Il virus più pericoloso del mondo è più vicino a te di quanto pensi

MEDICINA ONLINE LABORATORIO BLOOD TEST EXAM ESAME DEL SANGUE FECI URINE GLICEMIA ANALISI GLOBULI ROSSI BIANCHI PIATRINE VALORI ERITROCITI ANEMIA TUMORE CANCRO LEUCEMIA FERRO FALCIFORME MIl virus con la più elevata mortalità al mondo, è un virus relativamente comune: il virus della rabbia, esso infatti ha una mortalità prossima al 100%, ciò significa quindi che quasi la totalità delle persone che contagia, purtroppo va incontro a morte.

Nel corso degli ultimi 100 anni, la rabbia è diminuita in modo significativo, sebbene ogni anno uccide più di 55 mila persone, di questi decessi, il 95% si registra in Asia e in Africa.
La rabbia si trasmette tramite il morso di animali idrofobi, portatori del virus e la maggior parte dei contagi avviene tramite cani e pipistrelli.
Esiste un vaccino per il virus utilizzabile anche nelle ore immediatamente successive post morso, all’insorgenza dei sintomi neurologici però, non è disponibile alcuna terapia efficace.

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Esame invasivo o non invasivo: significato ed esempi

DOTT. EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO CHIRURGO PSICHIATRIA MEDICINA DELLE DIPENDENZE DIRETTORE MEDICINA ONLINE TIROIDE BIOPSIA AGO ASPIRATO TIROIDE ENDOCRINOLOGO COLLO PUNTURA DOLORE INIEZIONE NODULO TIROIDEO CANCRO TUMORE

L’agoaspirato tiroideo è un esame più invasivo della semplice ecografia della tiroide

L’invasività è un parametro che viene utilizzato in medicina per descrivere la capacità di un esame clinico di penetrare le difese naturali dell’organismo umano e quindi procurargli danno. Può essere di grado moderato, medio o elevato. Anche una tecnica medica od un intervento chirurgico possono essere più o meno invasivi.

Invasività negli esami clinici

I diversi esami che vengono utilizzati in medicina per indagare le cause di una qualche malattia, hanno ognuno un potenziale di invasività che è utile al medico per scegliere quale esame sia meglio utilizzare, in rapporto alle condizioni di salute del paziente. Questo potenziale si riferisce alla possibilità che l’esame finisca per compromettere ulteriormente lo stato di salute del soggetto, invece di aiutare il medico a migliorarlo: questo perché gli esami più invasivi (per esempio prelievo di liquor cefalorachidiano, biopsia cerebrale) sono anche quelli che hanno la maggior probabilità di portare agenti contaminanti (virus, batteri, tossine, sporcizia) all’interno del distretto interessato, e di causare così un’infezione che finirebbe inevitabilmente per aggravare le condizioni del paziente; oppure, come nel caso della biopsia cerebrale, la sua pericolosità deriva anche dal fatto che un solo movimento errato del medico potrebbe seriamente danneggiare un’importante area encefalica, con conseguenze anche molto gravi.

Come regola generale, dunque, in medicina si tende a privilegiare sempre l’esame meno invasivo, mentre quelli più invasivi vengono utilizzati solo se il paziente è abbastanza in buona salute da poterli sopportare senza grossi rischi, oppure se le sue condizioni fanno supporre una patologia tanto grave da rendere accettabile il rischio di comprometterne ulteriormente la salute pur di ottenere una diagnosi migliore e potenzialmente salvavita.

Esempi di esami ad invasività differente

La misurazione della pressione arteriosa sistemica può avvenire mediante due metodi:

  • la misurazione della pressione arteriosa periferica viene effettuata mediante l’utilizzo di uno sfigmomanometro, cioè un bracciale la cui pressione sul braccio del paziente può essere regolata manualmente o elettronicamente dal medico stesso;
  • la misurazione della pressione arteriosa centrale viene effettuata mediante l’utilizzo di una sonda o catetere, che viene inserito nell’arteria femorale e va a misurare la pressione a livello dell’aorta ascendente.

La seconda tecnica, pur essendo più precisa della prima, non viene utilizzata di frequente proprio per la sua maggiore invasività: l’inserimento di un catetere arterioso centrale, infatti, comporta un rischio maggiore di quello del tradizionale sfigmomanometro, ed è da riservare ai casi in cui i benefici superano i rischi.

Un esempio di esame ad invasività moderata che viene utilizzato con una certa frequenza è il prelievo sanguigno: pur comportando l’inserimento di un ago in vena, e quindi un certo rischio correlato all’introduzione accidentale di microrganismi patogeni se l’ago non è ben sterilizzato, questo esame è l’unico in grado di darci tante informazioni sullo stato di salute dell’organismo con un rischio così piccolo. Il rapporto utilità/rischio molto favorevole lo rende quindi uno degli esami più utilizzati nella pratica medica di tutti i giorni.

Una ecografia della tiroide ha ovviamente una invasività decisamente minore rispetto allo stesso esame eseguito associandolo a biopsia, come anche una cavitazione per l’eliminazione del grasso corporeo ha una invasività molto più bassa rispetto ad una liposuzione. Una ecografia sovrapubica (eseguita con la sonda poggiata sul pube) ha una invasività minore di quella eseguita con una sonda transrettale (inserita nel retto) ed entrambe sono meno invasive di una laparoscopia che a sua volta è meno invasiva della chirurgia “open” (a “cielo aperto”).

Un esempio di come gli sviluppi tecnologici abbiano permesso di abbandonare tecniche più rischiose a favore di tecniche meno invasive, è rappresentato dalla diagnosi di encefalite, soprattutto per quanto riguarda le encefaliti da HSV. Fino all’inizio degli anni ’90, infatti, l’unico metodo che consentiva una diagnosi tempestiva di encefalite da HSV (permettendo così una sua rapida eradicazione prima dell’insorgere di gravi danni) era una biopsia cerebrale, tecnica però estremamente pericolosa per i motivi già ricordati. Al giorno d’oggi, con gli sviluppi della tecnologia, la biopsia cerebrale è stata abbandonata per un metodo molto meno invasivo, la ricerca di materiale virale nel liquor tramite PCR: pur non essendo scevra di rischi, questa tecnica permette infatti di evitare il contatto con le sensibilissime cellule encefaliche, ed è quindi dotata di un potenziale di invasività decisamente minore della biopsia cerebrale.

Attualmente, gli esami clinici con l’invasività più bassa e la più alta capacità di dare al medico informazioni sullo stato di salute del paziente, sono quelli appartenenti alla cosiddetta diagnostica per immagini: la radiografia, la RMN e la TAC.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Orzaiolo: i sintomi pericolosi da far controllare al medico

MEDICINA ONLINE OCCHIO EYE MIOPIA ASTIGMATISMO IPERMETROPIA PRESBIOPIA VISTA VEDERE DIOTTRIA CONI BASTONCELLI CERVELLO SENSOL’orzaiolo è quasi sempre un problema non grave, talvolta però è possibile l’insorgenza di complicazioni che possono nascondere problemi più gravi. E’ consigliabile contattare immediatamente un oftalmologo (specialista nello studio dell’occhio, delle sue funzioni e delle sue malattie) in presenza di uno qualsiasi dei seguenti segni e sintomi:

  • l’occhio appare chiuso e gonfio;
  • arrossamento della zona circostante l’intero occhio;
  • cambiamento o problemi a carico della vista;
  • il gonfiore perdura per più di 3 settimane;
  • l’orzaiolo o gli orzaioli tendono a ricomparire o presentano la fuoriuscita di sangue;
  • le ciglia tendono ad abbassarsi;
  • l’orzaiolo si trova sulla palpebra inferiore, vicino al naso;
  • la parte bianca dell’occhio diventa rossa;
  • l’occhio continua a drenare secrezioni di pus o dense;
  • presenza di febbre superiore a 38°;
  • lacrimazione persistente ed eccessiva;
  • rossore persistente sulla superficie dell’occhio;
  • dolore significativo;
  • ricomparsa dell’orzaiolo, specie se l’insorgenza si verifica nella medesima posizione di un orzaiolo precedente;
  • gonfiore dei linfonodi del collo;
  • visione doppia.

E’ consigliabile recarsi da un oftalmologo in presenza di uno qualsiasi dei suddetti sintomi. Qualora non fosse possibile essere visitati nell’immediato da un oftalmologo, è consigliabile recarsi al pronto soccorso, in caso di insorgenza di uno qualsiasi dei problemi succitati.

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Fitoestrogeni in menopausa: efficacia, effetti indesiderati e raccomandazioni

MEDICINA ONLINE DONNA ANZIANA MENOPAUSA ADULTA VAMPATE FITOESTROGENI SENO INGRANDIMENTO SOIA ORMONI ESTROGENI PIANTECon l’arrivo della menopausa la donna va incontro ad una serie di cambiamenti legati alla carenza di estrogeni che, oltre a rappresentare un forte elemento di instabilità emotiva, possono diventare fattori di rischio per lo sviluppo di malattie dell’osso (osteoporosi), del sistema circolatorio o di altri organi. In Italia solo il 3-4 % delle donne ricorre alla terapia ormonale sostitutiva sia per motivi psicologici, sia per il timore di effetti indesiderati. Non stupisce, perciò, che abbiano destato particolare interesse i fitoestrogeni, ritenuti un’alternativa naturale per la loro provenienza dal mondo vegetale.

COSA SONO

I fitoestrogeni sono composti, presenti in numerose piante, caratterizzati da un’azione simile a quella degli estrogeni (ormoni femminili). Fra i fitoestrogeni presenti in natura i più importanti sono gli isoflavoni (genisteina, dadzeina, ecc), contenuti principalmente nella soia, i lignani, presenti in alte concentrazioni nei semi di lino e in altri cereali e i cumestani, che si trovano principalmente nel trifoglio rosso e nei germogli. Un’altra sorgente di fitoestrogeni è rappresentata da alcune piante officinali come la cimicifuga (actaea racemosa) e l’erba medica (medicago sativa).

GLI EFFETTI POTENZIALI

L’interesse nei confronti dei fitoestrogeni è nato dall’osservazione che nei paesi orientali le donne in età menopausale presentano un’incidenza più bassa dei sintomi tipici della menopausa, di malattie cardiovascolari, di tumori ormono-dipendenti (es. mammella, endometrio) e di osteoporosi rispetto alle donne occidentali. Fra i vari fattori che, presumibilmente, potrebbero dar conto di queste differenze rientrano fattori genetici, dietetici e culturali. L’osservazione che, nelle persone di origine asiatica trasferitesi negli Stati Uniti, l’incidenza di malattie degenerative ”occidentali” diviene, nell’arco di 1 o 2 generazioni, simile a quella delle popolazioni residenti ha portato a ridimensionare il ruolo dei fattori genetici e a rivolgere l’attenzione ai fattori dietetici. Confrontando l’alimentazione delle popolazioni asiatiche con quella degli occidentali, una delle differenze più significative riscontrate è risultata essere il maggior consumo di soia. Poiché la soia è ricca di fitoestrogeni, sono iniziate le ricerche per valutare i potenziali benefici di queste sostanze nella donna in menopausa.

COME AGISCONO

I fitoestrogeni si trovano in natura sottoforma di precursori inattivi; una volta raggiunto l’intestino vengono metabolizzati ad opera della flora batterica intestinale a composti attivi. La capacità di metabolizzazione dipende da persona a persona e può variare a seconda dell’età del soggetto. Alcuni studi hanno messo in evidenza che queste sostanze, grazie alla loro struttura chimica simile agli ormoni femminili, nella donna sono in grado di legarsi ai recettori per gli estrogeni, pur essendo dotati di una potenza nettamente inferiore rispetto a questi. Il loro impiego viene perciò proposto nei disturbi legati all’arrivo della menopausa, come alternativa ”naturale” alla terapia ormonale sostitutiva.

SONO EFFICACI SUI SINTOMI MENOPAUSALI?

Fra i sintomi tipici della menopausa e del periodo pre-menopausa, le cosiddette ”vampate” rappresentano, soggettivamente, la maggiore motivazione per iniziare la terapia ormonale sostitutiva. Nel controllo di questi sintomi, i pochi studi condotti hanno dimostrato che i fitoestrogeni riducono lievemente la frequenza delle vampate (riduzione media del 15%). E’ tuttavia opportuno evidenziare come i risultati, peraltro modesti, si traducano in un beneficio pratico piuttosto limitato: in una donna che ad esempio sperimenta quotidianamente 10 o 12 vampate al giorno si ottiene una riduzione media di una vampata al giorno. Nessun effetto positivo invece è stato dimostrato sulla secchezza vaginale né su altri sintomi spesso presenti in menopausa come i disturbi dell’umore, ansia, cefalee, né sulla qualità di vita in generale, laddove questa è stata valutata.

SONO EFFICACI NELLA PREVENZIONE DELL’OSTEOPOROSI?

Sono stati condotti alcuni studi riguardo i potenziali effetti benefici degli isoflavoni sulla densità ossea; i fitoestrogeni non hanno dimostrato di essere in grado di migliorare questo parametro che, inoltre, rappresenta un dato poco rilevante dal punto di vista clinico , poiché l’obiettivo primario è invece la diminuzione delle fratture.

SONO EFFICACI NELLA PREVENZIONE DELLE MALATTIE CARDIOVASCOLARI?

Nonostante gli studi epidemiologici abbiano evidenziato che l’incidenza di malattie cardiovascolari nella popolazione asiatica sia bassa e nonostante numerosi studi abbiano dimostrato che l’assunzione giornaliera di almeno 25 g di soia, unita ad una dieta a basso contenuto di grassi, consente di ottenere importanti riduzioni del colesterolo totale, del colesterolo LDL e dei trigliceridi in soggetti ipercolesterolemici, il ruolo degli isoflavoni è ancora controverso. Non è ancora chiaro infatti se i benefici ottenuti siano da attribuire alla componente isoflavonica o ad altri componenti della soia.

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SONO EFFICACI NELLA PREVENZIONE DEL TUMORE AL SENO?

Anche in questo ambito i dati sono piuttosto contrastanti. Non è infatti ancora stato chiarito se gli isoflavoni della soia siano in grado di prevenire o, al contrario, promuovere l’insorgenza di cancro al seno; in particolare, alcuni studi hanno suggerito che i fitoestrogeni possano proteggere dal tumore al seno nel periodo pre-menopausa e al contrario agire da promotori nel periodo post-menopausa, attraverso un meccanismo non ancora chiarito. Questa condizione di incertezza e l’inconsistenza dei dati disponibili rendono l’integrazione della dieta con i fitoestrogeni particolarmente sconsigliabile. Secondo alcuni autori, la minore incidenza di cancro del seno nelle donne giapponesi potrebbe essere dovuta ad altri fattori, come ad esempio, il maggiore numero di figli.

EFFETTI INDESIDERATI

La sicurezza d’uso dei fitoestrogeni non è ancora stata dimostrata; in particolare non sono noti gli effetti in seguito all’assunzione per lunghi periodi o a dosaggi elevati. Alcuni studi hanno evidenziato che i fitoestrogeni possono influenzare le concentrazioni di tiroxina, insulina e glucagone. Particolare attenzione deve essere posta da chi è in trattamento con tamoxifene poichè i fitoestrogeni sembrano interferire con l’attività di questo farmaco. Rimane infine da stabilire la potenziale capacità di induzione del tumore al seno. Recentemente, secondo le indicazioni del Ministero della Salute, in caso di assunzione di integratori dietetici contenenti fitoestrogeni, l’apporto giornaliero di isoflavoni della soia non deve superare gli 80 mg al giorno.

ALCUNE RACCOMANDAZIONI

Anche se i dati epidemiologici riguardo l’impiego dei fitoestrogeni lasciano ipotizzare possibili benefici, sono necessari ulteriori studi volti a comprendere il profilo di efficacia e di sicurezza di questi composti naturali, quando assunti come integrazione dietetica. Soprattutto, rimane a tutt’oggi da stabilire se gli effetti positivi siano dovuti ai fitoestrogeni in sé o alla loro combinazione con gli altri componenti degli alimenti. Non è affatto dimostrato che estrapolando un solo fattore da una cultura alimentare e uno stile di vita così diversi dai nostri si ottengano gli stessi effetti. La principale raccomandazione per chi si sta avvicinando alla menopausa o è già in menopausa rimane dunque quella di seguire una dieta equilibrata, smettere di fumare e fare del movimento.

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Masturbarsi in gravidanza fa male al bambino?

MEDICINA ONLINE DONNA GRAVIDANZA INCINTA PANCIA ANATOMIA IMMAGINI FETO BAMBINO BIMBO POSIZIONE PODALICO ESERCIZI MANIPOLAZIONE GINECOLOGO OSTETRICOMasturbarsi in gravidanza è possibile, oppure è meglio evitarlo? Facciamo chiarezza su questo argomento, che rappresenta ancora un tabù per moltissime future mamme italiane.

Masturbazione “esterna”

Una masturbazione “esterna”, con stimolazione della vulva e del clitoride in particolare, tramite le dita (proprie o del/della partner) o con altri sex toys come vibratori da usare esternamente, non fa assolutamente male al bambino, in nessun momento della gravidanza. E’ necessario sempre riservare molta cura nell’igiene di dita e sex toys, anche se la stimolazione è esterna.

Masturbazione “interna”

Se è possibile ricorrere a una stimolazione esterna in qualunque stadio della gravidanza in totale sicurezza, lo stesso non si può dire in caso di stimolazione interna: in particolare mi riferisco alla stimolazione vaginale ed a quella anale. In questi casi bisogna infatti fare molta più attenzione, sia che si usino le dita, sia – a maggior ragione – nel caso si utilizzino dei sex toys, soprattutto se la masturbazione prevede che gli oggetti usati per masturbarsi penetrino profondamente nella vagina. Prese dall’eccitazione della masturbazione, si corre infatti il rischio di effettuare movimenti troppo intensi e profondi, che possono determinare pressione e traumi sul collo dell’utero: essi possono riflettersi sull’intero utero e quindi sul feto. Anche forti e brusche pressioni a livello dell’ano, possono riflettersi sull’addome e di conseguenza sul feto.

Come masturbarsi in sicurezza durante la gravidanza?

Masturbarsi in gravidanza è certamente consentito, ma bisogna ricordare di:

  • preferire una stimolazione clitoridea a quella vaginale e/o anale;
  • evitare movimenti troppo intensi, bruschi e profondi;
  • evitare l’uso di vibratori ed altri oggetti che possano penetrare nella profondità della vagina o dell’ano;
  • effettuare movimenti delicati;
  • lavare con molta cura dita, sex toys e altri oggetti prima e dopo ogni utilizzo, per scongiurare infezioni che possano trasmettersi per contiguità alla vagina, all’utero ed al feto.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
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Lipoma: cause, sintomi, cure, quando è pericoloso, quando e come va rimosso

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma LIPOMA CAUSE SINTOMI PERICOLOSO Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgIl lipoma è un tumore benigno formato da tessuto adiposo, generalmente ben circoscritto e limitato da una capsula. Tende a svilupparsi nel tessuto adiposo sottocutaneo, ma può Continua a leggere

Stenosi carotidea, placche, ictus cerebrale ed attacco ischemico transitorio (TIA)

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma STENOSI CAROTIDEA PLACCHE ICTUS TIA ATTA Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgPrima di iniziare la lettura, ti consiglio di leggere prima questo articolo: Carotide comune, interna, esterna: dove si trova ed a che serve

Le arterie carotidi sono flessibili e dotate di pareti interne lisce, tuttavia – a seguito di un processo chiamato aterosclerosi – le loro pareti possono tuttavia andare incontro ad un progressivo irrigidimento accompagnato dalla riduzione del lume interno; tale fenomeno è causato dal graduale accumulo di depositi (placche ateromatose) costituiti da grassi, proteine, tessuto fibroso ed altri detriti cellulari. Nel tempo, queste placche possono formare una grande massa che riduce il diametro interno dell’arteria, limitando il flusso sanguigno (si parla di stenosi carotidea). I depositi ateromasici si formano soprattutto nel seno carotideo, cioè a livello della biforcazione che divide l’arteria carotide comune in carotide interna ed esterna.
La malattia ostruttiva dell’arteria carotidea si sviluppa lentamente e spesso passa inosservata: il primo indizio della presenza dell’ateroma può essere già molto grave, come la comparsa di un ictus cerebrale o di un attacco ischemico transitorio (TIA).
Il trattamento della stenosi carotidea mira a ridurre il rischio che venga ridotto significativamente l’apporto di sangue al cervello, rimuovendo la placca ateromatosa e controllando la coagulazione del sangue (per prevenire l’ictus tromboembolico).

Nel caso abbiate legittimi sospetti che voi o un vostro caro siate stati colpiti da TIA o ictus o emorragia cerebrale, leggete immediatamente questo articolo per sapere cosa fare: Ictus, emorragia cerebrale cerebrale e TIA: cosa fare e cosa assolutamente NON fare

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Sintomi e segni

Nelle fasi iniziali, la malattia ostruttiva dell’arteria carotidea spesso non produce alcun segno o sintomo. La stenosi potrebbe rendersi evidente solo quando diviene abbastanza grave da privare il cervello di sangue, causando un ictus o un attacco ischemico transitorio (TIA), entrambi segno di allarme precoce per un futuro attacco apoplettico. Segni e sintomi di un attacco ischemico transitorio o di un ictus possono includere:

  • improvviso intorpidimento del volto o debolezza degli arti, spesso su un solo lato del corpo;
  • incapacità di spostare uno o più arti;
  • difficoltà a parlare e a comprendere;
  • improvvisa difficoltà nella visione, in uno o entrambi gli occhi;
  • vertigini e perdita di equilibrio;
  • un improvviso, forte mal di testa, senza causa nota.

Anche se i segni e sintomi durano solo poco tempo (talvolta, meno di un’ora) è possibile che il paziente abbia sperimentato un TIA. Se si verifica una qualsiasi di queste manifestazioni è importante cercare cure d’emergenza, per aumentare le possibilità che la malattia dell’arteria carotidea venga individuata e trattata tempestivamente, prima che si verifichi un ictus invalidante. Non è escluso che un TIA possa essere dovuto alla mancanza di flusso di sangue anche in altri vasi: il medico è in grado di stabilire quali test sono necessari per accertare la condizione.

Complicanze della stenosi carotidea

La complicanza più grave della malattia ostruttiva dell’arteria carotidea è l’ictus, in quanto può provocare danni permanenti al cervello e, nei casi più gravi, può essere fatale.
Ci sono tre diversi modi in cui la presenza di una placca ateromatosa aumenta il rischio che questo possa verificarsi:

  • Riduzione del flusso di sangue. A seguito dell’aterosclerosi, il lume della carotide può andare incontro ad una tale riduzione, che l’apporto di sangue non è sufficiente per raggiungere alcune parti dell’encefalo. L’ateroma può eventualmente occludere completamente l’arteria.
  • Rottura della placca. Un pezzo di placca ateromatosa può rompersi e staccarsi, viaggiando fino alle più piccole arterie nel cervello. Il frammento può rimanere bloccato in una di queste arterie cerebrali, creando un’ostruzione che blocca l’afflusso di sangue alla zona del cervello che il vaso sanguineo irrora.
  • Ostruzione da coagulo di sangue. Alcune placche sono inclini alla fessurazione e a deformare la parete dell’arteria. Quando questo accade, il corpo reagisce come ad una lesione, inviando localmente piastrine, per agevolare il processo di coagulazione. In questo processo, può svilupparsi un grande coagulo di sangue e bloccare o rallentare il flusso di sangue attraverso un’arteria carotidea o cerebrale, fino a provocare un ictus.

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Fattori di rischio

La combinazione di diversi fattori può aumentare il rischio di lesioni, la formazione di placche e l’insorgenza della stenosi carotidea sono:

  • Pressione alta. L’ipertensione arteriosa è un importante fattore di rischio per la malattia ostruttiva dell’arteria carotidea. Un eccesso di pressione sulle pareti delle arterie può indebolirle e renderle più vulnerabili ai danni.
  • Fumo. La nicotina può irritare il rivestimento interno delle arterie. Inoltre, aumenta la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna.
  • Età. Le persone anziane hanno più probabilità di essere colpite da stenosi carotidea, in quanto con l’età, le arterie tendono a essere meno elastiche.
  • Livelli anormale di grassi nel sangue. Alti livelli di lipoproteine €‹a bassa densità (LDL, il colesterolo “cattivo”) e di trigliceridi nel sangue, favoriscono l’accumulo di placche ateromatose.
  • Diabete. La patologia non solo influenza la capacità di gestire il glucosio in modo appropriato, ma anche la capacità di elaborare in modo efficiente i grassi, disponendo il paziente a maggior rischio di ipertensione e aterosclerosi.
  • Obesità. I chili in eccesso contribuiscono ad altri fattori di rischio, come l’ipertensione, le malattie cardiovascolari e il diabete.
  • Eredità. Se il paziente presenta una storia familiare di aterosclerosi o di malattia coronarica, presenta un rischio aumentato di sviluppare queste patologie.
  • Inattività fisica. La mancanza di regolare esercizio fisico predispone ad una serie di condizioni, tra cui l’ipertensione, il diabete e l’obesità.

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Diagnosi

Oltre a considerare l’anamnesi completa, la presenza di fattori di rischio ed eventuali segni o sintomi, il medico può effettuare diversi test per valutare la salute delle arterie carotidi:

  • Esame obiettivo. Il medico può auscultare la carotide posizionando uno stetoscopio a livello del collo, per rilevare suono simile ad un “risucchio”, caratteristico del flusso sanguigno turbolento causato dall’aterosclerosi. Il medico può eseguire una valutazione neurologica per verificare lo stato fisico e mentale del paziente, come la capacità di resistenza, memoria e parola.

Uno o più test diagnostici possono essere eseguiti per valutare il restringimento di una carotide:

  • Ecografia Doppler: test non invasivo che si avvale di onde sonore riflesse per valutare il flusso di sangue attraverso il vaso sanguineo e verificare la presenza di una eventuale stenosi. La sonda ad ultrasuoni è collocata sul collo, a livello delle arterie carotidee. L’ecografia Doppler rivela come fluisce il sangue attraverso l’arteria e in che misura l’apporto è ridotto (stenosi carotidea minore 0-49%, moderata 50-69% e grave 70-99%, fino alla completa ostruzione).
  • Angio-CT (CTA): fornisce immagini dettagliate delle strutture anatomiche del collo e del cervello. L’indagine comporta l’iniezione di un agente di contrasto nel flusso sanguigno, in modo da evidenziare le anomalie di vasi sanguigni (tramite angiografia) e tessuti molli (mediante tomografia computerizzata). La CTA consente ai medici di visualizzare la carotide ristretta e determinare il grado patologico della stenosi.
  • Angiografia tramite risonanza magnetica (MRA): come la CTA, questo test di imaging utilizza un mezzo di contrasto, per evidenziare le arterie che irrorano il collo e l’encefalo. Il campo magnetico e le onde radio vengono utilizzate per creare immagini tridimensionali.
  • Risonanza magnetica (MRI): consente di visualizzare il tessuto cerebrale per evidenziare precocemente un ictus o altre anomalie.
  • Angiografia cerebrale: è un test minimamente invasivo che utilizza i raggi X e un agente di contrasto iniettato nelle arterie, attraverso un catetere infilato direttamente nelle carotidi. L’angiografia cerebrale consente ai medici di visualizzare in dettaglio tutte le arterie che irrorano l’encefalo.

L’imaging può anche rivelare le prove di molteplici attacchi ischemici transitori. I medici possono definire la diagnosi di stenosi carotidea, se le prove dimostrano che il flusso sanguigno è diminuito in una o entrambe le arterie carotidi.

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Trattamenti e farmaci

L’obiettivo dalla terapia è di ridurre il rischio di ictus. Le opzioni di trattamento per la stenosi carotidea variano a seconda della gravità del restringimento arterioso e se si verificano sintomi o meno (asintomatica).

Stenosi carotidea da lieve a moderata

  • Cambiare stile di vita. Cambiamenti nel comportamento possono aiutare a ridurre la pressione sulla carotide e rallentare la progressione dell’aterosclerosi. Tali cambiamenti includono smettere di fumare, perdere peso, bere alcol con moderazione, mangiare cibi sani, ridurre la quantità di sale e praticare regolare esercizio fisico.
  • Gestire le condizioni croniche. Con il medico è possibile stabilire un piano terapeutico per affrontare correttamente specifiche condizioni croniche, come la pressione alta, l’eccesso di peso o il diabete, che possono produrre effetti patologici anche sulle arterie carotidi.
  • Farmaci. I pazienti asintomatici o che presentano una stenosi carotidea di basso grado sono trattati con farmaci. Il medico può prescrivere un antiaggregante piastrinico (come aspirina, ticlopidina, clopidogrel), da assumere quotidianamente per fluidificare il sangue e prevenire la formazione di pericolosi coaguli di sangue. Possono essere raccomandati anche farmaci antipertensivi per controllare e regolare la pressione sanguigna (ACE-inibitori, bloccanti dell’angiotensina, beta-bloccanti, calcio-antagonisti ecc.) e delle statine per abbassare il colesterolo e contribuire a ridurre la formazione della placca nell’aterosclerosi. Le statine possono ridurre il colesterolo LDL “cattivo” in media del 25-30%, quando combinate con una dieta ipocalorica e a basso contenuto di colesterolo.

Grave ostruzione della carotide

Quando si dispone di una grave stenosi, soprattutto se il paziente ha già subito un TIA o un ictus correlato all’occlusione, è meglio procedere chirurgicamente ripulendo l’arteria dalla placca ateromatosa.

  • Endoarteriectomia carotidea. Questa procedura chirurgica è il trattamento più comune per rimuovere l’ateroma in presenza di un grave quadro clinico. L’intervento viene eseguito in anestesia generale. Dopo aver effettuato un’incisione lungo la parte anteriore del collo, il chirurgo apre l’arteria carotide colpita e rimuove la placca ateromatosa. L’arteria viene riparata con punti di sutura o, preferibilmente, con un innesto. L’endoarteriectomia carotidea è generalmente indicata per i pazienti sintomatici (ictus o TIA) e con un’ostruzione superiore al 50%. Si raccomanda anche per i pazienti che non hanno sintomi (asintomatici), con blocco superiore al 60%. Gli studi hanno dimostrato che, in caso di ostruzione moderata, la chirurgia apporta benefici duraturi ed aiuta a prevenire un eventuale ictus su un periodo di circa cinque anni. Un’endoarteriectomia carotidea non è raccomandata quando la posizione dell’ostruzione o del restringimento è di difficile accesso per il chirurgo o quando si dispone di altre condizioni di salute che rendono l’intervento chirurgico troppo rischioso. In questi casi, il medico può raccomandare una procedura chiamata angioplastica carotidea associata ad uno stenting.
  • Angioplastica carotidea e stenting. Il posizionamento di uno stent carotideo è una procedura meno invasiva rispetto all’endoarteriectomia carotidea, in quanto non comporta un’incisione nel collo. L’angioplastica carotidea con inserimento di uno stent permette di ottenere buoni risultati nel breve termine, ed è tipicamente indicata per pazienti che: 1) presentano un grado di stenosi carotidea moderato-grave; 2) soffrono di altre condizioni mediche che aumentano il rischio di complicanze chirurgiche; 3) manifestano una recidiva. Nell’angioplastica carotidea, un catetere viene infilato fino all’area carotidea ostruita nel collo. Un filtro appositamente progettato su un filo guida (chiamato dispositivo di protezione embolica) viene inserito per raccogliere eventuali detriti che possono staccarsi dalla placca durante la procedura. Una volta in posizione, viene gonfiato un piccolo palloncino all’estremità del catetere per alcuni secondi, allo scopo di aprire o allargare l’arteria. Uno stent viene inserito in modo permanente per costituire una impalcatura, che aiuti a sostenere le pareti delle arterie e a mantenere pervio il lume della carotide. Il palloncino viene poi sgonfiato ed il catetere e il filtro vengono rimossi. Dopo diverse settimane, l’arteria guarisce attorno allo stent. Come per l’endoarteriectomia carotidea, esistono alcuni rischi connessi alla procedura (ictus o decesso). Lo stenting sarà pertanto consigliato solo in caso di una grave stenosi.

Angioplastica carotidea Stent

Il recupero dalle procedure chirurgiche generalmente richiede una breve degenza in ospedale. I pazienti spesso ritornano alle normali attività entro una o due settiman. Dopo un’endoarteriectomia carotidea, la stenosi può recidivare ed è spesso correlata alla progressione della malattia aterosclerotica. Queste nuove placche possono essere trattate con la ripetizione dell’intervento chirurgico.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Differenza tra pressione arteriosa, venosa e venosa centrale

MEDICINA ONLINE PRESSIONE ARTERIOSA VENOSA SANGUIGNA CENTRALE PERIFERICA CUORE SANGUE BRACCIO VENE ARTERIE VASI PETTO DESTRO SINISTRO COME QUANDO SFIGMOMANOMETRO.jpgLa pressione sanguigna corrisponde all’intensità della forza esercitata dal sangue sulle pareti dei vasi sanguigni arteriosi e venosi. Tale forza viene acquisita dal sangue, grazie alla funzione di pompa che ha il cuore. Viene espressa in millimetri di colonna di mercurio (mmHg).

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La pressione del sangue non è uguale in tutti i vasi, bensì varia lungo tutto l’apparato vascolare. La pressione sanguigna è il risultato dei seguenti fattori:

  • forza di contrazione del cuore;
  • gittata sistolica, ovvero quantità di sangue espulsa per ogni contrazione (sistole) ventricolare;
  • frequenza cardiaca (numero di battiti cardiaci al minuto);
  • resistenze periferiche, ovvero la resistenza opposta alla progressione del sangue dallo stato di costrizione delle piccole arterie;
  • elasticità dell’aorta e delle grandi arterie.

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La pressione arteriosa è la forza che esercita il sangue sulle pareti delle arterie. La pressione arteriosa sistemica (pressione massima), è la pressione del sangue arterioso sistemico misurata a livello dall’uscita dal ventricolo sinistro del cuore in direzione dell’aorta. La pressione arteriosa diminuisce progressivamente allontanandosi dal ventricolo sinistro, arrivando fino alle arteriole. La pressione arteriosa si distingue in:

  • pressione sistolica (o “massima”), durante la contrazione o sistole ventricolare;
  • pressione diastolica (o “minima”), durante il rilassamento o diastole ventricolare.

La pressione venosa è invece la forza che esercita il sangue sulle pareti delle vene.

Più specificatamente con “pressione venosa centrale” (PVC) il valore pressorio sanguigno rilevato nel tratto terminale della vena cava superiore e corrispondente alla pressione nell’atrio destro del cuore. La rilevazione della PVC avviene grazie alla posa di un catetere venoso centrale attraverso una vena profonda di grosso calibro (vena succlavia, o giugulare, o basilica o più raramente safena).

Il valore di PVC permette di valutare il volume ematico circolante, la funzionalità cardiaca ed il ritorno venoso. Risulta ancora da chiarire il range di normalità della PVC. È piuttosto chiaro che:

  • valori negativi della PVC sono al di sotto del range;
  • valori di PVC superiori a 12 ne sono al di sopra.

Il range di normalità è però ancora oggetto di discussioni. Il limite inferiore, secondo le diverse fonti, ha un valore da 0 a 5, mentre il limite superiore va da 7 a 12.

Vari fattori influiscono sui valori di PVC: 

  • ipovolemia o ipervolemia (diminuzione o aumento del volume ematico circolante),
  • insufficienza cardiaca,
  • ostacoli meccanici alla circolazione cardiaca,
  • alterazioni della pressione intratoracica (ad esempio pneumotorace),
  • farmaci,
  • ventilazione meccanica.

Valori superiori alla norma indicano:

  • sovraccarico di volume,
  • insufficienza cardiaca destra,
  • aumento della pressione intratoracica,
  • turbe vasomotorie.

Valori inferiori alla norma indicano:

  • perdite di volume (ipovolemia in corso di emorragie, vomito, diarrea, shock),
  • turbe vasomotorie.

La PVC è un parametro che viene rilevato frequentemente nell’ambito dei monitoraggi post-operatori.

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