Quali sono le sette meraviglie del mondo?

MEDICINA ONLINE COSA SONO QUALI SONO SETTE 7 MERAVIGLIE DEL MONDO ANTICOLe sette meraviglie del mondo sono le strutture e opere architettoniche, artistiche e storiche che i Greci e i Romani ritennero i più belli e straordinari artifici dell’intera umanità.

Anche se erano stati compilati altri elenchi più antichi, la lista canonica deve risalire al III secolo a.C., poiché comprende il Faro di Alessandria, costruito tra il 300 a.C. e il 280 a.C., e il Colosso di Rodi, crollato per un terremoto nel 226 a.C. Tutte costruite più di 2.000 anni fa, furono contemporaneamente visibili solo nel periodo fra il 250 a.C. e il 226 a.C.; successivamente andarono via via distrutte per cause diverse; solo l’imponente Piramide di Cheope, la più antica di tutte, sopravvive ancora oggi. Esse erano situate in Egitto (2), Grecia (2), Asia Minore (nell’attuale Turchia) (2) e Mesopotamia (nell’attuale Iraq).

Tra i testi conservati il più antico che nomina le sette meraviglie è una poesia di Antipatro di Sidone (Antologia greca, IX, 58) scritta intorno al 140 a.C. Alle sette meraviglie è dedicata l’opera intitolata De septem orbis spectaculis, erroneamente attribuita a Filone di Bisanzio ma molto più tarda (probabilmente del V secolo d.C.). Vengono anche chiamate le sette meraviglie classiche oppure le sette meraviglie antiche per distinguerle dalle sette meraviglie moderne proposte in tempi più recenti.

Le sette meraviglie antiche

  • La Piramide di Cheope a Giza (Egitto): la più antica fra le sette meraviglie e l’unica che sopravvive ancora oggi. Rappresenta la glorificazione delle imprese del faraone.
  • I Giardini pensili di Babilonia (Mesopotamia): dove si racconta che la regina Semiramide raccogliesse rose fresche durante tutto l’anno.
  • La Statua di Zeus a Olimpia (Grecia): grandiosa testimonianza di arte religiosa, opera dello scultore greco Fidia.
  • Il Tempio di Artemide a Efeso (Turchia).
  • Il Colosso di Rodi (Grecia): enorme statua bronzea situata nell’omonima isola.
  • Il Mausoleo di Alicarnasso (Turchia): monumentale tomba dove riposa il satrapo Mausolo, situata ad Alicarnasso.
  • Il Faro di Alessandria: (Egitto): costruzione che rischiarava la via ai mercanti che si approssimavano al porto.

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Criptofasia ed una morte misteriosa: la strana storia delle gemelle Gibbons

MEDICINA ONLINE JUNE JENNIFER GIBBONS GEMELLE SILENZIOSE SILENT TWINS MORTE CRIPTOFASIA.jpgSappiamo che le affinità fra gemelli omozigoti sono molte: condividono in fondo lo stesso identico patrimonio genetico, e se crescono assieme spesso si influenzano vicendevolmente per quanto riguarda il comportamento. In alcuni casi hanno dei gusti marcatamente differenti; quasi sempre però mostrano una comprensione reciproca che, vista dall’esterno, può apparire straordinaria. Ma la storia delle gemelle Gibbons contiene un elemento più viscerale, inspiegabile, come se questa sintonia fosse arrivata ad un livello superiore e ancora oggi impossibile da spiegare.

June e Jennifer Gibbons erano nate nell’isola Barbados l’11 aprile del 1963. I genitori si trasferirono ad Haverfordwest, nel Galles (il padre era luogotenente nella RAF) poco dopo la nascita delle gemelline. Si trattava dell’unica famiglia di colore della città, e certamente il problema dell’integrazione deve aver pesato sullo sviluppo delle piccole gemelle. Divenne presto evidente che le bambine avevano alcune difficoltà di linguaggio, tanto che soltanto la mamma Gloria era in grado di capire quello che farfugliavano, e in alcuni casi nemmeno lei. A causa di questi disordini linguistici, June e Jennifer crebbero senza legare con gli altri bambini, sempre sole e chiuse nel loro mondo.

La scuola, come è comprensibile, fu per loro un trauma severo: rifiutavano di parlare, scrivere o leggere, e gli insegnanti cominciarono a mandarle a casa prima della fine dell’orario per dare loro qualche minuto di vantaggio sui bulli che le molestavano in continuazione. Fu in quel periodo che cominciarono ad essere chiamate the silent twins (gemelle silenziose).

Se avevano eretto un muro impenetrabile per il mondo, all’interno del loro “spazio protetto” vivevano però una realtà differente.
Le gemelle avevano sviluppato un loro linguaggio, incomprensibile agli estranei (criptofasia), e dei giochi segreti particolari e complicati. Giocavano a “specchiarsi” l’una nell’altra, imitando a vicenda le azioni compiute; la sera decidevano chi delle due, al risveglio mattutino, avrebbe respirato per prima, e finché questo respiro non veniva avvertito l’altra sorella doveva giacere immobile, come morta. Mentre in classe non c’era verso di costringerle a leggere, nella serenità della loro cameretta erano avide divoratrici di libri, e riempivano i loro quaderni di racconti, disegni e romanzi scritti a quattro mani. Le pagine erano riempite di caratteri minuscoli, tanto che fra una riga blu e l’altra dei fogli dei loro diari trovavano spazio quattro righe di testo.

All’età di 14 anni, avevano ormai escluso dalla loro vita praticamente chiunque: compagni, conoscenti, mamma, papà, e i due fratelli. Soltanto alla piccola Rosie, la sorella minore, era consentito entrare sporadicamente nel loro universo. Ormai il silenzio era divenuto un voto vero e proprio, e il linguaggio segreto utilizzato fra di loro era sempre più impenetrabile. Si muovevano con gesti lenti, all’unisono, senza dubbio rispettando le regole di un oscuro gioco. I diversi psicologi e terapeuti non riuscirono a fare nulla per renderle più sociali, e le ragazze sprofondarono inesorabilmente nel loro rapporto esclusivo.

Le gemelle, a onor del vero, provarono ad uscire dall’isolamento attraverso la scrittura. Due dei loro romanzi, Pepsi-Cola Addict e Discomania, firmati rispettivamente da June e Jennifer, vennero pubblicati a loro spese, senza però attrarre l’attenzione sperata. Qualche breve flirt con dei ragazzi americani non portò ugualmente a nulla di importante. Il problema vero sorse quando le due cominciarono ad avere dei comportamenti delinquenziali: piccoli crimini, che culminarono però in due episodi di incendi dolosi, appiccati dalle gemelle alle scuole speciali che frequentavano. Il loro rapporto di amore si mischiava inoltre ad accessi di odio violento, visto che un giorno Jennifer aveva tentato di strangolare June con un cavo della radio, e una settimana dopo June aveva spinto Jennifer giù da un ponte nel fiume sottostante.

La risposta del sistema giudiziario fu particolarmente dura: reputate pericolose, le due ragazze vennero rinchiuse nel Broadmoor Hospital, un ospedale di massima sicurezza per malati mentali. Lì, insieme a maniaci, psicopatici e schizofrenici, passarono 14 anni della loro vita, incontrandosi soltanto in orari precisi.

Le gemelle avevano fin dall’inizio pattuito che se una di loro fosse morta, l’altra avrebbe rotto il patto del silenzio, avrebbe cominciato a parlare, e vissuto una vita normale. Nel corso degli anni di reclusione forzata, erano arrivate alla drammatica conclusione che fosse necessario che una delle due morisse: non sarebbero mai state libere, se non tramite il sacrificio.
La loro biografa ed amica, Marjorie Wallace, raccontò il momento in cui le rivelarono il loro piano:

Portai mia figlia – credo avesse circa otto anni – a prendere il tè con le gemelle. Dovevamo passare per tutte queste porte chiuse a chiave, fino alla grande sala. Jennifer e June erano là, sempre piuttosto allegre, e ci portavano il tè su un vassoio con piccoli biscotti. Ci sedemmo e cominciammo a chiacchierare. Di colpo, nel bel mezzo della conversazione, Jennifer disse: ” Marjorie-Marjorie-Marjorie, io morirò”. Io dissi: “Non essere stupida, Jennifer. Sei in buona salute”. Mi guardò e mi disse: “Abbiamo deciso, io morirò”. […] Poi June disse: “Sì, abbiamo deciso”. Mi passarono dei biglietti, e c’era scritto che la decisione era che Jennifer sarebbe dovuta morire per liberare June. June era nata per prima, June aveva più talento, June era più estroversa. Aveva il diritto di vivere. June poteva vivere per entrambe, e Jennifer no.

Il 9 marzo 1993 le due sorelle (che allora avevano 29 anni) vennero spostate da Broadmoor alla Caswell Clinic a Bridgend, dove sarebbero state sottoposte finalmente a un regime più libero. Nel minibus che le trasportava, però, Jennifer di colpo poggiò la testa sulla spalla della sorella. June dichiarerà in seguito: “Pensavo fosse stanca. Sembrava che dormisse, ma i suoi occhi erano aperti e sbarrati”. Quando il bus arrivò alla clinica, non si riuscì a svegliare Jennifer. Portata all’ospedale, vi morì poche ore dopo.

L’autopsia rivelò che Jennifer era morta di miocardite acuta, un’infiammazione del muscolo cardiaco. Secondo gli anatomopatologi, potevano esserci circa 40 motivi diversi per una tale infiammazione; eppure il Dr. Knight, patologo, disse di non avere mai visto un cuore così severamente infiammato senza alcuna ragione evidente.

Rimasta sola, June fu effettivamente in grado di conquistarsi una vita più comune, senza farmaci o cliniche. Ancora oggi rifugge dai riflettori dei media; conduce una vita serena e anonima aiutando di tanto in tanto i vecchi genitori, accettata finalmente dalla comunità, senza grossi problemi, e tenta di lasciarsi il passato dietro le spalle.

La morte di Jennifer resta un mistero per la medicina.

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Franca Viola: la prima donna a rifiutare il matrimonio riparatore

MEDICINA ONLINE FRANCA VIOLA DONNA ALCAMO TRAPANI SICILIA FUITINA MATRIMONIO RIPARATORE MAFIA MAFIOSA FAMIGLIA FILIPPO MELODIA POLIZIA CARCERE PROCESSO RIFIUTO.jpgFranca Viola è stata la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore. Divenne simbolo della crescita civile dell’Italia nel secondo dopoguerra e dell’emancipazione delle donne italiane.

Il fidanzamento rotto

Nata il 9 gennaio 1948 ad Alcamo (Trapani, Sicilia), Franca all’età di quindici anni – con il consenso dei genitori – si fidanzò con Filippo Melodia, nipote del mafioso Vincenzo Rimi e membro di una famiglia benestante. Tuttavia in quel periodo Melodia venne arrestato per furto ed appartenenza ad una banda mafiosa e ciò indusse il padre di Franca, Bernardo Viola, a rompere il fidanzamento; per queste ragioni, la famiglia Viola fu soggetta ad una serie di violente minacce ed intimidazioni: il loro vigneto venne distrutto, il casolare annesso bruciato e Bernardo Viola addirittura minacciato con una pistola al grido di “chista è chidda che scaccerà la testa a vossia“, ma tutto ciò non cambiò la sua decisione.

Il rapimento e le violenze

Il 26 dicembre 1965, all’età di 17 anni, Franca Viola fu rapita (assieme al fratellino Mariano di 8 anni, subito rilasciato) da Melodia, che agì con l’aiuto di dodici amici, con i quali devastò l’abitazione della giovane ed aggredì la madre che tentava di difendere la figlia. La ragazza fu violentata e quindi segregata per otto giorni in un casolare al di fuori del paese e poi in casa della sorella di Melodia ad Alcamo stessa; il giorno di Capodanno, il padre della ragazza fu contattato dai parenti di Melodia per la cosiddetta “paciata”, ovvero per un incontro volto a mettere le famiglie davanti al fatto compiuto e far accettare ai genitori di Franca le nozze dei due giovani.

La liberazione e l’arresto di Melodia

Il padre e la madre di Franca, d’accordo con la polizia, finsero di accettare le nozze riparatrici e addirittura il fatto che Franca dovesse rimanere presso l’abitazione di Filippo, ma il giorno successivo, 2 gennaio 1966 la polizia intervenne all’alba facendo irruzione nell’abitazione, liberando Franca ed arrestando Melodia ed i suoi complici. Secondo la morale del tempo, una ragazza uscita da una simile vicenda, ossia non più vergine, avrebbe dovuto necessariamente sposare il suo rapitore, salvando l’onore suo e quello familiare. In caso contrario sarebbe rimasta zitella, additata come “donna svergognata”.

Il processo

All’epoca, la legislazione italiana, in particolare l’articolo 544 del codice penale, recitava: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio, che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”, in altre parole ammetteva la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale, anche ai danni di minorenne, qualora fosse stato seguito dal cosiddetto “matrimonio riparatore”, contratto tra l’accusato e la persona offesa; la violenza sessuale era considerato oltraggio alla morale e non reato contro la persona. Il caso sollevò in Italia forti polemiche divenendo oggetto di numerose interpellanze parlamentari. Durante il processo che seguì, la difesa tentò invano di screditare la ragazza, sostenendo che fosse consenziente alla fuga d’amore, la cosiddetta “fuitina”, un gesto che avrebbe avuto lo scopo di ottenere il consenso al matrimonio, mettere la propria famiglia di fronte al fatto compiuto e che il successivo rifiuto di Franca di sposare il rapitore sarebbe stato frutto del disaccordo della famiglia per la scelta del marito. Filippo Melodia fu condannato a 11 anni di carcere, ridotti a 10 con l’aggiunta di 2 anni di soggiorno obbligato nei pressi di Modena. Pesanti condanne furono inflitte anche ai suoi complici dal tribunale di Trapani, presieduto dal giudice Giovanni Albeggiani. Melodia uscì dal carcere nel 1976 e fu ucciso da ignoti, il 13 aprile 1978, nei dintorni di Modena, con un colpo di lupara.

Simbolo di libertà e dignità

Franca Viola diventerà in Sicilia un simbolo di libertà e dignità per tutte quelle donne che dopo di lei avrebbero subito le medesime violenze e ricevettero, dal suo esempio, il coraggio di “dire no” e rifiutare il matrimonio riparatore. Franca Viola si sposò nel 1968 con il giovane compaesano amico d’infanzia Giuseppe Ruisi, ragioniere, che insistette nel volerla sposare, nonostante lei cercasse di distoglierlo dal proposito per timore di rappresaglie.

«Non fu un gesto coraggioso. Ho fatto solo quello che mi sentivo di fare, come farebbe oggi una qualsiasi ragazza: ho ascoltato il mio cuore, il resto è venuto da sé. Oggi consiglio ai giovani di seguire i loro sentimenti; non è difficile. Io l’ho fatto in una Sicilia molto diversa; loro possono farlo guardando semplicemente nei loro cuori»

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Qual è il virus che ha ucciso più persone in assoluto?

MEDICINA ONLINE SISTEMA IMMUNITARIO IMMUNITA INNATA ASPECIFICA SPECIFICA ADATTATIVA PRIMARIA SECONDARIA DIFFERENZA LABORATORIO ANTICORPO AUTO ANTIGENE EPITOPO CARRIER APTENE LINFOCITI BNon ci sono dati precisi riguardo a questo triste primato, tuttavia, con molta probabilità, il virus che ha ucciso più persone nella storia dell’uomo è quello dell’influenza “spagnola”:  tra l’ottobre 1918 ed il marzo 1919, tale virus contagiò quasi un miliardo di individui e ne uccise tra i 40 e i 50 milioni in appena sei mesi.

Per altri però il triste primato spetta invece alla peste che avrebbe scatenato la peggiore pandemia in termini di numero dei morti (si stima che circa 200.000.000 persone siano morte nel corso della storia). La peste ha colpito l’umanità per secoli, con tre pandemie tra il 4° e il 19° secolo. La seconda di queste, la Morte Nera, ha raggiunto il picco nel 14° secolo e ha ucciso circa il 60% dell’intera popolazione europea. Ad oggi, anche se più rara, la peste esiste ancora, con episodi occasionali che si sono verificati in Congo, Cina, Madagascar e Messico.

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Differenza tra animale ed uomo

MEDICINA ONLINE UOMO VITRUVIANO DI LEONARDO ARTE ANIMALE UOMO DIFFERENZA FILOSOFIA RELIGIONE SCIENZA.jpgTra l’uomo e gli animali la differenza è qualitativa e fondamentale. Sta nella ragione teoretica e nella volontà, che è libera e capace di amare. E che è solo dell’uomo. Secondo i sostenitori dell’animalismo riduzionista, tra l’uomo e l’animale non c’è una differenza qualitativa bensì solo quantitativa, dovuta ad uno sviluppo più avanzato dell’uomo.
In realtà, però, tra l’uomo e l’animale sussistono molte differenze qualitative. Ne focalizziamo solo due, che tuttavia sono cruciali: la ragione teoretica e la volontà libera.

La ragione teoretica
L’animalismo afferma che l’intelligenza non è una prerogativa esclusiva dell’uomo, bensì è una caratteristica anche degli animali superiori. Tuttavia, bisogna replicare – già con Aristotele (Politica, I, 1253 a 10-18) – che la «conoscenza » degli animali superiori è qualitativamente inferiore a quella dell’uomo. Infatti, l’animale:
1. si accorge solo di alcune cose, cioè si accorge solo delle cose utili/dannose, piacevoli/dolorose, pericolose/vantaggiose e le altre cose del mondo non le percepisce nemmeno (al riguardo cfr. anche altri pensatori come Plessner, Gehlen, Scheler e Cassirer);
2. in merito a queste cose di cui si accorge, si interroga solo sull’utilità/dannosità, piacevolezza/ dolorosità, si domanda soltanto: «mi serve/non mi serve?», «è utile/disutile? », «è piacevole/doloroso?», «è pericoloso/ vantaggioso?». Dunque, la conoscenza animale è esclusivamente pragmatica-utilitarista. Invece l’uomo:
1. si accorge di tutte le cose e non solo di quelle che gli possono essere utili/nocive;
2. si interroga non solo sull’utilità/nocività, ecc. delle cose, ma anche sulla loro natura, cioè si chiede: «che cos’è questa cosa?», perché vuole conoscerla anche a prescindere dalla sua eventuale utilità/dannosità, vuole conoscere anche la verità sulle cose, il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, vuole distinguere il bello e il brutto.

Dunque, la conoscenza umana non è solo pragmatica-utilitarista, bensì anche teoretica. Questa differenza si manifesta nella comunicazione: mentre la comunicazione animale si esprime mediante i versi ed è esclusivamente pragmatica (segnala un pericolo, richiede cibo, richiama l’attenzione, ecc.) o espressiva delle proprie sensazioni piacevoli/spiacevoli, viceversa la comunicazione umana si esprime attraverso la parola, non è solo pragmatica, bensì anche teoretica, cioè comunica la verità, la bellezza, il bene, ecc.

Da notare che la connessione tra ragione umana e linguaggio umano è già indicata dalla duplice accezione del temine greco logos, che vuol dire sia ragione, sia parola: solo chi ha logos = ragione (teoretica) può comunicare attraverso il logos = parola.

Tale dimensione teoretico-concettuale della ragione umana differenzia anche la stessa conoscenza pragmatica dell’uomo rispetto a quella animale. Come scrive Paolo Pagani (in un eccellente articolo, pubblicato all’interno di un prezioso volume collettaneo, cfr. bibliografia), una cosa è usare oppure adattare qualcosa per farne uno strumento, come fanno sia l’uomo sia gli animali; un’altra è fabbricare strumenti, come fa solo l’uomo. Il Professor Washburn (Berkeley) ha approntato negli anni ’60 degli esperimenti per far capire ai suoi studenti quale notevole abilità e competenza siano state necessarie ai nostri lontani antenati del Paleolitico per produrre anche i più elementari manufatti.

Ad esempio, diede agli studenti un semestre di tempo per produrre un utensile come quelli usati nel paleolitico: essi dovevano adoperare solo i materiali di cui gli uomini di quell’epoca disponevano in natura. Questi studenti sapevano quali strumenti sono stati prodotti dagli antenati in quell’epoca, perciò avevano un notevole vantaggio rispetto ad essi, perché sapevano già che cosa cercare di realizzare, cioè non avevano bisogno di ideare quale strumento fosse necessario per ottenere certi scopi. Eppure, nessuno degli studenti ci riuscì e ciò vuol dire che la capacità critica e l’abilità tecnica degli antenati sono stati «frutto di parecchi tentativi, i cui esiti dovevano essere tramandati di generazione in generazione attraverso il linguaggio simbolico (quindi concettuale)» (Pagani, p. 154).

È vero che nel 2000 una scimmia è stata indotta, dopo un lungo addestramento, a scheggiare delle pietre, ma ciò non smentisce la differenza qualitativa dell’uomo, bensì è solo un esempio di comportamento imitativo, simile a quello del pappagallo, la cui abilità di riprodurre articolazioni fonetiche degli esseri umani e di combinare alcuni fonemi non è prova né di una sua capacità di ragionamento nè di un linguaggio simbolico- concettuale-teoretico (ibidem).

Anche i tentativi recenti di addestrare le scimmie all’uso del linguaggio concettuale sono falliti. Gli sperimentatori sono riusciti a indurre una qualche capacità di associare dei fonemi ad oggetti, ma non ad insegnare strutture sintattiche: per riuscire a compiere l’associazione di fonemi a cose è sufficiente la memoria associativa, ma per usare regole sintattiche bisogna disporre della capacità di riconoscere appunto delle regole e di questo gli animali non sono capaci, come dimostra un esperimento: nascondiamo del cioccolato dentro alcuni cassetti, mettendolo la prima volta nel primo cassetto, la seconda volta nel secondo cassetto e così via, cioè applichiamo la regola per cui  ogni volta il cioccolato viene nascosto nel cassetto successivo rispetto a quello precedente. Gli esseri umani già a quattro anni scoprono ben presto questa regola; invece le scimmie, anche se le sottoponiamo ad un numero enorme di tentativi, non capiscono la regola e, alla luce della memoria associativa, si slanciano sempre verso il cassetto della volta precedente (ibid., p. 156).

La volontà libera e l’amore 
Inoltre, l’animale si comporta secondo il meccanismo stimolo-risposta, reagisce agli stimoli assecondando necessariamente i propri istinti, è come una tessera di un domino che riceve uno stimolo e, talvolta, lo ritrasmette.

Viceversa, l’uomo non risponde agli stimoli in modo necessario, bensì è in grado di scegliere un’azione (o un omissione) al posto di un’altra, è capace di non assecondare i suoi istinti, è capace di iniziare nuove sequenze di azioni invece che reagire necessariamente agli stimoli. Come dice Hannah Arendt, «Agire […] significa prendere un’iniziativa, incominciare» e «perché ci fosse un inizio fu creato l’uomo […]. Questo inizio non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore. Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo di dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima. […] Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può aspettare l’inaspettato», (Vita activa, Bompiani, 1958, pp. 187-188).

E attraverso l’azione l’uomo può «rovesciare […] la logica entropica», cioè la tendenza della natura all’aumento necessario del disordine, che è affermata dal secondo principio della termodinamica (L. Alici, Azione e persona: le radici della prassi, Vita e Pensiero, 2002, p. 26).
Inoltre, dato che (come abbiamo detto) gli animali sono sempre pragmatici-utilitaristi, ne segue che essi non sono capaci di amore gratuito, reagiscono alle cose solo in relazione alla convenienza/mancanza di convenienza con le loro esigenze vitali, con i loro istinti. Invece, l’uomo, in quanto è capace di non essere utilitarista-autointeressato, è capace di amare l’altro volendo il suo bene e cercando di realizzarlo.

L’animalismo ribatte in proposito: ci sono alcuni animali che sacrificano per amore la propria vita per altri animali, dunque essi non sono autointeressati, non sono pragmatici- utilitaristi. In realtà, però, questi loro comportamenti non sono realmente espressioni di amore gratuito e sono pur sempre autointeressati. Infatti:
1. il loro comportamento non è frutto di una scelta, bensì dettato dall’istinto, mentre l’amore è un atto libero;
2. gli animali che sacrificano la propria vita per i cuccioli considerano il cucciolo come un prolungamento di sé, lo percepiscono come una parte di sé, mentre l’amore materno-paterno vede nel figlio un soggetto autonomo (ovviamente se tale amore è “sano”, perché ci sono genitori umani che vogliono che i figli siano una loro continuazione).
2.1. La riprova di questo modo di considerare i cuccioli da parte degli animali si vede nel fatto che la cura animale si esaurisce nel momento del distacco del cucciolo dai genitori, mentre l’amore umano è sollecito verso i figli anche quando sono adulti, anche quando sono completamente autonomi e magari distanti migliaia di chilometri.

Ora, è gratuito ciò che si fa non a proprio vantaggio, bensì degli altri. Così, se il cucciolo è sentito istintivamente dall’animale come un prolungamento di sé, vuol dire che ciò che l’animale fa per il cucciolo lo fa in modo autointeressato per sé.

Per saperne di più…

Paolo Pagani, Appunti sulla specificità dell’essere umano, in Luca Grion (a cura di), La differenza umana. Riduzionismo e antiumanesimo, La Scuola, 2009, pp. 147-161.

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Robert Liston: il chirurgo geniale che ha ucciso tre persone in una sola operazione

MEDICINA ONLINE Robert Liston (Ecclesmachan, 28 ottobre 1794 – Londra, 7 dicembre 1847) è stato un chirurgo scozzese, pioniere della chirurgia, famoso per la sua abilità.jpgRobert Liston (1794-1847) fu un chirurgo scozzese, noto per le sue tecniche pionieristiche. Egli era noto per la sua abilità di chirurgo e per la rapidità di azione, qualità quest’ultima molto importante in un’epoca in cui la velocità delle operazioni era questione di vita o di morte a causa della mancanza di anestesia. Liston divenne primo docente di chirurgia clinica al college di Londra, nel 1835. Egli era in grado di amputare una gamba in 2 minuti e 30 secondi, aumentando le probabilità di sopravvivenza del paziente. Alcune fonti riportano un’amputazione della durata di soli 28 secondi. Robert Liston è stato per questo soprannominato “il coltello più Veloce del West End”.

Nei primi dell’800, la chirurgia era diversa da come è ora: si trattava di un’epoca della medicina in cui l’igiene non era considerata ed i chirurghi operavano con camici incrostati di sangue, poiché la trasmissione delle infezioni non era nota. Liston fu un pioniere della chirurgia, e fu il primo ad eseguire un’operazione con moderna anestesia in Europa, utilizzando dell’etere, il 21 Dicembre 1846, sulle orme dei medici americani che avevano già sperimentato la tecnica 2 mesi prima (al Massachusetts General Hospital). Un giorno Liston riuscì a rimuovere da un paziente un tumore allo scroto di 20 kg. Lo scroto era talmente ingombrante e pesante, prima dell’intervento, che il paziente per poter camminare doveva trasportarlo con una carriola.

Liston non era ben visto dai colleghi scozzesi a causa del carattere brusco e polemico, ma nonostante ciò, pazienti e conoscenti lo hanno sempre descritto come un medico estremamente professionale, generoso e caloroso nei confronti dei malati: era famoso anche perché si prestava spesso ad operare anche i più poveri e coloro che erano stati giudicati inoperabili dagli altri medici. Le antipatie erano comunque molte nei suoi confronti e nel 1840, per sfuggire dalla cerchia dei detrattori, Liston si trasferì a Londra e iniziò a lavorare presso lo University College Hospital.

Liston era specializzato soprattutto nella calcolosi vescicale e nelle amputazioni per le quali inventò nuove tecniche e strumenti. Alcuni di questi strumenti, tra cui alcuni tipi di pinze per bloccare le emorragie e la stecca Liston per il sostegno della coscia, sono in uso ancora oggi. Attualmente un tipo di bisturi prende il suo nome (il coltello da aputazione Liston). Nel film La vera storia di Jack lo squartatore – From Hell, con Johnny Depp, nel dialogo fra l’ispettore di polizia indagatore sugli omicidi commessi a White Chapel e il medico chirurgo della Regina Vittoria, quest’ultimo cita proprio questo coltello da amputazione.

Nonostante la sua indubbia genialità, Liston divenne tuttavia famoso anche per i suoi incidenti catastrofici sul tavolo operatorio. Eccone una selezione documentata in “Great medical disasters” di Richard Gordon.

Il tumore che non lo era

Liston discuteva con un collega riguardo alla massa pulsante sul collo di un ragazzo. Si trattava di aneurisma dell’arteria carotide o di un tumore? Affermando che in un paziente così giovane non si poteva trattare di aneurisma, Liston estrasse un bisturi e perforò la massa. L’arteria iniziò a buttare sangue a gran carriera e il ragazzo morì dissanguato. L’arteria è conservata ancora oggi al museo della patologia del college di Londra, campione N°1256.

Testicoli rimossi “per l’entusiasmo”

Liston, amputando una gamba in 2 minuti, amputò anche i testicoli del paziente “per l’entusiasmo” scrive Gordon parafrasando l’enfasi e la velocità con cui Liston operava.

Tre decessi con un solo intervento

Il suo incidente più celebre fu letteralmente letale per tre persone. Mentre Liston amputava una gamba, poiché il paziente si agitava molto, amputò anche per sbaglio le dita del suo assistente, inoltre il chirurgo forò accidentalmente col bisturi la giacca di una persona che assisteva all’intervento. Non solo morirono di cancrena sia il paziente che l’assistente: anche lo spettatore morì praticamente all’istante per lo spavento che forse gli provocò un infarto del miocardio. E’ ad oggi l’unica operazione della storia dell’uomo con un tasso di mortalità del 300%.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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I 5 piloti della Ferrari più forti e vincenti della storia: siete d’accordo?

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I piloti della Ferrari Eddie_Irvine, Nicola Larini e Michael Schumacher con Luca Cordero di Montezemolo nel 1996, accanto alla F310

Quali sono i più forti e vincenti piloti della storia del Cavallino? Ecco i primi cinque per noi:

Alberto Ascari

Partiamo dagli albori della Formula 1. Il primo Campionato mondiale piloti di categoria si svolse nel 1950 con monoposto che oggi apparirebbero assai spartane ma sicuramente molto affascinanti e altrettanto pericolose. I costruttori e i piloti in gara erano molti: l’Alfa Romeo, che avrebbe dominato il campionato, faceva correre addirittura sei piloti, compresi il vincitore finale Nino Farina e il leggendario Juan Manuel Fangio; c’erano poi varie Maserati, varie Talbot-Lago e soprattutto le Ferrari, una delle quali era guidata da Alberto Ascari, trentaduenne figlio di un celebre pilota degli anni ’20 che ben aveva impressionato prima della guerra e nelle varie gare non ufficiali disputate tra il 1947 e il 1950, sia con le monoposto da corsa che nelle gare a ruote coperte.
Quel primo campionato non andò benissimo – Ascari conquistò solo un paio di secondi posti, a Montecarlo e Monza – ma a partire dall’anno successivo il pilota italiano poté rivaleggiare per le prime posizioni, dando vita a una storica rivalità con l’argentino Fangio: l’Alfa infatti si aggiudicò le prime tre gare abbastanza facilmente, ma poi cominciò la rimonta delle auto di Maranello, con la prima vittoria assoluta in un Gran Premio per la monoposto dell’argentino José Froilán González, poi replicata da Ascari.
Si arriva così all’ultimo Gran Premio con Fangio e Ascari a pari punti: in Spagna l’italiano conquistò la pole e pareva avviato al primo titolo iridato, ma un’errata scelta dei pneumatici gli costò cara e la vittoria di Fangio gli fece perdere il titolo.
L’anno dopo, però, Ascari si rifece subito: un incidente capitato a Fangio impedì infatti al suo principale avversario di partecipare al Mondiale e l’Alfa Romeo decide pure di rinunciare; la Ferrari ebbe così vita facile, col suo pilota vincente in tutte le gare da lui disputate (6 su 8) e capace di aggiudicarsi il campionato con un punteggio record, dando alla scuderia di Enzo Ferrari il primo dei suoi titoli.
L’anno dopo Fangio tornò in corsa, questa volta con la Maserati, ma alcuni problemi nelle prime gare permisero ad Ascari di accumulare di nuovo sufficiente vantaggio e conquistare il secondo titolo consecutivo. Nel 1954 Ascari passò quindi alla Lancia, non riuscendo però a ripetersi né con la nuova auto, né con la Maserati, né infine con la Ferrari (che tornò a guidare in chiusura di campionato), stante il dominio della Mercedes di Fangio.
Il 1955 fu però l’anno purtroppo decisivo nella vita del pilota milanese: il campionato decise di disputarlo ancora con la Lancia, ma fu costretto al ritiro sia all’esordio in Argentina che, soprattutto, a Monaco, dove finì addirittura in acqua a causa di una macchia d’olio; la tragedia arrivò pochi giorni dopo, quando Ascari decise quasi all’ultimo momento di uscire di casa per andare a provare la nuova Ferrari 750 che si stava testando a Monza: voleva fare solo tre giri di prova, ma la macchina sbandò e si capovolse, vedendolo morire sul colpo. A tutt’oggi è l’ultimo italiano ad aver vinto un campionato di Formula 1.

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Mike Hawthorn

Poco più giovane di Ascari, ma tra quelli divenuti famosi più o meno negli stessi anni ci fu anche il britannico Mike Hawthorn, altra leggenda delle vetture col motore anteriore e le piste prive di sistemi di sicurezza. Dopo un esordio sulla Cooper, nel 1953 approdò infatti in Ferrari, dove dimostrò sia nel 1953 che nel 1954 una buona continuità di rendimento, classificandosi quarto e terza nella classifica finale.
Per un paio d’anni passò in altre scuderie, ma nel ’57 rientrò a Maranello, dove nel 1958 poté finalmente gareggiare per il titolo iridato: il campionato si rivelò pericoloso e spettacolare come i precedenti (durante le gare trovarono la morte quattro piloti, tra cui i ferraristi Musso e Collins, con i quali Hawthorn aveva uno strano legame di amicizia e rivalità) e vedeva per la prima volta favoriti i piloti britannici, a causa della ormai digerita scomparsa di Ascari e del calo di Fangio, che alla fine di quella stagione si sarebbe definitivamente ritirato dalla categoria.
Fin da subito la lotta per il titolo parve infatti una questione tra Sterling Moss – che guida prima una Cooper-Climax e poi una Vanwall – e Hawthorn, mentre alle loro spalle ben impressionavano gli altri britannici Tony Brooks, Roy Salvadori e lo stesso Peter Collins. Alla penultima gara, a Monza, Moss si presentò davanti ad Hawthorn in classifica, ma il pilota della Vanwall, che partiva in pole position, ruppe il cambio e lasciò via libera alla vittoria del compagno di scuderia Brooks, mentre il secondo posto del pilota Ferrari consentì a quest’ultimo di balzare in testa al campionato prima dell’ultima gara in Marocco (tra l’altro, l’unica mai disputata in quel circuito).
In Africa, ad ottobre, Hawthorn partì addirittura in pole, ma Moss tentò il tutto per tutto per rincorrere il titolo, vincendo la gara; il secondo posto del ferrarista, comunque, bastò per aggiudicarsi il campionato, facendo così di Hawthorn il primo britannico a salire sul tetto del mondo.
Da vincitore, decise però subito di ritirarsi dalla Formula 1: la scomparsa dell’amico Peter Collins infatti l’aveva molto scosso e forse si riteneva in parte responsabile pure della morte di Luigi Musso, come avrebbe poi spiegato tempo dopo l’allora fidanzata di Musso, Fiamma Breschi, affermando che Hawthorn aveva rifiutato di concedere un prestito al pilota italiano poco prima che questi, a causa dei propri debiti, spingesse troppo sull’acceleratore per aggiudicarsi il ricco premio del Gran Premio di Francia.
Pochi mesi dopo il ritiro, nel gennaio del ’59, anche Hawthorn trovò la morte: mentre stava correndo con la sua Jaguar a velocità elevata su una strada verso Londra (e, probabilmente, mentre stava facendo una corsa clandestina con Rob Walker, erede della dinastia di produttori di whisky della Johnnie Walker e capo del team di F1 per cui correva proprio Sterling Moss), uscì di strada in circostanze mai del tutto chiarite, forse a causa dell’asfalto sdrucciolevole in un punto particolarmente pericoloso o di uno di quei black-out che stavano diventando sempre più frequenti e dovuti a problemi ai reni che secondo i medici l’avrebbero comunque condannato a una morte per malattia nel giro di pochi anni. Morì sul colpo, a 29 anni d’età.

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Niki Lauda

Se i piloti di cui vi abbiamo parlato finora sono vissuti agli albori della Formula 1 e il loro ricordo, forse, è in parte sbiadito, lo stesso non può dirsi per quello di Niki Lauda, grande pilota degli anni Settanta e Ottanta il cui mito è stato di recente ravvivato grazie al film Rush di Ron Howard.
Rampollo di una ricca famiglia viennese, Lauda arrivò alla massima categoria nel 1971 con la March, passando due anni dopo alla Brown e poi tentando il grande salto già nel 1974, con la firma per la Ferrari: dopo i fasti di Ascari e più in generale degli anni Cinquanta e dei primi Sessanta, la casa di Maranello non era riuscita più a ripetersi, mancando da dieci anni il titolo piloti e quello costruttori, e sperava quindi di rifarsi presto col promettente austriaco.
Lauda, soprattutto a partire dal suo secondo anno in rosso, invertì infatti completamente la tendenza, riuscendo, prima in coppia con Clay Regazzoni e poi con Gilles Villeneuve, a conquistare due titoli personali (gli ultimi, se si esclude quello del ’79 di Jody Scheckter, prima dell’avvento di Schumacher vent’anni dopo) e tre per il mondiale costruttori.
Nel ’75, dopo un inizio fiacco che invece aveva visto primeggiare i brasiliani Emerson Fittipaldi – campione in carica che correva per la McLaren – e José Carlos Pace (della Brabham), Lauda ingaggiò una serie di quattro vittorie e un secondo posto in cinque gare, distanziando Fittipaldi e arginandone il successivo tentativo di rimonta.
L’anno dopo, nel ’76, si verificarono i fatti raccontati in Rush, con Lauda che fu vittima di un terribile incidente al Nürburgring (che gli fece seriamente rischiare la vita) e con il pilota della McLaren, James Hunt, che poté così recuperare molti dei punti che lo separavano dal leader della classifica; il campionato si decise comunque all’ultima corsa, in Giappone, quando Lauda decise di ritirarsi per le pericolose condizioni della pista – dovute alla pioggia battente – mentre Hunt riuscì ad arrivare sul podio, sopravanzando l’avversario di un solo punto nella classifica finale.
L’anno successivo, però, Lauda tornò rapidamente ad imporsi, conquistando con due gare d’anticipo il suo secondo mondiale (e non disputando nemmeno gli ultimi due GP, ufficialmente per indisposizione ma in realtà per la rottura dei rapporti con la Ferrari). Nel 1978, così, passò alla Brabham, senza ottenere i successi sperati, e nel 1979, a trent’anni, decise di ritirarsi per dedicarsi alla sua nuova compagnia aerea, la Lauda Air.
Rientrò in Formula 1 nel 1982, guidando per quattro anni una McLaren e conquistando un ulteriore titolo iridato, nel 1984. Per il suo stile gelido e meticoloso era soprannominato il computer (in tempi in cui i computer non erano ancora un oggetto di largo consumo) e, pur concedendo molto poco allo spettacolo, è ancora oggi considerato uno dei piloti più efficaci della storia, sia per la capacità di dare consigli ai tecnici su come migliorare le prestazioni della vettura, sia per la sicurezza con cui chiudeva le gare a proprio vantaggio.

Gilles Villeneuve

Avremmo potuto creare questa classifica solo sulla base delle vittorie conseguite in carriera, ma, ci sembrava, non avremmo reso giustizia ai piloti; perché vincere un Gran Premio o un campionato del mondo non è solo questione di talento, ma anche di vettura, ed è innegabile che ci siano state stagioni in cui vincere con la Ferrari era più facile ed altre in cui anche solo piazzarsi sul podio era praticamente un’impresa. Per questo, abbiamo cercato di individuare cinque piloti andando almeno in parte al di là delle vittorie, ma scegliendo quelli che ci sembravano più talentuosi e amati.
E uno di questi, e forse il più sfortunato di tutti, è stato indubbiamente Gilles Villeneuve, il pilota canadese classe 1950 dotato di uno stile di guida molto spettacolare che trovò la morte proprio alla guida di una Ferrari nel maggio del 1982, durante le qualifiche del Gran Premio del Belgio.
Alla Formula 1 era arrivato piuttosto tardi, dopo esperienze anche diversissime (per un certo periodo aveva corso anche con le motoslitte) e tra l’altro grazie alla raccomandazione del James Hunt di cui abbiamo già parlato; esordì come terza guida della McLaren nel 1977 per una sola gara e venne poi ingaggiato dalla Ferrari per disputare quelle ultime due gare che Lauda non voleva più correre.
Nonostante la stampa fosse molto dubbiosa a causa dei numerosi incidenti in cui il canadese rimaneva coinvolto, venne confermato da Enzo Ferrari e, dopo una prima stagione di assestamento, nel ’79 si rese protagonista di alcune gare memorabili, anche se più per i sorpassi arditi che non per i punti conquistati, arrivando comunque a fine stagione secondo dietro al compagno di squadra Scheckter.
Il 1980 e il 1981 furono annate sfortunate soprattutto per l’incapacità della Ferrari di fornirgli una monoposto competitiva, anche se leggendarie furono le prestazioni di Villeneuve a Montecarlo e in Canada, quando chiuse la gara al terzo posto nonostante il piegamento e infine il distaccamento di un alettone.
Nel 1982, dopo due ritiri e una squalifica, Villeneuve arrivò secondo a San Marino (dietro al compagno di squadra Didier Pironi, in una gara colma di polemiche visto che i due piloti Ferrari avevano avuto l’ordine di rallentare e non disturbarsi, mentre Pironi superò Villeneuve all’ultimo giro) e si presentò in Belgio, per il GP successivo, colmo di rabbia verso il compagno di scuderia e lo stesso team Ferrari.
Un’incomprensione col tedesco Jochen Mass durante le prove – con Villeneuve che tentava di sorpassarlo a destra e il tedesco che contemporaneamente si spostava proprio a destra per lasciargli spazio a sinistra – però provocò uno spaventoso incidente, dal quale il pilota canadese uscì profondamente ferito e in fin di vita. Sarebbe morto poche ore dopo, quando la moglie, viste le condizioni ormai disperate, decise di far staccare le macchine che lo tenevano in vita artificialmente.

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Michael Schumacher

Dei quattro piloti che abbiamo presentato finora, tre hanno trovato la morte alla guida di un volante in età ancora molto giovane, mentre uno – Lauda – ha rischiato fortemente di aggiungersi alla lista. Purtroppo, in passato correre per le prime posizioni significava anche rischiare costantemente la vita, e bisogna essere altamente soddisfatti per i progressi che hanno fatto la Formula 1 e più in generale la FIA per migliorare la sicurezza dei piloti (e degli spettatori, visto che negli anni ’50 di Ascari non era raro che fossero anche loro a morire in pista).
Purtroppo però a volte non è solo la velocità in automobile a colpire duramente i piloti, ma anche una sorta di bizzarra maledizione, com’è accaduto a Michael Schumacher, che dopo una carriera ricca di successi in Formula 1 è stato vittima di un incidente sugli sci lo scorso dicembre che l’ha indotto in coma per vari mesi; nonostante le sue condizioni di salute non siano chiare, le notizie ci riferiscono che da pochi giorni abbia quantomeno iniziato un percorso di riabilitazione che speriamo sia pienamente fruttuoso.
Per quanto riguarda la carriera automobilistica di Schumacher ci sarebbe tantissimo da dire, ma ci limiteremo, per ragioni di spazio, a qualche dato: attualmente il pilota tedesco è infatti il più vincente della storia della Formula 1, detenendo il record di sette titoli mondiali (due con la Benetton e cinque, consecutivi, con la Ferrari), di maggior numero di vittorie nei Gran Premi, di Gran Premi corsi e di Gran Premi vinti con la stessa scuderia (e cioè con la Ferrari).
Al team del cavallino rampante arrivò nel 1996 dopo i due titoli vinti con la Benetton, ma il primo anno non riuscì ad andare oltre il terzo posto in graduatoria dietro a Damon Hill e Jacques Villeneuve della Williams, mentre in quello successivo una lunga battaglia punto a punto con Villeneuve vide il tedesco presentarsi da primo in classifica all’ultimo GP, quello di Jerez de la Frontera, dove però una sua manovra azzardata per bloccare il sorpasso dell’avversario gli costò la gara, il titolo e la successiva squalifica da parte della FIA.
Nel 1998 poi il testa a testa fu invece con Häkkinen della McLaren, che comunque nell’ultima gara del campionato ebbe vita facile a causa di vari problemi, meccanici e non, occorsi a Schumacher. Nel 1999 infine fu di nuovo la sfortuna ad impedire al tedesco di lottare per il titolo, visto che si ruppe una gamba nel GP di Gran Bretagna, saltando così sei gare e dicendo addio ad ogni velleità di titolo.
Tutto cambiò, però, come detto a partire dal 2000, quando Schumacher, ormai alla guida di una monoposto finalmente molto competitiva, iniziò ad inanellare una serie impressionante di vittorie, superando spesso i 100 punti in classifica e conquistando decine di Gran Premi; ma il resto, come si suol dire, è storia nota, nel bene e purtroppo anche nel male

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Differenza tra inumazione, tumulazione, cremazione, imbalsamazione e mummificazione

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Calcificazione di un neonato ad opera di Giuseppe Albini, su incarico del Ministero dell’Interno, che lo invitava nel 1880 a trovare un metodo alternativo al seppellimento ed alla cremazione dei cadaveri. Esposto al MUSA – Museo Universitario delle Scienze e delle Arti

Dopo il decesso di una persona, esistono diverse tecniche di sepoltura, tra cui le più famose sono: inumazione, tumulazione, cremazione, imbalsamazione e mummificazione. Quali sono le differenze tra esse?

Cos’è l’inumazione?

Con il termine “inumazione” si intende il seppellimento di un cadavere in una fossa scavata dentro terra, finalizzata a rendere più rapida possibile la trasformazione delle materie organiche in sali minerali. Il cadavere viene collocato dentro la terra oppure in una bara di legno leggero posto nella terra, bara che è facilmente decomponibile. Il periodo di mineralizzazione completa del cadavere avviene normalmente nell’arco di una decina d’anni.

Cos’è la tumulazione?

La tumulazione del cadavere in loculo, tomba o cappella è – al contrario dell’inumazione – finalizzata a conservare intatte più a lungo possibile le spoglie mortali del sepolto. A tale scopo la salma deve essere racchiusa in una duplice cassa: il corpo viene posto in una contro cassa in zinco dello spessore minimo 0,66 mm alloggiata in una bara di legno ermeticamente chiusa. Ciò consente un lungo periodo di conservazione della salma, per decenni.

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Cos’è la cremazione?

La cremazione di un cadavere prevede l’incenerimento dello stesso per mezzo di combustione e la raccolta delle ceneri in un’apposita urna. La combustione, al contrario di quanto si possa pensare, non riduce il cadavere in cenere, bensì lo trasforma in gas e frammenti ossei. Tali frammenti ossei sono friabili e, dopo la combustione, vengono sminuzzati fino a formare una cenere che poi, a seconda degli usi, delle consuetudini o delle ultime volontà della persona defunta, vengono custodite in un’urna, sepolte, sparse in luoghi appositi, o altro. La legge N. 130 del 30/03/2001 (Disposizioni in materia di Cremazione e Disposizione sulle Ceneri), prevede anche la dispersione delle ceneri in luoghi privati, lontani dai centri abitati, nei tratti di mare, di laghi o di fiumi liberi da natanti e manufatti o comunque la tumulazione, l’interramento o l’affidamento ai familiari

Cos’è l’imbalsamazione?

L’imbalsamazione è un insieme di tecniche volte a preservare un cadavere dalla decomposizione per lunghi periodi. Se effettuata su animali, questa tecnica prende il nome di tassidermia. Usata fin dagli antichi egizi, oggi l’imbalsamazione è destinata soprattutto alla preservazione di animali morti, non mancano comunque ancor oggi applicazioni per la conservazione di cadaveri umani. Un esempio famoso è quello che riguarda Lenin: nella Unione Sovietica la salma del politico è stata infatti imbalsamata.
Dopo l’immersione in liquidi battericidi, alcune sostanze derivate dalla originaria formaldeide vengono immesse nel cadavere con appositi macchinari, che ne riempiono l’intero sistema vascolare e parte di quello linfatico. Per prevenire il rigor mortis, i tendini degli arti vengono recisi, inoltre le palpebre vengono cucite in modo che l’occhio resti chiuso (in talune tecniche l’occhio viene asportato e sostituito da globi metallici). Anche la bocca viene cucita per le labbra, ma solo al termine dell’otturazione di tutte le aperture del corpo con ovatta medicata. Tutte le chiusure sono poi sigillate, oggi con derivati siliconici, per prevenire la fuoriuscita di liquidi. L’imbalsamazione, umana o animale, è vietata da talune legislazioni anche occidentali, come nel caso dei Paesi Bassi.

Leggi anche: Dopo quanto tempo un cadavere si decompone?

Cos’è la mummificazione?

La mummificazione è un processo, naturale o artificiale, in cui un cadavere subisce una disidratazione massiccia così veloce che i tessuti rimangono “fissati” ed i tratti somatici si conservano relativamente bene anche a distanza di centinaia d’anni. Nella mummificazione naturale, servono particolari condizioni esterne e interne per ottenere questo processo.

  • clima freddo, secco e ventilato, che ostacola la putrefazione;
  • inumazione in terreni asciutti capaci di assorbire i liquidi in grande quantità;
  • presenza di certi tipi di muffe che disidratano il corpo.

Mummificazioni parziali si hanno in persone decedute in ambienti chiusi, riscaldati e ben ventilati, quando il corpo giace su materiali che assorbono acqua: in questi casi – che di tanto in tanto diventano tragici fatti di cronaca – spesso il cadavere mummificato è quello di una persona sola, spesso anziana e senza parenti, che muore nel proprio appartamento senza che nessuno si accorga del fatto per decenni.
I fattori che favoriscono i processi di mummificazione sono la denutrizione, l’età avanzata, grosse emorragie. In media, un processo di mummificazione dura 6/12 mesi, ma ci sono prove e casi di mummificazioni avvenute in 2/3 mesi, eccezionalmente in meno di un mese.
La mummificazione veniva usata dagli antichi egizi con queste modalità:

  1. rimozione dal corpo degli organi interni, la cui presenza avrebbe potuto accelerare il processo di putrefazione;
  2. conservazione degli organi interni ti all’interno di speciali vasi, detti vasi canopi
  3. disidratazione del corpo tramite immersione per un periodo di circa 40 giorni in natron, un sale di sodio esistente in natura che si depositava nelle pozze di esondazione del Nilo dopo il loro prosciugamento;
  4. lavaggio con vino di palma che grazie al suo elevato tasso di alcool impediva lo sviluppo dei batteri decompositori;
  5. introduzione nell’addome di bende impregnate di natron, pezzi di lino e segatura.
  6. unzione con appositi oli balsamici (resine di conifere ed altre piante, cere d’api, oli aromatizzati ecc.).

Al termine di queste operazioni il corpo veniva strettamente avvolto con strisce di lino impregnate di resina.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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