Si può morire di epilessia? Cos’è la SUDEP?

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Si muore di epilessia?

Soggetti con epilessia controllata dai farmaci e in buono stato di salute vivono generalmente una vita piena ed hanno un’aspettativa pari a quella di chiunque altro, tuttavia in essi esiste un rischio maggiore di morte precoce correlato all’epilessia anche se è certo che – con un controllo ottimale delle convulsioni e con le dovute precauzioni – è possibile ridurre tale rischio. I fattori che aumentano il rischio di morte precoce nel paziente epilettico sono:

  • cadute o altri traumi conseguenti alle convulsioni. I traumi stessi sono potenzialmente mortali;
  • convulsioni che durano più di 5 minuti. Questa condizione è nota come stato epilettico. Lo stato epilettico talvolta insorge quando un soggetto interrompe improvvisamente l’assunzione dei farmaci anti-convulsivanti;
  • suicidio: i pazienti con epilessia possono avere un calo della qualità della vita dovuto sia alla malattia in sé che all’effetto collaterale di alcuni farmaci. Tale calo della qualità della vita conduce alcuni pazienti a stati depressivi che aumentano il rischio di ideazioni suicidarie;
  • SUDEP (vedi oltre).

Ripetiamo comunque che, controllando l’epilessia con i farmaci, controllando la salute generale e controllando gli eventuali stati depressivi con farmaci e psicoterapia, l’aspettativa di vita è pari a quella dei soggetti sani.

Cos’è la SUDEP?

I soggetti epilettici possono anche, sia pur raramente, andare incontro a morte improvvisa e inattesa, la cosiddetta SUDEP (acronimo dall’inglese Sudden Unexpected Death in Epilepsy). Per definizione, si parla di SUDEP solo quando il decesso interessa pazienti con epilessia in buono stato di salute e in cui l’autopsia non riesce a riscontrare una causa del decesso. La SUDEP è idiopatica, cioè non ne sono note le cause con esattezza anche se la comunità scientifica sospetta che sia dovuta a una variazione del ritmo cardiaco durante un episodio convulsivo. Ricordiamo che la morte improvvisa dovuta ad alterazioni del ritmo cardiaco può avvenire anche in soggetti che NON soffrono di convulsioni. La SUDEP insorge prevalentemente nei pazienti epilettici con crisi epilettiche non controllate in particolare di tipo tonico-cloniche non trattate con alcun medicinale. Sebbene sia una delle principali cause di morte per i pazienti affetti da epilessia, l’incidenza è relativamente bassa, verificandosi all’incirca 1 caso ogni 1.000 persone affette da epilessia. I maggiori fattori di rischio per la SUDEP, sono:

  • presenza di crisi epilettiche di tipo tonico-clonico generalizzate;
  • insorgenza dell’epilessia in giovane età;
  • paziente di età compresa tra i 20 e i 40 anni;
  • avere crisi epilettiche non controllate nonostante l’assunzione di farmaci;
  • non usare alcun farmaco.

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Cosa si prova a morire annegati, dissanguati, decapitati… seconda parte

MEDICINA ONLINE MORTE COSA SI PROVA A MORIRE TERMINALE DEAD DEATH CURE PALLIATIVE TERAPIA DEL DOLORE AEROPLANE TURBINE CHOCOLATE AIR BREATH ANNEGATO TURBINA AEREO PRECIPITA GRATTACIELO GQuesta è la seconda parte dell’articolo: Cosa si prova a morire annegati, dissanguati, decapitati… Morti diverse, sensazioni diverse

Cosa si prova a morire di fame?

Il nostro corpo può sorprendentemente resistere un tempo anche molto lungo senza assumere cibo – perfino per ben 60 giorni – ammettendo almeno di avere aria ed acqua a disposizione e limitando al massimo il dispendio calorico giornaliero, che deve ridursi praticamente al solo metabolismo basale con attività fisica nulla. Dopo una sola settimana, il nostro fegato inizierà a produrre delle tossine che, in grandi quantità, sono assolutamente dannose. Dopo un mese, avremo perso oltre il 20% del nostro peso iniziale. Il nostro corpo inizialmente brucerà carboidrati e grassi disponibili, preservando le proteine, dopodiché consumerà i nostri muscoli e gli organi nel tentativo disperato di recuperare energia per la sopravvivenza. Il periodo necessario per morire di fame è strettamente legato a molti fattori, tra cui lo stato di salute generale e l’età, individui anziani, bambini e malati, sopravvivono meno a lungo di un adulto sano. La sopravvivenza senza cibo è strettamente correlata alle riserve di grasso del soggetto: un individuo in sovrappeso ha più chance di sopravvivenza rispetto ad un individuo sottopeso. Una persona con obesità di terzo grado, tende a sopravvivere di più rispetto ad una persona in sovrappeso. La morte avverrà probabilmente per insufficienza cardiaca dal momento che perfino il tessuto cardiaco verrà “digerito” dal corpo nell’estremo tentativo di disporre delle calorie necessarie per sopravvivere.

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Cosa si prova a morire decapitati?

In uno studio pubblicato nel gennaio 2011, i ricercatori della Radboud University Nijmegen, guidati da Anton Coenen, hanno rilevato segnali elettrici che si verificano circa un minuto dopo la decapitazione di topi da laboratorio. Per il team questo segnale elettrico rappresenterebbe il “gemito finale” del cervello. Ma la domanda che tutti si sono posti era: in quel minuto, i poveri ratti, erano coscienti di quanto stesse succedendo loro?
Il prototipo della decapitazione è ovviamente la ghigliottina, uno strumento che – grazie ad una possente lama fatta verticalmente cadere all’altezza del collo del condannava, gli tagliava la testa di netto. Adottata ufficialmente dal governo francese nel 1792, è stata vista come una tecnica di esecuzione più umana rispetto alle altre (impiccagione o decapitazione con spada a due mani da esecuzione diffusa durante il Rinascimento). La morte per decapitazione è in effetti tra le morti scientificamente considerate meno dolorose e più rapide, sempre se il boia sia abile e sappia fare bene il suo lavoro. Se il taglio è completo e rapido (come avviene con una ghigliottina o con un colpo di scure ben affilata) il dolore dovrebbe essere minimo: i nervi che si trovano accanto alle vertebre vengono recisi impedendo che il segnale del dolore arrivi al cervello. Se il taglio avviene nello stile di un boia jihadista, con un coltello, la decapitazione avviene in modo più lento e molto più doloroso, stessa cosa avviene anche quando viene usata una scure poco affilata oppure se il boia non la sa ben maneggiare: sono quindi necessari più colpi per completare la decapitazione e – tra un colpo e l’altro – il malcapitato soffre molto.
In ogni caso, anche dopo che il midollo spinale è stato reciso, la persona non perde coscienza istantaneamente: è stato calcolato che ci vogliono alcuni secondi al cervello ed ai tessuti presenti nel capo prima di consumare l’ossigeno del sangue presente nella testa al momento del taglio. In pratica la persona continua a vedere, sentire ed a poter fare alcuni movimenti ed espressioni del capo per alcuni secondi dopo che la sua testa è rotolata nel cesto. Alcuni rapporti storici macabri relativi alla Rivoluzione Francese, hanno citato movimenti degli occhi e della bocca fino a 30 secondi dopo che la lama ha colpito, anche se questi possono essere spiegati come contrazioni e riflessi post-mortem. Purtroppo, nessun decapitato è stato mai riportato in vita per poterci raccontare con esattezza cosa ha avvertito nel momento dell’esecuzione, anche se sono in corso vari esperimenti a riguardo. Giambattista Bugatti, detto Mastro Titta, è il boia più famoso della storia. Eseguì 516 condanne nella prima metà dell’800, tutte poi descritte nelle sue “Annotazioni”. Nel 1864, a 85 anni, fu messo a riposo da Pio IX con una pensione di 30 scudi. Prima di ogni esecuzione si confessava e faceva la comunione. Nessuno sapeva che lui era un boia: aveva un mestiere di copertura come verniciatore di ombrelli in vicolo del Campanile 4, una traversa di via della Conciliazione a Roma (la famosa strada che dal Lungotevere porta a piazza San Pietro).

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Cosa si prova a morire colpiti da un fulmine o da scarica elettrica?

Gli uomini sono colpiti dai fulmini quattro volte più che le donne (80% contro il 20%), sembra che ciò sia dovuto sia alle proprietà elettriche del testosterone (ormone maschile), sia al fatto che gli uomini svolgono maggiori attività all’aperto, spesso maneggiando oggetti metallici. La maggior parte delle volte la corrente del fulmine non passa attraverso il corpo, ma sulla sua superficie, causando un dolore acutissimo, lasciando spesso bruciature sulla pelle e strappando i vestiti. È per questo che spesso gli esseri umani sopravvivono alla fulminazione (solo circa il 25% delle persone colpite da un fulmine muore). Il pericolo mortale si ha quando l’elettricità scorre all’interno del corpo. In questo caso è importante il punto in cui la persona viene colpita (testa, braccio, gamba) e la modalità (direttamente o indirettamente). Quando il corpo è colpito da fulmine o forte scarica elettrica si verifica perdita di coscienza e la morte avviene generalmente per arresto cardiaco o per paralisi respiratoria, in tempi rapidi. Il soggetto prova un dolore acuto ma molto rapido.
Se la persona sopravvive, con molte probabilità soffrirà di vari problemi temporanei e permanenti. Difficoltà nel movimento degli arti (generalmente temporanee), danni al cervello ed al sistema nervoso centrale, disturbi della vista e dell’udito, ustioni dal primo al terzo grado (soprattutto sul punto di entrata e di uscita del fulmine, tipicamente nella testa, nel collo e nelle spalle). La pressione arteriosa potrebbe essere aumentata e potrebbero verificarsi delle alterazioni all’elettrocardiogramma. Dopo essere colpiti da fulmine o forte scosse, si possono verificare cadute e quindi fratture in particolare craniche, della colonna vertebrale (con rischio di paraplegia o quadriplegia) e degli arti (con rischio di emorragie mortali in caso di frattura scomporta che lede un grosso vaso, come l’arteria femorale). Dopo essere sopravvissuti ad un fulmine, o ad un altro tipo di trauma elencato in questo articolo, con molta probabilità si verifica il disturbo post traumatico da stress.

Leggi anche: Muore sul treno: anziché chiamare aiuto ha cercato su Google i sintomi dell’attacco cardiaco

Cosa si prova a morire bruciati vivi?

Se morire annegati è considerata una morte dolorosa, probabilmente morire avvolti dalle fiamme lo è anche più: la morte bruciati vivi è da molti valutata come la morte più dolorosa in assoluto. Le ustioni, localizzate in una parte del corpo o estese a tutto il corpo, provocano un dolore terribile, lancinante. La persona inizialmente tende a dimenarsi, nell’infruttuoso tentativo di liberarsi dalle fiamme; “fortunatamente” lo shock tende a far perdere coscienza abbastanza presto allo sfortunato. Successivamente a fermare il cuore nella maggior parte dei casi, non è il fuoco in sé, sono invece i gas tossici liberati dalle fiamme, come l’ossido di carbonio. Chi sopravvive ad un incendio ed ha una alta percentuale del proprio corpo con ustioni di secondo e terzo grado, ha davanti a se un lungo periodo di riabilitazione purtroppo molto dolorosa.

Leggi anche: Calcolare la superficie di una ustione: la regola del 9 in neonati, bambini ed adulti

Cosa si prova a buttarsi nel vuoto?

E’ interessante notare come tutti gli studi in merito dimostrino che – malgrado migliaia di anni di sforzi da parte dei boia e degli scienziati di tutto il mondo – sia quasi impossibile ottenere una morte istantanea e indolore e con una percentuale di successo del 100%: né la vecchia corda, né le più moderne sedie elettriche o iniezioni letali sembrano poter garantire questo risultato, perché sono comunque dolorose e non sempre portano a termine il proprio compito al primo colpo. Uno dei modi più “sicuri” in questo senso, è gettarsi nel vuoto: la morte da caduta da grandi altezze ha – purtroppo, visto che spesso è auspicata dai suicidi – un’alta percentuale di riuscita e, secondo alcuni, sarebbe non così dolorosa, dal momento che – quando il corpo è in caduta e la morte appare imminente, lo shock interviente in pochissimi istanti e si perde coscienza, arrivando ad impattare a terra privi di essa. L’accelerazione gravitazionale è di circa 9,8 metri al secondo, quindi, quando un corpo cade nel vuoto, percorre circa una decina di metri ogni secondo di caduta. Ad esempio, se ci si lancia di una altezza di 60 metri, si arriva a terra poco più di 6 secondi dopo il lancio. Per determinare la morte da caduta nel 100% dei casi, secondo alcuni macabri calcoli, bisognerebbe accertarsi di buttarsi da un’altezza di almeno 100 metri e cadere in un punto del suolo compatto e con la testa in avanti, contrariamente all’istinto che cerca di farci atterrare di piedi, cosa che – anziché ucciderci rapidamente – ci lascerebbe forse vivi e con dolorosi traumi multipli.

Importante precisazione che sembrerebbe banale ma non è così scontata in questo pazzo mondo: questo articolo NON VUOLE ovviamente istigare in nessun modo i lettori al suicidio o all’omicidio, ma solo indagare quello che avviene nel corpo in un momento così particolare della nostra esistenza. A tal proposito, leggi: Voglio morire: ecco i consigli per convincerti a non suicidarti

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Muore davvero solo chi smette di…

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma MUORE DAVVERO SOLO CHI SMETTE DI IMPARARERiabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgMai smettere di migliorare la nostra conoscenza delle cose, della natura e dell’universo: muore davvero solo chi dà tutto per scontato, chi smette di imparare, chi non ha più curiosità.

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Rigor mortis (rigidità cadaverica): perché avviene e dopo quanto tempo dalla morte?

MEDICINA ONLINE RIGOR MORTIS RIGIDITA CADAVERE MORTE TEMPO.jpgCon la locuzione latina “rigor mortis” (chiamata anche “rigidità cadaverica”) si intende una particolare rigidità muscolare che acquista un cadavere dopo un certo periodo dalla morte ed è uno dei segni riconoscibili di quest’ultima. È una condizione peculiare della muscolatura (striata e liscia) consistente in uno stato di retrazione e di compattezza che suben­tra (fase d’insorgenza) gradualmente nel cadavere. Il rigor mortis può essere accelerato in alcune condizioni, come in cadaveri di persone morte con ipertermia anche se la temperatura ambientale può essere normale, come può accadere nelle morti per overdose da cocaina, da PCP o da metamfetamine.

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Dopo quanto tempo dopo la morte si osserva rigor mortis?

Dopo la morte del soggetto, interviene una fase di flaccidezza a cui segue, dopo circa 3 ore, all’inizio dello sviluppo del rigor. La rigidezza completa impiega circa 10-12 ore per svilupparsi in un adulto medio quando la temperatura ambientale è 20-25 °C. Il corpo rimarrà apparentemente rigido per 24-36 ore (fase di stabilizzazione) a questa stessa temperatura prima che la decomposizione inizi a dissolvere i muscoli e li induca a rilasciarsi, nello stesso ordine in cui si sono irrigiditi. Se la rigidità è in via di instaurazione potrà essere modificata facilmente e riformarsi nella nuova posizione; se si è già instaurata una volta risolta non si potrà più riformare. La rigidità cadaverica è influenzata dalla temperatura ambientale: le temperature elevate accelerano la comparsa e la scomparsa del rigor. In un cadavere lasciato all’aperto, il rigor si manifesterà prima e passerà più rapidamente, se la temperatura ambientale è alta, che in un giorno di inverno freddo; se un corpo non è nel rigor completo ed è messo in refrigerazione il processo rallenta e può arrestarsi. Il periodo di risoluzione (fase di risoluzione) è anch’esso graduale, anzi è più lento di quello d’invasione. Di solito la scomparsa completa di rigor ha luogo a distanza di 3 o 4 giorni dal decesso; la risoluzione della rigidità cadaverica coincide di solito con il sopravvenire dei processi putrefattivi (in cui si ha distruzione autolitica dei ponti gelificati di acto-miosina).

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Meccanismo del rigor mortis

La contrattura cadaverica si esprimerebbe alla stessa stregua della contrazione vitale, cioè attraverso la formazione di legami tra filamenti di actina e filamenti di miosina, sì da dare origine ad acto-miosina. Affinché i filamenti di actina e miosina si stacchino è necessaria ATP; la sua mancanza, a causa della morte, provoca il rigor.
In tal senso il rapido instaurarsi del rigor in soggetti colti dalla morte durante un’intensa attività fisica è motivato dall’abbondante trasformazione dell’ATP in ADP.
A seguito del rigor mortis la rigidità delle articolazioni fa sì che le stesse assumano una posizione tale da rispettare quella in cui si trovano subito dopo il decesso; ciò è utile per poter verificare la congruità della posizione cadaverica rispetto alla posizione nell’ambiente.
Un caso particolare è quello della così detta rigidità catalettica: è un raro evento in seguito al quale la rigidità compare istantaneamente subito dopo il decesso.

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Legge di Nysten

Il rigor suole colpire inizialmente le palpebre, quindi i muscoli masseteri (perciò si chiudono presto le palpebre e la bocca in un soggetto deceduto), i muscoli del viso, del collo, del tronco, degli arti superiori ed, infine, quelli degli arti inferiori. Anche la risoluzione del fenomeno segue il medesimo ordine: la rigidità scompare prima ai masseteri, al volto, al collo e, da ultimo, agli arti inferiori. Questa sequenza che va sotto la denominazione di legge di Nysten, non ha d’altra parte valore assolutamente costante in quanto appare influenzata da molte­plici fattori.

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Fattori che influenzano il rigor mortis

La rigidità cadaverica può essere influenzata da diversi fattori che possono essere distinti in:

  • Fattori intrinseci: trofismo muscolare e intensità dell’affaticamento dei singoli muscoli al momento del decesso.
  • Fattori estrinseci: temperatura esterna.

Il fenomeno è più appari­scente nei cadaveri di individui muscolosi, ma, a parità di massa muscolare, si manifesta con maggiore intensità se all’atto del decesso esisteva una condizione di fatica. Ciò si verifica in modo spiccato nelle morti improvvise avvenute nel corso di un intenso lavoro muscolare, in seguito ad infezione tetanica, ad avvelenamento da stricnina, a malattie convulsive in genere. Per contro i muscoli atonici per malattie esaurienti, tanto più se affetti da eventi degenerativi, si irrigidiscono debol­mente e per breve tempo.
La tempera­tura elevata accelera la manifestazione della rigidità, che è invece rallentata dalle bas­se temperature.

Per approfondire: Differenza tra inumazione, tumulazione, cremazione, imbalsamazione e mummificazione

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Cosa si prova a morire annegati, dissanguati, decapitati…

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma COSA SI PROVA A MORIRE William Kemmler Medicina Estetica Riabilitazione Nutrizionista Dieta Grasso Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Seno Luce Pulsata Macchie Cutanee Pene Pressoterapia

William Kemmler fu la prima persona al mondo ad essere giustiziata sulla sedia elettrica

Tutti noi ce lo siamo chiesti almeno una volta nella vita: cosa proveremo nell’attimo della nostra morte. Nell’attesa di scoprirlo, il più tardi possibile, oggi ci focalizziamo sul fatto che non tutte le morti sono uguali: alcune sono più dolorose, altre più “dolci”. Vediamo cosa si prova a morire nei vari modi.

Cosa si prova a morire di freddo?

L’assideramento porta alla morte perché, a temperature molto basse (in particolare inferiori a 30°C), le nostre cellule sono incapaci di funzionare in modo normale, specie quelle del nostro cervello e del nostro cuore, il che porta ad alterazioni dell’attività cardiaca ed a perdita di coscienza, oltre ad alterazioni respiratorie causate da danni al centro cerebrale del respiro. Quando la temperatura del corpo passa dai 36 ai 35/32 gradi, la persona sente solo brividi e sensazione di freddo, ha difficoltà motoria, la sua pelle è fredda e secca. Tra i 32 ed i 28 gradi cessano i brividi e si entra in uno stato soporoso, la frequenza cardiaca si riduce come anche la frequenza respiratoria e la capacità di capire quello che succede attorno a sé. Qualora la temperatura continui a scendere, al di sotto dei 28 gradi si perde coscienza e, sotto i 24°C, i segni vitali sono assenti.

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Cosa si prova a morire dissanguati?

La velocità con si muore per dissanguamento dipendente molto dal tipo di taglio: una grave ferita all’aorta (l’arteria con diametro più grande del corpo) porta a decesso in pochi minuti, mentre invece danni ad arterie più periferiche o piccole vene possono richiedere anche alcune ore prima di condurre a morte per shock emorragico. Mediamente la quantità di sangue in circolo in un adulto sano si aggira tra i 4,5 ed i 5,5 litri: perdite fino a 700 ml  di sangue comportano sintomi di lieve entità (una donazione di sangue corrisponde a 450 ml di sangue), mentre perdite pari ad 1.5 litri causano senso di malessere, astenia, sete, vertigini tachicardia e tachipnea. Quando la quantità persa arriva a circa 2 litri si verifica perdita di coscienza. Con perdite superiori ai 2 litri si può verificare il decesso per dissanguamento. Chi ha rischiato di morire per dissanguamento ha ricordi diversi rispetto all’evento e ciò dipende molto dalla situazione in cui è avvenuto l’incidente e dal tipo di ferita: un taglio netto e profondo all’arteria femorale avvenuta per un infortunio domestico è certamente meno dolorosa e traumatica rispetto alle ferite e fratture multiple riportate in un grave incidente stradale.

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Cosa si prova a morire annegati?

La morte per annegamento è considerata una morte dolorosa e l’evento che conduce a decesso può avere una durata estremamente variabile: la capacità di saper nuotare e ancor di più la temperatura dell’acqua possono influire pesantemente sui tempi in cui l’azione trova compimento. Il panico che pervade chi sta annegando determina tachicardia e tachipnea; i movimenti per rimanere in superficie inizialmente sono rapidi e confusi ma dopo poco diventano sempre più deboli vista la carenza di ossigeno.
Quando il soggetto non ha più la forza per tenere la testa fuori dall’acqua, inizia ad ingoiare acqua e tossire, cosa che lo porta ad ingoiare ancora più acqua che raggiunge i polmoni ed impedisce il normale scambio di gas ossigeno-anidride carbonica.
La sensazione di bruciore e peso al petto lascia presto spazio ad una paradossale sensazione di tranquillità, segno che la mancanza di ossigeno sta determinando gradatamente perdita di coscienza, a cui segue l’arresto delle funzioni cardiocircolatorie e – successivamente – cerebrali ed infine la morte. Per approfondire: In quanto tempo si muore per annegamento? E’ doloroso?

Leggi anche: Dopo quanto tempo un cadavere si decompone?

Cosa si prova a morire di sete?

L’acqua rappresenta circa dal 55 al 70% del peso del corpo a seconda dell’età e del rapporto tra massa magra, e massa grassa e contribuisce in maniera importante al volume di sangue circolante (chiamato “volemia”) e quindi alla pressione arteriosa. Più è alto il volume sanguigno (la volemia), più la pressione tende ad aumentare, mentre se la volemia si abbassa, la pressione diminuisce. Quando si è disidratati, la volemia diminuisce e quando il volume sanguigno circolante diminuisce da un livello normale di circa 5 litri, a un livello inferiore ai 3,5 litri, si assiste a shock ipovolemico ed alla progressiva perdita di coscienza e successivamente alla morte, in modo simile a quanto descritto per la morte da dissanguamento. Quanto può resistere una persona senza bere acqua prima di morire di sete? Un individuo di corporatura media, ben idratato, privato di acqua, può resistere dai tre ai sette giorni prima di morire, tuttavia questo dato è molto variabile in base alle condizioni climatiche esistenti ed all’età e stato di salute del soggetto. Gli anziani hanno idratazione minore dei giovani ed è per questo che spesso in estate si verificano dei decessi per disidratazione in questa fascia di popolazione a rischio; inoltre i bambini molto piccoli ed in particolare i neonati, senza idratazione, sopravvivono pochissimo tempo.
Durante la privazione dall’acqua, la pelle e le mucose appaiono sempre più asciutte, la sensazione di sete aumenta, giorno dopo giorno.
L’ipotensione (pressione arteriosa bassa causata dal diminuito volume di sangue) determina affaticamento, sonnolenza, torpore. Il battito cardiaco aumenta (tachicardia) nel tentativo – infruttuoso – di compensare il calo di pressione arteriosa. Si ha un aumento della concentrazione degli elettroliti con urine a colorazione più scura ed a maggior densità. La fiacchezza rende giorno dopo giorno più difficile eseguire anche i movimenti ed i ragionamenti più semplici. Si avvertono vertigini e sopraggiunge ansia. Appaiono deficit cognitivi di apprendimento e memoria; il soggetto è incapace di capire quello che succede attorno a lui. Seguono perdita di coscienza e morte.

Qui finisce la prima parte dell’articolo; volete sapere cosa si prova a morire di fame, colpiti da un fulmine o da una scarica elettrica, bruciati vivi o decapitati? Leggete la seconda parte dell’articolo, seguendo questo link: Cosa si prova a morire annegati, dissanguati, decapitati… seconda parte

Importante precisazione che sembrerebbe banale ma non è così scontata in questo pazzo mondo: questo articolo NON VUOLE ovviamente istigare in nessun modo i lettori al suicidio o all’omicidio.

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La natura è il posto più bello dove passare l’eternità

DOTT. EMILIO ALESSIO LOIACONO MEDICO CHIRURGO PSICHIATRIA MEDICINA DELLE DIPENDENZE DIRETTORE MEDICINA ONLINE PANORAMA ORIZZONTE NATURA ACQUA FIUME LIJIANG CINA

Fiume Lijiang, Cina

Quando morirò tornerò ad essere parte della natura, contribuirò al suo incantevole divenire, parteciperò ai suoi colori, ai suoi odori, ai suoi gusti, diventerò un’arancia, o magari un papavero, o magari…

Le mie molecole diventeranno le corna di un robusto stambecco della Carinzia, oppure il lungo esofago di una giraffa della savana subsahariana, o forse le colorate ali di una farfalla solitaria di Villa Borghese.

Diventerò una Tedradenia Riparia e diffonderò nell’aria il migliore odore di incenso che abbiate mai odorato, o forse diventerò clorofilla e donerò ossigeno ad i miei ed ai vostri nipoti, diventerò mais e regalerò un sorriso ad un bambino affamato della Tanzania.

Le mie molecole diventeranno il substrato di un enzima e catalizzerò miliardi di reazioni chimiche, diventeranno serotonina che salverà la vita ad una persona triste, parteciperanno al ciclo degli acidi tricarbossilici facendo respirare una cellula.

Sarò la sabbia fine e rovente del deserto di Thar in India, od un sasso colorato del fiume Songhua nella Manciuria cinese, o sarò parte di un enorme meteorite diretto verso Chirone in orbita attorno a Saturno.

Viaggerò nel mondo tra nuvole ed oceani tramite l’infinito ciclo dell’acqua; sarò nelle gocce di pioggia che bagnano il Monte Waialeale nelle Hawaii, nella nebbia che avvolge l’enorme lago Vostok in Antartide, nella rugiada sui fiori irlandesi delle infinite praterie di Clare Island.

Non so dove sarò dopo la mia morte, ma so che sarò felice:
la natura è il posto più bello dove passare l’eternità.

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Le 5 cose di cui ti pentirai un attimo prima della tua morte

MEDICINA ONLINE DEPRESSIONE TESTIMONIANZA RACCONTO FRASI AFORISMI TRISTEZZA SOLITUDINE TRISTE VITA SPERANZA MORTE MALATTIA SENTIRSI SOLI lonely girl crowdVi siete mai chiesti quale sarebbe il vostro più grande rimpianto se oggi fosse il vostro ultimo giorno di vita? Cosa vorreste aver fatto, cosa vi pentireste di non aver mai provato? Bronnie Ware, un’infermiera australiana nella rete delle Cure Palliative per i malati terminali, che assisteva i moribondi nelle loro ultime 12 settimane, ha riportato per anni le loro ultime parole e desideri in un blog intitolato “Inspiration and Chai” che ha avuto un seguito talmente grande da convincerla a scrivere un libro intitolato “I 5 più grandi rimpianti dei morenti”. Quando la Ware ha chiesto ai suoi pazienti di eventuali rammarichi, o su qualcosa che avrebbero fatto diversamente, sono venuti fuori molti temi comuni. Nessun accenno al non aver fatto più sesso o a non avere provato a fare sport estremi, ma il rimorso di non aver speso più tempo con la propria famiglia, coltivato le amicizie o cercato con più accortezza la via della felicità. Questi i cinque più comuni rimpianti, secondo la testimonianza dell’infermiera:

5. Vorrei essere stato capace di rendermi più felice

“Questo è un sorprendentemente comune a tutti. Molti non si rendono conto, finché non è tardi, che la felicità è una scelta. Sono rimasti bloccati nelle loro abitudini e nella routine. Il cosiddetto ‘comfort’ di familiarità si è espanso anche alle loro emozioni, perfino ad un livello fisico. La paura del cambiamento li fa fingere con gli  altri e mentire a se stessi, convincendosi di essere contenti, quando nel profondo,  non desideravano che ridere a crepapelle e un po’ di infantilità nella loro vita. ”

4. Vorrei esser rimasto in contatto con i miei amici

“Spesso non sono riusciti ad apprezzare quale privilegio magnifico fosse avere dei vecchi amici se non nelle loro ultime settimane e non sempre era stato possibile rintracciarli. Molti erano così concentrati sulle proprie vite che hanno perso per strada delle amicizie d’oro nel corso degli anni. Molti rimpiangevano profondamente di non aver dato alle amicizie il tempo e lo sforzo che si meritavano. Ognuno sente la mancanza dei propri amici quando sta morendo.”

3. Vorrei aver avuto il coraggio di esprimere i miei sentimenti

“Molte persone sopprimono i loro sentimenti in modo da mantenere il quieto vivere con gli altri. Di conseguenza, si accontentano di un’esistenza mediocre e non diventano mai chi erano realmente in grado di divenire. Come risultato, amarezza e risentimento diventano delle malattie che si sviluppano dentro. ”

2. Vorrei non aver lavorato così duramente

“Questo è venuto fuori da ogni paziente di sesso maschile che ho assistito. Si sono persi l’infanzia dei loro figli e la compagnia dei propri partner. Anche alcune donne hanno menzionato questo rimpianto, ma come se fossero di una vecchia generazione, molti dei pazienti di sesso femminile non erano stati capifamiglia. Tutti gli uomini che ho curato hanno rimpianto profondamente l’aver trascorso così tanto della loro esistenza a dedicarsi sfrenatamente al lavoro. ”

1. Vorrei aver avuto il coraggio di vivere una vita come volevo io

“Questo il rammarico più comune per tutti. Quando le persone si rendono conto che la loro vita è quasi finita e ripensano ad essa tirando le somme, è facile rendersi conto di quanti sogni sono rimasti insoddisfatti. La maggior parte delle persone non aveva realizzato nemmeno la metà dei loro sogni e doveva morire con la consapevolezza che era a causa di scelte che aveva compiuto. La salute offre una libertà di cui in pochi si rendono conto, fino a quando non la perdono.”

La Ware testimonia di come le persone alla fine della propria vita acquisiscano un’incredibile lucidità di visione e che noi tutti potremmo imparare dalla loro saggezza. Come diceva il poeta Henry David Thoreau: “Vivere con saggezza, vivere in profondità e succhiare tutto il midollo della vita, per sbaragliare tutto ciò che non era vita e non scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto”.

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Morire per aver bevuto troppa acqua

Dott. Loiacono Emilio Alessio Medico Chirurgo Roma Medicina Chirurgia Estetica Rughe Cavitazione Dieta Peso Dimagrire Pancia Grasso Dietologo Nutrizionista Cellulite Senologo Psicologo Pene Studio Cuore Sessuologo Sesso MORIRE BEVUTO TROPPA ACQUAOgni dieta consiglia di bere almeno due litri di acqua al giorno, per depurarsi dalle impurità: è questa una delle leggi basilari per seguire un buon regime alimentare, ma è sempre necessario accompagnare il consumo di acqua ad una dieta equilibrata e sana. Bere acqua fa bene ma ovviamente, come in tutti i campi, bisogna usare un po’ di buon senso. Buon senso che purtroppo è tragicamente mancato a Jacqueline Henson, la donna che vedete in foto con suo figlio. Jacqueline era una donna inglese di 40 anni, divenuta suo malgrado famosa alcuni anni fa per esser deceduta dopo aver bevuto  ben 4 litri di acqua in appena due ore.

Jacqueline Henson voleva dimagrire velocemente e aveva quindi deciso di seguire la dieta di una rivista, LighterLife, che prevedeva una massiccia assunzione di acqua insieme a una rigidissima dieta (500 calorie al giorno per 12 settimane). Il marito, Brian, ha riferito che la moglie si era convinta che «quanta più acqua avesse bevuto, tanto più peso avrebbe perso». La donna seguiva la dieta da qualche settimana ed è improvvisamente svenuta, per poi morire per un edema cerebrale. La donna aveva interpretato la dieta in modo arbitrario ed errato: più acqua e meno cibi solidi per perdere peso. Assumere 500 calorie al giorno – anziché circa 1500 (il valore normale per una donna media) – e mantenere i ritmi di vita stressanti hanno fatto il resto.

Bere acqua fa bene, ma è una norma che va accompagnata con una dieta alimentare equilibrata e con attività fisica periodica e costante. La comunità scientifica ha sempre sostenuto l’importanza di bere tanto per stare bene, ma ovviamente non bisogna mai dimenticare il buon senso. Come diceva il grande medico rinascimentale Paracelso: “È la dose che fa il veleno”. Perfino il bere troppa acqua può essere mortale ed il caso di Jacqueline Henson lo dimostra.

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