Differenze tra il cervello del maschio e della femmina

Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Estetico Medicina Estetica Roma AMICIZIA UOMO DONNA ESISTE NO LUI HA IN TESTA SOLO SESSO Radiofrequenza Rughe Cavitazione Cellulite Pulsata Pressoterapia Linfodrenante Mappatura Nei Dietologo DermatologiaIl cervello è l’organo più importante del sistema nervoso centrale con un peso piuttosto variabile che non supera i 1500 grammi ed ha un volume compreso tra i 1100 e i 1300 cm³, tenendo presente la possibilità di significative variazioni tra individuo e individuo, anche legate a sesso, età e altri fattori.

Il cervello della donna adulta pesa in media circa il 12% in meno di quello dell’uomo adulto. Fino a non molti decenni or sono questo veniva interpretato come il correlato biologico di una presunta superiorità intellettiva dell’uomo rispetto alla donna. In realtà questa differenza riflette semplicemente la maggiore taglia corporea del maschio rispetto alla femmina nella specie umana. Infatti se si fa una misura non assoluta del peso cerebrale, ma relativa al peso corporeo la differenza si annulla ed anzi ne esiste una molto lieve a favore della femmina.

Il cervello femminile ha l’11% in più di neuroni rispetto a quello maschile nelle aree del linguaggio e dell’ascolto, inoltre presenta zone collegate alle emozioni e alla memoria, situate nell’ippocampo, più grandi che negli uomini. Il cervello femminile ha meno circuiti neuronali nell’amigdala, zona del cervello in cui si attivano le risposte di fronte al pericolo o si generano i comportamenti aggressivi, ecco perché alcuni possono arrivare a uno scontro fisico in pochi secondi mentre molte donne fanno di tutto per evitare il conflitto.La zona del cervello in cui si genera l’ansia è quattro volte inferiore negli uomini. Nell’uomo lo spazio cerebrale preposto all’impulso sessuale è due volte più grande.

Esistono altre piccole ma significative differenze anatomiche fra il cervello della donna e dell’uomo: in particolare le connessioni fra i due emisferi cerebrali sono relativamente più sviluppate nella donna che nell’uomo, mentre in piccoli centri nervosi di una regione del cervello chiamata ipotalamo esistono nell’uomo neuroni maggiori in numero e dimensioni. D’altro canto, test appropriati mettono in luce differenze in alcune capacità intellettive fra l’uomo e la donna, ad esempio nel pensiero logico-matematico, nella capacità di calcolo, nell’abilità linguistica, nella capacità di orientamento spaziale. In linea di massima è possibile ipotizzare oggi che l’uomo possegga un cervello che segue schemi logici più basati sulla razionalità, mentre nella donna il funzionamento cerebrale sarebbe maggiormente di tipo intuitivo, che nell’uomo il funzionamento dei circuiti nervosi sia più rigido mentre è più plastico nella donna. Questa differenza è certamente il risultato di una catena di effetti, avvenuti nel corso di millenni, che coinvolgono la genetica, gli ormoni, il cervello, i comportamenti, e che non implicano alcun giudizio di inferiorità o superiorità, di maggiore o minore intelligenza, ma semplicemente il riconoscimento del fatto che durante l’evoluzione, nel corso di millenni, l’uomo e la donna hanno avuto ruoli diversi e per questo si sono realizzati adattamenti cerebrali diversi nei due sessi, in grado di fornire una base neurobiologica alle diversità comportamentali.

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Differenza tra maculopatia e retinite pigmentosa

MEDICINA ONLINE OCCHIO EYE MIOPIA ASTIGMATISMO IPERMETROPIA PRESBIOPIA VISTA VEDERE DIOTTRIA CONI BASTONCELLI CERVELLO SENSOLa maculopatia, o degenerazione maculare, è un termine che racchiude diverse patologie degenerative che danneggiano progressivamente la macula, cioè la zona più ricca di fotorecettori che si trova al centro della retina e che permette di distinguere i dettagli più fini delle immagini. Le parti più esterne della retina ci permettono invece di vedere tutto ciò che si trova intorno al punto che stiamo fissando. Per questo motivo, anche nei casi più gravi, la degenerazione maculare non provoca cecità totale perché la visione periferica e laterale viene conservata. La maculopatia può essere principalmente di due tipi: “secco” od “umido”.

Con il termine retinite pigmentosa si indica un gruppo di patologie ereditarie della retina che provocano una perdita progressiva della visione notturna e del campo visivo periferico, e che sono caratterizzate nella maggioranza dei casi dalla migrazione di pigmento nella neuroretina, attenuazione dei vasi sanguigni retinici e pallore del disco ottico. In molti casi vi è una perdita dell’acutezza visiva, che può condurre all’ipovisione e progredire fino alla cecità. La diagnosi deve essere sempre confermata da un elettroretinogramma anormale od estinto. I recenti risultati degli studi di genetica molecolare sulla RP hanno dimostrato che esiste un comune meccanismo patogenetico, la degenerazione primitiva dei fotorecettori, che avviene sulla base di mutazioni di alcune delle proteine che costituiscono il ciclo della visione.
Vengono differenziate le retiniti pigmentose in cui la malattia retinica è unica manifestazione, dalle retiniti pigmentose associate ad alterazioni di altri apparati, o sindromiche. Esistono inoltre delle forme non genetiche di degenerazione retinica molto simili alla RP che insorgono nei soggetti predisposti in seguito ad alcune infezioni (sifilide, morbillo), all’introduzione di farmaci retinotossici (clorochina, tioridazina, cloropromazina, indometacina, tamoxifen), od a traumi oculari, le quali vengono denominate pseudo-retiniti pigmentose.
Non sono da includere, invece, nel gruppo della RP le malattie che pur avendo un meccanismo patogenetico analogo non provocano la degenerazione dei fotorecettori e quindi la cecità, e non hanno carattere progressivo, come l’emeralopia congenita stazionaria, e le distrofie maculari ereditarie, che meritano una classificazione a parte.
Negli ultimi anni il progresso delle conoscenze in campo genetico ha permesso di intravedere nuove possibilità di prevenzione e cura delle malattie ereditarie, e quindi l’attività di studio si sta indirizzando alla comprensione dei meccanismi genetici che provocano tali degenerazioni retiniche. Infatti l’identificazione del gene/i responsabili della malattia rende possibile la effettuazione di programmi di prevenzione attraverso l’identificazione dei portatori e costituisce la premessa per una futura terapia genica, ossia per la correzione del materiale genetico alterato.

Differenti sintomi
I sintomi iniziali della maculopatia consistono in annebbiamento e distorsione delle immagini nel centro del campo visivo, con zone periferiche conservate. Con il progredire della degenerazione maculare la perdita della visione centrale diventa completa, e può portare all’impossibilità di leggere e distinguere i piccoli dettagli nel punto in cui si fissa lo sguardo. La maculopatia non causa dolore. Chi è affetto da patologia maculare accusa una perdita di visione al centro del campo visivo (scotoma positivo), da non confondere con la visione di una macchia nera nella zona centrale del campo visivo (scotoma negativo), come denunciato da pazienti colpiti da neurite ottica. Altro sintomo comune nelle maculopatie è la distorsione delle immagini (metamorfopsie). Ad esempio, le righe di congiunzione delle piastrelle non si vedono più diritte. Sintomi di minore frequenza sono le errate percezioni della dimensione degli oggetti osservati.
I principali sintomi che possono invece far sospettare retinite pigmentosa sono due:

  • Cecità crepuscolare e notturna, cioè la difficoltà a vedere in condizioni di scarsa illuminazione (muoversi e guidare di sera o di notte) o problemi di adattamento nel passare dagli ambienti illuminati a quelli oscuri (entrare in una sala cinematografica buia). Questo fenomeno è dovuto al fatto che, almeno per la maggior parte dei casi, la malattia nelle prime fasi dello sviluppo aggredisce prevalentemente i bastoncelli.
  • Restringimento del campo visivo. Si manifesta con la difficoltà nel percepire gli oggetti posti lateralmente, oppure con l’inciampare nei gradini o negli ostacoli bassi. Per farvi un’idea del disagio a cui il malato va incontro, potete immaginare di vedere costantemente il mondo da uno spioncino o dal buco della serratura. L’alterazione del campo visivo è progressiva e può giungere ad interessare anche la parte centrale dell’occhio, con perdita del visus. La velocità di progressione della malattia e l’età di comparsa dei sintomi variano in relazione a molti fattori tra cui il modello di trasmissione genetico. A tale restringimento si associa spesso una elevata sensibilità all’abbagliamento. I contrasti svaniscono e diventa difficile percepire l’ambiente circostante.

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Olio extravergine o vergine: differenze tra vari tipi di olio d’oliva

olio arganSugli scaffali del supermercato troviamo oli di vario genere e prezzo e ciò vale anche per il più comune e noto: l’olio d’oliva. Esso viene venduto sotto diverse denominazioni, a seconda di quanto è pregiato, del metodo di raccolta e spremitura e delle sue caratteristiche organolettiche, cioè colore, odore e sapore, nonché del suo grado di acidità. Un grado di acidità molto basso indica infatti che siamo in presenza di un olio più pregiato di altri e la sua indicazionene facilita la classificazione merceologica. Impariamo allora a distinguerli e a scegliere l’olio migliore da portare in tavola.

Gli oli d’oliva in commercio sono suddividi in quattro categorie:

1. Olio d’oliva extravergine

È tra gli oli d’oliva quello con il minore grado di acidità. Essa infatti non supera mai l’1%. Il suo gusto si definisce perfettissimo poiché è assolutamente vietato che ad esso vengano mescolati oli o miscele di altra origine. La sua lavorazione, dal lavaggio alla centrifugazione, avviene in maniera che le condizioni termiche non causino nell’olio alterazioni di alcun tipo.

2. Olio d’oliva vergine

L’olio d’oliva vergine è di qualità inferiore rispetto all’olio extravergine. Il suo grado di acidità è maggiore, anche se non superiore al 2%, e il suo gusto viene definito perfetto. Nella sua commercializzazione viene spesso denominato “fino”, per distinguerlo dall’extravergine.

3. Olio d’oliva

L’olio venduto come olio d’oliva è in realtà il risultato di una miscela di olio d’oliva extravergine, olio d’oliva vergine e altri oli d’oliva che hanno però subito processi di raffinazione, pur mantenendo il loro gusto perfetto. Viene escluso dalla miscela l’olio d’oliva vergine lampante, che viene classificato come dal gusto imperfetto. L’acidità dell’olio d’oliva non eccede l’1,5%.

4. Olio di sansa d’oliva

È il meno pregiato tra gli oli d’oliva in commercio. Si ottiene da una miscela composta da oli di sansa d’oliva trattati mediante l’utilizzo di solventi e da oli d’oliva vergini. La sua acidità non supera l’1,5%.

Tra di essi l’olio migliore, su cui sarebbe meglio far ricadere la vostra scelta è sicuramente l’olio extravergine d’oliva, poiché è l’unico ad essere ottenuto con tutti gli accorgimenti che permettono che il perfetto equilibrio del suo contenuto di acidi grassi saturi e polinsaturi non venga alterato. L’olio extravergine d’oliva è inoltre indicato per la prevenzione degli ictus e come toccasana contro i tumori, nonché come elisir di lunga vita.

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Differenza tra calcoli biliari e renali

MEDICINA ONLINE BILE DOTTO EPATICO COMUNE CISTICO COLEDOCO CISTIFELLEA COLECISTI FEGATO DIGESTIONE ANATOMIA SCHEMA SISTEMA BILIARE SINTESI IMMAGINEPrima di trattare l’argomento dobbiamo capire che cosa si intenda in medicina con il termine “calcoli”.

Cos’è un “calcolo”?

In ambito medico il calcolo è una concrezione (cioè un aggregato) di sali minerali associati o meno a sostanze organiche che si forma nell’organismo, specialmente dentro condotti ghiandolari ed in alcuni organi cavi per precipitazione e successiva aggregazione di sostanze prima disciolte nei relativi secreti. Pur potendo esistere molti tipi di calcoli, in genere in medicina si fa riferimento a due tipologie specifiche di calcoli clinicamente rilevanti:

  • calcoli renali: quelli che si formano nelle vie urinarie e determinano calcolosi renale;
  • calcoli biliari: che si formano nella cistifellea e nei dotti biliari e determinano colelitiasi (calcolosi delle colecisti).

Calcoli renali

I calcoli renali possono variare da pochi millimetri ad alcuni centimetri. A seconda della loro composizione abbiamo quattro tipi di calcoli renali: ossalato e fosfato di calcio (80%), acido urico (15%), magnesio-ammonio-fosfato – detto anche struvite – (5%) e cistina (molto raramente). I calcoli renali si formano a causa di ipersaturazione delle urine da parte delle stesse sostanze che compongono i calcoli, che a loro volta precipitano dando luogo alla formazione di cristalli che pian piano si accumulano stratificandosi e dando luogo al calcolo.

  • per esempio l’iperuricemia (dando luogo poi alla gotta),
  • oppure problemi endocrini (l’iperparatiroidismo),
  • la dieta errata (ricca in proteine ed ossalati),
  • problematiche di tipo infettivo (infezioni urinarie da parte di germi gram-negativi che alcalinizzano le urine),
  • oppure ancora in anomalie ereditarie (calcolosi cistinica).

Per approfondire, continua la lettura con i seguenti articoli:

Calcoli biliari

Anche in questo caso i calcoli possono presentare una dimensione che va da pochi millimetri a qualche centimetro. Si presentano come formazioni dure simili a sassi. Colpisce circa il 10 – 15% della popolazione e sembra avere una preferenza per il sesso femminile (soprattutto dovuto a gravidanze multiple, obesità o dimagrimenti rapidi). I calcoli biliari sono essenzialmente di due tipi: i calcoli di colesterolo e i calcoli pigmentati, a loro volta distinti in bruni e neri. Le cause di formazione di questi calcoli sono differenti a seconda del tipo di calcolo.
I calcoli di colesterolo rappresentano il 70% circa dei calcoli nei paesi occidentali. In questi casi il fegato produce una bile satura in colesterolo (a causa del mancato equilibrio, per esempio, con i sali biliari e i fosfolipidi). Questo mancato equilibrio porterà ad un’emissione di bile satura in colesterolo che favorirà la formazione di calcoli.
Nei calcoli pigmentati troveremo invece della bilirubina non coniugata che si combinerà e precipiterà col calcio, in modo da formare bilirubinati di calcio. I calcoli pigmentati bruni si associano normalmente ad infezioni (si riscontrano più che altro in Asia), mentre quelli neri sono normalmente concomitanti a malattie del sangue o si riscontrano in pazienti cirrotici:  si riscontrano solo nella colecisti.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
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Differenza tra matrimonio civile e religioso

MEDICINA ONLINE ANSIA DA MATRIMONIO MATRIMONIALE UOMO DONNA SINTOMI E NORMALE UN ANNO PRIMA SPOSI MARITO MOGLIE PAURA SPOSARSI CHE FAREMolte giovani coppie, che si apprestano a fare il grande passo, si chiedono spesso quale sia la differenza matrimonio civile e religioso, quale è quello che secondo la legge vale a livello giuridico e quale invece no. La scelta di una coppia riguardo la consacrazione religiosa o civile è dettata dalle proprie convinzioni ed è del tutto soggettiva. Ognuno, può organizzare le proprie nozze come desidera!

Caratteristiche del rito civile

Il matrimonio civile consiste nella firma di un vero e proprio contratto e, a differenza del matrimonio religioso, è assoggettato esclusivamente alle regole previste dal codice civile e dalle leggi speciali. Unico matrimonio riconosciuto dallo Stato.

Secondo l’articolo 106 del codice civile, la cerimonia si svolge in Comune. Tutti quei matrimoni celebrati in luoghi aperti come spiagge e prati servono solo a riproporre il giuramento, in poche parole… è una cerimonia figurativa.

A differenza del matrimonio religioso, quello civile è molto breve e meno pomposo poiché non sono previsti allestimenti particolari a meno che non abbiate incaricato un wedding planner che si occuperà di allestire il Comune.

Il vincolo di unione civile può essere sciolto mediante il divorzio.

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Caratteristiche del rito religioso

Chi sceglie invece, il rito religioso lo fa per un fatto di credo e vuole appunto che sia Dio a benedire la loro unione. Il rito religioso in se non ha valenza giuridica né è riconosciuto dallo Stato, per tale motivo esiste il matrimonio Concordatario.

Durante un matrimonio concordatario il sacerdote alla fine del rito nuziale, dovrà leggere ai futuri sposi gli articoli del codice civile (143, 144 e 174) che trattano dei diritti e degli obblighi dei coniugi e rende il matrimonio valido anche agli effetti civili. Il matrimonio concordatario è nato da un accordo tra Stato e Santa Sede del 1929.

Successivamente, dovranno essere redatti due documenti originali dell’atto del matrimonio, il quale dovrà essere poi trascritto nei registri dello stato civile, per essere ufficiale a tutti gli effetti.

Questo sarà trasmesso dalla parrocchia all’ufficiale dello Stato civile del Comune dello stesso luogo per essere poi trascritto negli atti di matrimoni e renderlo ufficiale a tutti gli effetti entro cinque giorni dalla celebrazione dell’unione matrimoniale.

Il vincolo di unione religiosa non può essere sciolto mediante un procedimento di divorzio come avviene per il matrimonio civile, tuttavia, in alcuni casi è possibile ottenere dalla Sacra Rota il riconoscimento di nullità (che non è l’annullamento, ma la dichiarazione che in realtà il matrimonio, per una serie di condizioni sancite dal diritto canonico, non è mai stato valido).

In linea generale, è questa la differenza tra matrimonio civile e religioso, ma anche in Italia esiste – come negli Stati Uniti – la possibilità di sposarsi nella location del matrimonio. In quel caso si tratta di una cerimonia figurativa dove il sindaco ripeterà il giuramento nel luogo che desiderate. In questo caso potrete sbizzarrirvi con gli allestimenti, ma ad oggi in Italia sono pochi i sacerdoti disposti a celebrare matrimoni in ville, casali, spiagge ecc. in quel caso si tratta di pastori o di matrimoni evangelici.

In conclusione, la cosa veramente importante è che nessun rito prevalga sull’altro quello che conta è scegliere secondo le proprie scelte religiose e di vita.

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Differenza tra sintomo e segno con esempi

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Il mal di schiena è un sintomo

Tutti i disturbi, siano essi organici o funzionali, si manifestano attraverso dei sintomi e/o dei segni, che – seppur nell’uso comune sono diventati quasi sinonimi – indicano cose diverse e NON sono sinonimi.

Sintomo

Etimologicamente, il termine sintomo significa avvenimento, evento, fatto nuovo, coincidenza. Nel linguaggio tecnico, rappresenta una sensazione soggettiva di cambiamento nel benessere personale. Trattandosi di un vissuto soggettivo, non ne risulta possibile un’esatta misurazione: i sintomi verranno descritti dal paziente al medico durante la prima parte della visita medica, chiamata anamnesi. Proprio perché il sintomo è soggettivo ed avvertito dal paziente, quest’ultimo in teoria può fingere di averlo (descrivendolo in “cattiva fede” al medico) o immaginare di averlo (in “buona fede”). Il sintomo – in quanto narrazione soggettiva – deve quindi essere “preso con le pinze” dal medico, visto che può essere inventato, o ingigantito o ridotto nelle dimensioni dal paziente, consciamente o inconsciamente. Il sintomo non è quasi mai un’entità fenomenica unica, ma l’effetto finale, non standardizzato, di un convergere di molteplici azioni e reazioni. Non sempre è possibile per il medico raccogliere i sintomi; pensiamo ad esempio ad un paziente appena giunto da solo ad un pronto soccorso in stato di incoscienza: in questo caso il paziente non potrà comunicare quello che prova, cioè i propri sintomi. Esempi di sintomi comuni a molte patologie sono:

  • il dolore in generale (mal di testa, dolore all’addome, dolore articolare, dolore durane la minzione o l’evacuazione…),
  • l’ansia,
  • il nervosismo,
  • l’astenia (la sensazione di stanchezza),
  • le vertigini,
  • l’acufene (il fischio nell’orecchio),
  • il malessere generale,
  • la nausea,
  • le allucinazioni visive ed uditive,
  • la confusione mentale,
  • la paura,
  • la sordità,
  • la cecità,
  • la pesantezza alle gambe,
  • l’ageusia (cioè la perdita del senso del gusto),
  • l’anosmia (cioè la perdita dell’olfatto),
  • la sonnolenza.

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Una tumefazione è un segno

Segno

E’ chiamato segno invece, qualsiasi elemento fisico anomalo che venga rilevato da un osservatore esterno e che, in quanto oggettivo, può essere misurato. Mentre il sintomo è soggettivo e può essere “inventato” dal paziente, al contrario il segno è oggettivo e non può essere inventato, perché è visibile, palpabile e/o ascoltabile, tuttavia un segno può essere comunque simulato – in modo più o meno verosimile – dal paziente: ad esempio il tremore di una mano è un segno e può essere abbastanza facilmente simulato da chiunque. Non tutti i segni possono comunque essere simulati: ad esempio un soggetto non può simulare una mancata costrizione pupillare alla luce. Per comodità e per brevità, nel linguaggio clinico abituale, sintomi e segni sono accomunati nel termine omni-comprensivo di “sintomi”, quindi un paziente tenderà a descrivere come sintomi quelli che in realtà sono segni, ad esempio potrebbe dire: “dottore, tra i sintomi della mia malattia c’è il rossore sulla spalla”, quando invece il “rossore” è uno dei segni dell’infiammazione. Mentre i sintomi venivano elencati dal paziente al medico durante la prima parte della visita (l’anamnesi), i segni vengono individuati dal medico durante la seconda parte della visita, chiamata esame obiettivo, grazie ad alcune manovre:

  • ispezione: il medico guarda il corpo del paziente (interamente o una sua parte specifica),
  • palpazione: con le proprie mani, il medico palpa il corpo,
  • percussione: tramite le dita, il medico percuote il corpo,
  • auscultazione: tramite un fonendoscopio, il medico ascolta i suoni che arrivano dal corpo.

Esempi di segni, sono:

  • torace ingrandito,
  • ingrossamento del collo (ad esempio per patologie alla tiroide o dei linfonodi),
  • tagli ed abrasioni,
  • epistassi (perdita di sangue dal naso),
  • cambi di colore della pelle (ad esempio ittero o arrossamento),
  • retrazione palpebrale,
  • mancata costrizione pupillare alla luce,
  • rinorrea (“naso che cola”),
  • scialorrea (salivazione intensa),
  • cicatrici,
  • aumento della frequenza cardiaca,
  • diversa lunghezza degli arti,
  • ematomi,
  • tremori,
  • tumefazioni.

Alcuni segni possono essere rilevati con precisione solamente mediante strumenti particolari e/o provocazione da parte del medico, ad esempio con ausili come il martelletto neurologico di Dejerine (strumento per l’evocazione, la valutazione e lo studio dei riflessi muscolo-tendinei).

In sintesi

Il sintomo si differenzia quindi dal segno, essendo il primo descritto dal paziente e quindi soggettivo e di difficile precisa misurazione, mentre il secondo è un riscontro oggettivo individuato da parte del medico e di più facile misurazione. Il sintomo può essere “inventato” dal paziente (in “buona o cattiva fede”), mentre il segno no, perché è visibile, palpabile e/o ascoltabile, salvo i casi in cui il segno venga simulato dal paziente (anche se non tutti i segni possono essere simulati). Il sintomo viene raccolto dal medico durante l’anamnesi, mentre il segno viene individuato dal medico durante l’esame obiettivo.

Sono più importanti i sintomi o i segni?

E’ una domanda che ha poco senso, dal momento che sintomi e segni sono entrambi estremamente importanti per la diagnosi in egual misura, tranne alcuni casi in cui un dato sintomo o un dato segno siano talmente specifici e caratteristici da “bastare” per elaborare una diagnosi. Qualora sintomi e segni non fossero sufficienti a raggiungere una diagnosi certa, cosa che si verifica il più delle volte, il medico si può servire di vari esami, come quelli di laboratorio (esame delle feci, esame delle urine, spermiogramma, emocromo, biopsie…), di diagnostica per immagini (radiografie, TC, risonanza magnetica, ecografia, endoscopia, PET…), o altri esami ancora come ad esempio la misurazione della pressione arteriosa, l’elettrocardiogramma, la polisonnografia, l’elettroencefalogramma, l’elettromiografia o la spirometria. Grazie a tali esami, il dubbio diagnostico avanzato dal medico durante l’anamnesi e l’esame obiettivo, può essere confermato o smentito.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
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Differenza tra malattia, patologia, sindrome, disturbo, disordine, morbo

medicina-online-dott-emilio-alessio-loiacono-medico-chirurgo-roma-differenze-tra-sclerosi-laterale-amiotrofica-sclerosi-multipla-riabilitazione-nutrizionista-infrarossi-accompagno-commissioni-cavitaziDisturbo (o disordine)

Si indica con il termine “disturbo” (o “disordine“, i due termini sono sinonimi) qualunque quadro clinico di sofferenza psichica che rappresenti un’entità medica definita, annoverata nelle classificazioni ufficiali di riferimento. Quando il disturbo deriva da un’alterazione anatomica dell’encefalo, macroscopica o microscopica, si parla di disturbo psichico organico, mentre quando esso si presenta in assenza di qualsiasi lesione organica a carico dell’encefalo, si parla di disturbo psichico funzionale (ad esempio “disturbo post traumatico da stress” o “disturbo ossessivo compulsivo”). Qualsiasi disturbo psichico organico rivela l’avvenuto danneggiamento di una struttura encefalica deputata a svolgere una definita attività fisiologica. Per esempio, l’incapacità di comunicare verbalmente (afasia) rivela un disordine organico grossolano a carico dell’area della corteccia cerebrale deputata all’articolazione e alla comprensione del linguaggio, che è situata nell’emisfero sinistro. Disturbi organici più fini, quasi molecolari (per esempio, alterazioni concernenti le micro-strutture delle cellule nervose che elaborano e rilasciano i cosiddetti “neuro-trasmettitori chimici”) sono responsabili delle più frequenti e gravi malattie della sfera psichica, che sono denominate “psicosi”.

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Malattia (o patologia)

Una malattia è una condizione anormale di un organismo vivente, causata da alterazioni organiche o funzionali, che ne compromettono la salute. La compromissione della salute è una alterazione dello stato fisiologico di un organismo capace di ridurre o modificare negativamente le funzionalità normali di quell’organismo. Una malattia per definizione è transitoria: ogni patologia ha infatti un termine che può essere rappresentato:

  • dalla guarigione dell’organismo;
  • dall’adattamento dell’organismo ad una diversa fisiologia (o ad una diversa condizione di vita);
  • dalla morte dell’organismo.

A differenza dei disturbi funzionali, i disturbi organici (non solo quelli psichici) rientrano nella grande categoria delle malattie: questo vocabolo – per analogia con le altre branche della medicina – riguarda infatti solo entità cliniche sostenute da alterazioni lesionali fisiche. Esempi di malattia sono il Morbo di Alzheimer (o “Malattia di Alzheimer”), il cancro e le malattie autoimmunitarie come l’artrite reumatoide. I termini “malattia” e “patologia” sono sinonimi.

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Sindrome

Il termine sindrome, invece, designa un insieme preciso di sintomi e segni insorti contemporaneamente, che costituisca un quadro clinico definito sebbene aspecifico, in quanto comune a due o più disturbi/malattie. Alcuni esempi: Sindrome di Münchhausen, Sindrome di Lowe, Sindrome di Fanconi. I medici ricorrono a questa etichetta in almeno due situazioni:

  1. nelle fasi iniziali del rapporto clinico-terapeutico con nuovi pazienti, finché non sono stati raccolti tutti gli elementi indispensabili a formulare una diagnosi sicura;
  2. nell’eventualità della comparsa di segni/sintomi nuovi durante un trattamento quando conviene integrare la diagnosi basilare.

Da quanto detto appare chiara la differenza tra sindromemalattia: quando un disturbo ha una causa bene riconoscibile e in qualche modo accertata, si parla di malattia o patologia; quando invece il disturbo è caratterizzato da una costellazione di segni e di sintomi, che si verificano insieme, ma che non è possibile ricondurre in maniera diretta e lineare ad una causa isolabile e univoca, si definisce sindrome. I termini “malattia” e “sindrome” quindi NON sono sinonimi, come non sono sinonimi “patologia” e “sindrome. Una data sindrome può essere causata da diverse patologie, proprio perché diverse patologie possono – pur nella loro diversità – determinare un insieme di sintomi e segni sovrapponibili. Il termine “sindrome” è utilizzato nella classificazione degli innumerevoli disturbi della sfera psichica (riflettendosi su quella fisica) dal momento che queste manifestazioni patologiche non hanno una causa precisa e determinabile in maniera unilaterale, definibile, lineare, bensì le variabili che concorrono a determinare una sindrome sono diverse, molteplici, inserite nel modo specifico in cui il soggetto le acquisisce, le compensa e le esprime nella forma di malessere e disagio di cui si lamenta.

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Morbo

La prima cosa da chiarire è che il termine “morbo” è sinonimo di “malattia” e quindi è anche sinonimo anche di “patologia”. Il termine morbo è più arcaico ed è ormai in disuso tra i medici, sostituito nella maggioranza dei casi da “malattia”. Il termine “morbo” è stato storicamente utilizzato per indicare malattie a decorso fatale, complesse, sconosciute o malcomprese e spesso incurabili. Quando in passato ci si trovava di fronte ad una malattia di questo tipo, spesso – ma non sempre – veniva chiamata con “morbo” seguito dal nome di chi l’aveva scoperta e/o descritta per primo, sia per motivi classificativi che come riconoscimento al primo grande passo verso la comprensione di una malattia di difficile comprensione. Esempi classici di morbo sono:

  • morbo di Alzheimer: descritto per la prima volta nel 1906, dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer
  • morbo di Parkinson: descritto per la prima volta nel 1917 dal medico inglese James Parkinson,
  • morbo di Crohn: descritto per la prima volta nel 1932 dal gastroenterologo statunitense Burrill Bernard Crohn;
  • morbo di Pott: descritto per la prima volta dal chirurgo inglese Percival Pott nella metà del ‘700.

Per questo motivo non si potrà mai dire “morbo di alzheimer” col minuscolo, proprio perché Alzheimer è un cognome e deve essere scritto maiuscolo: altrimenti sarebbe un errore.
Il termine “morbo”, pur se corretto, è attualmente un vocabolo in via di abbandono sia per rispetto del malato sia perché di alcuni “morbi” è stata trovata l’origine e la cura, ed in medicina si vuole quindi in un certo senso prendere le distanze dall’iniziale caratteristica di “sconosciuta” della patologia. In tempi moderni un dato “morbo” vede cambiato il suo nome in due modi fondamentali:

  • se la denominazione iniziale prevedeva l’uso del nome dello scopritore, la patologia viene in genere denominata in modo da sostituire il termine “morbo” con “malattia”: ad esempio il “morbo di Alzheimer” adesso si chiama preferibilmente “malattia di Alzheimer”, il “morbo di Pakinson” è ora denominato preferibilmente “malattia di Parkinson”.
  • se la denominazione iniziale NON prevedeva l’uso del nome dello scopritore, la malattia viene in genere denominata in modo da non includere il termine “morbo”: ad esempio il “morbo del legionario” adesso si chiama preferibilmente “legionellosi”.

Ci sono alcune eccezioni: ad esempio il Morbo di Pott, una malattia una volta mortale ed ora trattabile, adesso si chiama preferibilmente spondilite (e non “malattia di Pott”).

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Differenza tra ossa lunghe, corte, irregolari e piatte con esempi

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma OSSA LUNGHE PIATTE IRREGOLARI CORTE MISTE Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari An Pene.jpgLe ossa umane possono essere distinte in vari tipi, in base alla loro morfologia: le ossa lunghe, le ossa corte, le ossa irregolari e le ossa piatte.

  • Ossa lunghe, (forma magra e lunga), composte da un corpo o diafisi e due estremità dette epifisi. Nell’infanzia e nell’adolescenza è possibile distinguere, tra epifisi e diafisi, le metafisi o cartilagini di accrescimento. All’interno della diafisi, vi è una cavità detta cavità diafisaria occupata interamente da midollo osseo giallo, per lo più adiposo, che non concorre all’emopoiesi. Le pareti della cavità sono costituite da tessuto osseo compatto. Le epifisi sono costituite da tessuto osseo spugnoso, reso più resistente da trabecole ossee. All’interno delle epifisi si trova il midollo osseo rosso, responsabile dell’emopoiesi.
  • Ossa corte, forma più o meno cuboide, costituite da tessuto osseo spugnoso circondato da uno strato sottile di tessuto osseo compatto; non contengono perciò midollo osseo.
  • Ossa irregolari, costituiscono raggruppamenti di ossa (vertebre, ossa facciali) con forme e dimensioni variabili; più nota è la rotula che appartiene alle ossa irregolari sesamoidi le quali si distinguono poiché sono isolate.
  • Ossa piatte, costituite da uno strato di tessuto spugnoso frapposto tra 2 lamine di tessuto compatto. Il tessuto spugnoso può presentare delle lacune più grosse contenenti residui di tessuto emopoietico (zona considerata per le punture lombari). Queste ossa hanno funzione protettiva, dato che hanno lo scopo di proteggere gli organi che si trovano subito dietro di esse. Esempi di ossa piatte sono quelle del cranio, che hanno lo scopo di proteggere il cervello, oppure lo sterno per proteggere il cuore e i polmoni, o ancora l’anca e il bacino che protegge da dietro gli organi dell’apparato escretore (come ad esempio la vescica).
    • sesamoidi, appiattite, piccole e tondeggianti e si sviluppano internamente ai tendini (es. patella);
    • wormiane o suturali, appiattite, piccole e con forma indefinita, si trovano nelle linee di sutura delle ossa del cranio.

Il midollo osseo occupa il canale delle ossa lunghe e gli spazi intertrabecolari delle ossa piatte e delle epifisi. Nella fase embrionale funge da organo emopoietico ed è di colore rosso vivo. Nell’adulto, solo il midollo del tessuto spugnoso mantiene tali caratteristiche, mentre il midollo della cavità diafisaria assume un colore giallognolo perché sostituito da tessuto ricco di sostanze lipidiche.

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