Ritmo circadiano: caratteristiche, durata, luce e melatonina

MEDICINA ONLINE SONNO DORMIRE RIPOSARE RIPOSINO PISOLINO RUSSARE CUSCINO LETTO NOTTE POMERIGGIOIl ritmo circadiano, in cronobiologia e in cronopsicologia, è un ritmo caratterizzato da un periodo di circa 24 ore. Il termine “circadiano”, coniato da Franz Halberg, viene dal latino circa diem e significa appunto “intorno al giorno”. Il primo a intuire che i ritmi osservati potessero essere di origine endogena fu lo scienziato francese Jean-Jacques d’Ortous de Mairan che nel 1729 notò che i modelli di 24 ore nei movimenti delle piante continuavano anche quando queste venivano tenute in condizioni di buio costante. Esempi sono il ritmo veglia-sonno, il ritmo di secrezione del cortisolo e di varie altre sostanze biologiche, il ritmo di variazione della temperatura corporea e di altri parametri legati al sistema circolatorio. Oltre ai ritmi circadiani sono stati identificati e studiati vari ritmi circasettimanali, circamensili, circannuali. Si pensa che i ritmi circadiani si siano originati nelle protocellule, con lo scopo di proteggere la replicazione del DNA dall’alta radiazione ultravioletta durante il giorno. Come risultato, la replicazione avveniva al buio. Il fungo Neurospora, che esiste ancora oggi, contiene questo meccanismo regolatore.

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Caratteristiche

Il sistema circadiano endogeno è una sorta di complesso “orologio interno” all’organismo che si mantiene sincronizzato con il ciclo naturale del giorno e della notte mediante stimoli naturali come la luce solare e la temperatura ambientale, ed anche stimoli di natura sociale (per esempio il pranzo o la cena sempre alla stessa ora). In assenza di questi stimoli sincronizzatori (per esempio in esperimenti condotti dentro grotte o in appartamenti costruiti apposta) i ritmi continuano ad essere presenti, ma il loro periodo può assestarsi su valori diversi, per esempio il ciclo veglia-sonno tende ad allungarsi fino a 36 ore, mentre il ciclo di variazione della temperatura corporea diventa di circa 25 ore.

I ritmi circadiani sono importanti per determinare i modelli di sonno e veglia di tutti gli animali, inclusi gli esseri umani. Vi sono chiari modelli dell’attività cerebrale, di produzione di ormoni, di rigenerazione cellulare e altre attività biologiche collegate a questo ciclo giornaliero.

Il ritmo è collegato al ciclo luce-buio. Animali tenuti in totale oscurità per lunghi periodi funzionano con un ritmo che si “regola liberamente”. Ogni “giorno” il loro ciclo di sonno avanza o regredisce a seconda che il loro periodo endogeno sia più lungo o più corto di 24 ore. Gli stimoli ambientali che ogni giorno resettano i ritmi sono chiamati Zeitgebers (tedesco, letteralmente significa: “donatori di tempo”). È interessante notare che mammiferi totalmente sotterranei (come il topo-talpa cieco spalax) sono capaci di mantenere il loro orologio interno in assenza di stimoli esterni.

In esseri umani che si sono volontariamente isolati in grotte e senza stimoli esterni si è notato che il ritmo circadiano sonno-veglia tende progressivamente ad allungarsi, sino ad arrivare a “giornate” di 36 ore. Fondamentale come regolatore dell’orologio interno appare quindi il ruolo della luce solare.

L'”orologio circadiano” nei mammiferi è collocato nel nucleo soprachiasmatico (SCN), un gruppo definito di cellule situato nell’ipotalamo. La distruzione dell’SCN causa la completa assenza di un regolare ritmo sonno/veglia. L’SCN riceve informazioni sull’illuminazione attraverso gli occhi. La retina degli occhi non contiene solo i “classici” fotorecettori, ma anche cellule gangliari retinali fotosensibili. Queste cellule, che contengono un pigmento chiamato melanopsina, seguono un tragitto chiamato tratto retinoipotalamico, che collega all’SCN. È interessante notare che se le cellule provenienti dall’SCN sono rimosse e coltivate in laboratorio mantengono il loro ritmo in assenza di stimoli esterni. Sembra che l’SCN prenda le informazioni sulla durata del giorno dalla retina, le interpreti e le invii alla ghiandola pineale (una struttura delle dimensioni di un pisello situata nella parete posteriore del terzo ventricolo) la quale secerne melatonina in risposta allo stimolo. Il picco di secrezione della melatonina si raggiunge durante la notte.

Le piante sono organismi sensibili, e perciò sono strettamente legate con l’ambiente circostante. L’abilità di sincronizzarsi con i cambiamenti giornalieri della temperatura e della luce sono di grande vantaggio per le piante. Per esempio, il ciclo circadiano esercita un contributo essenziale per la fotosintesi, conseguentemente permette di aumentare la crescita e la sopravvivenza delle piante stesse.

La luce e l’orologio biologico

L’abilità della luce di azzerare l’orologio biologico dipende dalla curva di risposta di fase (alla luce). Dipendentemente dalla fase del sonno, la luce può avanzare o ritardare il ritmo circadiano regolando i livelli di melatonina. L’illuminazione richiesta varia da specie a specie: nei roditori notturni, ad esempio, è sufficiente una diminuzione di luce molto inferiore rispetto all’uomo per l’azzeramento dell’orologio biologico. Oltre all’intensità della luce, la lunghezza d’onda (o colore) della luce è un importante fattore per la determinazione del grado a cui l’orologio è azzerato. La melanopsina è eccitata più efficacemente dalla luce blu (420-440 nm).

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Le dieci cose di cui gli italiani hanno maggior paura secondo Google

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma PARALISI DEL NEL SONNO ALLCUCINAZIONI PERICOLI CU Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata Macchie CapillariSecondo il motore di ricerca più diffuso del pianeta, ovviamente Google, questa è la top ten delle cose di cui gli italiani hanno più paura:

  1. Sbagliare
  2. Vivere
  3. Amare
  4. Morire
  5. Guidare
  6. Impazzire
  7. Volare
  8. Crescere
  9. Cadere
  10. Ammalarsi

Come potete vedere, se vi aspettavate pagliacci, buio, mostri o qualsiasi altro evento paranormale, vi sbagliavate di grosso. Da questa ricerca gli italiani risultano essere un popolo molto più profondo di quanto non sembri.
Tematiche esistenziali sono toccate da questo sondaggio, come la paura di vivere, crescere o morire ma anche argomenti un po più concreti quali la malattia o il volo.
Immancabile, in una top ten del genere  l’amore, che si aggiudica il terzo gradino del podio, mentre il primato va alla paura di sbagliare, una cosa abbastanza generica ma che racchiude molti dei nostri pensieri. Io personalmente condivido particolarmente la paura di volare che, in questo sondaggio, si posiziona al settimo posto preceduta dalla paura di impazzire e dalla paura di guidare che, da sogno di ogni adolescente, sembra si stia trasformando in incubo diffuso, specie tra le donne.
Voi quali di queste paure condividete con il popolo italiano?

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Vescica neurogena disinibita, riflessa, autonoma, atonica

MEDICINA ONLINE APPARATO URINARIO RENI URETRA URETERI URETERE DIFFERENZA URINA AZOTEMIA PENE VAGINA ORIFIZIO SCORIE VESCICA TUMORI TUMORE CANCRO DIAGNOSI CISTOSCOPIA ECOGRAFIA UOMO DONNACon il termine vescica neurologica si indica un disturbo da alterazione dei fisiologici meccanismi di riempimento-svuotamento della vescica, per una patologia neurologica che altera in parte o in toto i meccanismi neuronali di controllo vescico-sfinteriali.

Vescica neurogenica disinibita

Per perdita dell’inibizione centrale da lesioni delle fibre efferenti frontali. Il Centro Pontino della Minzione (CPM) liberato dal sovracontrollo dei centri superiori, attiva i nuclei sacrali parasimpatici che a loro volta attivano il detrusore della vescica. La sinergia tra il detrusore della vescica e l’apparato sfinterico è mantenuta ma il controllo volontario della minzione è ridotto. I quadri clinici da Iperattivita detrusionale neurogerna si manifestano con urgenza mizionale e incontinenza da urgenza
La sensibilità vescicale è conservata, le contrazioni vescicali sono avvertite ma non inibite dal controllo dei centri corticali superiori; si ha incapacità di bloccare la minzione.

Vescica neurogenica riflessa

Per lesioni spinali tra mesencefalo e centri sacrali della minzione con interruzione delle fibre afferenti ed efferenti al centro corticale.
La sensibilità vescicale è perduta, la minzione è riflessa e inconscia, le contrazioni vescicali non sono avvertite né inibite, con svuotamento vescicale a basso volume.

Vescica neurogenica autonoma

Per lesioni della corda sacrale o della cauda equina con interruzione delle fibre afferenti ed efferenti dell’arco diastaltico sacro-vescicale.
Si ha insensibilità vescicale, abolizione della minzione volontaria e anche riflessa, sovradistensione con svuotamento da sovrappieno (iscuria paradossa).

Vescica neurogenica atonica

Per lesioni delle radici posteriori del nervo sacrale con interruzione delle fibre afferenti dell’arco diastaltico sacro-vescicale.
Si ha insensibilità vescicale, abolizione della minzione riflessa, sovradistensione (ritenzione urinaria), svuotamento da sovrappieno.

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Perdita della coordinazione muscolare: l’atassia

MEDICINA ONLINE CERVELLETTO ANATOMIA INTERNA ESTERNA Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata Macchie Capillari Ano PeneCon “atassia” (in inglese “ataxia”) in medicina si indica un disturbo caratterizzato nella progressiva perdita della coordinazione muscolare che rende Continua a leggere

Sono un sonnambulo: cause, sintomi, diagnosi e terapie

MEDICINA ONLINE CERVELLO TELENCEFALO MEMORIA EMOZIONI CARATTERE ORMONI EPILESSIA STRESS RABBIA PAURA FOBIA SONNAMBULO ATTACCHI PANICO ANSIA VERTIGINE LIPOTIMIA IPOCONDRIA PSICOLOGIA PSICOSOMATICA PSICHIATRIA CLAUSTROFOBIAIl sonnambulismo è un disturbo del sonno di natura benigna e a risoluzione generalmente spontanea, che si presenta tipicamente durante la prima parte della notte, ovvero, entro le prime 2 ore dall’addormentamento. Chi ne soffre compie dei movimenti o dei comportamenti, a volte anche complessi, senza averne coscienza: nonostante l’attività motoria del sonnambulo, questo in realtà sta continuando a dormire.

A volte, durante gli episodi di sonnambulismo, il soggetto semplicemente si siede sul letto con gli occhi aperti, in altri casi più complessi si alza, cammina, compie comportamenti automatici come lavarsi o vestirsi, accende la tv, ecc. tutto ciò senza che al mattino si ricordi nulla di quanto accaduto. Al termine di ogni episodio, di solito, il soggetto torna spontaneamente a letto a dormire. Gli episodi di sonnambulismo durano generalmente dai 5 ai 20 minuti, raramente si prolungano oltre questo tempo.

sonnambuli possono parlare, oppure emettere suoni incomprensibili e possono diventare aggressivi, specialmente se qualcuno li tocca nel tentativo magari di svegliarli. Nonostante, come si è detto inizialmente, la natura del disturbo sia fondamentalmente benigna, e in genere si risolva da solo, bisogna stare attenti ai comportamenti compiuti durante gli episodi, perché non essendo cosciente di ciò che sta facendo, potrebbero diventare pericolosi per sé stesso.

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Quando esordisce il disturbo?

Il sonnambulismo è un disturbo che riguarda prevalentemente l’età evolutiva, e si ritiene essere anche piuttosto comune: si stima che tra il 15 e il 30% dei bambini hanno sperimentato almeno una volta un episodio di sonnambulismo mentre circa il 6% presenta episodi ricorrenti. L’età di insorgenza di questo disturbo varia dai 4 ai 12 anni, e generalmente a partire dalla pubertà tende a scomparire spontaneamente. Più raramente si presenta o si prolunga in età adulta, dove incontra una prevalenza pari a solo il 2%.

Quali sono le cause?

Tra le cause del sonnambulismo, un ruolo chiave lo giocano i fattori genetici: circa la metà delle persone con sonnambulismo hanno almeno un familiare che a sua volta ha sperimentato questi episodi. Tra le cause scatenanti ci sono inoltre fattori emotivi (ad es. stress o periodi di disagio psicologico), fattori medici (infezioni e febbre alta, perché aumentano la quantità di sonno profondo, fase in cui si presentano gli episodi), la deprivazione di sonno e l’uso di alcool o droghe.

Come si presenta nei bambini?

Come si è detto, il sonnambulismo è un disturbo che interessa prevalentemente i bambini, e quindi, quando un genitore si trova a rilevare questi episodi, tendenzialmente può stare tranquillo. Tra i comportamenti più comuni che i bambini mettono in atto durante gli episodi rientrano: mettersi seduto sul letto, andare nel letto dei genitori o del fratellino/sorellina a dormire, accendere la luce, lavarsi, ecc. Tutte queste attività vengono compiute ad occhi aperti e spesso il genitore è convinto che il bimbo sia sveglio.

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Il consulto ad un esperto in disturbi del sonno deve essere richiesto se:

  • Gli episodi hanno una frequenza maggiore di 2 volte la settimana
  • Se durante la notte è presente più di un episodio o comunque avvengono non necessariamente entro 1-2 ore dall’addormentamento (in questo caso deve essere effettuata una diagnosi differenziale con episodi di natura epilettica)
  • Il bambino compie azioni pericolose (sale/scende le scale) o presenta episodi di sonnambulismo “agitato”.
  • Se il bambino, oltre al sonnambulismo, presenta anche enuresi (pipì a letto) o risulta essere particolarmente ansioso, è bene chiedere una consulenza psicologica al fine di valutare eventuali problematiche emotive sottostanti il disturbo.

Come avviene la diagnosi?

La diagnosi può essere effettuata anche solo sulla base del racconto riportato da chi ha assistito agli episodi di sonnambulismo. Una diagnosi di tipo strumentale (video-polisonnografia) si rende indispensabile nel caso si sospetti che gli episodi riportati non siano di sonnambulismo, bensì che siano di natura epilettica.

In cosa consiste il trattamento?

L’approccio terapeutico di elezione per il sonnambulismo, è quello comportamentale. I genitori vanno istruiti circa l’importanza dei principi di igiene del sonno, primo tra tutti, mantenere orari di addormentamento/risveglio regolari ed evitare di dormire poco o di andare a dormire troppo tardi. Altro aspetto fondamentale nel trattamento è relativo all’utilizzo delle tecniche di rilassamento, che sono consigliate all’addormentamento e nei casi in cui i soggetti si trovino in periodi particolarmente stressanti (e che quindi potrebbero facilitare l’insorgenza degli episodi di sonnambulismo). Generalmente l’evoluzione del disturbo ha un andamento benigno e tende ad andare incontro a remissione spontanea senza interventi mirati. Quando invece sono presenti le condizioni di seguito elencate, si rende necessario un intervento specialistico:

  • Diagnosi confermata attraverso uno studio del sonno completo del bambino
  • Presenza di parasonnia del sonno NREM caratterizzata da episodi di stato di coscienza alterato (episodi confusionali notturni, difficoltà ad alzarsi, risvegli con amnesia completa o parziale, comportamenti dannosi o potenzialmente tali)
  • Cronicità dei sintomi
  • Frequenza elevata degli episodi (ogni notte o più volte a settimana)
  • Gli episodi si manifestano in determinati periodi della notte

In questi casi, dopo una valutazione clinica approfondita (anamnesi dei disturbi del sonno, polisonnografia), un tipo di trattamento indicato consiste in un protocollo di risvegli notturni programmati per una o più settimane. I risvegli notturni, infatti, alterano i cicli del sonno del bambino, modificando il pattern elettrofisiologico che sottende al disturbo. Si tratta di una strategia comportamentale molto efficace, seppur faticosa, che consiste nel risvegliare il bambino prima dell’orario in cui di solito si verificano gli episodi e, in seguito, predisporlo nuovamente a dormire.

Il trattamento farmacologico

Il trattamento farmacologico risulta essere indicato solo nel caso in cui gli episodi sono molto frequenti oppure se i fenomeni di sonnambulismo mettono a rischio l’incolumità della persona (ad es. se il sonnambulo si alza e apre le porte o scende le scale ecc.). In questo caso la terapia comprende la somministrazione di farmaci come il diazepam, il clonazepam o l’imipramina, che agiscono riducendo la quantità di sonno profondo (fase del sonno 3-4 durante la quale si verificano gli episodi). Una alternativa, utilizzata per lo più nei bambini (visto che ha ridottissimi effetti collaterali e non dà assuefazione) è il L-5-idrossitriptofano, che, nell’ipotesi di una disfunzione del sistema serotoninergico nella genesi del sonnambulismo e delle altre parasonnie del NREM, determina una stabilizzazione del sonno.

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Paura dei luoghi chiusi e claustrofobia: cos’è e come si cura

MEDICINA ONLINE CERVELLO TELENCEFALO MEMORIA EMOZIONI CARATTERE ORMONI EPILESSIA STRESS RABBIA PAURA FOBIA SONNAMBULO ATTACCHI PANICO ANSIA VERTIGINE LIPOTIMIA IPOCONDRIA PSICOLOGIA PSICOSOMATICA PSICHIATRIA CLAUSTROFOBIA.jpgLa claustrofobia (dal latino claustrum, “luogo chiuso” e dal greco φόβος, phobos, “fobia”) è la paura di luoghi chiusi e ristretti come camerini, ascensori, sotterranei, metropolitane, strumenti per eseguire risonanze magnetiche e di tutti i luoghi angusti in cui il soggetto si ritiene accerchiato e privo di libertà spaziale attorno a sé. Oltre alle classiche manovre di fuga di fronte alla situazione fobica (letteralmente il soggetto si allontana con rapidità dal luogo ristretto, il claustrofobico cerca di fronte alle altre persone delle giustificazioni apparentemente logiche che spieghino il motivo di una scelta che altri possono considerare poco usuale: ad esempio il claustrofobico evita l’ascensore e preferisce salire le scale (anche se deve fare molti piani!) dicendo agli altri che così può fare un po’ di moto.

La claustrofobia è una delle fobie specifiche: le persone che ne soffrono manifestano una sensazione di malessere generale che risveglia paure archetipe (solitudine, vuoto, impotenza) e si può manifestare con attacchi di panico, senso di oppressione, difficoltà di respirazione, iperventilazione, sudorazione e nausea.

Claustrofobia e agorafobia

Nella claustrofobia il soggetto ha paura dei posti chiusi mentre nell’agorafobia – semplificando – ha invece paura degli spazi aperti. La claustrofobia è generalmente considerata in “antitesi” all’agorafobia, con la quale condivide i sintomi generali anche se motivati da diverse basi di partenza (l’agorafobico infatti teme di non essere soccorso in caso di panico e cerca la presenza di altri), con differenze anche di personalità di individui: il claustrofobico è infatti di norma autonomo, anche se imposta il suo stile di vita cercando di evitare le situazioni di accerchiamento e chiusura. Tuttavia, in molti casi, la presenza di legami relazionali troppo opprimenti potrebbe essere un’altra causa scatenante della claustrofobia e il soggetto potrebbe cercare una sua maggiore libertà evitando così la relazione con l’altro.

Trattamento

La terapia prevede:

  • la terapia espositiva;
  • la psicoterapia;
  • l’uso di psicofarmaci.

Se non vi sono altri disturbi psicologici, il trattamento della claustrofobia è di norma un percorso che si basa su un approccio cognitivo-comportamentista con terapia espositiva, associato o meno ai farmaci.

Terapia espositiva

La terapia espositiva “costringe” il paziente ad affrontare la situazione (o le situazioni) che gli genera l’attacco di fobia: il soggetto è invitato a parlare e/o scrivere ripetutamente del peggior evento traumatico che ha affrontato (o dei peggiori eventi), rivivendo nel dettaglio tutte le emozioni associate alla situazione. Attraverso questo processo molti pazienti subiscono un “abituarsi” alla risposta emotiva scatenata dalla memoria traumatica, che di conseguenza, col tempo, porta a una remissione dei sintomi della fobia quando la situazione si ripresenta nella realtà. La terapia espositiva – praticata per un periodo di tempo adeguato – secondo la nostra esperienza aiuta circa 9 pazienti su 10. Per approfondire, leggi questo articolo: Terapia espositiva: essere esposti alla propria fobia per superarla

Psicoterapia

La psicoterapia che ha mostrato fornire buoni risultati con la claustrofobia, è quella cognitivo comportamentale. La terapia cognitivo-comportamentale standard per il trattamento della claustrofobia, oltre agli interventi comportamentali basati sull’esposizione situazionale, prevede una psicoeducazione iniziale e interventi cognitivi. All’interno della psicoterapia cognitivo-comportamentale, le tecniche di esposizione si sono dimostrate utili nel ridurre i comportamenti che alimentano l’ansia claustrofobica (vedi paragrafo precedente). Recentemente sono state implementate strategie volte a incrementare la capacità dei soggetti di stare in contatto con l’attivazione ansiosa senza temerne le conseguenze catastrofiche. Favorendo l’accettazione e diminuendo il bisogno di controllo dei sintomi d’ansia.

Farmaci

Vengono usati farmaci ansiolitici e antidepressivi. Tra gli ansiolitici, le benzodiazepine (come il Valium) possono essere utili poiché generano un sollievo sintomatologico ansiolitico istantaneo, tuttavia tra gli effetti collaterali (se usate per lunghi periodi) ritroviamo il rischio di dipendenza da farmaco. Tra gli antidepressivi, particolarmente utili sono gli SSRI (Inibitori Selettivi del Reuptake della Serotonina). I farmaci generalmente funzionano bene per controllare la fobia, tuttavia, i sintomi della claustrofobia tendono a ripresentarsi alla loro sospensione.

Se credi di avere un problema di claustrofobia, prenota la tua visita e, grazie ad una serie di colloqui riservati, riuscirai a risolvere definitivamente il tuo problema.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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L’esperimento di Standford: la pazzia che colpisce chi indossa una divisa

MEDICINA ONLINE ESPERIMENTO STANDFORD PRIGIONE PSICOLOGIA PSICOLOGO DIVISA EFFETTO LUCIFERO.jpgQuelli nella foto potrebbero sembrare una guardia carceraria e un detenuto “normali”, anche se occhiali a specchio e sacchetto in testa lasciano un po’ perplessi. In realtà sono due partecipanti ad uno degli esperimenti che hanno fatto la storia della psicologia e non solo quella. L’esperimento carcerario di Stanford. Promosso dal prof. Zimbardo per indagare il comportamento di individui definiti esclusivamente dal proprio gruppo di appartenenza si svolse nel 1971 presso l’università di Stanford, nel periodo di interruzione delle lezioni.

Zimbardo creò all’interno del campus una riproduzione fedele dell’ambiente carcerario e dopo aver selezionato 24 uomini adulti, sani, equilibrati, appartenenti alla classe media, acculturati e privi di qualsiasi comportamento deviante, li divise in due gruppi. Il primo era quello dei detenuti. Ricevettero la medesima divisa, lo stesso berretto e furono incatenati alle caviglie. Il secondo era quello delle guardie, che indossarono una uniforme kaki, degli occhiali a specchio ed ebbero in dotazione manganello e manette.

I detenuti avevano delle regole precise a cui attenersi e le guardie avevano il compito di fargliele rispettare. Ovviamente tutti sapevano che si trattava di un esperimento e che i ruoli in cui si erano calati erano totalmente immaginari. Eppure passarono solo due giorni prima che la situazione precipitasse in maniera drammatica. I detenuti iniziarono infatti a protestare per la loro condizione, si strapparono le magliette e si rinchiusero nelle celle. Le guardie che già li trattavano con durezza iniziarono a praticare nei loro confronti forme sempre più efferate di violenza fisica e psicologica. I carcerati furono costretti a cantare canzoncine sconce, a defecare in secchi che non potevano vuotare, a pulire a mani nude le latrine.

Zimbardo, dopo un tentativo di evasione da parte dei detenuti represso con durezza, fu costretto a mettere fine al suo esperimento poiché i partecipanti cominciavano a mostrare seri segni di dissociazione dalla realtà, disturbi psicologici, fragilità e sadismo a seconda dei casi. L’esperimento dimostrò in maniera incontrovertibile che l’assunzione di un ruolo istituzionale da un lato deresponsabilizza l’individuo, portandolo a comportarsi senza quei freni sensazionali -paura, vergogna, pietà- che in condizioni normali ne regolano le azioni. Dall’altro che l’osservanza delle regole dell’istituzione a cui appartiene conduce un soggetto a non avere più alcuna autonomia comportamentale ma ad uniformarsi ciecamente al volere collettivo del gruppo. Insomma ambiente e istituzioni determinano in maniera determinante il comportamento di ogni singolo individuo. Zimbardo per spiegare questo fenomeno conierà il termine “effetto Lucifero”.

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Che cos’è l’intelligenza umana: definizione, significato e psicologia

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La valutazione dell’intelligenza

Per quanto riguarda l’intelligenza umana sono stati sviluppati dei modelli per la valutazione o “misura” della stessa. Va però precisato che tali modelli valutano solo aspetti specifici della capacità intellettiva degli individui: i risultati dei test d’intelligenza vanno considerati come giudizi validi solamente in riferimento a dei singoli aspetti, e non all’intelligenza dei soggetti testati nel suo complesso.

Di seguito sono elencati i principali test psicometrici (in ordine cronologico di ideazione):

  • Alfred Binet (1911) ed in seguito Lewis M. Terman all’Università di Stanford (1916) costruiscono un test che prende in considerazione soltanto quegli aspetti dell’intelligenza utilizzati in ambito scolastico, composto dunque da prove (diverse) strettamente inerenti all’ambito scolastico stesso. Erede contemporaneo del test sono le Scale d’intelligenza Stanford-Binet. Concetto chiave è il quoziente d’intelligenza (QI) come rapporto tra età mentaleed età cronologica moltiplicato 100. Il valore 100 del quoziente intellettivo è considerato il valore medio della popolazione. Il test Stanford-Binet misura un solo fattore di “intelligenza”, e propone prove suddivise per fasce di età; non ha validità per individui più grandi di 13 – 14 anni.
  • Il Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS, 1939) riprende i tipi di compito dello Stanford-Binet, nonché il concetto di quoziente intellettivo, e li ricostruisce per gli adulti. È costituito da più sub-test, ciascuno dei quali è composto da voci a difficoltà progressiva. Il WAIS, al contrario dello Stanford-Binet, non prevede un solo fattore di intelligenza generale, ma comprende anche una serie di dimensioni, coerenti al loro interno per tipologia di prove, che compongono il test: prove verbali (cultura generale, comprensione, analogie, memoria di cifre, ragionamento aritmetico), le prove di performance (riordinamento di figura, completamento di figura, disegno di cubi, ricostruzione di figura, associazione di simboli o numeri).
  • Per entrambi questi test (Stanford-Binet e WAIS) è chiara l’importanza, sulla misura finale, del livello di scolarizzazione del soggetto. Si sono quindi progettati dei test d’intelligenza “culture free”, non influenzati dal tipo di educazione e di cultura del soggetto messo sotto analisi; i più noti sono quello delle matrici progressive di Raven (1938), matrici numeriche da completare e il Culture fair intelligence test (1949) di Cattell. Studi su questi test sembrerebbero dimostrare che essi non discriminano in modo adeguato i soggetti con intelligenza superiore alla norma, mentre sembrerebbero più adatti per valutare i soggetti svantaggiati.

Gli studi differenziali sull’intelligenza

Con il diffondersi estensivo degli strumenti per la misura dell’intelligenza, si è focalizzata l’attenzione sulle differenze individuali ad essa legate. Le diversità in questione sono state infatti un significativo campo di discussione tra coloro che ne identificano le cause all’aspetto genetico e coloro che invece assegnano una maggiore importanza ai fattori ambientali. Alcuni studi mostrano come la presenza di alcune patologie psichiatriche, come la depressione, influisca sulla performance al test d’intelligenza WAIS-R: più è severa la patologia più la performance al test è deficitaria. Il che tuttavia non suggerisce una globale differenza nell’intelligenza tra individui depressi e individui sani, quanto piuttosto un ruolo negativo del verificarsi degli episodi depressivi sul modo in cui vengono svolti i test d’intelligenza. Gli studi differenziali sull’intelligenza evidenziano una forte correlazione tra QI (quoziente intellettivo) di gemelli monovulari. Si evidenzia inoltre che lo sviluppo delle capacità cognitive è fortemente influenzato dai fattori ambientali (si pensi agli studi portati avanti sulle differenze nell’intelligenza tra bianchi e neri, ricondotte non a differenze cognitive, ma piuttosto al fattore interveniente del livello socio-demografico). La psicologia risolve la dialettica tra componenti innate e ambientali nello sviluppo dell’intelligenza evidenziando come la componente genetica sembra rappresentare una disponibilità, mentre la componente educativa rappresenta un fattore di innesco per tradurre un potenziale in una funzionalità effettiva. Per quanto riguarda l’avanzare dell’età, il rendimento su alcune scale del WAIS tende a diminuire, mentre su altre rimane stabile o aumenta. Riprendendo la distinzione proposta da Raymond Cattell tra intelligenza fluida e cristallizzata, caratteristiche legate all’intelligenza fluida tendono a diminuire dopo i 60 anni, mentre l’intelligenza cristallizzata aumenta in maniera costante per tutta la vita.

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L’apporto cognitivista: il problem solving

Il problem solving è un processo mentale volto a trovare un percorso che porta il cambiamento da una situazione iniziale ad una disposizione finale. La capacità di problem solving è spesso adoperata come misura empirica dell’intelligenza; infatti nel problem solving viene contestualizzato il pensiero logico misurato dal quoziente d’intelligenza, che viene applicato alla risoluzione di problemi specifici. Coi test sul problem solving, i soggetti forniscono in genere prestazioni più elevate e considerate più attendibili. Il problem solving rappresenta l’approccio cognitivista allo studio dell’intelligenza. La definizione dell’intelligenza in termini di problem solving rappresenta il primo passo compiuto dagli psicologi da una visione dell’intelligenza di tipo scolastico a concetti più differenziati, come per esempio intelligenza fluida-cristallizzata (Raymond Cattell), o intelligenza logica-creativa, e recentemente i concetti di intelligenze multiple (Howard Gardner) e intelligenza emotiva (Daniel Goleman). Dal punto di vista storico risulta importante il contributo di Wertheimer. Max Wertheimer (1965) distingue una intelligenza logica, esprimentesi ad esempio nel ragionamento analitico, e una intelligenza creativa, orientata alla sintesi e alla costruzione del nuovo. La prima orientata ai problemi convergenti, la seconda orientata alla soluzione di problemi divergenti.

Le intelligenze multiple

Lo psicologo statunitense Howard Gardner, sulla base di ricerche e letteratura su soggetti affetti da lesioni di interesse neuropsicologico, arriva a distinguere ben 9 manifestazioni fondamentali dell’intelligenza, derivanti da strutture differenti del cervello e indipendenti l’una dall’altra. Ecco, qui di seguito, i nove macro-gruppi intellettivi:

  1. Intelligenza Linguistica: è l’intelligenza legata alla capacità di utilizzare un vocabolario chiaro ed efficace. Chi la possiede solitamente sa variare il suo registro linguistico in base alle necessità ed ha la tendenza a riflettere sul linguaggio.
  2. Intelligenza Logico-Matematica: coinvolge sia l’emisfero cerebrale sinistro, che ricorda i simboli matematici, che quello di destra, nel quale vengono elaborati i concetti. È l’intelligenza che riguarda il ragionamento deduttivo, la schematizzazione e le catene logiche.
  3. Intelligenza Spaziale: concerne la capacità di percepire forme e oggetti nello spazio. Chi la possiede, normalmente, ha una sviluppata memoria per i dettagli ambientali e le caratteristiche esteriori delle figure, sa orientarsi in luoghi intricati e riconosce oggetti tridimensionali in base a schemi mentali piuttosto complessi. Questa forma dell’intelligenza si manifesta essenzialmente nella creazione di arti figurative.
  4. Intelligenza Corporeo-Cinestesica: coinvolge il cervelletto, i gangli fondamentali, il talamo e vari altri punti del nostro cervello. Chi la possiede ha una padronanza del corpo che gli permette di coordinare bene i movimenti. In generale si può riferire a chi fa un uso creativo del corpo, come i ginnasti e i ballerini.
  5. Intelligenza Musicale: normalmente è localizzata nell’emisfero destro del cervello, ma le persone con cultura musicale elaborano la melodia in quello sinistro. È la capacità di riconoscere l’altezza dei suoni, le costruzioni armoniche e contrappuntistiche. Chi ne è dotato solitamente ha uno spiccato talento per l’uso di uno o più strumenti musicali, o per la modulazione canora della propria voce.
  6. Intelligenza Intrapersonale: riguarda la capacità di comprendere la propria individualità, di saperla inserire nel contesto sociale per ottenere risultati migliori nella vita personale, e anche di sapersi immedesimare in personalità diverse dalla propria. È considerata da Gardner una “fase” speculare dell’intelligenza interpersonale, laddove quest’ultima rappresenta la fase estrospettiva (vedi anche intelligenza emotiva).
  7. Intelligenza Interpersonale: coinvolge tutto il cervello, ma principalmente i lobi pre-frontali. Riguarda la capacità di comprendere gli altri, le loro esigenze, le paure, i desideri nascosti, di creare situazioni sociali favorevoli e di promuovere modelli sociali e personali vantaggiosi. Si può riscontrare specificamente negli psicologi, più genericamente in quanti possiedono spiccata empatia e abilità di interazione sociale.
  8. Intelligenza Naturalistica: consiste nel saper individuare determinati oggetti naturali, classificarli in un ordine preciso e cogliere le relazioni tra di essi. Alcuni gruppi umani che vivono in uno stadio ancora “primitivo”, come le tribù aborigene di raccoglitori-cacciatori, mostrano una grande capacità nel sapersi orientare nell’ambiente naturale riconoscendone anche i minimi dettagli.
  9. Intelligenza Esistenziale o Teoretica: rappresenta la capacità di riflettere consapevolmente sui grandi temi della speculazione teoretica, come la natura dell’universo e la coscienza umana, e di ricavare da sofisticati processi di astrazione delle categorie concettuali che possano essere valide universalmente.

Sotto questi aspetti/teoria il significato del concetto di intelligenza è da intendersi dunque come particolari abilità di cui è dotato l’individuo. Sebbene queste capacità siano più o meno innate negli individui, non sono statiche e possono essere sviluppate mediante l’esercizio, potendo anche “decadere” col tempo. Lo stesso Gardner ha poi menzionato il fatto che classificare tutte le manifestazioni dell’intelligenza umana sarebbe un compito troppo complesso, dal momento che ogni macro-gruppo contiene vari sottotipi.

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L’intelligenza artificiale

La locuzione “intelligenza artificiale”F (o IA) indica sia la proprietà di una macchina di imitare, del tutto o in parte, l’intelligenza biologica, sia il ramo dell’informatica che mira a creare le macchine capaci di tale imitazione, attraverso “lo studio e la progettazione di agenti intelligenti” o “agenti razionali”, dove un agente intelligente è un sistema che percepisce il suo ambiente e attua le azioni che massimizzano le sue possibilità di successo. I successi ottenuti nel campo dell’intelligenza artificiale riguardano per ora problemi vincolati e ben definiti, come la capacità delle macchine di sostenere giochi, la risoluzione di cruciverba e il riconoscimento ottico dei caratteri, e alcuni problemi più generali come quello delle automobili autonome. Il concetto di IA forte non è ancora realtà, ma è un obiettivo della ricerca a lungo termine. Tra le caratteristiche che i ricercatori sperano che le macchine possano un giorno esibire, vi sono il ragionamento, la capacità di pianificare, apprendere, percepire, comunicare e manipolare oggetti. Non vi è attualmente consenso su quanto vicino si possa andare nel simulare il cervello (umano nello specifico).

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