRO SINISTRO COME QUANDO SFIGMOMANOMETRO.jpgLa pressione sanguigna corrisponde all’intensità della forza esercitata dal sangue sulle pareti dei vasi sanguigni arteriosi e venosi. Tale forza viene acquisita dal sangue, grazie alla funzione di pompa che ha il cuore. Viene espressa in millimetri di colonna di mercurio (mmHg).

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La pressione del sangue non è uguale in tutti i vasi, bensì varia lungo tutto l’apparato vascolare. La pressione sanguigna è il risultato dei seguenti fattori:

  • forza di contrazione del cuore;
  • gittata sistolica, ovvero quantità di sangue espulsa per ogni contrazione (sistole) ventricolare;
  • frequenza cardiaca (numero di battiti cardiaci al minuto);
  • resistenze periferiche, ovvero la resistenza opposta alla progressione del sangue dallo stato di costrizione delle piccole arterie;
  • elasticità dell’aorta e delle grandi arterie.

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La pressione arteriosa è la forza che esercita il sangue sulle pareti delle arterie. La pressione arteriosa sistemica (pressione massima), è la pressione del sangue arterioso sistemico misurata a livello dall’uscita dal ventricolo sinistro del cuore in direzione dell’aorta. La pressione arteriosa diminuisce progressivamente allontanandosi dal ventricolo sinistro, arrivando fino alle arteriole. La pressione arteriosa si distingue in:

  • pressione sistolica (o “massima”), durante la contrazione o sistole ventricolare;
  • pressione diastolica (o “minima”), durante il rilassamento o diastole ventricolare.

La pressione venosa è invece la forza che esercita il sangue sulle pareti delle vene.

Più specificatamente con “pressione venosa centrale” (PVC) il valore pressorio sanguigno rilevato nel tratto terminale della vena cava superiore e corrispondente alla pressione nell’atrio destro del cuore. La rilevazione della PVC avviene grazie alla posa di un catetere venoso centrale attraverso una vena profonda di grosso calibro (vena succlavia, o giugulare, o basilica o più raramente safena).

Il valore di PVC permette di valutare il volume ematico circolante, la funzionalità cardiaca ed il ritorno venoso. Risulta ancora da chiarire il range di normalità della PVC. È piuttosto chiaro che:

  • valori negativi della PVC sono al di sotto del range;
  • valori di PVC superiori a 12 ne sono al di sopra.

Il range di normalità è però ancora oggetto di discussioni. Il limite inferiore, secondo le diverse fonti, ha un valore da 0 a 5, mentre il limite superiore va da 7 a 12.

Vari fattori influiscono sui valori di PVC: 

  • ipovolemia o ipervolemia (diminuzione o aumento del volume ematico circolante),
  • insufficienza cardiaca,
  • ostacoli meccanici alla circolazione cardiaca,
  • alterazioni della pressione intratoracica (ad esempio pneumotorace),
  • farmaci,
  • ventilazione meccanica.

Valori superiori alla norma indicano:

  • sovraccarico di volume,
  • insufficienza cardiaca destra,
  • aumento della pressione intratoracica,
  • turbe vasomotorie.

Valori inferiori alla norma indicano:

  • perdite di volume (ipovolemia in corso di emorragie, vomito, diarrea, shock),
  • turbe vasomotorie.

La PVC è un parametro che viene rilevato frequentemente nell’ambito dei monitoraggi post-operatori.

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Differenza tra pressione massima (sistolica), minima (diastolica) e differenziale

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma DIFFERENZA PRESSIONE MASSIMA MINIMA DIFFERENZIALE Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari.jpgLa pressione sanguigna rappresenta appunto la pressione, cioè la forza, esercitata dal sangue sulle pareti dei vasi sanguigni arteriosi e venosi. La “spinta” iniziale è Continua a leggere

Perché la pressione arteriosa alta (ipertensione) è pericolosa?

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma PERCHE IPERTENSIONE PRESSIONE E PERICOLOSA Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari A Pene.jpgQuando un individuo soffre di ipertensione arteriosa (comunemente “pressione alta”) le pareti dei suoi vasi sanguigni sono costrette a sopportare forti sollecitazioni che, quando diventano particolarmente elevate, possono provocarne la rottura, con conseguente emorragia, come ad esempio avviene in alcuni tipi di ictus cerebrale. Durante una crisi ipertensiva (un picco di pressione alta), la pressione esercitata dal sangue, unita ad un flusso alterato, può inoltre determinare la rottura di una placca aterosclerotica con conseguente embolo e trombosi, capaci di determinare patologie gravi come ad esempio l’infarto del miocardio. Infine il cuore si trova costretto a contrarsi cronicamente contro una resistenza troppo elevata, e ciò causa alterazioni anatomiche che possono portare all’insufficienza cardiaca.

I pericoli di una ipertensione arteriosa cronica sono quindi principalmente tre:

  • danno alle pareti dei vasi sanguigni con possibile emorragia;
  • sovraccarico cardiaco;
  • aumentato rischio di embolia e trombosi.

L’ipertensione arteriosa è tra i più importanti fattori di rischio vascolare ed aumenta il rischio di patologie cardiovascolari potenzialmente mortali. Per questo motivo è importante misurare la pressione periodicamente, specialmente superati i 40 anni ed anche prima se:

  • siete in sovrappeso o obesi;
  • siete fumatori;
  • avete livelli di colesterolo e trigliceridi elevati;
  • soffrite di diabete;
  • avete casi in famiglia di ipertensione arteriosa e/o di ictus e/o di infarto.

Molte persone tuttavia, non hanno a casa uno sfigmomanometro ed uno stetoscopio, cioè gli strumenti necessari per misurare la pressione arteriosa, e sono costrette ad andare dal medico per controllarsi periodicamente la pressione, il che si traduce nel fatto che spesso passa troppo tempo tra una misurazione e l’altra ed aumentano i rischi per la salute del paziente.

Sfigmomanometri manuali

La scelta dello strumento adatto a volte può risultare difficile, vista l’enorme quantità di strumenti attualmente sul mercato: a tale scopo il nostro Staff sanitario ha selezionato per voi i migliori sfigmomanometri manuali professionali, elencati in ordine di prezzo decrescente:

A tali strumenti dovrete aggiungere anche uno stetoscopio, i nostri preferiti sono:

Se invece preferite comprare in un’unica soluzione sia sfigmomanometro che stetoscopio, ecco i migliori prodotti selezionati per voi dallo Staff sanitario:

Sono quattro strumenti ben costruiti, venduti in tutto il mondo e, pur avendo un prezzo contenuto, sono estremamente precisi e professionali, inoltre includono nella confezione anche uno stetoscopio il che vi eviterà di doverlo comprare a parte.

Sfigmomanometri automatici digitali

Se non sapete come utilizzare uno sfigmomanometro manuale potete leggere la nostra guida, oppure acquistare uno strumento digitale che misura in modo automatico la pressione: è necessario solo indossare l’apposito bracciale e dare avvio alla procedura senza neanche avere lo stetoscopio, che è invece necessario con gli strumenti manuali. La scelta dell’apparecchio adatto a volte può risultare difficile, vista l’enorme quantità di prodotti attualmente sul mercato: a tale scopo il nostro Staff sanitario ha selezionato per voi i migliori  sfigmomanometri automatici sul mercato:

Sono cinque apparecchi ottimamente costruiti, facili da usare ed estremamente precisi e professionali: con essi misurare la vostra pressione arteriosa sarà facile come premere un tasto!

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