Anoressia: le immagini drammatiche di un corpo che non esiste più

MEDICINA ONLINE ANORESSIA ANORESSICA ANOREXIA IMAGE IMMAGINI CORPO NON ESISTE PIU BULIMIA NERVOSA VOMITO OSSA DIMAGRIMENTO CIBO MANGIARE PSICHIATRIA DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTAREAnoressia. Tecnicamente parlando “anoressia nervosa”. Una patologia diffusa che getta nella disperazione intere famiglie. A volte difficile da diagnosticare nelle fasi iniziali quando piccole perdite di peso e umore diverso dal solito sono interpretati da genitori ed amici come un fenomeno passeggero e trascurabile. A tale proposito, prima di continuare con la lettura di questo post, vi invito a dare una occhiata a questo mio articolo: Una vostra amica è troppo magra? Vi insegno a capire se soffre di anoressia

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L’anoressia cambia il nostro corpo in una maniera che mai avremmo immaginato. Oggi vi propongo una serie di immagini (e relative storie) davvero drammatiche, sperando possano in qualche modo tenere alta l’attenzione su questo male spesso taciuto.

Attenzione: le seguenti immagini potrebbero urtare la vostra sensibilità

KATE CHILVER

Il 13 dicembre 2011 muore Kate Chilver, definita come il caso più eclatante di anoressia della storia clinica di questa malattia. Si spegne a soli 31 anni con un peso di 29 chili.

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Non c’è tanto da dire se non che la sua lotta è partita già all’età di 12 anni ma, nonostante la buona volontà della stessa ragazza e tutto l’impegno dei medici, è avvenuto l’inevitabile.

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I suoi organi non rispondevano più ed era impossibile che rispondessero visto che la malattia li aveva uccisi ancor prima di lei. Le arterie erano in parte necrotizzate e non lasciavano affluire il sangue così come parte dell’intestino e dello stomaco. Questa povera ragazza, come tante altre, era una piccola creatura fragile che cercava – ancor prima delle cure mediche – di essere compresa dalla famiglia e dagli amici.

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ISABELLE CARO

17 novembre 2010 muore a soli 28 anni, Isabelle Caro, divenuta famosa per un servizio fotografico di Oliviero Toscani (vedi foto in basso) che aveva realizzato dei manifesti pubblicitari contro l’anoressia. Pubblicità che fu ritirata perché accusata di incoraggiare le ragazze all’emulazione. Questa ragazza è sicuramente un esempio emblematico, benché solo un esempio tra i tanti, di quello che la morbosità di alcuni genitori possono, a volte, causare.

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La madre si era separata dal marito quando Isabelle aveva solo quattro anni. La donna si lega alla bambina in modo viscerale e malato, dandole il significato di una rivalsa personale per il fallimento avuto come moglie. Presto si accorge che la figlia cresce e cerca di evitare questa crescita perché, crescendo, prima o poi sarebbe andata via e avrebbe decretato un suo ennesimo fallimento. La figlia asseconda volentieri la mamma per non dispiacerle: la madre le fa indossare vestiti molto piccoli e quindi lei evita di mangiare per non crescere. Il vortice della vera e proprio malattia psichiatrica della madre ha il suo apice nella morte della povera Isabelle. Solo allora la madre comprende tutto il male fatto alla figlia e si toglie la vita. Per alcuni questo estremo gesto non è stato la risposta ai propri sensi di colpa, quanto il risultato alla perdita dell’oggetto della sua ossessione.

VALERIA LEVITIN

Ha 41 anni e pesa 25 chili, come un bimbo di sette anni: è Valeria Levitin, la donna più magra al mondo. Ha 41 anni e pesa 25 chili, come un bimbo di sette anni: è Valeria Levitin, la donna più magra al mondo. Nasce in Russia e fin da bambina viene istruita per tenersi lontana dalle calorie. Sedicenne si trasferisce con la madre e il nuovo compagno in America e il suo desiderio di piacere la spingono ancora di più a ridurre il cibo. La ragazza, in cerca della forma perfetta, si priva di carboidrati e zuccheri. Nel 1994 vince il titolo di Miss Chicago per inseguire il sogno della moda vuole dimagrire ancora.

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“L’anoressia vive nella testa. Quando diventa visibile nel corpo è già troppo tardi” ha dichiarato Valeria Levitin in seguito cercando di convincere con la sua testimonianza a non seguire il suo esempio. “Questo non è un gioco o uno scherzo: è la vita. Voglio condividere la mia storia per avvertire chi soffre del mio stesso male e le loro famiglie, evitando così che si compia per altre il mio stesso destino. L’anoressia mi ha resa sola, non attraente e repellente per le persone attorno a me.”

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Quando a presentarsi è l’anoressia nervosa, si rimane sbigottiti perché fino a qualche minuto prima non si vedeva nulla. I genitori appaiono impreparati e si colpevolizzano del fatto di non essere riusciti a comprendere per tempo il disagio dei figli. Alcuni si sentono anche traditi perché realizzano che l’autonomia concessa ai figli è stata usata per nascondere loro dei gravi problemi irrisolti.

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Non tutti sanno che questa drammatica malattia del comportamento alimentare può coinvolgere anche i maschi, sebbene “solo” in circa un caso su venti di anoressia.

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Alcuni uomini entrano nelle maglie dell’anoressia quasi casualmente e vi rimangono imprigionati allo stesso modo dei soggetti femminili perché dietro questa patologia non c’è una questione di genere ma di sensibilità. Per approfondire il legame tra anoressia e sesso maschile leggi questi articoli:

Il fotografo polacco Andrzej Dragan è famoso per lavorare molto le fotografie in post produzione per farne dei veri ritratti ma afferma: “Una sola delle foto che ho fatto, per esempio, è assolutamente vera: è il ritratto di una ragazza anoressica, una modella di diciotto anni, molto bella e alta, ma estremamente magra. Non sono quasi intervenuto, in post produzione. Ho lasciato l’immagine così com’era. E questa è una delle foto cui le persone credono di meno!“

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Corpi consunti come candele, fantocci che non lasciano spazio alla vita, immagini che possono urtare e dare fastidio e che svelano un mondo che cerca di difendersi dalle paure e le insicurezze, aggredendo per primo se stesso.

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L’anoressia è un morbo che dilania l’anima ed il corpo riducendo tutto a brandelli. Brandelli sottili e fragili, da cui però, con tanto impegno, amore e cure, è possibile uscire.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Indifferenza ed anaffettività: ecco come si manifesta il disturbo schizoide di personalità

Malinconia Edvard Munch 1892 olio su tela Oslo Nasjonalgalleriet

Particolare di “Malinconia” di Edvard Munch, datato 1892. Olio su tela, cm 64 x 96. Collocata all’Oslo Nasjonalgalleriet

Il disturbo schizoide di personalità (così come definito secondo i criteri diagnostici DSM-IV–TR e, similmente, nell’ICD-10) è un disturbo di personalità caratterizzato dalla difficoltà nello stabilire relazioni sociali e, soprattutto, dall’assenza del desiderio di stabilirle. La vita delle persone che soffrono di questo disturbo è strutturata in modo da limitare le interazioni con gli altri: hanno pochi amici stretti o confidenti, scelgono lavori che richiedono un contatto sociale minimo o nullo, non sono coinvolti in relazioni intime e in genere non si costruiscono una propria famiglia. Appaiono distaccati e freddi, estremamente riservati e indifferenti all’approvazione o alle critiche degli altri e ai loro sentimenti. Hanno scarsa capacità ad esprimere sentimenti sia positivi che negativi verso gli altri e a provare piacere nello svolgere qualsiasi attività. L’incapacità, o grande difficoltà, di “partecipare alla vita”, che sembra caratterizzare i soggetti affetti da disturbo schizoide, si manifesta principalmente nella vita emotiva e di relazione e talvolta può non avere effetti visibili in altre sfere; ad esempio nell’ambito di lavori non competitivi e solitari questi soggetti possono investire grandi energie e riportare evidenti successi.
I dati epidemiologici di questa patologia non sono stabiliti chiaramente, alcuni studi confermano che colpisce circa il 6% della popolazione italiana e alcuni studi riportano un rapporto maschi-femmine di 2:1.

NOTA BENE: come hai già intuito, questo è un articolo sul disturbo schizoide di personalità. Se invece stai cercando informazioni su “uomo anaffettivo”, leggi invece questo articolo: “Se tu non mi ami è colpa mia”: i pensieri di una donna che ama un uomo anaffettivo

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Come si manifesta il disturbo schizoide di personalità?
Come già accennato nell’introduzione, le persone che presentano questo tipo di disturbo provano un senso di lontananza, di distacco e freddezza nei confronti degli altri e una mancanza di interesse verso un legame profondo con persone reali. Non mostrano e non provano forti emozioni né positive né negative, spesso appaiono e si sentono indifferenti e privi di desideri (anaffettivi), forse per un’incapacità a riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri. La mancanza di desiderio e piacere ad avere relazioni con altre persone li porta ad isolarsi o comunque ad avere relazioni formali e/o superficiali, senza che questo causi loro particolare sofferenza; prevalgono pensieri tipo “preferisco farlo da solo”, “preferisco stare solo”, “non mi sento motivato”, “che importa”. Nelle situazioni sociali in genere le emozioni dominanti sono l’indifferenza e la freddezza, anche se a volte possono provare un’ansia intensa o la sensazione di “essere controllati”. Gli individui che presentano questo disturbo possono inoltre avere una particolare difficoltà nell’esprimere la rabbia, anche in risposta ad una provocazione diretta, questo li porta a reagire passivamente alle circostanze avverse e contribuisce a dare l’impressione che manchino di emozioni. La rabbia in questo caso non è del tutto assente: rimane pericolosamente nascosta dentro al soggetto o comunque poco manifestata.

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Sesso e disturbo schizoide di personalità
L’indifferenza verso gli altri e verso la socialità si manifesta chiaramente anche nella sfera sessuale. Lo scarso desiderio di interazione riguarda in maniera caratteristica le esperienze sessuali che sono rare o del tutto assenti, in ogni caso sono poco appaganti in senso affettivo e viste più come obbligo sociale che come esperienza piacevole. Il sesso non sembra destare, nel soggetto affetto, la stessa emozione e trasporto di un soggetto non affetto.

Leggi anche: Amnesia post sesso: è possibile dimenticarsi di un rapporto sessuale?

Come faccio capire se soffro di disturbo schizoide di personalità?
Come fare a capire se si soffre (o se una persona cara soffra) di disturbo schizoide di personalità? A tale proposito vi consiglio di leggere questo mio articolo: Come capire se soffro di disturbo schizoide di personalità? I 20 comportamenti caratteristici

Diagnosi in base al DSM-IV-TR 

  1. Il soggetto non prova desiderio o piacere ad avere relazioni strette con altre persone, inclusa la famiglia
  2. Predilige quasi sempre attività solitarie o che implicano relazioni del tutto superficiali.
  3. Ha poco o nessun interesse in relazioni ed esperienze sessuali reali.
  4. Non prova vero piacere in nessuna o quasi nessuna attività.
  5. Manca di amicizie strette o confidenti oltre ai parenti di primo grado.
  6. Appare emotivamente indifferente a critiche o elogi.
  7. Dimostra “freddezza” emozionale, distacco oppure appiattimento emotivo.

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Diagnosi differenziale con altre patologie con caratteristiche simili
Alcuni sintomi presenti in questo tipo di disturbo si possono ritrovare anche in altre patologie, è quindi in genere necessario rivolgersi a persone competenti che possano fare una diagnosi seria ed accurata. Nelle persone che presentano un disturbo evitante di personalità l’isolamento sociale è si ugualmente presente, ma è vissuto con profonda sofferenza e nel soggetto è presente il desiderio di avere relazioni interpersonali che è invece completamente assente nel disturbo schizoide. Nella diagnosi differenziale devono essere escluse anche le diagnosi di autismo e di sindrome di Asperger.
Alcune caratteristiche del disturbo schizoide di personalità possono anche essere causate da patologie neurologiche, che devono essere escluse.
La schizofrenia ha molti tratti in comune con il disturbo schizoide di personalità: oltre al ritiro sociale, vi sono altri elementi comuni, come, ad esempio, l’anedonia (l’incapacità di provare appagamento o interesse per attività comunemente ritenute piacevoli (come il cibo o il sesso), l’anaffettività, l’inadeguatezza interpersonale, ma in questo caso le capacità cognitive e logiche sono intaccate e, a differenza dello schizoide, il soggetto non è pienamente consapevole della realtà. Le caratteristiche sono comunque molto simili per questo le due patologie hanno in comune la medesima radice: il greco skizo, che significa “scissione”. In passato il disturbo schizoide di personalità è stato anche definito, impropriamente, “pre-schizofrenia”.

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Quali sono le cause del disturbo schizoide di personalità?
Allo stato attuale della ricerca scientifica, non esistono – per questa patologia – delle cause certe e specifiche. Alcune caratteristiche possono però essere certamente annoverate tra i possibili fattori di rischio: sembrano essere coinvolti fattori di vulnerabilità temperamentali presenti fin dall’infanzia come emozionalità ristretta, scarsa empatia, isolamento, stile deficitario nella comunicazione, sostanziale incapacità a riconoscere le proprie emozioni e quelle degli altri. Tali caratteristiche hanno origine sia a livello di ereditarietà, sia a livello di ambiente.

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Il ruolo della madre nel disturbo schizoide di personalità
Fattori ambientali importanti alla base di questo disturbo di personalità sono ovviamente costituiti dalla famiglia e dai rapporti che il soggetto instaura con le figure genitoriali, in special modo con la figura materna. Gli schizoidi sono degli individui che, nella primissima infanzia, si sono visti mancare – o è stata molto scarsa – la componente affettiva soprattutto materna. Questo fa sì che il soggetto sviluppi una reazione di difesa istintiva: poiché da piccolo non ha avuto dalla madre quello di cui necessitava, cioè amore, comprensione, rispetto e valorizzazione, lo schizoide ha imparato ad instaurare relazioni superficiali con gli altri per non aver paura di subire di nuovo lo stesso allontanamento affettivo che ha subito dalla madre. Il risultato finale di questa paura è che l’individuo preferirà la solitudine alle relazioni, viste tendenzialmente appunto come false e instabili e inconsciamente pericolose. Tratti in comune sono presenti anche nella Sindrome da abbandono.

Quando si manifestano i primi sintomi del disturbo schizoide di personalità?
L’esordio del disturbo schizoide di personalità può verificarsi a qualsiasi età, anche se solitamente avviene nella prima infanzia o comunque entro l’inizio dell’età adulta.

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Quali sono le conseguenze del disturbo schizoide di personalità?
Le conseguenze più evidenti per chi presenta questo tipo di disturbo sono:

  • un eccessivo isolamento sociale, che può causare, oltre ad una totale assenza di amicizie, problemi e difficoltà sul luogo di lavoro;
  • possibilità di funzionare solo in spazi sociali molto ristretti e stabili;
  • difficoltà a rispondere appropriatamente ad eventi importanti della vita, reazione passiva alle circostanze avverse che porta quindi a subire anche situazioni indesiderate;
  • assenza di piacere e continua sensazione di vuoto interno e di un’esistenza priva di significato.

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Come si cura il disturbo schizoide di personalità?
L’obiettivo finale del trattamento è quello di migliorare la qualità di vita del paziente in accordo con le sue esigenze e tenendo conto delle sue difficoltà e priorità. La terapia di questo disturbo è molto difficile, in quanto chi ne è affetto non ne riconosce la necessità e raramente richiede aiuto, ciò rende anche difficile la diagnosi e quindi la terapia inizia solitamente molto tardi.
I trattamenti possibili sono diversi. Una terapia tipica è il trattamento cognitivo-comportamentale, esso è rappresentato da una psicoterapia individuale a lungo termine che miri ad individuare pensieri, emozioni e comportamenti disfunzionali che caratterizzano il soggetto.
Anche la terapia di gruppo può risultare utile: dopo un periodo di silenzio il paziente può lasciarsi coinvolgere ed i componenti del gruppo possono rappresentare il solo contatto sociale presente nella vita del soggetto schizoide.
Anche la terapia farmacologica è importante, spesso accostata alla psicoterapia. Si usano vari farmaci, decisi dal medico in base ad ogni singolo caso.

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Esibizionista, riservato, timido, narcisista: scopri quale “tipo da spiaggia” sei

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO DONNA MARE COSTUME ABBRONZATURA ESTATE CALDO SPIAGGIA BAGNO SOLE VACANZEOgnuno di noi ha un carattere che ci contraddistingue: quando andiamo in spiaggia ciò diventa particolarmente evidente. Nei vari gruppi che si vedono al mare è spesso abbastanza facile capire al volo chi è l’esibizionista del gruppo, chi è il timido, e chi è quello che vuole semplicemente stare “per i fatti suoi”.

E voi, che tipo da spiaggia siete?

1) LA RAGAZZA TRANQUILLA/RISERVATA

Chi è: ragazza tranquilla, va in spiaggia per rilassarsi e non le interessa fare nuove amicizie.
Dove si mette: sceglie posti defilati, spesso al margine esterno dello stabilimento.

Una persona non interessata alla “caccia” costruirà per sé un isolamento fisico marcato: sdraio vicino al limite dello stabilimento, auricolari, aspetto rilassato, occhi socchiusinessun segnale di disponibilità alla conversazione. Se è sola, è probabile che cerchi di occupare la sdraio vicina con una borsa o qualche oggetto: per creare una difficoltà in più a chi volesse sedersi accanto a lei, che dovrebbe chiederle di spostarlo. Non è del tutto isolata dal resto della spiaggia, ma – di fatto – ha eretto una vera e propria barriera tra lei e gli altri bagnanti.

2) LA RAGAZZA ESTROVERSA

Chi è: ragazza estroversa, in cerca di conoscenze.
Dove si mette: la si incontra lungo il passeggio centrale, dove può osservare più persone.

Una donna che vuole sedurre ha gioco facile in spiaggia. Una ragazza a caccia ha più possibilità di conoscere ragazzi più “sinceri” se sceglie una sdraio lungo la passerella centrale, dove può osservare i ragazzi che non sono ancora entrati nel personaggio. La zona del “bagnasciuga”, infatti, è anche scenograficamente simile a un palcoscenico (con le sdraio come platea), invece camminando lungo la passerella si è più spontanei, più inclini al sorriso sincero. La variante più “esibizionista” è invece spesso stesa sul lettino, vicinissima al bagnasciuga, non di rado in topless ed accanto al proprio ragazzo/amiche altrettanto esibizionisti.

3) IL CONTROLLORE DELLA SPIAGGIA

Chi è: spesso è un papà. Vuole proteggere i suoi figli e poter osservare tutto quello che avviene.
Dove si mette: sceglie la fila più lontana dalla battigia, senza sdraio alle spalle.

Ci sono poi dei tipi da spiaggia che cercano davvero poco l’interazione con gli altri. Il primo si potrebbe definire “il controllore”: di solito è un maschio adulto con figli, che non ama molto la spiaggia, specie se affollata, perché non gli permette di tenere costantemente sotto controllo la prole; ma, nello stesso tempo, è felice di portarvi i bambini che amano giocare all’aperto. Il suo luogo ideale è l’ultima fila, meglio se in posizione leggermente sopraelevata. Come da una postazione di vedetta, può controllare quello che succede in gran parte dello stabilimento: non perde di vista i figli e, nello stesso tempo, ha le spalle protette dal fatto che nessuno può sostare dietro di lui.

4) IL RAGAZZO ESTROVERSO

Chi è: non ha difficoltà a relazionarsi con gli altri, vuole conoscere persone.
Dove si mette: è sempre in prima fila, vicino al luogo dei giochi e degli incontri.

Un estroverso si trova a proprio agio nella prima fila, a pochi metri dalla battigia, da qui può seguire la parte più attiva della spiaggia, cioè lo spazio di chi entra in mare ridendo per l’acqua troppo fredda, delle passeggiate (specialmente ragazze!), dei gruppi di amici che giocano a palla. Una persona estroversa si piazza nel migliore punto di osservazione, pronto a cogliere i segnali di disponibilità degli altri per fare nuove amicizie.

5) IL “BRIATORE” (DEI POVERI)

Chi è: non ama mischiarsi con gli altri, resta sulla sua barca.
Dove si mette: mai in spiaggia. Dalla barca però “domina” (e si fa guardare) avvicinandosi alla riva.

In spiaggia spesso non ci va proprio: o, meglio, occupa il palcoscenico dalla posizione che gli permette il maggiore esibizionismo. È un’imitazione del “modello Briatore”, rigorosamente in barca, che si avvicina alle spiagge per farsi notare. Non mira a quelle più esclusive (si sentirebbe uno dei tanti e sa che sarebbe poco notato), ma mostra la propria “forza” al comando di un grosso motore, davanti a spiagge più popolari, dove sa che viene subito adulato ed invidiato (almeno questo è quello che pensa lui!). Non vuole mischiarsi con “il popolo della sabbia” e non accetta di dipendere dalla natura per spostarsi: non lo si vedrà tanto facilmente su una barca a vela.

6) IL “CRISTIANO RONALDO” DELLA SPIAGGIA

Chi è: tipo sportivo, dinamico, che punta molto sul proprio aspetto per farsi notare.
Dove si mette: dovunque può praticare sport: si incontra spesso sulla battigia, impegnato in giochi.

Il luogo dei giochi è anche, spesso, il preferito di chi ha la personalità del seduttore. Si posiziona sulla battigia, insieme al suo gruppo di amici di cui si sente il leader. Qui si mette in mostra, fa notare il proprio corpo, l’abbronzatura: spesso non va neppure ad attaccare discorso con le ragazze, si lascia ammirare per un po’, mostrando la propria leadership attraverso l’abilità con la palla… E’ proprio quel tipo che si lancia in rovesciate improbabili o che spara (inutili) pallonate al largo. E’ quello che a pallavolo cerca sempre la schiacciata, ed ogni tanto riesce ad esibirsi anche in qualche bel gesto atletico che farà finire la palla, guarda caso, vicino ad una bella ragazza.

7) IL TIPO TIMIDO

Chi è: timido, non ha voglia di conoscere nuova gente. Si isola anche dagli amici con cui è arrivato.
Dove si mette: al centro degli ombrelloni, per non essere notato, senza partecipare alle attività degli altri.

Sarà più probabile che un introverso occupi un ombrellone al centro dello stabilimento, lontano dal passeggio: magari indossando occhiali da sole, che lo aiutano a “schermarsi” dal mondo, e ascoltando musica con i propri auricolari: le sdraio intorno gli offrono una barriera fisica su tutti i lati, il che lo fa sentire protetto. Tende anche ad isolarsi dagli stessi amici del gruppo con cui è arrivato in spiaggia. Non vuole essere considerato asociale, ma – di fatto – si autoesclude dai suoi stessi amici.

8) L’INTROVERSO ESTREMO

Chi è: l’introverso “estremo” non parla, legge intensamente e non ama l’abbronzatura.
Dove si mette: sceglie un posto al centro, ma non lascia quasi mai l’ombra.

E’ una versione “estrema” del tipo precedente. Va in spiaggia quasi per necessità, stanco del “Ma non ti abbronzi nemmeno un po’ quest’anno?” di amici e parenti). Sceglie un posto totalmente all’ombra e spesso tiene la maglietta addosso. Si copre il corpo per comunicare indisponibilità e si mantiene protetto dal cono dell’ombrellone. Difficilissimo da coinvolgere in una conversazione, solitamente è geloso della privacy e concentrato nelle proprie letture, di solito colte.

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Acqua e sapone o truccatissima? Ecco come cambia il comportamento delle persone a seconda del tuo make up

Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Specialista in Medicina Estetica ACQUA SAPONE TRUCCATISSIMA CAMBIA MAKE UP Brinton Parker Roma Cavitazione Pressoterapia Grasso Linfodrenante Dietologo Cellulite Calorie Pancia Sessuologia Sesso Laser 1

Vi siete mai chiesti come la quantità di trucco sul volto di una donna influenza la percezione (ed il relativo modo di comportarsi) che hanno gli altri nei suoi confronti? Brinton Parker, una giovane ragazza statunitense, ha voluto fare un interessante esperimento per cercare di capirlo.

Brinton è una studentessa statunitense di 21 anni e frequenta un college in California; colpita dalla quantità di critiche che i suoi coetanei si indirizzano a vicenda quando si parla di aspetto estetico, ha deciso di fare un semplice esperimento, che è ormai diventato famoso ed è apparso su numerosi quotidiani online come il Daily Mail. Nel corso di una settimana ha sfoggiato tre look diversi ed ha annotato i commenti che le sono stati rivolti.

Cominciamo col primo look “acqua e sapone”.

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Look 1 (senza trucco)

Brinton ha superato lo scoglio più grande ed è andata all’università senza un filo di trucco. Ovviamente il destino ha voluto che quel giorno si svegliasse con un bel brufolo sulla guancia, che non ha potuto coprire; lo stesso vale per le occhiaie violacee, l’unico effettivo difetto della sua pelle. I commenti hanno spaziato. Dal compagno che le chiede se ha avuto un weekend pesante al barista che le porge un caffè dicendo “sembra fare al caso tuo“, il resto del mondo si è accorto della differenza. Certo, nessuno l’ha offesa, anche perché è comunque una ragazza carina, ma sicuramente hanno contribuito a farla sentire meno bella e sicura di sé rispetto al solito. Solo una sua compagna le ha detto che stava bene quel giorno, mentre un amico, più creativo, ha buttato lì un “sembri stravolta come mi sento io”.

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Look 2 (trucco semplice naturale)

Il secondo make-up rispecchia lo stile di Brinton, infatti la ragazza ammette di truccarsi così tutti i giorni. Correttore, cipria, blush, mascara, matita occhi illuminante e burrocacao sono gli unici prodotti che usa, ed effettivamente è un look molto appropriato per la scuola. La pensano allo stesso modo i suoi compagni, che le rivolgono diversi complimenti: “adoro il tuo blush”, “sei proprio carina oggi, che mascara hai usato?”, “il tuo trucco è davvero bello”.

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Look 3 (trucco pesante)

Il terzo giorno Brinton si scatena e spalma sul suo viso decine di prodotti. Fondotinta in crema, terra e illuminante per il conturing, correttore, ombretti scuri, mascara, rossetto… un look decisamente glamour! Lei stessa ammette di provare un un senso di libertà nel conciarsi “da Beyoncé” senza un motivo o un’occasione particolare. Ovviamente la gente si stupisce: un ragazzo le chiede se è pronta per festeggiare nel weekend, un barista pensa che stia recitando nello spettacolo teatrale dell’università (scambia il contouring per un trucco di scena) e una cassiera la prende per un’adolescente che si prepara per il ballo di fine anno.

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Donna appagata o principessa triste?

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Nella pratica clinica, si incontrano spesso giovani donne che hanno difficoltà nelle relazioni d’amore. Sono ragazze che pur avendo occasionali relazioni con l’altro sesso, non riescono a concedersi la possibilità di un incontro importante o che allontano nel tempo l’esperienza sessuale, anche dopo i trent’anni. Spesso sono graziose e curate, lavorano o studiano. Giustificano la mancanza di esperienze amorose raccontando di situazioni deludenti, spesso  storie adolescenziali dove è mancato il tempo di conoscere l’altro. Queste donne  lamentano di non incontrare partner interessanti, gli uomini sembrano misteriosamente scomparsi.

Sognano una storia romantica, un incontro folgorante e struggente con un lui seducente ed accogliente, un amore totale, perfetto, gratuito ed immediato. Esattamente quello che immaginano essere  l’esperienza di tutte le altre donne, quelle fortunate che si fidanzano e si sposano. A questo ideale amoroso, si contrappone un atteggiamento di diffidenza e di ritiro dalle relazioni e soprattutto una profonda paura per il proprio desiderio o attrazione verso un uomo. La sessualità è vissuta come qualcosa che non le riguarda, che le sfiora appena.

La diffidenza si esprime anche con l’atteggiamento del corpo, con una rigidità muscolare che sembra mantenere una corazza che nasconde l’emozione. Se un lui sconosciuto mostra un interesse verso la triste-solitaria, questa immediatamente attiva una barriera emotiva e spesso anche corporea, per arginare la propria eccitazione vissuta come pericolosa. L’emozione è anestetizzata con ogni mezzo, compresa la fuga o l’allontanamento dell’uomo. Apparentemente opposto, è il comportamento di quelle donne che ricercano attivamente incontri sessuali ma che si ritirano al primo accenno di coinvolgimento emotivo.
Spesso il lui in questione è già impegnato, magari più giovane o straniero o in procinto di allontanarsi.
Anche moltiplicando gli incontri sessuali, questi non lasciano tracce, la principessa resta sola e incompresa dimenticata dal principe ideale.

Se l’attesa si protrae nel tempo, aumenta l’infelicità ed il sentimento di sconfitta e di amarezza profonda, questo a prescindere dal successo professionale e personale in altri campi.
Queste donne sono accumunate dall’attivazione di una severa difesa alla possibilità di un rapporto affettivo ed emotivo con l’altro sesso.
Il paradosso  è che la cosa che desiderano di più è anche quella che le spaventa. L’assenza del rapporto con l’uomo, è avvertita come la causa ultima dell’insoddisfazione e del senso di vuoto, ma la realizzazione di un incontro è evitata con ogni mezzo ed agito.

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Donne che non sono mai contente

Uno stereotipo comune tra le donne che non riescono ad incontrare il partner ideale è la ricerca del “bel tenebroso”, ossia di un uomo sfuggente, concentrato su di se e i propri interessi, propenso ad una storia sessuale. Il paradosso è che se “il bel tenebroso” si lascia avvicinare sul piano affettivo, viene immediatamente degradato a semplice uomo perdendo gran parte del fascino ed attrattiva.

Un altro comportamento tipico delle principesse-tristi, è quello di svalutare gli uomini che le corteggiano, questi non sembrano mai abbastanza interessanti o attraenti. La svalutazione dell’uomo sembra collegata all’immagine che queste donne hanno di sé stesse, ossia non reputandosi abbastanza principesse da poter interessare un vero uomo, considerano ogni maschio che le corteggia come poco appetibile.

Il comportamento amoroso delle principesse-tristi, può rientrare sia nella patologia narcisistica che in quella isterica, la differenza diagnostica dipende dalla costanza o meno dell’oggetto.
Comune è l’infelicità ma la sua causa  può avere un’origine molto diversa.
Le principesse-tristi narcisiste non riescono ad innamorarsi, spesso si rifugiano in sogni romantici, non provano eccitazione sessuale o desiderio erotico, anche la masturbazione può essere scarsa e poco soddisfacente. In questo gruppo possono rientrare anche le donne che ritardano molto l’inizio dei rapporti sessuali.
Le principesse-tristi che invece hanno raggiunto la costanza dell’oggetto, si innamorano, provano desiderio sessuale, ma quello che le allontana dalla realizzazione di una matura relazione sessuale, è la colpa edipica.

Si tratta di donne che da bambine hanno avuto una troppo ambivalente relazione con la madre la quale non è stata in grado di tollerare la sessualità della figlia e successivamente il suo amore per il padre. Il normale cambiamento di oggetto della bambina dalla madre al padre, è inconsciamente distorto.
Tutto questo può aumentare la colpa inconscia rispetto all’intimità sessuale che accompagna il coinvolgimento affettivo con l’uomo, portando ad una relazione sadomasochistica.

Donne che si aspettano un risarcimento

Le principesse-tristi, sono spesso rancorose: hanno l’atteggiamento di chi si aspetta di essere risarcito da un danno, un torto subito.
Masud Khan, in un saggio associa l’isteria al risentimento, afferma che le bambine isteriche non hanno ricevuto un sufficiente sostegno dall’ambiente, hanno la costante sensazione che qualcosa sia stato loro negato e i loro desideri disconosciuti. L’esperienza infantile è stata carente, hanno vissuto una scissione tra sessualità e bisogni dell’Io corporeo. In età adulta , l’angoscia viene affrontata tramite la sessualità, da ciò dipende sia la promiscuità che l’inibizione sessuale.
Paradossalmente, il successo sessuale equivale inconsciamente alla castrazione delle capacità dell’Io, arrendersi sessualmente all’oggetto implica il pericolo dell’annientamento dell’Io, da ciò il rifiuto dell’oggetto prima desiderato e cercato.

Il pretesto del risentimento dell’isterico è che anche il nuovo oggetto d’amore le ha deluse, poichè non le ha riconosciute nella loro autenticità.
Le principesse- triste cercano con il linguaggio sessuale, di ottenere una gratificazione affettiva, confondendo la lingua degli adulti con quella infantile, ossia sovrapponendo il linguaggio della tenerezza a quello della passione.
Magari si rifugiano nei sogni romantici ad occhi aperti che come scrive Bollas in “Isteria”, sostituiscono i contenuti erotici rimossi o dissociati , allontanano le tematiche sessuali per cercare di avvicinarsi ad un elevato ideale del sé, un po’ come avviene nella trama dei romanzi rosa o in modo più attuale, in molte storie delle fiction televisive.

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Come poter aiutare le principesse-tristi?

Il primo passaggio, è una diagnosi differenziale tra struttura di personalità prevalentemente narcisistica od isterica. Si tratta di pazienti molto diverse in quanto nel caso della patologia narcisistica, è proprio il riconoscimento di un oggetto intero separato e visto in modo realistico ad essere carente o distorto, invece la paziente nevrotica ha raggiunto la persistenza dell’oggetto, la difficoltà è legata alla colpa edipica. Comune ai due gruppi clinici, è però una certa idea della femminilità e del ruolo della donna.

Freud, nell’identificare le origini psichiche dell’isteria, è partito da una scoperta essenziale che non sempre viene evidenziata, ossia anche le donne, non solo gli uomini, hanno una libido che se non trova una via di soddisfazione nella realtà, si ritorce contro la persona che inizia a soffrire di sintomi che rappresentano il compromesso tra la libido stessa e la difesa. Freud, in modo originale, ha riconosciuto alle donne il diritto alla potenza aggressiva dell’energia sessuale a prescindere dalla maternità, riconoscendo alla donna un ruolo sessuale  pari a quello maschile separato dalla funzione materna.

Come afferma la psicanalista francese Sophie Cadalen che si è occupata in più scritti della questione maschile e femminile, nonostante i contraccettivi e quindi il controllo delle nascite, la maternità a livello inconscio assicura ancora una normalità della femminilità, le donne occidentali seguitano a sentirsi in colpa per la sessualità e la femminilità.
Assumersi il ruolo di protagoniste delle proprie scelte sessuali, ne comporta  anche la responsabilità.
Le principesse-tristi sono in attesa, anche se apparentemente attive, restano arroccate nella loro torre solitaria, è comunque il principe che le deve raggiungere e coinvolgere nell’amore e nell’eros .
Se la conquista della felicità dipende da ognuno di noi, uomo e donna, essere felici può fare paura perché significa diventare protagonisti della propria vita. Non basta un principe qualsiasi ma serve che il nostro desiderio incontri, nella realtà, il desiderio dell’altro.

La principessa-triste è prigioniera di una fitta ragnatela, apparentemente senza via di uscita, di cui è lei stessa la principale artefice e vittima. E’ proprio il comportamento di queste donne-tristi, piuttosto che le reali condizioni esterne, ad ostacolarle nella realizzazione del loro più grande desiderio consapevole. Il comportamento appare contraddittorio rispetto ai desideri, è evidente una scissione che le imprigiona nella ripetizione coatta di modalità disfunzionali.

Articolo pubblicato su la rivista “Mente e cervello” , gennaio 2009, N. 49

Dottoressa Maria Grazia Antinori – Psicologa, Psicoterapeuta

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Qual è la differenza tra anoressia e bulimia?

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Maddalena, 27 anni, racconta che per lei tutto è iniziato «come spesso inizia per tante, con una banalissima dieta cominciata in primavera, alla fine della seconda superiore. In previsione dell’estate mi vedevo un po’ in sovrappeso: pesavo 57 kg ed ero alta 1,65. Perfettamente nella norma, solo che quando ci sei dentro hai una distorsione dell’immagine del tuo corpo. Quindi ho iniziato la dieta. Poi man mano la situazione è peggiorata: iniziavo a dimagrire sempre di più, e il fatto di perdere peso era un rinforzo positivo a mantenere questo mio comportamento. I miei erano straziati da questa cosa, ma non mi hanno mai detto “perché non mangi” o “devi mangiare” non mi hanno mai assillato. Soffrivano in silenzio. A dicembre pesavo 40 kg: avevo perso 17 kg in sei mesi. Ero proprio uno scheletro, e in quel momento mi piacevo. E non mi interessava quello che dicevano gli altri, anche perché mi ero isolata tantissimo. A quel punto la mia vita era solo andare a scuola, studiare e pensare al cibo, basta. Anche perché lo studio e il cibo erano le uniche due cose che potevo controllare, che dipendevano esclusivamente da me. La fame c’era, ma il fatto di aver fame e di sapere di riuscire a controllarla era una vittoria, io mi sentivo la più furba».

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L’anoressia

L’anoressia nervosa è esattamente questo: una perdita consistente di peso corporeo accompagnata da una forte paura di ingrassare, una distorsione della propria immagine corporea, per cui ci si vede grasse anche se in realtà si è sottopeso, e una bassa autostima di sé. La stima delle persone affette da anoressia nervosa, infatti, è fortemente legata all’aspetto fisico e la possibilità di controllare la fame e il peso, e ridurlo secondo le proprie esigenze, è un modo attraverso cui aumentarla.

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La bulimia

Come spiega Maddalena, che poi continuando a raccontare la sua storia dirà di essere passata dall’anoressia alla bulimia “l’altra faccia della medaglia”. «Mi ritrovavo a mangiare grosse quantità di cibo. Uscivo per comprare torta salata, biscotti, patatine, tornavo a casa e li mangiavo da sola e di nascosto; e mi sentivo un animale perché durante e prima dell’abbuffata ti prende una forza incontrollabile, che non puoi fare a meno di assecondare. Mangiavo di nascosto per un discorso di intimità, perché non è un mangiare normale, è un mangiare in modo incontrollato. Per me era una cosa molto strana a cui non potevo sottrarmi, ma che sentivo non era normale. Per questo la volevo tenere per me, anche se sapevo che i miei genitori sarebbero stati ben felici di sapere che stavo mangiando».

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Abbuffata compulsiva

La caratteristica clinica principale della bulimia nervosa è l’abbuffata compulsiva, l’ingestione di grosse quantità di cibo in assenza di controllo, vissuto come qualcosa che bisogna fare per forza e che non si riesce a fermare o controllare. Seguita poi da comportamenti di compenso volti a prevenire l’aumento di peso. La psicopatologia di base è simile a quella dell’anoressia: c’è in entrambi i casi una forte paura di ingrassare, una distorsione dell’immagine corporea e una bassa autostima. La differenza è che nel caso della bulimia ci sono delle grandi abbuffate seguite dall’uso di purganti o lassativi o dal vomito autoindotto. Oppure si fanno digiuni prolungati o intensa attività fisica. Il peso però non si riduce tantissimo come nell’anoressia, perché queste grandi mangiate consentono comunque l’ingestione di una certa quantità di cibo.

Differenze tra bulimia ed anoressia:

  • Nella bulimia il paziente compie delle vere e proprie abbuffate, seguite da condotte di eliminazione (con vomito autoindotto, diuretici, lassativi) o senza condotte di eliminazione (comportamenti compensatori inappropriati come digiuni o/e intensa attività fisica; nell’anoressia invece la paziente tende a non mangiare per nulla;
  • La bulimia è disturbo egodistonico, in quanto i sintomi vengono vissuti come estranei e fastidiosi, tanto che molto spesso è il paziente stesso a richiedere spontaneamente un trattamento. Al contrario l’anoressia viene vissuta come un fatto positivo ed il paziente non chiede aiuto, né vuole essere aiutato.
  • Nella bulimia di solito non vi sono grosse variazioni di peso nel tempo, mentre nell’anoressia il paziente perde peso in modo considerevole.

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Le conseguenze di anoressia e bulimia

Le conseguenze dal punto di vista della salute fisica nel caso dell’anoressia sono dovute alla mal nutrizione e al calo di peso, mentre nel caso della bulimia purgativa al vomito autoindotto e all’uso di lassatavi. Questi determinano squilibri dei sali e dei liquidi corporei che possono portare ad aritmie e collasso cardiocircolatorio. Il vomito, inoltre, può provocare danni alla cavità orale, ai denti e così via.

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I soggetti più esposti: giovani ragazze

In Italia come in tutti i paesi occidentali, le persone affette da disturbi dell’alimentazione, come l’anoressia o la bulimia nervosa, sono ancora tante. Per questo, per sensibilizzare l’opinione pubblica, lo scorso 15 marzo in molte città italiane si è tenuta la terza giornata nazionale del fiocchetto Lilla, dedicata ad anoressia, bulimia, obesità e di tutte le patologie legate ai disturbi del comportamento alimentare. Le più esposte sono sempre le ragazze, con un rapporto maschi: femmine di 1:9, e si stima che la prevalenza sia dello 0,5-1% per l’anoressia e del 2% per la bulimia. La fascia di età interessata all’insorgenza del disturbo è quella tra i 14-19 anni anche se ultimamente si sta assistendo a un anticipo dell’esordio con le prima manifestazioni del disturbo che si possono presentare già a 9-10 anni. Sia perché oggi, tramite i mezzi di comunicazione, le ragazze sono esposte prima a pressioni sociali, come il mito della magrezza tipico dell’ideale occidentale; sia perché nel corso degli anni biologicamente si è assistito a un’anticipazione dell’età del menarca. Fenomeno che può aver contribuito all’anticipo all’insorgenza del disturbo. Nonostante i fattori ambientali – come appunto il mito della magrezza, visto come un prerequisito fondamentale per il successo e l’affermazione sociale – abbiano un peso determinante nell’insorgenza della malattia, è anche vero che tutte le ragazze del mondo occidentale sono esposte a messaggi simili, ma solo lo 0,5-1% va incontro a questi disturbi. Questo significa che l’origine del disturbo è di tipo multifattoriale e che dipende anche da una predisposizione individuale in parte biologica e in parte psicologica, a cui poi si sommano i fattori ambientali.

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Nei maschi

Nei maschi l’anoressia è meno frequente, ma negli ultimi anni si è osservato un aumento dei casi anche per il sesso forte. In questo caso la malattia assume una connotazione un po’ diversa, per cui non è tanto importante la magrezza quanto la muscolosità. Il meccanismo però è il medesimo: attraverso il dimagrimento e riduzione del peso si cerca di raggiungere l’ideale di un corpo scolpito. Si parla di vigoressia, ma questo comportamento non porta a quello a cui i ragazzi aspirano, ma solo a cause negative dal punto di vista fisico. Per il resto poi, fisiopatologia, evoluzione del disturbo, l’insorgenza il disturbo assomiglia a quello delle ragazze.

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Guarire dall’anoressia e dalla bulimia

La guarigione può richiedere diversi anni e in alcuni casi non è totale, ma si recupera solo in parte. L’esito della terapia dipende soprattutto dalla tempestività del trattamento: quanto prima le persone entrano in contatto con i clinici specializzati, tanto più rapida e sicura è la guarigione. Nell’anoressia nervosa c’è una percentuale di guarigione del 60-70%, mentre nella bulimia, questa percentuale sale fino all’80-90 per cento. In alcuni casi però i pazienti non riescono a recuperare completamente una sana alimentazione e nelle forme più croniche e di più lunga durata l’esito non sempre è favorevole. L’anoressia, inoltre, tra le malattie psichiatriche è quella che presenta il più alto tasso di mortalità, circa il 5%, in gran parte dovute alla conseguenza organiche e in piccole parte al suicidio.

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Curare l’anoressia e la bulimia

Inutile aggiungere poi, che la presa di coscienza da parte dei pazienti, è sicuramente la fase più critica del processo. La motivazione al trattamento è la prima fase e a volte impieghiamo anche 3-5 sedute per motivare le persone, perché la maggior parte non hanno consapevolezza della malattia, nel senso che si vedono grasse anche essendo magre quindi non hanno nessuna necessità di essere curate. Il trattamento d’elezione è quello multidisciplinare integrato, che coinvolge diverse figure professionali, dallo psichiatra che “dirige l’orchestra”, all’’internista per le complicanze mediche, il ginecologo, il nutrizionista e l’educatore professionale per i percorsi formativo tipo il pasto assistito. I farmaci invece si usano poco, solo per la cura delle complicanze fisiche o dei sintomi psichiatrici. I genitori spesso hanno grossi sensi di colpa perché pensano di aver sbagliato qualcosa, di non essere stati in grado di soddisfare tutte le richieste dei figli e che questo abbia determinato l’insorgenza della malattia. Non sanno bene come comportarsi, per cui spesso insorgono conflitti al momento dei pasti perché sono preoccupati per il calo di peso e impongono di mangiare. In alcuni casi, quando ci sono dei conflitti, possono essere di ostacolo e hanno bisogno di essere aiutati e supportati. In genere però non rappresentano un ostacolo ma anzi, spesso sono una risorsa per il trattamento, come quello basato sulla famiglia adottato per le ragazzine più giovani.

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Il test che ti dice se hai paura di essere felice

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO DONNA TRISTE DEPRESSIONE PIANTO PIANGERE TRISTEZZA BIANCO E NERAPer alcuni la felicità è qualcosa da temere e da evitare: come spiega Scientific American alcune persone proverebbero un senso di ansia nel sentirsi felici, perché questo stato li obbligherebbe ad abbassare la guardia in vista di eventuali eventi negativi. Una spirale negativa che, in certi casi, può sfociare nella depressione o nei disturbi emotivi. Scientific American propone una serie di domande per capire se, anche noi, potremmo essere tra quelli che hanno paura della felicità.

Le domande del test

1. «Sono spaventato/a all’idea di lasciarmi andare ed essere troppo felice»

2. «Faccio fatica a fidarmi dei miei stessi sentimenti positivi»

3. «Quando mi sento felice non dura mai troppo a lungo»

4. «Credo di non meritarmi la felicità»

5. «Sentirmi felice mi fa sentire a disagio»

6. «Quando raggiungo un obiettivo o un traguardo, mi impongo di non gioirne troppo»

7. «Quando sei felice, non puoi mai sapere se, all’improvviso, ti potrà capitare qualcosa di brutto»

8. «Mi preoccupo del fatto che se sono troppo felice potrà succedermi qualcosa di brutto»

9. «Quando ti senti felice, abbassi la guardia»

Per fare il test originale clicca qui

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Autostima: come ritrovarla dopo un fallimento ed avere successo al tentativo successivo

MEDICINA ONLINE EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO UOMO FACCIA BARBA CAPELLI FOLTI OCCHI BELLEZZA PELI FELICE CIELO ALLEGRO CONTENTO FELICITA RELAXQuando si fallisce in qualcosa, a prescindere dal tipo di azione o percorso intrapreso, rimane dentro di te quella sensazione di vuoto, di incompiuto che ti porta a pensare di non aver mai fatto abbastanza, di aver perso, senza possibilità di ripresa. Oggi vedremo come evitare questa emozione, come rialzarsi dopo un fallimento, qualsiasi esso sia.

Reazioni diverse al fallimento

Quando si parla di autostima e fallimento devi venire a patto con una realtà ineluttabile: ognuno di noi è diverso e vi sono migliaia di reazioni diverse rispetto quest’ultimo e altrettante migliaia ripercussioni su ciò che pensiamo di noi stessi. La stessa parola “fallimento” può essere applicata in più situazioni: perdere una partita di calcetto è un fallimento, ma anche non riuscire a superare un concorso importante lo è. Tutto ciò passa attraverso il nostro modo di vedere la vita: chi è più ottimista e nella vita ha “fallito poche volte” si riprenderà subito, i pessimisti e chi ha fallito molte volte avranno periodi “peggiori” e nei casi più estremi non si riprenderanno mai del tutto.

I passi da seguire per riprendersi

Piccolo o grande che sia il fallimento, nella maggioranza dei casi – a meno che il paziente non soffra di particolari patologie come la depressione, ad esempio, dove il caso si complica un po’ – la possibilità di riprendere le redini della propria vita e tornare “a vincere” sono alla portata di tutti. Di solito sono pochi gli step che è necessario intraprendere per riprendersi da un fallimento, ma è assolutamente necessario che questi siano affrontati, uno dopo l’altro e senza remore. Per comprendere che, quando si sbaglia, c’è sempre la possibilità di rimediare, partendo però sempre dall’umile presupposto che non sempre si è capaci di riuscire al meglio in qualsiasi campo della vita. Il “metodo” che voglio suggeriti oggi è ovviamente basato su piccoli passi che devi compiere su te stesso aiutato dal pensiero positivo e dalla tua capacità di analisi di ciò che ti accade.

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1) Prendi un bel respiro. Partiamo dal nostro corpo e più in particolare dal nostro apparato respiratorio: la respirazione è un’arma potente a nostro vantaggio, e non solo perché è capace di calmarci e rilassarci, ma perché contribuisce alla nostra ossigenazione e si sa che un cervello ben ossigenato ragiona meglio. Riflettici, fallire in qualcosa non è la fine del mondo. Prenditi un attimo per pensare, cerca di guardare ciò che è accaduto nella giusta prospettiva. Anche il fallimento è una piccola cosa rispetto al grande quadro della vita.

2) Esprimi ciò che senti. Quando fallisci è normale provare dei sentimenti. La maggior parte delle volte si tratta di sensazioni che fanno male, che corrodono l’animo. Trattenerle non può farti bene. E’ meglio tirar fuori tutto ciò che si prova, dare alla propria mente ed a se stessi lo spazio necessario per trovare il modo di reagire. Nascondere le proprie emozioni non aiuta a mantenere alta la propria autostima, ricordatelo. Possono infatti ripresentarsi quando meno te lo aspetti.

3) Ridefinisci il fallimento. Non prenderlo come tale ma vivilo come un semplice feedback della tua esperienza. In questo modo diventa qualcosa dal quale partire per migliorare e non qualcosa sul quale piangere lacrime amare. Non ha fallito la persona, è il metodo che ha fallito e quest’ultimo si può sempre cambiare.

4) Ricordati che il fallimento è una cosa temporanea. Qualsiasi cosa accada la vita va avanti. Ed il fallimento è solo una minima porzione della stessa. Un piccolo frammento dal quale è necessario riprendersi senza perdere la speranza né la fiducia che si ha in se stessi. Non è l’atto del fallire a dire chi siamo ma la capacità che abbiamo di riprenderci da una delusione o di combattere i fatti avversi della vita.

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5) Ricordati che non puoi sempre fare tutto perfettamente. E’ importante ricordare questo: non siamo perfetti e possiamo sbagliare. Ecco perché fallire può essere contemplato nel quadro generale della vita. Senza farsi troppi problemi ma al contempo impegnandoci a non cadere negli stessi errori.

6) Pensa positivo e ricomincia. Altro punto chiave: tira fuori l’ottimismo che c’è in te e rimettiti al lavoro. Pensare positivo è un toccasana, non dimenticarlo! Tuttavia nel rimettersi al lavoro, per minimizzare il rischio di un nuovo fallimento, la cosa migliore da fare è cambiare il metodo!

7) Cambia metodo. Qualsiasi sia l’azione intrapresa risoltasi in un fallimento, cambiare metodo di messa in pratica è sempre un ottimo mezzo per rialzarsi. Devi chiederti cosa puoi fare di differente rispetto a ciò che hai fatto e guardare a chi ha intrapreso quell’azione prima di te per chiedere consiglio e trovare l’ispirazione.

8)Fai il primo passo per ricominciare. E’ la cosa più difficile da fare, per questo l’abbiamo messo come ultimo punto, ma è di primaria importanza compiere questa azione. E’ contemporaneamente un passaggio e l’obiettivo da raggiungere.

Se credi di avere una bassa autostima ed hai bisogno di supporto, prenota subito la tua visita e, grazie ad una serie di colloqui riservati, riusciremo insieme a risolvere il tuo problema.

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