Differenza tra isterectomia totale (completa) e subtotale (parziale)

MEDICINA ONLINE VAGINA VULVA APPARATO GENITALE FEMMINILE SCHEMA ANATOMIA UTERO TUBE FALLOPPIO OVAIOL’isterectomia è l’intervento chirurgico mediante il quale viene asportato l’utero; l’isterectomia può essere totale o subtotale:

  • isterectomia totale (o completa): porta alla rimozione dell’intero utero, è il tipo di isterectomia più diffusamente eseguito.
  • isterectomia subtotale (o parziale o sopracervicale): porta alla rimozione del corpo dell’utero ma si conserva il collo o cervice uterina (tratto che sporge verso il basso in vagina). Ciò comporta la necessità per la paziente di sottoporsi comunque regolarmente al Pap test per il rilevamento di un eventuale tumore del collo dell’utero, nell’ambito delle cure mediche di routine della paziente. Non esistono evidenze scientifiche a sostegno della teoria secondo cui preservare il collo dell’utero favorisca o mantenga la risposta sessuale della paziente più che l’isterectomia totale.

A volte , contemporaneamente all’isterectomia, si asportano anche una o entrambe le ovaie e le trombe di Falloppio. Nel caso di asportazione di entrambe le ovaie e le trombe, l’intervento si chiama salpingo-ooforectomia bilaterale.

In quali casi si effettua una isterectomia? 
L’isterectomia si esegue in caso di problemi gravi, ad esempio il cancro dell’utero. Si esegue inoltre per altri problemi riguardanti l’utero, quando altre terapie intraprese non hanno dato esito positivo. Il medico può proporre l’isterectomia per uno dei seguenti motivi:

  • Fibromi uterini: tumori benigni (non cancerosi) che si sviluppano diffusamente all’interno del muscolo uterino. Nella maggior parte dei casi non causano problemi e le loro dimensioni si riducono dopo la menopausa, ma a volte possono causare forti sanguinamenti o dolore.
  • Sanguinamenti uterini anomali: perdite di sangue ingenti o irregolari dalla vagina.
  • Emorragia post partum: se l’utero è in atonia e non si contrae più (non permettendo l’emostasi) e tutte le altre metodiche non riescono a fermare il sanguinamento, in casi estremi si ricorre all’isterectomia.
  • Prolasso dell’utero: l’utero si abbassa e sprofonda nella vagina. Tale fenomeno dipende dai muscoli e dai tessuti poco tonici o allentati.
  • Endometriosi: condizione in cui il tessuto dell’endometrio (la membrana che riveste l’interno dell’utero) comincia a crescere all’esterno dell’utero e sugli organi circostanti. Tale condizione è causa di mestruazioni dolorose, perdite di sangue anomale e difficoltà a restare incinta. L’endometriosi tende a migliorare dopo la menopausa.

I vantaggi dell’isterectomia subtotale sono:

  • vantaggi per la prevenzione del prolasso perché il collo e le strutture di sostegno del pavimento pelvico sono un sistema unitario: i ligamenti uterosacrale pubovesicale e parametrio. In aggiunta, questo  ultimo contiene innervazione e vasi;
  • meno dolore e recupero più veloce perché i tessuti del pavimento pelvico rimangono integri;
  • migliore sessualità. Ciò è logico per la lubrificazione, la cervice  rimane intatta e l’innervazione anche. Inoltre psicologicamente per  la donna  è positivo mantenere una parte di utero, perché è un organo comunque legato al divenire donna (prima mestruazione, gravidanza, eccetera);
  • minore rischio di complicanze a carico di ureteri e vescica.

L’isterectomia totale è necessaria quando:

  • vi è associata una patologia del collo dell’utero;
  • vi sono lesioni a rischio;
  • si asporta l’utero per via vaginale.

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Eutirox: quali sono le interazioni con farmaci e cibi?

Dott. Loiacono Emilio Alessio Medico Chirurgo Roma Medicina Chirurgia Estetica Rughe Filler Cavitazione Peso Dimagrire Pancia Grasso Dietologo Cellulite Senologo Pene H Grasso Pancia Sex Sessuologo Auguri Buon Natale 2013 CURA FARMACI ANTICOLESTEROLOPer meglio comprendere l’argomento trattato, leggi anche: Eutirox: quando si usa, dosaggio ed effetti collaterali (foglio illustrativo)

L’assunzione contemporanea di Eutirox con i seguenti farmaci è sconsigliata o richiede cautela, pertanto è assolutamente necessario consultare il medico:

  • farmaci per il diabete (insulina e ipoglicemizzanti orali) perché può verificarsi una diminuzione del loro effetto sulla riduzione della concentrazione di glucosio nel sangue (effetto ipoglicemizzante); pertanto, all’inizio di una terapia a base di ormoni tiroidei deve controllare frequentemente i livelli di glucosio nel sangue (glicemia) e se è necessario deve modificare il dosaggio del farmaco antidiabetico;
  • farmaci che regolano la fluidità del sangue (anticoagulanti cumarinici) perché può verificarsi un potenziamento dell’effetto anticoagulante dovuto a una maggiore concentrazione degli anticoagulanti nel sangue. Infatti la levotiroxina spiazza gli anticoagulanti legati alle proteine del sangue (proteine plasmatiche), rendendone disponibile in circolo una maggiore quantità di farmaco. Pertanto, all’inizio di una terapia a base di ormoni tiroidei deve controllare frequentemente i parametri della coagulazione e modificare il dosaggio dell’anticoagulante se necessario;
  • farmaci che riducono la concentrazione del colesterolo nel sangue (ipocolesterolemizzanti) a base di colestiramina e colestipol perché queste due sostanze impediscono l’assorbimento della levotiroxina sodica; pertanto, deve prendere la levotiroxina 4-5 ore prima di assumere il farmaco a base di colestiramina o colestipol;
  • farmaci che contengono come principi attivi o eccipienti ferro, alluminio (gli antiacidi, il sucralfato), o calcio carbonato perché possono ridurre l’effetto della levotiroxina; pertanto, deve prendere la levotiroxina almeno 2 ore prima della assunzione dei farmaci contenenti ferro, alluminio o calcio carbonato;
  • salicilati (antinfiammatori), dicumarolo (anticoagulante), furosemide (diuretico) ad alte dosi (250mg), clofibrato (per ridurre il colesterolo e i lipidi nel sangue), fenitoina (antiepilettico) ed altre sostanze in quanto possono spiazzare la levotiroxina sodica dalle proteine plasmatiche, determinando un’elevata concentrazione della frazione libera dell’ormone tiroideo, fT4. Queste sostanze quindi aumentano l’effetto di Eutirox;
  • Propiltiouracile (farmaco antitiroideo), glucocorticoidi (antinfiammatori steroidei), beta-bloccanti, amiodarone (antiaritmico) e mezzi di contrasto contenenti iodio, in quanto impediscono la conversione da parte degli organi periferici del nostro organismo dell’ormone T4 nella forma biologicamente più attiva T3. Queste sostanze quindi diminuiscono l’effetto di Eutirox;
  • Amiodarone (antiaritmico), perché l’elevata quantità di iodio che contiene può causare sia un ipertiroidismo che un ipotiroidismo. Si consiglia particolare cautela nel caso di un gozzo nodulare, perché è possibile che vi sia ancora una funzionalità parziale della tiroide (autonomia tiroidea) non riconosciuta;
  • Sertralina (antidepressivo), clorochina/proguanil (farmaci per la terapia della malaria) diminuiscono l’efficacia della levotiroxina ed aumentano i livelli di TSH nel sangue;
  • Barbiturici ed altri farmaci che possono aumentare la quantità di levotiroxina eliminata dal sangue attraverso il metabolismo epatico (clearance epatica);
  • Farmaci contenenti estrogeni: se fa uso di contraccettivi contenenti estrogeni o se è una donna in postmenopausa e fa uso di una terapia sostitutiva per la carenza di ormoni estrogeni, può avere un bisogno maggiore di levotiroxina;
  • Farmaci antiepilettici. Durante il trattamento con EUTIROX non va somministrata defenilidantoina per via endovenosa.

Eutirox con cibi e bevande
Composti o cibi contenenti soia possono diminuire l’assorbimento di levotiroxina da parte dell’intestino.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo

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Carcinoma della tiroide: sintomi, prognosi e linee guida

MEDICINA ONLINE TIROIDE NODULO IPOTIROIDISMO IBSA EUTIROX ORMONI TIROIDEI METABOLISMO BASALE COLLO GOZZO SINTOMI PARATIROIDI TIROIDECTOMIA TOTALE PARZIALE CHIRURGIA OBESITA INGRASSARE PEIl carcinoma della tiroide viene considerato una neoplasia rara in quanto costituisce il 2% di tutti i tumori. Si può manifestare a tutte le età, con massima incidenza tra i 25 e i 60 anni e con una maggiore prevalenza nel sesso femminile. Tali neoplasie sono invece molto rare nei bambini. La sopravvivenza è molto elevata, superando il 90% a 5 anni nelle forme differenziate.

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I tumori della tiroide originano nella maggior parte dei casi dalle cellule follicolari (che compongono il tessuto tiroideo insieme alle cellule parafollicolari o C) e si distinguono in:

  • carcinoma papillare (PTC): è la forma più frequente di carcinoma differenziato della tiroide (circa il 75%). Presenta una crescita lenta e può dare luogo a metastasi che interessano i linfonodi del collo. In alcuni pazienti il tumore è multifocale e può interessare entrambi i lobi della tiroide. Secondo il Centro medico dell’Università del Maryland, il carcinoma papillare della tiroide ha una prognosi molto favorevole, con un tasso di sopravvivenza di oltre il 95% dei pazienti ad almeno 10 anni dalla diagnosi (UMM).;
  • carcinoma follicolare (FTC): rappresenta circa il 15% dei carcinomi differenziati della tiroide e può dare luogo a metastasi a distanza. Colpisce per lo più persone di età superiore ai 50 anni. – carcinoma anaplastico: è un tipo di tumore raro (<1% dei tumori della tiroide) ma particolarmente aggressivo e di difficile gestione, in quanto dà metastasi a distanza molto precocemente;
  • carcinoma midollare (MTC): origina dalle cellule parafollicolari (o cellule C) e si caratterizza per la presenza di elevati livelli circolanti di calcitonina. Tale tumore può avere un andamento familiare e può essere la manifestazione di sindromi genetiche quali la sindrome neoplastica multiple tipo 2 (MEN2).

Quali sono i fattori di rischio per il carcinoma della tiroide?

Un fattore di rischio accertato per il carcinoma differenziato della tiroide è l’esposizione a radiazioni. Il tumore della tiroide è infatti più comune in persone sottoposte a radioterapia sul collo per altre neoplasie o esposte a ricadute di materiale radioattivo come accaduto dopo l’esplosione della centrale nucleare di Cernobyl.

Come si effettua la diagnosi di carcinoma della tiroide?

Il sintomo più comune del tumore della tiroide è il riscontro alla palpazione o all’osservazione di un nodulo tiroideo. Solo il 3-5% di tutti i noduli della tiroide sono però forme tumorali maligne.
In alcuni casi, in presenza di un carcinoma tiroideo possono essere riscontrati in sede laterocervicale masse linfonodali anche di dimensioni e consistenza importanti. Una volta accertata la presenza di noduli tiroidei, generalmente si effettuano ulteriori approfondimenti diagnostici, in particolare:

  • valutazione della funzione della ghiandola: si effettua misurando i livelli circolanti di TSH, FT4 ed FT3 come pure gli anticorpi anti Tireoglobulina e anti Tireoperossidasi. Di nessuna utilità è invece il dosaggio della tireoglobulina.
  • ecografia tiroidea: è l’esame radiologico di prima scelta. Di semplice esecuzione, consente di valutare sia le dimensioni sia le caratteristiche ecostrutturali dei noduli. Costituiscono segni di sospetto ecografico la presenza di microcalcificazioni, di vascolarizzazione intra-nodulare e l’irregolarità dei margini del nodulo.
  • agoaspirato con ago sottile: è indicato in presenza di un nodulo singolo o di un nodulo sospetto nell’ambito di un gozzo multinodulare. Il campione di cellule così raccolto viene sottoposto ad esame citologico consentendo di distinguere, in un buon numero di casi, un nodulo benigno da un nodulo maligno.
  • scintigrafia tiroidea: fornisce importanti informazioni sul comportamento funzionale della tiroide e dei noduli tiroidei, in particolare nei casi in cui il nodulo all’esame citologico venga considerato dubbio. E’ un esame molto semplice, basato sulla somministrazione per via endovenosa di un tracciante radioattivo (99mTc-pertecnetato) che viene elettivamente captato dalle cellule tiroidee
  • misurazione dei livelli di calcitonina, sostanza che rappresenta il marker specifico del carcinoma midollare della tiroide. In caso di livelli dubbi di calcitonina, può essere indicato un test di stimolo con calcio o con penta gastrina, in regime di Day Hospital.
  • test genetici: l’esecuzione può essere indicata nel caso di un carcinoma midollare della tiroide, dal momento che questo tipo di tumore può avere un andamento familiare ed essere parte di sindromi genetiche quali la sindrome neoplastica endocrina tipo 2 (MEN2).
  • TAC, RMN e PET/CT: consentono la stadiazione del tumore identificando le possibili sedi di diffusione della malattia.

Quali sono i trattamenti per il carcinoma della tiroide?

Esistono vari tipi di trattamenti, che si possono dividere in chirurgici e non chirurgici.

  • Trattamenti chirurgici. In tutti i casi di carcinoma della tiroide, la chirurgia rappresenta la prima opzione terapeutica. Generalmente, in presenza di un tumore della tiroide viene eseguita di routine la tiroidectomia totale. La linfadenectomia del compartimento centrale è sempre eseguita in presenza di una carcinoma midollare, mentre in presenza di un carcinoma differenziato (follicolare o papillare) è eseguita solo se intraoperatoriamente si evidenziano linfonodi sospetti per metastasi o di dimensioni aumentate. Particolare attenzione viene dedicata anche al risultato estetico, grazie all’utilizzo di suture intradermiche con materiale riassorbibile e alla raccomandazione di massaggi postoperatori della ferita con creme dedicate per ridurre l’incidenza di cicatrici ipertrofiche.
  • Trattamenti non chirurgici. Dopo l’intervento di tiroidectomia è generalmente indicata l’ablazione del residuo tiroideo mediante iodio-131. Lo scopo della Terapia Radiometabolica con iodio 131 è distruggere il tessuto tiroideo normale che quasi sempre residua anche dopo una tiroidectomia totale ed eliminare eventuali microfocolai neoplastici presenti all’interno dei residui tiroidei o in altre sedi. Un secondo obiettivo di questa terapia è rendere più efficace il follow-up mediante il dosaggio della tireoglobulina sierica e l’eventuale esecuzione della scintigrafia total-body con iodio 131. La terapia radiometabolica può essere eseguita solamente in strutture autorizzate all’impiego terapeutico dello iodio 131 e deve essere eseguita in regime di “ricovero protetto”, in particolari stanze dedicate alla Medicina Nucleare.
  • La terapia radiante e la chemioterapia sono infine indicate nel caso di tumori altamente aggressivi e inoperabili o in quelli caratterizzati da de-differenziazione.

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Cosa succede dopo la fine delle terapie?

Il follow up è differenziato a seconda del tipo di carcinoma della tirodie che è stato trattato.

Carcinoma differenziato della tiroide: i pazienti, trattati con ormone tiroideo (L-Tiroxina) ad un dosaggio tale da mantenere ridotti livelli di TSH, vengono periodicamente sottoposti ad ecografia del collo e alla determinazione dei livelli circolanti di TSH, FT4, FT3, anticorpi anti tireoglobulina e tireoglobulina (che costituisce un buon marker di malattia nel paziente tiroidectomizzato). In casi selezionati anche può essere indicato valutare la risposta della tireoglobulina dopo stimolo con TSH ricombinante umano o procedere ad una Scintigrafia totale corporea con I131.

Carcinoma midollare della tiroide: dopo l’intervento i pazienti effettuano una terapia con ormone tiroideo (L-Tiroxina) al fine di ovviare all’ipotiroidismo conseguente alla rimozione della tiroide, e vengono periodicamente rivalutati previo dosaggio di TSH, FT4, FT3 e calcitonina.

Prognosi dei carcinomi della tiroide

Circa l’80% dei pazienti con carcinoma della tiroide ben differenziato (DTC) può essere curato definitivamente con un trattamento iniziale ed il 95-97% di questi sono ancora vivi dopo 30 anni di follow-up (De Groot 1990). Nonostante questa buona prognosi, alcuni pazienti presentano un alto rischio di recidiva e di morte; questi pazienti potrebbero essere identificati al momento della diagnosi usando fattori prognostici ben stabiliti che possono essere suddivisi in personali, istopatologici, biologici, molecolari e fattori relativi al trattamento.

  • L’età alla diagnosi è uno dei fattori prognostici indipendenti sia per PTC, sia per FTC. L’età avanzata alla diagnosi rappresenta un fattore prognostico negativo sia per recidiva, che per mortalità. Il significato prognostico dell’età persiste quando la percentuale delle morti totali è corretta per la mortalità su una popolazione controllo di uguale sesso, età ed anno di nascita quando sono considerate solo le morti tumore-correlate. Il rischio di recidiva e morte aumenta proporzionalmente con l’età, particolarmente dopo i 40 anni, i 45, i 50 anni o 60 anni; a secondo delle diverse caratteristiche. Sebbene non sia ancora chiaro perché hanno una prognosi peggiore, i più anziani hanno più spesso tumori localmente invasivi alla presentazione, una più alta incidenza di metastasi a distanza alla diagnosi e più frequentemente varianti istologiche aggressive. I tumori della tiroide tendono ad essere presenti meno nei pazienti anziani e allo stesso tempo sono meno differenziati, con una captazione di I-131 sensibilmente inferiore nei pazienti più giovani e, quindi, una minore efficacia della terapia con I-131. Di contro, bambini e adolescenti nonostante frequentemente presentino una patologia estesa localmente alla diagnosi, hanno un’eccellente prognosi a lungo termine.
  • Il sesso maschile è un fattore di rischio secondo alcuni autori, ma non per altri. Mentre è di solito un fattore prognostico negativo nelle analisi univariate, perde il suo valore prognostico nelle analisi multivariate. Se il sesso maschile sia veramente un fattore prognostico negativo non è stato ancora risolto.
  • Tipi e varianti istologiche. La prognosi del PTC è migliore rispetto al FTC. La prognosi meno favorevole del FTC è strettamente correlata all’età avanzata dei pazienti e all’estensione del tumore al momento della diagnosi, piuttosto che all’istologia. La percentuale di sopravvivenza dei pazienti con PTC ed FTC è simile tra pazienti coetanei e stesso stadio di malattia. Inoltre, nell’ambito di queste due entità istologiche, la prognosi può differire per le loro differenti varianti (Rosai 1992). Nel PTC la variante a cellule alte, la variante a cellule colonnari e la variante ossifila hanno una prognosi peggiore. Viceversa, una buona prognosi si è osservata quando il tumore è ben capsulato e in caso di variante follicolare, sebbene alcune di queste siano più aggressive. Una prognosi intermedia è stata dimostrata con la variante sclerotica diffusa. Mentre il FTC minimamente invasivo mostra una buona prognosi, il FTC largamente invasivo ha una prognosi meno favorevole (Rosai 1992). Un’invasione vascolare avanzata rappresenta un fattore prognostico negativo (Lang 1986), mentre il grado di invasione della capsula ha un limitato valore prognostico (Brennan 1991). Alcune varianti FTC, come il carcinoma a cellule di Huerthle, gli istotipi scarsamenti differenziati e insulare, sono stati frequentemente associati con una prognosi sfavorevole (Akslen 1991; DeGroot 1995; Sakamoto 1983; Tubiana 1985). È interessante notare che il grado di invasione e il grado di differenziazione non sono correlati tra loro, cossichè entrambi i parametri devono essere presi in considerazione da un punto di vista prognostico. Quando accumuli microscopici di cellule indifferenziate sono ritrovate all’interno di un carcinoma tiroideo differenziato, il tumore deve essere considerato e trattato come carcinoma anaplastico.
  • Il grado di differenziazione cellulare è di considerevole significato prognostico sia nel carcinoma papillifero, sia nel carcinoma follicolare. Comunque, non esiste un consenso generale nella definizione di ben moderato e scarsamente differenziato, all’interno del gruppo dei carcinomi tiroidei differenziati. Il grado del tumore, in accordo con la classificazione di Broder, che si basa sulle caratteristiche del nucleo del citoplasma e sul numero di figure mitotiche, era un fattore prognostico significativo sia nell’analisi uni variata, sia in quella multivariata per il carcinoma tiroideo papillifero. Il contenuto nucleare di DNA è considerato uno dei migliori indicatori prognostici di malignità in una grande varietà di tumori umani. Nel DTC uno studio riportava che l’aneuploidia del DNA era un fattore avverso nell’analisi uni variata, ma non era un fattore prognostico indipendente nell’analisi multivariata (Joensuu 1986). Nei casi della Mayo Clinic un contenuto anomalo di DNA era associato con una più alta mortalità per tumore, almeno nei tumori papilliferi ad alto rischio (Hay 1990). L’importanza di questo parametro non è ben stabilita per il carcinoma follicolare.
  • La dimensione del tumore primitivo può variare da meno di 1 cm di diametro (molto frequente oggi giorno) a notevoli dimensioni. Quando sono unifocali e con linfonodi negativi, i tumori inferiori a 1 cm, i cosiddetti “microcarcinomi” hanno una prognosi eccellente sia in termine di sopravvivenza, sia di sopravvivenza libera da recidiva (Baudin,1998; Hay,1992). C’è un graduale aumento nel rischio di recidiva e mortalità tumore specifica con l’aumento delle dimensioni del tumore primitivo (Akslen,1991; Cady1988 ; DeGroot 1995; Hay 1990; Hay 1987; Mazzaferri 1994; Mazzaferri,1998). La dimensione del tumore è un significativo fattore di rischio nelle analisi multivariate. Sembra essere più predittivo nei tumori papilliferi che nei tumori follicolari, nei quali il grado di differenziazione e la diffusione dell’invasione prevalgono sulla dimensione del tumore (Brennan 1991; Emerick 1993; Lang 1986; Rosai 1992; Sakamoto 1983; Shaha 1995; Tubiana 1985).
  • Il carcinoma tiroideo papillifero è multifocale in circa il 50% dei casi (dal 20 all’80%) relativamente al numero di sezioni patologiche analizzate (DeGroot 1990; Hay 1990; Mazzaferri 1994; Mortensen 1955). Anche se esistono divergenze di opinioni in merito, il FTC è di solito unifocale. I PTC multifocali sono più frequentemente accompagnati da metastasi linfonodali (Baudin 1998; Katoh 1992) e presentano più frequentemente un’evidenza di malattia locale persistente, recidive regionali e metastasi a distanza. Dati controversi sono stati riportati relativamente alla relazione tra multifocalità e mortalità. A questo riguardo è utile notare che la mutifocalità in un lobo è associata con una più alta probabilità di interessamento dell’altro lobo. Ciò almeno in parte spiega perchè le recidive e le morti tumore-correlate sono meno frequenti con la tiroidectomia totale che con le procedure chirurgiche meno radicali (Baudin 1998) .
  • L’estensione del tumore oltre la capsula tiroidea è un fattore predittore indipendente di una prognosi peggiore sia in PTC che in FTC. È stato osservato nel 5-10% di PTC e nel 3-5% di FTC, ed è associato con una più alta percentuale di recidive locali, metastasi a distanza e morte tumore correlata (deGroot 1990; Hay 1990; Hay 1993; Mazzaferri 1994; Simpson 1987; Yamashita 1997). Comunque, dovrebbe essere fatta una distinzione tra invasione microscopica della capsula tiroidea e invasione macroscopica con coinvolgimento di altri organi del collo. In quest’ultimo caso la prognosi è peggiore, specialmente a causa della difficoltà di arginare la malattia locale (Hu A et al,2007).
  • Le metastasi linfonodali sono frequenti nei PTC (30%-60%), ma non così frequenti negli FTC (15%-20%) (Grebe 1996). Sono molto più comuni nei bambini, verificandosi in oltre l’80% con PTC. I linfonodi locali possono essere coinvolti anche nel caso di microcarcinoma papillifero (Baudin 1998). Molti autori hanno dimostrato che le metastasi ai linfonodi regionali sono associate ad una più alta percentuale di recidiva di tumore e mortalità tumore specifica (Akslen 1991; DeGroot 1990; Mazzaferri 1994; Tubiana 1985), mentre altri non hanno trovato significative differenze nella sopravvivenza (Hay 1990; Hay 1993). Il coinvolgimento linfonodale è associato ad un outcome significativamente peggiore anche in assenza di invasione extra tiroidea. Nella casistica dell’Ohio State University, le metastasi ai linfonodi cervicali bilaterali e mediastinici erano un fattore prognostico indipendente predittivo di recidiva tumorale e mortalità cancro correlata (Mazzaferri 1994). All’istituto Gustave-Roussy le metastasi linfonodali palpabili rappresentavano un fattore di rischio indipendente per morte tumore correlata (Tubiana 1985). E’ stata dimostrata una mortalità del 3.6% nei pazienti con metastasi linfonodali, tale indice è estremamente alto per una patologia che è ritenuta avere una prognosi eccellente (Pacini 1994). Oltre che la presenza o assenza di metastasi linfonodali, il sito, la dimensione, il numero e l’estensione del tumore oltre la capsula tiroidea (Yamashita 1997) hanno probabilmente un impatto sulla prognosi, sebbene non siano stati presi in considerazione ampie casistiche.
  • Le metastasi a distanza al momento della diagnosi rappresentano il fattore prognostico peggiore nei pazienti sia con carcinoma tiroideo papillifero sia follicolare. La mortalità tumore specifica nei pazienti con metastasi a distanza varia dal 36% al 47% a cinque anni; dipende dalla durata del follow-up e aumenta fino al 70% a 15 anni (Hoie 1988; Pacini 1994; Schlumberger 1996). L’analisi univariata ha dimostrato che nel caso di metastasi a distanza, l’età più giovane, il tipo istologico ben  differenziato, la localizzazione nel polmone piuttosto che nell’osso, la presenza di piccole lesioni e la captazione di I-131 sono fattori associati ad una prognosi migliore. L’ analisi multivariata ha, comunque, dimostrato che la malattia metastatica estesa ha un impatto prognostico peggiore della localizzazione anatomica (polmone o osso). Il migliore outcome è presente nei pazienti più giovani con metastasi micronodulari responsive alla radio-iodioterapia non visibili alla radiografia standard.
  • Un peggiore outcome è associato alla perdita di differenziazione dei geni di espressione tiroide specifici, quali il recettore per il TSH, il trasportatore Na+/I-, la tireoglobulina (Tg)  e i geni tireoperossidasi, come dimostrato dalla ridotta espressione di questi geni nei tumori scarsamente differenziati e dalla loro assenza nei tumori indifferenziati (Arturi 1998; Elisei 1994). Tra gli oncogeni coinvolti con la patogenesi del PTC, solamente BRAFV600E è stato dimostrato avere un impatto negativo sull’outcome (Xing 2007; Elisei 2008), mentre ciò non si è dimostrato per i riarrangiamenti RET/PTC (Basolo 2001; Adeniran 2006). Mutazioni somatiche dell’oncosoppressore p53 o la sovraespressione della sua proteina codificata portano a una prognosi peggiore nell’ambito del ATC che è di per sè un tumore ad elevata mortalità (Pollina 1996). Similmente, la sovraespressione della proteina  p21, che è codificata dall’oncogene RAS è stata associata a forme di carcinoma tiroideo più aggressive (Romano 1993). I risultati sopra riportati sono solamente l’inizio di un nuovo approccio alla biologia del tumore ed indicano che i prodotti degli oncogeni e degli oncosoppressori possono rivelare la prognosi dei tumori della tiroide.

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Differenza tra pacemaker e bypass

MEDICINA ONLINE CUORE HEART INFARTO MIOCARDIO NECROSI ATRIO VENTRICOLO AORTA VALVOLA POMPA SANGUE ANGINA PECTORIS STABILE INSTABILE ECG SFORZO CIRCOLAZIONEIl pacemaker è uno strumento elettronico capace di monitorare il battito del nostro cuore e di erogare un impulso elettrico se rileva una frequenza bassa o molto bassa. In pratica serve per risolvere quei blocchi cardiaci che causano una bradicardia patologica (ritmo cardiaco molto lento, causa di vertigini o svenimenti). Il pacemaker viene inserito attraverso un’incisione sotto la clavicola.

Il bypass aorto-coronarico serve invece a portare il sangue nei territori cardiaci che ne ricevono poco a causa delle ostruzioni coronariche, situazione tipica dell’infarto del miocardio.

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Frattura della spalla e dell’omero prossimale: sintomi e cure

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma FRATTURA SPALLA OMERO OSSO PROSSIMALE  Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgLa frattura dell’omero prossimale è un frattura molto comune della spalla. Particolarmente comune negli individui anziani a causa dell’osteoporosi, l’omero prossimale è tra le ossa che si rompono più frequentemente in una spalla. Infatti, nei pazienti di età superiore ai 65 anni, le fratture dell’omero prossimale sono al terzo posto come frequenza (dopo le fratture dell’anca e le fratture del polso).

Una frattura dell’omero prossimale si verifica quando la sfera dell’articolazione della spalla, la testa dell’omero (l’osso del braccio) si rompe. La frattura quindi si localizza in cima all’osso del braccio (omero). La maggior parte delle fratture dell’omero prossimale non sono scomposte (non sono fuori posizione), ma circa il 15-20% di queste fratture sono scomposte e queste possono richiedere un trattamento più invasivo. Altro aspetto importante è che in queste frattura può capitare che vi sia una lesione associata dei tendini della “cuffia dei rotatori” che può aggravare la prognosi della guarigione. A tale proposito leggi anche: Rottura della cuffia dei rotatori: dolore alla spalla, deficit di forza, diagnosi e cura

Il problema più significativo riguardo il trattamento delle fratture dell’omero prossimale è che, a prescindere dal tipo di trattamento, gli esiti talvolta non sono molto soddisfacenti in termini di recupero funzionale. Molti pazienti che sperimentano questo infortunio non riacquistano la piena forza o la piena mobilità della spalla, anche con un trattamento adeguato.

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Le fratture scomposte dell’omero prossimale

Quando i frammenti dell’osso rotto non sono allineati correttamente, la frattura la chiameremo “scomposta”. Nelle fratture dell’omero prossimale, la gravità spesso dipende da quanti pezzi di quest’osso sono rotti e quanti sono scomposti. L’omero prossimale è suddiviso in quattro “parti” che possono rompersi diventando quindi “frammenti”, quindi una frattura si può scomporre in 2 frammenti, 3 frammenti, o in 4 frammenti principali (una frattura non scomposta, per definizione è in 2 frammenti).

In generale, quanto più numerosi sono i frammenti della frattura e sono scomposti, tanto peggiore è la prognosi cioè la capacitá di guarire e tanto maggiore e la possibilitá che i pezzi fratturati vadano in necrosi cioè muoiano e debbano essere eventualmente sostituiti con protesi articolari.

Le porzioni che costituiscono l’omero prossimale sono chiamate: tuberosità (tuberosità maggiore e minore), la testa omerale (la sfera della spalla), e la diafisi omerale. Le tuberosità sono vicine alla testa dell’omero, e sono quelle parti di osso dove si inseriscono i principali muscoli della cuffia dei rotatori. Per considerare un frammento scomposto, bisogna che esso sia separato dalla sua posizione normale di più di 2 millimetri o sia ruotato per più di 15 gradi.

Cause

Normalmente queste fratture sono provocate o da un colpo diretto alla spalla oppure da una colpo indiretto che si verifica in seguito ad una caduta sulla mano con l’arto teso. Nei giovani queste fratture si osservano nei traumi ad elevata energia (incidenti stradali o sportivi) a carico della spalla, che il più delle volte determinano una frattura pluriframmentaria scomposta associata, in alcuni casi, ad una lussazione dei capi articolari. Nei pazienti anziani con osso osteoporotico, è sufficiente talvolta anche un trauma a bassa energia (una banale caduta a terra). Altri meccanismi supplementari traumatici sono: le contrazioni muscolari violente comiziali e/o le scosse elettriche.

Sintomi

Le fratture dell’omero prossimale possono essere molto dolorose e possono rendere difficile anche spostare semplicemente il braccio. Altri sintomi includono:

  • Spalla cadente (in basso e in avanti).
  • Incapacità di sollevare il braccio a causa del dolore.
  • Parestesie, cioè disturbi della sesnsibilitá, formicolii, alla mano.
  • Un caratteristico ematoma nella regione interna del braccio che può arrivare fino al gomito (detto ematoma di Hennequin).

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Visita medica

Durante la visita, il medico farà domande sul come si è verificata la frattura. Dopo aver discusso dell’infortunio e aver parlato dei sintomi, il medico esaminerà la vostra spalla.

Il medico esaminerà attentamente la tua spalla per assicurarsi che nessun nervo o vasi sanguigno sia stato danneggiato dalla frattura.

Al fine di individuare la posizione e la gravità della frattura, il medico vi farà eseguire una radiografia. Spesso verranno eseguiti i raggi X di tutta la spalla per verificare la presenza di ulteriori lesioni. In alcuni casi soprattutto in previsione di un intervento chirurgico, il vostro medico può ordinare una TAC per vedere la frattura più nel dettaglio e pianificare il trattamento adeguato al vostro caso. Altri esami come eco-color doppler o indagini contrastografiche saranno eseguite se si sospetta un coinvolgimento vascolare.

Trattamento delle fratture dell’omero prossimale

Trattamento non chirurgico

Circa l’80% delle fratture dell’omero prossimale non sono scomposte (non sono fuori posizione), e queste possono quasi sempre essere trattate con un semplice tutore munito di fascia anti-rotatoria.

Il trattamento tipico è quello di riposare la spalla nel tutore per 3-4 settimane, e poi iniziare alcuni esercizi dolci di movimento. Man mano che la guarigione progredisce, che verrá monitorata mediante radiografie mensili, si possono iniziare esercizi di potenziamento della spalla più aggressivi, e la guarigione completa richiederà in genere circa 3 mesi. Il limite del trattamento non chirurgico è la possibilitá che la spalla, dopo essere stata immobilizzata per molto tempo per consentire la guarigione della frattura, si irrigidisca e perda mobilitá. Talvolta la rigiditá che ne consegue è invalidante e impone trattamenti chirurgici per cercare di risolvere la situazione.

Trattamento chirurgico

In caso di lesioni più gravi, quando la frattura è costituita da più frammenti ed è scomposta (fuori posizione), o anche nelle fratture più semplici nei giovani che hanno bisogno di tornare ad una vita attiva prima, può essere necessario un intervento chirurgico per fissare la frattura, riallinearla o in casi complessi sostituire l’osso danneggiato con una protesi articolare. Decidere qual’è il miglior trattamento chiurgico dipende da molti fattori, tra cui:

  • L’età del paziente.
  • Se l’arto è dominante oppure no.
  • Il livello di attività del paziente.
  • La quantità dei frammenti di frattura.
  • Il grado di spostamento dei frammenti della frattura.
  • L’esperienza del chirurgo.

La chirurgia prevede il riallineando dei frammenti ossei manualmente e mantenerli fissati in posizione mediante vari sistemi metallici, o viene eseguita una procedura di sostituzione della spalla mediante una protesi articolare.

Osteosintesi

I frammenti di osso possono essere fissati, con:

  • Placche e viti: questo intervento viene considerato il golden standard ed è l’intervento che, quando esiste l’indicazione, viene preferito nel nostro reparto OTB. Consente una riduzione ottimale dei frammenti ma soprattutto una stabilizzazione molto solida. Talvolta però è un intervento complesso e che quindi richiede mani esperte per la sua corretta esecuzione.
  • Chiodi endomidollari (chiodi infissi all’interno dell’osso cavo). Il vantaggio di questo intervento è la sua esecuzione più semplice per il chirurgo e la minore esposizione (può essere eseguito attraverso piccoli tagli della pelle e senza esporre la frattura). Lo svantaggio, a nostro avviso intollerabile, è che per inserire questo dispositivo di metallo, il chirurgo deve necessariamente danneggiare i tendini della cuffia dei rotatori, che sono i principali motori della spalla, motivo per cui nel nostro reparto è un intervento che non viene proposto quasi mai.
  • Viti semplici e fili metallici di Kirschner talvolta in combinazione tra loro. Questo sistema non garantisce adeguatra stabilità per cui non consente mobilizzazioni precoci della spalla. Questa opzione in genere viene  riservata alle persone anziane o in cattive condizioni generali.
  • Protesi articolari: quando l’osso è molto danneggiato e soprattutto nelle persone anziane, può capitare che la vascolarizzazione di alcuni frammenti sia irrimediabilmente compromessa motivo per cui si può decidere di sostituire tutta o parte dell’articolazione con una protesi della spalla. Se è consigliata una procedura di questo tipo, le opzioni includono una protesi anatomica standard, una endoprotesi, o una protesi inversa. Nei giovani questo intervento deve essere prospettato solo nei casi in cui l’osteosintesi non ha nessuna speranza di successo e questo deve essere valutato con molta attenzione a causa del fatto che le protesi hanno una durata limitata (in media 10-15 anni) e non garantiscono una vita particolarmente attiva.

Vantaggi e svantaggi del trattamento chirurgico

Il vantaggio della chirurgia, quando la frattura viene fissata in modo stabile ad esempio con placche e viti, o con chiodi endomidollari, è quello di consentire al paziente di iniziare a muovere subito l’articolazione. Questo consente di tornare prima ad una vita attiva e di ridurre il rischio della rigidità e quindi è più probabile che a fine trattamento il paziente recuperi più movimento della spalla rispetto al trattamento non chirurgico. Gli svantaggi però, anche se si verificano con una frequenza assai limitata, sono quelli comuni della chirurgia (complicanze anestesiologiche) e quelli specifici della chirurgia ortopedica come infezioni, emorragie, lesioni vascolari e nervose. Queste complicanze sono più frequenti nelle persone anziane motivo per cui, generalmente, in questi pazienti si opta quando possibile per un trattamento non chirurgico.

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Samuel Alexander Armas: la mano della speranza

MEDICINA ONLINE Samuel Alexander Armas la mano della speranza HAND OF OPE PIC PHOTO FOTO PICTURE.jpgLo statunitense Samuel Alexander Armas, nato il 2 dicembre 1999 a Villa Rica, Georgia (Stati Uniti), è diventato famoso prima ancora di venire al mondo, protagonista di un evento straordinario del quale lui non può ricordare assolutamente nulla. Il suo nome è sconosciuto a molti, ma la foto che ritrae la sua piccola manina mentre stringeva il dito del chirurgo che gli stava salvando la vita a sole 21 settimane di gestazione, ha fatto il giro del mondo attraverso internet. Quell’immagine è stata ribatezzata “Hand of Hope” (in italiano “La mano della speranza“), divenuta appunto un simbolo di speranza in tutto il mondo.

Una grave malformazione

La storia di Samuel inizia prima della sua nascita. Nel corso dei controlli effettuati durante la sua gravidanza, l’ostetrica Julie Armas, madre di Samuel, scopre che il feto è affetto da spina bifida, una grave malformazione della colonna vertebrale responsabile di disabilità motorie e funzionali che interessano soprattutto gli arti inferiori. Giunta alla 21° settimana di gestazione, la donna acconsentì a sottoporsi ad un intervento sì rivoluzionario ma molto rischioso: un chirurgo avrebbe corretto la spina bifida di Samuel Armas mentre era ancora nella pancia di sua madre.

La foto durante l’intervento

L’intervento chirurgico fetale venne effettuato il 19 agosto del 1999 da un’equipe medica del Vanderbilt University Medical Center di Nashville, capitale dello Stato del Tennessee (Stati Uniti), diretta dal chirurgo Joseph Bruner. Durante l’intervento, la mano del feto si estese attraverso l’incisione chiruirgica ed afferrò il dito del chirurgo. Ad assistere all’intervento/evento in sala operatoria anche l’allora fotografo freelance Michael Clancy, che immortalò la foto che vedete in questo articolo, divenuta rapidamente famosa in tutto il mondo.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Isterectomia: cosa succede dopo l’intervento e conseguenze

ChirurgiaL’isterectomia è l’intervento chirurgico mediante il quale viene asportato l’utero o parte di esso. Viene effettuato per varie patologie come: fibromi uterini: (tumori benigni), endometriosi, sanguinamenti uterini anomali e prolasso dell’utero. La durata dell’intervento varia a seconda della patologia (se l’utero presenta fibromi di grandi dimensioni l’asportazione sarà più lenta, così come in caso di endometriosi diffusa). In media è di due ore per l’isterectomia laparotomica, circa un’ora per quella laparoscopica e vaginale. Nel caso di isterectomia d’urgenza, si preferisce la via laparotomica, che permette di controllare meglio i sanguinamenti. E’ sempre necessario il ricovero, che per gli interventi per via laparotomica può risultare leggermente più lungo. Se non ci sono complicanze, la dimissione avviene, in media, dopo 4 o 5 giorni dall’intervento, dopo la medicazione delle ferite.

Post intervento

La convalescenza post operatoria dura circa 4-6 settimane, anche se l’intervento eseguito per via vaginale può ridurre questo periodo.

  • Ci potranno essere perdite ematiche o sierose per alcuni giorni dopo l’intervento, fino a 1 o 2 settimane.
  • E’ possibile fare il bagno dopo 20 giorni dall’intervento.
  • E’ consigliabile evitare gli sforzi nel periodo successivo all’intervento, anche se tutte le normali attività potranno essere riprese nel giro di circa 4 settimane.
  • E’ consigliabile evitare i rapporti sessuali per 4 – 6 settimane.
  • E’ necessaria una visita di controllo post operatoria o la rimozione dei punti di sutura, qualora sia necessario.

Conseguenze per la paziente

La maggior parte delle donne non nota alcuna differenza nella propria risposta sessuale dopo l’isterectomia, e molte la trovano addirittura migliorata. E’ normale che la donna provi psicologicamente un senso di perdita dopo l’asportazione dell’utero, un’organo così importante per la femminilità. Se insieme all’utero vengono asportate entrambe le ovaie della paziente, la menopausa avrà inizio in seguito all’intervento. Tra i sintomi della menopausa possono esservi vampe di calore, sudorazione notturna, secchezza vaginale. Per alleviarli si possono usare lubrificanti o terapie ormonali. Se le ovaie della paziente non vengono asportate la menopausa inizierà al tempo della vita della paziente in cui si sarebbe verificata naturalmente in assenza dell’intervento.

In seguito ad isterectomia, aumenta il rischio di enterocele, a tal proposito leggi anche: Enterocele: cos’è, definizione, sintomi, cause, intervento, immagini

Alternative

L’isterectomia non è che uno dei metodi per la terapia dei problemi uterini. Prima di decidere se sia la scelta giusta per la paziente, parlare con il medico curante della propria condizione e delle eventuali altre opzioni disponibili. Se la paziente decide che è necessario procedere all’isterectomia, informarsi sulle possibili conseguenze, parlare dei rischi dell’intervento e richiedere al medico curante quale tipo di intervento è preferibile nel proprio caso.

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Differenza tra isterectomia totale (completa) e radicale

MEDICINA ONLINE VAGINA VULVA APPARATO GENITALE FEMMINILE SCHEMA ANATOMIA UTERO TUBE FALLOPPIO OVAIOL’isterectomia è l’intervento chirurgico mediante il quale viene asportato l’utero; l’isterectomia può essere di vari tipi, principalmente “totale”, “subtotale” o “radicale”. In particolare la differenza tra totale e radicale è che:

  • nell’isterectomia totale (o completa) si asporta l’intero utero, è il tipo di isterectomia più diffusamente eseguito.
  • nell’isterectomia radicale si asportano utero, collo dell’utero, parte superiore della vagina e tessuti di supporto. Tale intervento si esegue in alcuni casi di tumore maligno.

A volte , contemporaneamente all’isterectomia, si asportano anche una o entrambe le ovaie e le trombe di Falloppio. Nel caso di asportazione di entrambe le ovaie e le trombe, l’intervento si chiama salpingo-ooforectomia bilaterale.

In quali casi si effettua una isterectomia? 
L’isterectomia si esegue in caso di problemi gravi, ad esempio il cancro dell’utero. Si esegue inoltre per altri problemi riguardanti l’utero, quando altre terapie intraprese non hanno dato esito positivo. Il medico può proporre l’isterectomia per uno dei seguenti motivi:

  • Fibromi uterini: tumori benigni (non cancerosi) che si sviluppano diffusamente all’interno del muscolo uterino. Nella maggior parte dei casi non causano problemi e le loro dimensioni si riducono dopo la menopausa, ma a volte possono causare forti sanguinamenti o dolore.
  • Sanguinamenti uterini anomali: perdite di sangue ingenti o irregolari dalla vagina.
  • Prolasso dell’utero: l’utero si abbassa e sprofonda nella vagina. Tale fenomeno dipende dai muscoli e dai tessuti poco tonici o allentati.
  • Endometriosi: condizione in cui il tessuto dell’endometrio (la membrana che riveste l’interno dell’utero) comincia a crescere all’esterno dell’utero e sugli organi circostanti. Tale condizione è causa di mestruazioni dolorose, perdite di sangue anomale e difficoltà a restare incinta. L’endometriosi tende a migliorare dopo la menopausa.

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