Differenza tra recettori ionotropi e metabotropi

MEDICINA ONLINE differenza recettori ionotropi e metabotropi BIOCHIMICA CELLULA INTRACELLULARE MEMBRANA.jpgCon “recettore” in biochimica si intende una proteina che ha la capacità di legarsi con una molecola specifica, definita “ligando”. Il legame di un recettore col proprio ligando, causa nel recettore una variazione conformazionale in seguito alla quale si ha una cascata di reazioni (trasduzione del segnale) che portano all’insorgenza di una risposta cellulare o un effetto biologico specifici. Il farmacologia il recettore è una molecola che rappresenta il bersaglio specifico di un dato farmaco: la definizione di recettore assume quindi – in ambito farmacologico – un significato più ampio rispetto al campo biochimico, essendo definito “recettore” qualsiasi struttura biologica (proteine, enzimi, lipidi, acidi nucleici…) che diviene bersaglio del farmaco.

I recettori possono essere suddivisi in due grandi categorie, a seconda della loro localizzazione cellulare:

  • recettori transmembrana (o più semplicemente “recettori di membrana“): sono recettori che possiedono domini extracellulari, transmembrana ed intracellulari;
  • recettori intracellulari: sono localizzati all’interno della cellula, distinti in recettori citosolici o nucleari, in base alla loro localizzazione rispettivamente nel citosol o nel nucleo della cellula.

I recettori transmembrana sono suddivisibili in due differenti classi: ionotropi e metabotropici. I recettori ionotropi, definiti anche recettori-canale, sono recettori la cui apertura causa il flusso di ioni. Esistono sei tipi principali di recettori ionotropi:

  1. recettore colinergico nicotinico, che lega il neurotrasmettitore acetilcolina
  2. recettori sigma (δ)
  3. recettore della glicina
  4. recettore del GABA di tipo A e C
  5. recettore del glutammato
    • recettore AMPA
    • recettore NMDA
  6. recettori serotoninergici del tipo 5-HT3

I recettori metabotropici sono una classe di recettori che, in seguito all’interazione con lo specifico ligando, inducono una cascata di reazioni cellulari. Sono riconducibili a quattro tipologie recettoriali principali:

  1. recettori accoppiati a proteine G: strutture recettoriali transmembrana costituiti da sette domini transmembrana (TM) la cui risposta è modulata da una proteina G. Tra tali tipi di recettore possiamo trovare:
    • recettore colinergico muscarinico, che lega il neurotrasmettitore acetilcolina
    • recettori adrenergici, che lega le catecolammine (adrenalina e noradrenalina)
    • recettore del GABA di tipo B
    • recettore dell’angiotensina
    • recettore dei cannabinoidi
    • recettore della colecistochinina
    • recettori della dopamina
    • recettore dei leucotrieni
    • recettori oppioidi
    • recettore della rodopsina
    • recettore della somatostatina
    • recettori attivati da proteasi PAR
    • probabilmente molti altri ancora non definiti
  2. recettori tirosin chinasici, tra cui:
    • recettore dell’EGF (fattore di crescita epidermico)
    • recettore dell’eritropoietina
    • recettore dell’IGF-1
  3. recettori per le citochine, definiti anche recettori accoppiati a chinasi: sono recettori la cui struttura ed il meccanismo d’azione è simile a quello dei recettori tirosin chinasici. Al contrario di questi, i recettori per le citochine non hanno attività tirosin chinasica intrinseca, ma l’attività è mediata da una chinasi cellulare.
  4. recettori guanilil-ciclasi: sono recettori ad attività guailato-ciclasica, poco rappresentati negli organismi superiori. Si possono ricordare:
    • recettore del peptide natriuretico
    • recettore della guanilina

Differenza tra recettori ionotropi e metabotropi

Da quanto detto appare chiaro che i recettori ionotropici ed i recettori metabotropici hanno punti in comune ma anche differenze. Entrambi sono localizzati a livello della membrana citoplasmatica (e non nel nucleo o nel citosol) e sono perciò entrambi recettori transmembrana.
Nei recettori ionotropici il legame con il ligando causa l’apertura del canale racchiuso dal recettore stesso, invece il recettore metabotropico, al contrario del recettore ionotropico, una volta legato il ligando, avvia una serie di reazioni a cascata intracellulari mediata da un secondo messaggero ed alla base della trasduzione del segnale. Inoltre mentre il recettore ionotropo è un canale ionico, invece il recettore metabotropico non è un canale.

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Ciclo di Krebs e respirazione cellulare: spiegazione facile e schema

La respirazione aerobica è il processo che permette di sfruttare il contenuto energetico delle molecole utilizzate nel metabolismo. Per questa via metabolica è necessaria la presenza dell’ossigeno e per questo motivo l’apparizione degli organismi fotosintetici ossigenici è stato un passaggio fondamentale nell’evoluzione dei viventi. La respirazione permette infatti di ossidare il piruvato proveniente dai processi di glicolisi, sfruttando così al massimo il contenuto energetico iniziale del glucosio, zucchero esoso intorno al quale ruota il metabolismo centrale della maggior parte degli esseri viventi.

Negli eucarioti gli enzimi di che intervengono in queste reazioni si trovano nei mitocondri, dove avviene il ciclo di Krebs, o ciclo dei TCA (acidi tricarbossilici) e ciclo dell’acido citrico. Il ciclo è costituito da 8 passaggi. Ma prima di inserirsi in questa via, il piruvato deve essere trasportato attraverso la doppia membrana del mitocondrio, sin nella parte più interna, chiamata matrice mitocondriale. Il piruvato viene poi trasformato in acetilcoenzima A (AcetilCoA) dall’enzima piruvato deidrogenasi, liberando CO2 e NADH. Questo passaggio è necessario, poiché l’energia contenuta nel legame tioestere (che coinvolge uno zolfo) fra l’acetile e il coenzima A viene usata per il legame con l’ossalacetato, uno degli intermedi del ciclo di Krebs. In quanto ciclo, non si può dire che esso abbia un vero substrato di partenza e un vero prodotto di arrivo.
I vari passaggi di ossidazione, catalizzati dalle deidrogenasi, producono cofattori ridotti: 3 NADH e 1 FADH2 per ogni piruvato utilizzato, il doppio per ogni glucosio, dato che la glicolisi permette di ottenere 2 molecole di piruvato per ogni glucosio. Gli altri prodotti ottenuti sono 2 CO2 (che diffonde dalle membrane) e 1 GTP (guanosintrifosfato) dal quale indirettamente si ottiene 1 ATP.

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Il ciclo di Krebs è costituito da 8 reazioni catalizzate da enzimi, i cui intermedi sono spesso substrato di altre vie metaboliche: per questo motivo è necessario che la cellula li sostituisca mediante reazioni di “riempimento” chiamate reazioni anaplerotiche.

  1. L’acetilCoA sintetizzato dalla decarbossilazione ossidativa del piruvato reagisce con l’ossalacetato, ottenendo il citrato. La reazione è catalizzata dall’enzima citrato sintasi, che libera coenzimaA, nuovamente disponibile per la piruvato deidrogenasi.
  2. Il citrato viene trasformato nel suo isomero isocitrato dall’enzima aconitasi, con la formazione di un intermedio insaturo chiamato cis-aconitato.
  3. L’isocitrato viene ossidato ad α-chetoglutarato dall’enzima isocitrato deidrogenasi, che utilizza NAD+ come cofattore, il quale viene ridotto a NADH.
  4. L’α-chetoglutarato viene a sua volta ossidato a succinilCoA dall’enzima α-chetoglutarato deidrogenasi, un complesso che utilizza anche il coenzimaA e il NAD+ per completare la reazione.
  5. Il succinilCoA perde il coenzimaA, liberando l’energia necessaria per la fosforilazione a livello del substrato del GDP a GTP, in una reazione catalizzata dalla succinilCoA sintetasi, che libera succinato.
  6. Il succinato viene ossidato a fumarato dall’enzima succinato deidrogenasi, liberando FADH2 a partire da FAD.
  7. Il fumarato subisce l’aggiunta di una molecola d’acqua (idratazione) ottenendo L-malato, mediante l’enzima fumarato idratasi.
  8. L-malato viene ossidato a ossalacetato dall’enzima malato deidrogenasi, liberando NADH.

MEDICINA ONLINE CICLO DI KREBS ACIDI TRICARBOSSILICI.jpg

Visto che non risulta conveniente coinvolgere così tanti enzimi per guadagnare solo 1 ATP, la cellula sfrutta i cofattori ridotti accumulati nella glicolisi e nel ciclo di Krebs per produrre altro ATP. Sulla membrana interna sono presenti un gruppo di proteine integrali che svolgono il ruolo di deidrogenasi. Esse sono in grado di ossidare il NADH e il FADH2 e di utilizzare l’energia potenziale degli elettroni che da essi ottengono, i quali derivano in origine dall’ossidazione del glucosio e del piruvato. Queste proteine sono enzimi che vengono chiamati nel loro insieme catena di trasporto degli elettroni.

  1. Il complesso I, chiamato anche NADH:ubichinone deidrogenasi, catalizza il trasferimento degli elettroni dal NADH all’ubichinone (coenzima Q): il NADH si ossida a NAD+, mentre l’ubichinone risulta ridotto a ubichinolo. Il complesso di più di 40 proteine contiene un centro ferro-zolfo (Fe-S), in grado di facilitare il trasferimento degli elettroni.
  2. Il complesso II è in realtà uno degli enzimi del ciclo di Krebs, ovvero la succinato deidrogenasi, che catilizza la reazione n°6. Questo complesso ha un funzionamento simile al complesso I, in quanto il complesso II catalizza il passaggio di elettroni dal FADH2 all’ubichinone, ottenendo FAD ossidato e coenzima Q ridotto.
  3. Il complesso III viene chiamato anche ubichinone:citocromo c ossidoreduttasi, e catalizza il trasferimento di elettroni dall’ubichinolo al citocromo c, che risulta ridotto.
  4. Il complesso IV, chiamato citocromo ossidasi, trasferisce gli elettroni all’ossigeno (O2), riducendolo a H2O. Senza l’ossigeno, accettore finale degli elettroni, la cellula non sarebbe in grado di smaltire gli elettroni: per questo motivo la sua presenza (e quindi l’aerobiosi) è fondamentale.

I complessi I, III e IV sono in realtà delle pompe protoniche in grado di sfruttare l’energia delle reazioni redox che catalizzano per trasportare protoni (H+) dalla matrice allo spazio intermembrana, creando così un gradiente di concentrazione ad alta energia potenziale. I protoni infatti subiscono forte repulsione elettrostatica e cercano una “valvola di sfogo” per allontanarsi, cedendo la propria energia a qualcun altro.
L’enzima ATP sintasi, anch’esso nella membrana interna del mitocondrio, è in grado di usare questo gradiente per legare un gruppo fosfato all’ADP, sintetizzando l’ATP, la cui energia è proprio contenuta nel legame dell’ultimo gruppo fosfato, che qui si forma. Questo tipo di aggiunta di un gruppo fosfato viene chiamato fosforilazione ossidativa. La reazione completa, a partire dal glucosio e comprendendo quindi la glicolisi e la catena di trasporto degli elettroni, è la seguente:

C6H12O6 + 6O2 → 6CO2 + 6H2O + 36 (o 38) ATP

MEDICINA ONLINE CATENA DI TRASPORTO DEGLI ELETTRONI BIOCHIMICA RESPIRAZIONE CELLULARE.jpg

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Differenza tra aldeidi, chetoni ed alcheni

MEDICINA ONLINE DIFFERENZA ALDEIDI CHETONI CHIMICA BIOCHIMICA APPUNTI SCUOLA UNIVERSITA FISIOLOGIA.jpgSia le aldeidi (aventi formula generale RCHO) che i chetoni (aventi formula generale RCOR) sono composti organici caratterizzati dalla presenza di un gruppo funzionale caratteristico, il CARBONILE:

>C=O

Il carbonile ha una struttura planare perché ha al centro un carbonio con ibridazione sp2. Nel carbonile il carbonio è parzialmente positivo sia per effetto induttivo, a causa dell’elettronegatività dell’ossigeno, sia per risonanza.

La prima differenza sostanziale tra aldeidi e chetoni è che il gruppo carbonile nelle aldeidi si trova in posizione terminale, mentre invece nei chetoni si trova all’interno della catena (vedi figura in alto).

Gli alcheni sono idrocarburi (cioè composti organici costituiti solamente da atomi di carbonio e idrogeno) aciclici contenenti esattamente un doppio legame C=C. Gli alcheni fanno parte della classe delle olefine, alla quale appartengono anche i cicloalcheni e i polieni; hanno formula bruta CnH2n. Il più semplice alchene esistente è l’etilene (o etene), avente formula CH2=CH2, dal quale si ottiene il polietilene attraverso polimerizzazione per addizione. Rispetto agli alcheni che presentano un doppio legame carbonio-carbonio, le aldeidi e i chetoni hanno un maggior momento dipolare D a causa della differenza di elettronegatività tra il carbonio e l’ossigeno.

Le aldeidi e i chetoni hanno quindi  punti di ebollizione maggiori rispetto ad alcheni ramificati di peso molecolare paragonabile. La temperatura di ebollizione è influenzata dalla forza dei legami intermolecolari quali le forze di dispersione di van der Waals che sono maggiori quando la molecola è lineare e ha molti elettroni in quanto aumenta la grandezza dei dipoli temporanei presenti. Per tale motivo le temperature di ebollizione aumentano all’aumentare dei numero di atomi di carbonio presenti nella catena a prescindere dal fatto che si tratti di un’aldeide o di un chetone. Oltre alle forze di dispersione, a causa della presenza di un dipolo permanente, si instaurano anche attrazioni tra i dipoli e le molecole vicine con un’attrazione dipolo-dipolo. Le aldeidi e i chetoni hanno temperatura di ebollizione minore degli alcoli che formano anche legami a ponte di idrogeno.

Inoltre la presenza dei doppietti elettronici solitari presenti sull’ossigeno rende le aldeidi e i chetoni accettori di ioni H+ e quindi la loro solubilità in acqua è maggiore rispetto agli idrocarburi. Si riportano in tabella alcuni composti quali alcheni, aldeidi e chetoni onde poterne confrontare le caratteristiche fisiche:

Composto

Peso molecolare

Temperatura di ebollizione

Solubilità in acqua

2-metilpropene (CH3)2C=CH2

56

– 7.0 °C

0.04 g/100 g

Propanone (CH3)2C=O

58

+ 56.5 °C

Miscibile in tutte le proporzioni

1-pentene CH3CH2CH2CH=CH2

70

+ 30.0 °C

0.03 g/100 g

Butanale CH3CH2CH2CHO

72

+ 76.0 °C

7 g /100 g

Metilencicloesano C6H10=CH2

96

+ 103.0 °C

insolubile

Cicloesanone  C6H10=O

98

+ 155.6 °C

5 g/100 g

Addizione di acqua
La reazione tipica di aldeidi e chetoni è l’addizione nucleofila al carbonile. Questa può essere meglio compresa esaminando con attenzione il caso più elementare, l’addizione di acqua. L’addizione nucleofila al carbonile è influenzata sia da fattori elettronici che sterici. I fattori elettronici (donazioni di elettroni) influenzano la stabilità del doppio legame carbonio-ossigeno e la quantità di carica positiva presente sul carbonio del carbonile. I fattori sterici (ingombro sterico) condizionano soprattutto la stabilità del prodotto finale nel quale i sostituenti sono più vicini tra loro visto che il carbonio del carbonile da sp2 (120°) diventa sp3 (109°).

La polarità del gruppo carbonilico hae effetti sulla reattività delle aldeidi e dei chetoni rispetto a composti apolari che contengono un doppio legame: infatti mentre l’addizione di acqua al gruppo carbonilico è veloce, l’analoga reazione per gli alcheni è lentissima in assenza di un catalizzatore acido nonostante  che l’aspetto termodinamico sia di senso opposto.

Il doppio legame degli alcheni ha un’energia di legame di 146 kcal/mol. Poiché il legame  σ carbonio-carbonio ha un’energia di 83 kcal/mol si può ritenere che l’energia del legame π sia di 63 kcal/mol minore rispetto alla precedente; d’altra parte l’energia di legame del gruppo carbonilico varia a seconda del suo intorno come segue:

  • H2C=O  170 kcal/mol
  • RCH=O 175 kcal/mol
  • R2C=O 180 kcal/mol

Poiché il legame σ tra carbonio e ossigeno è di 86 kcal/mol, ad eccezione della formaldeide il gruppo carbonilico di aldeidi e chetoni ha un legame π con energia maggiore rispetto al legame σ. Tale fenomeno suggerisce che le reazioni di addizione al gruppo carbonilico sono termodinamicamente sfavorite come nel caso dell’addizione di acqua.

Sebbene l’addizione di acqua ad un alchene è esotermica e dà, un alcol quale prodotto di reazione che è una specie stabile la reazione è estremamente lenta in assenza di catalizzatore a causa dell’alta energia di attivazione. La disidratazione di un alcol ad alchene che costituisce la reazione inversa rispetto alla precedente è comunque lenta e quindi entrambe le reazioni possono avvenire solo in presenza di un acido forte. Viceversa sia la reazione endotermica di acqua al gruppo carbonilico che l’eliminazione esotermica dell’acqua dal diolo geminale risultano veloci. La polarità del gruppo carbonilico abbassa quindi l’energia dello stato di transizione per entrambe le reazioni con un conseguente aumento della velocità.

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Differenza tra iniezione e assunzione orale di un farmaco

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma COME FATTA UNA SIRINGA COME SI USA Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata Macchie Capillari Ano PeneQuando un farmaco viene assunto per via orale, ad esempio sotto forma di compressa, soltanto una piccola parte di esso arriva ad essere realmente assorbita dall’organismo e giunge quindi al sito d’azione. Continuando con l’esempio di una compressa, quest’ultima subirà notevoli disgregazioni a partire dalla bocca, per poi proseguire nello stomaco e intestino. A questo punto quel che resta del farmaco verrà assorbito e trasportato al fegato, dove subirà delle metabolizzazioni a causa del primo passaggio epatico. Al termine di tutte queste disgregazioni e metabolizzazioni, si avrà la distribuzione del farmaco nell’organismo e quindi al sito bersaglio. L’insieme di tutti questi fenomeni va a determinare la biodisponibilità del farmaco all’interno del nostro corpo (per definizione la biodisponibilità del farmaco è la frazione di farmaco non degradato che raggiunge la circolazione sistemica ed è in grado di distribuirsi in tutto il corpo).
Questo ci fa già intuire la più grande differenza tra l’assunzione per bocca e tramite iniezione: comparando la via orale ed endovenosa, è intuitivo che la prima possiede una biodisponibilità nettamente più bassa della seconda, perché il farmaco, prima di giungere nel torrente sanguigno, subisce notevoli modificazioni nell’apparato digerente. Tutto ciò non avviene se il farmaco lo iniettiamo direttamente nel circolo sanguigno (via endovenosa) e, tramite il sangue, giunge direttamente al sito bersaglio.

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Serotonina e triptofano: cosa sono ed in quali cibi trovarli

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma SEROTONINA TRIPTOFANO COSA SONO CIBI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgLa serotonina (5-HT; in inglese “serotonin” o “5-hydroxytryptamine“) è un neurotrasmettitore, ossia una sostanza in grado di trasmettere informazioni fra le cellule del cervello e, più in generale, del sistema nervoso. La sua funzione principale è principalmente la regolazione del tono dell’umore, per questo motivo negli anni la ricerca sulle basi biochimiche della depressione si è concentrata su questa molecola.

Il triptofano (in inglese “tryptophan“) è un amminoacido che, poiché l’organismo umano non è in grado di sintetizzare, deve essere ricavato dagli alimenti e pertanto è classificato tra gli amminoacidi essenziali. Oltre a partecipare alla costituzione delle proteine dell’organismo, interviene in numerose reazioni chimiche, in particolare nella sintesi di serotonina e di acido nicotinico.

In questo articolo ci occuperemo maggiormente della serotonina.

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Un eccesso di rilascio di serotonina può condurre in specifiche condizioni alla sindrome serotoninergica, una sindrome causata in genere da un errato uso di farmaci (abuso o interazioni) caratterizzata da tre tipologie diverse di sintomi:

  • Effetti cognitivi: mal di testa, agitazione, disturbi dell’umore, confusione, allucinazioni, coma.
  • Effetti autonomici: brividi, sudorazione, ipertermia, ipertensione, tachicardia, nausea, diarrea.
  • Effetti somatici: contrazioni muscolari involontarie, tremore.

Gli effetti sono proporzionali alla gravità della condizione e possono essere da appena percettibili a fatali.

Effetti e ruolo nell’organismo
La sintesi di questa preziosa sostanza avviene a partire dall’amminoacido triptofano e questo aspetto vedremo in seguito che viene sfruttato per favorirne la produzione dall’esterno.

Gli effetti della sostanza nell’organismo sono molteplici:

  • determina l’aumento della motilità intestinale e può causare nausea o vomito quando necessario,
  • causa vasocostrizione (cioè una riduzione della dimensione dei vasi sanguigni con conseguente riduzione del flusso di sangue e aumento della pressione),
  • promuove l’aggregazione delle piastrine nel processo di coagulazione.

Più interessante per noi sono le azioni a livello del sistema nervoso centrale, dove la serotonina è in grado di:

  • regolare il tono dell’umore,
  • modulare il sonno,
  • intervenire sulla termoregolazione (temperatura corporea),
  • influenzare il desiderio sessuale,
  • alterare il senso dell’appetito.

Proprio alla luce di queste proprietà è intuitivo individuare numerosi disturbi neuropsichiatrici dove questa sostanza gioca un ruolo di primo piano:

  • emicrania,
  • disturbo bipolare,
  • disturbo ossessivo compulsivo,
  • ansia,
  • fame nervosa,
  • bulimia,
  • depressione,
  • eiaculazione precoce nell’uomo,
  • fibromialgia.

Questi effetti sono sfruttati, oltre che da numerosi farmaci (per esempio gli antidepressivi) anche da alcune sostanze d’abuso, per esempio l’ecstasy (MDMA) è in grado di favorirne l’accumulo nel cervello per scatenare sensazioni di benessere ed entusiasmo.

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Serotonina e depressione
Diversa letteratura scientifica porta a pensare che ci sia un forte collegamento tra la quantità di serotonina e l’umore, in particolare una forte alterazione del bilancio di questa molecola a livello del sistema nervoso centrale potrebbe essere causa di depressione.

Questo può succedere per quattro ragioni fondamentali:

  1. ridotta produzione della sostanza,
  2. ridotta espressione dei recettori in grado di legarsi alla sostanza,
  3. impossibilità da parte della sostanza di raggiungere il recettore,
  4. carenza di triptofano, il precursore attraverso cui viene sintetizzata la 5-HT.

Se si verifica una o più di queste possibilità il paziente può andare incontro a disturbi neuropsichiatrici, come depressione, distrurbo ossessivo compulsivo ansia, panico, rabbia.
Una delle classi più usate ed efficaci di antidepressivi, gli SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, dall’inglese selective serotonin reuptake inhibitors), agisce aumentando la quantità di neurotrasmettitore libero e favorendo quindi la stimolazione dei recettori. In realtà va detto che, se il meccanismo di azione è stato studiato e accertato, l’idea che la depressione sia provocata da una carenza di serotonina o altri neurotrasmettitori come la nor-adrenalina rimane ad oggi poco più che un’ipotesi, peraltro non accettata dall’intera comunità scientifica; alla luce di questo possiamo quindi dire che questi antidepressivi sicuramente agiscono migliorando i sintomi della depressione, ma non sappiamo con certezza il perché.

Serotonina e sessualità
La serotonina funge da ritardante naturale nell’organismo maschile, procrastinando l’orgasmo.
L’influenza del neurotrasmettitore sulla sessualità sembra tuttavia più profonda, uno studio pubblicato su Nature del 2011 ha dimostrato che in caso di carenza della sostanza in esemplari di topolini maschi, questi andavano incontro alla perdita di preferenza sessuale verso le femmine, tentando di accoppiarsi anche con altri soggetti maschi. La discussione di questi risultati ha ovviamente generato polemiche e tesi controverse, ma quello che interessa in questa sede è semplicemente sottolineare l’impatto che può avere anche una piccola variazione delle quantità disponibili di serotonina; nell’uomo è possibile verificare questo effetto da una prospettiva opposta, i soggetti che assumono antidepressivi in grado di aumentare la quantità in circolo vanno spesso incontro a un calo del desiderio.

Come aumentare la serotonina?
È circa 50 anni che la comunità scientifica si interroga su come manipolare il sistema serotoninergico cerebrale, perchè sono ormai certi i legami fra questo è il tono dell’umore; per questo motivo c’è una fervente ricerca sui possibili modi per aumentare la quantità di serotonina disponibile al di là dell’uso dei farmaci che, pur avendo rivoluzionato la terapia della depressione, si portano dietro diversi limiti:

  • possibilità di effetti collaterali,
  • ma soprattutto il pessimo rapporto rischio/beneficio in un ipotetico utilizzo preventivo.

In altre parole, come possiamo aumentare la 5-HT disponibile nel cervello per aumentare il senso di benessere e prevenire disturbi mentali come la depressione?
Sono stati individuati principalmente quattro approcci, non necessariamente sempre efficaci o sufficienti, ma meritevoli di essere approfonditi.
Psicoterapia
È stato dimostrato che un soggetto esposto a situazioni piacevoli (nel caso dello studio in esame veniva richiesto di descrivere ricordi particolarmente piacevoli) aumenta immediatamente la sintesi di serotonina cerebrale, mentre al contrario una situazione spiacevole (evocare ricordi tristi, nel caso in esame) porta immediatamente al risultato opposto.
Da questo interessante lavoro emergono due considerazioni importanti:

  • viene confermato il legame tra la 5-HT e l’umore,
  • viene dimostrato che una situazione esterna è in grado di alterare immediatamente la produzione del neurotrasmettitore.

Il secondo punto può essere generalizzato, in quanto lo stimolo può essere autoindotto (un ricordo, un’attività piacevole, una situazione gratificante) o esterna (per esempio un percorso di psicoterapia).
Ovviamente siamo ancora nel campo delle ipotesi, ma è affascinante e privo di controindicazioni pensare che quello che facciamo e che pensiamo possa riflettersi in modo così pratico sul sistema serotoninergico, tanto che il legame tra questo è l’umore sembra essere non a senso unico, ma a due vie.

Esposizione alla luce
Il legame tra una maggior esposizione alla luce solare e la serotonina non è certo una novità, infatti di fondamentale importanza “sembra essere il nostro orologio biologico, la cui posizione è stata individuata nel cervello, appena sopra il chiasma ottico che è l’incrocio dei due nervi ottici. È una piccolissima zona estremamente sensibile alla luce. Quando al mattino la luce passa per la retina dà l’avvio alla produzione della serotonina di giorno e della melatonina di notte. Su questo principio è stata messa a punto la cosiddetta terapia della luce, un approccio poco conosciuto, ma che in realtà permette gradi risultati anche nei pazienti depressi. Sono numerosi gli studi che confermano, spesso in modo indiretto ma ragionevolmente attendibile, che la quantità di 5-HT prodotta aumenti con l’esposizione a intense fonti di luce, strategia non farmacologica che permette quindi buoni risultati; a questo scopo risulta perfetta la luce solare, al limite anche in giornate parzialmente nuvolose, o l’uso di apposite lampade ad alta luminosità.

Esercizio fisico
Non ci sono dubbi sul fatto che un regolare esercizio fisico migliori l’umore e diminuisca i livelli di stress e ansia, è intuitivo e confermato da numerosi lavori scientifici, ed è confermato anche l’effetto diretto sulla produzione di serotonina, soprattutto in caso di esercizio aerobico.
Molti autori spiegano l’aumento drammatico della diffusione della depressione nella società attuale con una riduzione drastica dell’attività fisica e dell’esposizione al sole tipica dei nostri antenati cacciatori/raccoglitori nella preistoria, tra l’altro diversi studi sembrano indicare che l’aumento della produzione di 5-HT derivi proprio dall’attività fisica in sé e non dall’eventuale ricompensa (che una volta poteva essere la cattura dell’animale cacciato).

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Dieta
Non deve stupire che possa esserci una connessione diretta tra alimentazione e umore e, in particolare, anche con la produzione di serotonina. L’assunzione di triptofano, il precursore chimico della serotonina, è in grado di stimolare la produzione del neurotrasmettitore, che invece non può essere assunto come integratore in quanto tale (perché non è in grado di superare la barriera ematoencefalica, quindi non può raggiungere il cervello); l’effetto è confermato da numerosi studi, tanto che in alcuni Paesi il triptofano è considerato un farmaco a tutti gli effetti, pur essendo un aminoacido presenti in numerosi alimenti.
A questo proposito vale la pena tuttavia ricordare che l’assunzione di triptofano puro aumenta la produzione di serotonina, ma questo non è di norma vero per i cibi che lo contengono.
Spiegare il motivo che sta alla base di questo limite va al di là dello scopo di questo articolo, ma semplificando al massimo possiamo dire che la presenza di altri amminoacidi (nelle proteine assunte con la dieta) ne impedisce l’assorbimento a livello cerebrale.
Per aggirare questo limite alcuni autori propongono il consumo di alimenti particolarmente ricchi di triptofano, in modo da far pendere la bilancia verso questo amminoacido rispetto ai restanti e permetterne così almeno un modesto assorbimento a livello del sistema nervoso. L’obiettivo quindi non è tanto aumentare la quantità di triptofano di per sé, ma aumentarla in rapporto alla quantità degli altri amminoacidi.
Tra gli alimenti con il miglior rapporto triptofano/proteine troviamo:

  • latte,
  • semi di sesamo,
  • semi di girasole,
  • spirulina essiccata,
  • soia cruda,
  • parmigiano Reggiano,
  • avena,
  • uova.

È stato infine dimostrato che assumere questi alimenti in un pasto ricco di carboidrati (pane, pasta, …) può aumentare l’assorbimento del triptofano a livello cerebrale, perchè una parte degli altri amminoacidi vengono sequestrati dalle cellule muscolari dietro l’impulso fornito dal rilascio di insulina (a titolo di curiosità concludo il ragionamento segnalando che la serotonina così prodotta viene in parte convertita in melatonina, che potrebbe rendere conto della sonnolenza post-prandiale tipica dei pasti ricchi di carboidrati).
Alcuni autori suggeriscono peraltro che il cattivo umore che spesso si nota nei soggetti che seguono diete iperproteiche potrebbe essere anche dovuto a questo aspetto, ossia all’insufficiente consumo di carboidrati che non permette un adeguato assorbimento cerebrale di triptofano.

Integratori di triptofano
A seconda del Paese preso in esame, il triptofano è venduto come:

  • integratore,
  • farmaco da banco,
  • farmaco che richiede ricetta.

In Italia è venduto in genere come integratore, a parte casi particolari in cui formulazioni che contengono dosi elevate richiedono ricetta (e contengono per la verità un derivato, l’idrossitriptofano).
Questo dovrebbe essere sufficiente a far capire che la sostanza è ancora alla ricerca di un inquadramento preciso, ma sono già ragionevolmente buone le conferme di efficacia per il trattamento di casi minori di depressione, probabilmente grazie al suo effetto di stimolazione sulla produzione di serotonina.
È utile ricordare che naturale non significa sicuro, infatti sono noti diversi possibili effetti collaterali associati alla sua assunzione:

  • nausea,
  • diarrea,
  • sonnolenza,
  • vertigini,
  • mal di testa,
  • secchezza delle fauci,
  • visione offuscata,
  • sedazione,
  • euforia,
  • nistagmo (movimenti involontari degli occhi).

Va rigorosamente evitata l’associazione con antidepressivi (in particolare MAO inibitori, SSRI e SNRI) per evitare il rischio di incorrere nella sindrome serotoninergica.

Triptofano: in quali cibi trovarlo?
In natura, il triptofano si ritrova nelle proteine alimentari, essenzialmente quelle di origine animale. Ne è ricca la Griffonia, pianta tropicale africana della famiglia delle leguminose. Il fabbisogno di un adulto è circa 250 mg/die. La concentrazione di triptofano nel sangue è generalmente compresa fra 10 e 40 mmol/l (2 e 8 mg circa/litro). Tracce di questo amminoacido si ritrovano anche nelle urine.

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Differenza tra idrofobo ed idrofilo con esempi

Work of scientists in the chemical laboratory.In chimica con il termine idrofilo si intende un composto o un gruppo funzionale che, a causa della sua struttura, mostra affinità per l’acqua. Si tratta di composti o gruppi funzionali con una struttura polarizzata che possono essere sciolti in acqua ma che non possono essere sciolti nei solventi organici apolari e quindi nei solventi oleosi. Le sostanze idrofile sono anche sostanze lipofobe, in quanto una sostanza che può essere sciolta in acqua non può invece essere sciolta in un solvente oleoso.

Esempi di sostanze idrofile

Sono sostanze idrofile:

  • glucosio, C6H12O6;
  • sali minerali;
  • glicoli;
  • alcoli;
  • urea;
  • amminoacidi.

In chimica con il termine idrofobo si intende un composto o un gruppo funzionale che, a causa della sua struttura, non mostra alcuna affinità per l’acqua. Si tratta di composti o gruppi funzionali con una struttura poco o per nulla polarizzata che possono essere sciolti in un opportuno solvente organico ma che, come detto, non possono essere sciolti in acqua. Le sostanze idrofobe sono anche sostanze lipofile, in quanto una sostanza che non può essere sciolta in acqua può invece essere sciolta in un solvente oleoso.

Esempi di sostanze idrofobe

Sono sostanze idrofobe:

  • esano C6H14;
  • benzene C6H6;
  • tetracloruro di carbonio CCl4;
  • etere etilico C4H10O;
  • solfuro di carbonio CS2;
  • iodio I2;
  • lipidi.

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Differenza tra proteine animali e vegetali: quali sono le migliori?

Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Specialista in Medicina Estetica ASSUMI VITAMINA D SINTOMI CARENZA CIBI  Roma Cavitazione Pressoterapia Linfodrenante Dietologo Cellulite Calorie Pancia Sessuologia Sesso Pene Laser Filler Rughe Botulino 1Cominciamo dalla prima, quasi banale, differenza: le proteine di origine vegetale sono contenute in tutti gli alimenti di origine vegetale, come ad esempio:

  • legumi,
  • alcuni tipi di verdura,
  • cereali.

Le proteine animali sono presenti invece soltanto negli alimenti di origine animale, come ad esempio:

  • carne,
  • pesce,
  • latte,
  • latticini,
  • formaggi,
  • uova.

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Legumi
Iniziamo dai legumi, che ne sono i più ricchi, in particolare la soia e i fagioli. Tutti i legumi hanno la particolarità di trattenere nelle radici un batterio simbionte detto rizobio in grado di fissare l’azoto presente nell’aria e trasformarlo in amminoacidi che vengono assorbiti dalla pianta. Così tutti i tipi di legumi (dai fagioli alla soia, dall’erba medica alla mimosa, che sono tutti legumi) risultano particolarmente ricchi di proteine vegetali. I fagioli poi sono quelli che, per clima, per attidudine del terreno, e anche per produttività, sono più semplici da coltivare, e vengono scelti anche perché fanno molto bene al terreno (lo riempiono di azoto che viene poi ‘risucchiato’ da colture impoverenti come quelle dei cereali) e questo ha garantito il loro successo nel corso degli anni. Oggi, in un’epoca in cui certo non abbiamo carenza proteica, possiamo mettere da parte la carne e gli alimenti di origine animale, per consumare solo alimenti vegetali: ma a livello nutrizionale le proteine animali e vegetali sono la stessa cosa? Davvero le proteine vegetali possono sostituire la carne?

Proteine animali e vegetali: differenze nutrizionali
Per quanto riguarda il contenuto di amminoacidi essenziali, in generale le proteine animali possono essere considerate complete e quelle vegetali sono incomplete. Assumere proteine da fonti vegetali è importante e le carenze di eventuali amminoacidi possono essere superate utilizzando appropriate associazioni alimentari, ad esempio legumi e cereali, perché si completano tra loro: gli amminoacidi di cui è carente la pasta vengono forniti dai fagioli e viceversa. Sul fronte della digeribilità le proteine vegetali valgono meno di quelle animali (soprattutto quelle dei cereali), avendo un coefficiente di digeribilità, che indica la percentuale effettivamente assorbita, molto più basso: ad esempio i legumi sono al 30% rispetto a carne (80%) e uova (100%). Infine, non dimentichiamo che negli alimenti di origine vegetale è basso il livello di ferro e con i vegetali si assume poca vitamina B12 (una vitamina che svolge un ruolo fondamentale nella sintesi di emoglobina ma che è sintetizzata solo dagli animali). Quindi chi segue un regime alimentare vegetariano o vegano deve necessariamente integrare queste due sostanze.

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Proteine animali e vegetali: la quantità proteica contenuta negli alimenti
Parlare di “proteine” è un po’ come parlare di “casa”. Si fa presto a dire casa, ma le case vanno dalle capanne delle periferie di Rio de Janeiro alle ville di George Clooney: sfido a dire che queste due case siano uguali. E per le proteine il discorso non cambia. Una proteina è una catena di amminoacidi, che ne costituiscono i mattoni. Ci sono proteine lunghe e proteine corte, proteine costituite da amminoacidi migliori, per il nostro corpo, e da amminoacidi peggiori, ci sono proteine accartocciate e difficilissime da digerire (come la cheratina, che costituisce le nostre unghie) e proteine facili da digerire, ed ovviamente tutto dipende anche da quante e quali proteine ci sono in un alimento. A livello quantitativo ci sono cibi con più o meno proteine, ma non basta solo questo valore. E’ importante sapere come questi alimenti debbano essere prepararti e cucinati per essere mangiabili. E questi processi alterano e diluiscono la quantità originariamente contenuta nel cibo. Facciamo un esempio. I fagioli secchi contengono un 23,6% di proteine, quindi 23,6 gr per 100 gr di prodotto. Per fare un paragone e far capire come si esegue il calcolo abbiamo scelto un alimento che, così come si compra al supermercato, contiene praticamente la stessa quantità di proteine, il petto di pollo crudo, 23,3%. Facciamo conto che e abbiano tutti e due il 23%, per fare il conto in modo migliore. Quando arrivo a casa, questi due alimenti devo cuocerli, e i fagioli si devono anche ammollare per poterli mangiare. Così i fagioli assorbono acqua, che va a costituire peso nel legume, e quando questo è pronto, è gonfiato, le proteine non costituiscono più il 23%, ma sono il 9% all’incirca, sul prodotto reidratato. Mangiando 100 gr di fagioli (secchi e crudi sono immangiabili) ottengo 9 gr di proteine. Il petto di pollo va cotto, ma la cottura è molto veloce e lo scopo è proprio quello di eliminare acqua, così che le proteine saranno più concentrate e la loro percentuale maggiore: dal petto di pollo cotto, da 100 gr, otterrò circa un 30% di proteine, cioè 30 gr per 100 gr.  Per cui abbiamo: 9 gr di proteine nei fagioli contro 30 gr del pollo, pari ad un terzo.

Proteine animali e vegetali: la qualità delle proteine
Ma non abbiamo ancora considerato la qualità proteica. Esistono diversi indici per definire la qualità delle proteine: il valore biologico, il rapporto di efficienza proteica e l’indice chimico; ne esistono anche altri, ma questi tre sono quelli più utilizzati ed è proprio in base a questi che si capisce come il livello qualitativo delle proteine vegetali sia minore di quello delle proteine di origine animale. Facciamo un altro esempio. La qualità proteica calcolata con il metodo C.U.D. (coefficente di utilizzazione digestiva) è il rapporto tra le proteine ingerite e quelle assorbite, ed ha un valore che va da 0 a 100. Se è 100 (albume d’uovo) la proteina è perfetta, di qualità altissima, perché tutta quella che si mangia la si assorbe; se è 0 (unghie, ad esempio) è come se non la mangiassimo affatto. Le proteine della carne di pollo hanno un valore di 80, per cui mangiando 100 gr di proteine ne assorbiamo 80; per i fagioli questo valore è 30, per cui mangiandone 100 gr ne assorbiamo solo 30.  Il che significa che mangiando 100 gr di petto di pollo e 100 gr di fagioli otteniamo con il primo 30 gr, e per una qualità di 0,8 assorbiremo 24 gr di proteine. Mangiando 100 gr di fagioli lessi, invece, ne otteniamo 9 gr, per una qualità di 0,3 avremo 3 gr di proteine. Sono sempre 100 gr di prodotto, ma dalla carne di pollo otteniamo 8 volte le proteine che otteniamo dai fagioli. Dovremmo mangiarne 800 gr per tornare allo stesso valore. Se volete divertirvi a fare questo conteggio con altri alimenti, su internet e sui libri si trovano tranquillamente sia le tabelle qualitative delle proteine, sia le tabelle nutrizionali degli alimenti (sui sito INRAN) per cui potete divertirvi anche da soli a ripetere il conteggio che abbiamo appena fatto insieme.

Proteine vegetali e proteine animali: alternative vegetali alle proteine animali
La differenza tra le proteine animali e vegetali è evidente e le proteine di origine vegetale non sono un’alternativa a quelle di origine animale. I vegetariani devono sopperire alle carenze di alcuni amminoacidi essenziali integrandoli con quelli di sintesi o seguendo sempre e comunque una dieta equilibrata che comprenda latte, latticini, uova, legumi, soia e tutti i tipi di verdure e frutta, cereali e legumi di varietà differenti per assumere tutte le proteine di cui abbisogna il corpo. Il problema è ben più complicato per i vegani; il fabbisogno proteico per il nostro organismo è fornito solo da uno specifico mix di alimenti e a livello pratico non è semplice da applicare, perché sono poche le varietà vegetali da mangiare per ottenere il giusto apporto proteico e sempre in grandi quantità. Basti pensare che in un regime ‘onnivoro’ solo 1/3 delle nostro fabbisogno proteico è fornito da alimenti vegetali.

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Cos’è un cromosoma ed a che serve?

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma DIFFERENZA CELLULA APLOIDE DIPLOIDE Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata Macchie Capillari Ano PeneI cromosomi sono la forma in cui si presenta il DNA all’interno della cellula: il lungo filamento di DNA è infatti “impacchettato” fino a formare il cromosoma. Negli eucarioti il DNA è sempre legato a proteine, istoniche e non istoniche, attorno alle quali il filamento di DNA si avvolge a formare complessivamente una struttura chiamata cromatina. La cromatina si può colorare con alcuni coloranti istologici, da cui il nome; se ne possono distinguere due tipi: l’eucromatina, debolmente colorabile, dalla struttura più aperta e quindi trascrizionalmente attiva, e l’eterocromatina, intensamente colorabile, maggiormente condensata (rimane condensata anche in interfase) e trascrizionalmente inattiva. L’eterocromatina può essere ulteriormente distinta in costitutiva e facoltativa. L’eterocromatina costitutiva è costituita da regioni di DNA altamente ripetitivo, costanti in tutte le cellule dell’organismo e nel cromosoma si concentra principalmente a livello del centromero e dei telomeri. L’’eterocromatina facoltativa può diventare condensata e diventare temporaneamente inattiva, inoltre può essere inattivata solo in determinati tessuti o in determinati stadi dello sviluppo.


Numero dei cromosomi nell’essere umano

L’uomo possiede 23 coppie di cromosomi in ogni cellula diploide, a formare un totale di 46 cromosomi per cellula. I componenti di ciascuna coppia cromosomica contengono gli stessi geni e ciascun componente della coppia viene chiamato omologo. Un omologo è ereditato da ciascun genitore. Dei 46 cromosomi:

  • 44 cromosomi sono detti somatici o autosomi e sono disposti in 22 coppie;
  • 2 cromosomi sessuali (XX o XY).

I 44 cromosomi somatici determinano le caratteristiche fisiche del soggetto.
I 2 cromosomi sessuali sono quelli che invece determinano il sesso e sono uguali nella donna (tutti e due del tipo X, detti così a causa della forma) mentre l’uomo possiede un solo cromosoma sessuale del tipo X mentre l’altro è del tipo Y.

Nei gameti (spermatozoi ed ovocellule, che sono cellule aploidi), il corredo cromosomico è dimezzato rispetto alle cellule diploidi:

  • 22 cromosomi sono detti somatici;
  • 1 cromosoma sessuale (X nell’ovocita mentre Y o X negli spermatozoi).

Funzioni dei cromosomi

  1.  conservare come in un archivio le informazioni genetiche per tutta la vita di un individuo per permettere la sintesi delle proteine per tutta la vita;
  2. duplicandosi trasmettere le informazioni a cellule dello stesso organismo (tramite le mitosi).

Forma dei cromosomi

I cromosomi sono distinguibili tra loro per le dimensioni e per la “forma”, ossia per la posizione del centromero, una regione di DNA altamente ripetuto associato ad una impalcatura proteica, che ha appunto posizione diversa a seconda del cromosoma. Ulteriori distinzioni si possono effettuare con opportuni trattamenti chimici, che evidenziano un bandeggio riproducibile: ogni cromosoma ha infatti uno specifico pattern di bande, che permette di distinguerlo dagli altri cromosomi e che permette di individuare eventuali mutazioni cromosomiche. In base alla posizione del centromero si distinguono quindi cromosomi:

  • acrocentrici: centromero in posizione subterminale (in prossimità di una delle estremità);
  • telocentrici: centromero in posizione terminale;
  • submetacentrici: centromero in posizione submediana (spostato verso una delle due estremità;
  • metacentrici: centromero in posizione mediana.

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