Arresto cardiaco: conseguenze, cause, coma, terapia, cosa fare

MEDICINA ONLINE ELETTROCARDIOGRAMMA ECG ESAME ONDE ONDA P T U COMPLESSO QRS TRATTO INTERVALLO RR INTERPRETAZIONE SIGNIFICATO CUORE IMPULSO ELETTRICO NODO SENO ATRIALE SETTO ATRIO VENTRICOLO TORACE AORTA VENA ARTERIACon “arresto cardiaco” (anche chiamato “arresto cardiocircolatorio”) si intende un gravissimo ed improvviso deficit delle funzionalità del cuore, che cessa improvvisamente di battere in modo efficace e di conseguenza interrompe la sua azione di pompaggio del sangue in tutto il corpo, mettendo a rischio la vita stessa del paziente. L’arresto cardiaco si può verificare in caso di traumi, ad esempio un forte trauma toracico in un incidente stradale, o in caso di svariate patologie.

Quando si verifica un arresto cardiaco?

Un arresto cardiaco si verifica in caso di importanti alterazioni del ritmo cardiaco:

  • asistolia;
  • fibrillazione ventricolare;
  • tachicardia ventricolare senza polso;
  • attività elettrica senza polso o pulseless electrical activity (PEA).

Quali sono le cause di un arresto cardiaco?

Le cause di arresto cardiaco possono essere:

  • cardiache (le più frequenti, spesso determinate da cardiopatia ischemica causata da ostruzione delle arterie coronarie)
  • non cardiache.

Le cause non cardiache sono meno frequenti rispetto alle cardiache. Le non cardiache possono essere di due tipi:

  • non cardiache meccaniche (tamponamento cardiaco, embolia polmonare, pneumotorace iperteso…);
  • non cardiache anossiche (struzione delle vie aeree, eventi neurologici…).

A cosa porta un arresto cardiaco?

I tessuti corporei e cerebrali, durante un arresto cardiaco, non sono più perfusi da sangue ed ossigeno: questo comporta una veloce perdita di coscienza e delle capacità respiratorie. Un arresto cardiaco è così grave che, se non si interviene immediatamente con la rianimazione cardiopolmonare e con un defibrillatore, nel giro di pochissimi minuti provoca dei danni permanenti al cervello e la morte della persona colpita.

Sintomi e sintomi premonitori di un arresto cardiaco

L’insorgenza dell’arresto cardiaco è spesso istantanea, senza segni clinici o sintomi premonitori. In alcuni casi il paziente può avvertire una sintomatologia riferibile alla condizione clinica che è causa dell’arresto: palpitazioni, vertigini, dispnea, dolore toracico. L’obiettività in corso di arresto cardiaco è caratterizzata dall’assenza del polso centrale (carotideo), dalla perdita di coscienza, e da una serie di segni clinici che compaiono dopo un lasso di tempo variabile:

  • midriasi,
  • pallore,
  • cianosi cutanea,
  • respiro agonico,
  • incontinenza sfinterica,
  • rilassamento della muscolatura scheletrica.

L’evoluzione dell’arresto cardiaco verso il coma e la morte biologica irreversibile dipende in maniera critica dal tempo che intercorre tra l’evento primario e la messa in atto delle manovre assistenziali. Il cervello è molto sensibile all’anossia derivante dall’arresto di circolo: in pochi secondi si ha perdita di coscienza, mentre dopo circa 4 minuti si hanno danni irreversibili. Il cuore è meno sensibile, ma anche l’attività cardiaca va deteriorandosi nel giro di qualche minuto; la tachicardia ventricolare senza polso (TV-senza polso) e la fibrillazione ventricolare (FV), che sono in genere i ritmi di esordio dell’arresto cardiaco da ischemia miocardica, decadono in qualche minuto a FV a basso voltaggio, e infine ad asistolia: se la rianimazione cardiopolmonare non portasse alla ripresa dell’attività elettrica cardiaca, in pochi minuti si giungerebbe alla morte biologica.

Terapia: cosa fare in caso di arresto cardiaco?

Il successo delle manovre mediche applicate a un paziente in arresto cardiaco è correlato in maniera significativa al tipo di ritmo inizialmente rilevato dal defibrillatore (il cosiddetto ritmo di presentazione). I ritmi di presentazione si possono schematicamente classificare in due categorie:

  • ritmi defibrillabili (tachicardia ventricolare-senza polso e fibrillazione ventricolare);
  • ritmi non defibrillabili (asistolia e pulseless electrical activity, o PEA).

Se il soccorritore si trova di fronte ad un ritmo TV-senza polso/FV, ha discrete probabilità che le manovre di rianimazione abbiano successo; se rileva un’asistolia, le probabilità di successo si abbassano. Oltre al massaggio cardiaco si sono recentemente sviluppate delle tecniche rianimatorie con sistemi meccanici (speciali corpetti da apporre sul torace del paziente), che permettono un prolungamento della rianimazione sino all’arrivo in pronto soccorso.
La defibrillazione permette la cardioversione, cioè un ritorno ad un ritmo cardiaco sinusale (normale) e può essere effettuata con un defibrillatore esterno (se il soggetto non possiede un defibrillatore interno ICD) o – in casi limitati – con pugno precordiale.
La defibrillazione, se attuabile, deve avvenire nel minor tempo possibile dall’arresto cardiaco; si ritiene che per ogni minuto trascorso le probabilità di successo decadano del 7-10%. Inoltre, alcuni fattori possono intervenire riducendo le probabilità di successo, ad esempio l’ipotermia, l’ipossia, l’acidosi e l’elevata impedenza toracica.

I tempi di intervento sono importanti

Il tempo massimo per intervenire in modo efficace su un arresto cardiaco è al massimo 10 minuti; ogni minuto perso equivale a una riduzione della sopravvivenza del 7-10%. Il tempo per cardiovertire un arresto cardiaco e “resuscitare” il paziente, prima che i danni al cervello siano irreversibili, è correlato all’efficacia della rianimazione cardiopolmonare.

IMPORTANTE: In caso vi ritroviate di fronte ad un probabile arresto cardiaco e non avete né nozioni di rianimazione, né defibrillatori esterni semiautomatici/automatici, non perdete neanche un secondo e chiedete IMMADIATAMENTE soccorso medico. Un minuto in più od in meno fanno letteralmente la differenza tra la vita e la morte del paziente.

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Wolff-Parkinson-White: nei bambini, rischi, sport, morte improvvisa

MEDICINA ONLINE KIDS PLAY FOOTBALL CALCIO SOCCER ALLENAMENTO PALLONE SPORT DOPING ADOLESCENTE MIGLIORE PUBERTA SVILUPPO ETA EVOLUTIVA CONSIGLIO SQUADRA SALUTE FORZA MEDICO DELLO SPORT VISITA AGONISTICOLa Sindrome di Wolff Parkinson White (WPW, in lingua inglese “Wolff–Parkinson–White Syndrome”) è una patologia caratterizzata da anomala conduzione dell’impulso elettrico cardiaco e determinata dalla presenza di uno o più fasci atrio-ventricolari accessori, che possono dare origine ad episodi di tachicardia sporadica. La malattia, ad eziologia ancora non del tutto chiara, colpisce una persona su 450; nel 70% dei casi interessa i maschi, specie in giovane età, e può presentarsi sia in forma sporadica che famigliare ed essere silente dal punto di vista sintomatico. I neonati da genitori con la sindrome di WPW possono essere a maggior rischio di sviluppare la malattia come pure i neonati con altri difetti cardiaci congeniti.

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Sport e Wolff-Parkinson-White

Con la Sindrome di Wolff-Parkinson-White sia il bambino che l’adulto possono praticare sport, come ad esempio calcio e nuoto, ma è importante che si eseguano sempre i controlli medici. Importante valutazione si ha, oltre all’elettrocardiogramma standard e all’elettrocardiogramma sotto sforzo, anche  attraverso il SETE, cioè lo studio elettrofisiologico trans-esofageo, che trova una vantaggiosa applicazione in cardiologia dello sport

I rischi del Wolff-Parkinson-White

I soggetti con WPW, rispetto alla popolazione sana, hanno un maggior rischio di fibrillazione atriale, di aritmie ventricolari rapide e di arresto cardiaco, oltre ad una probabilità più elevata di morte cardiaca improvvisa.

Wolff-Parkinson-White e morte improvvisa

La sindrome di Wolff-Parkinson-White espone il soggetto ad un rischio maggiore di morte cardiaca improvvisa, rispetto alla popolazione sana. Se la presenza di sintomi nei pazienti con preeccitazioni ventricolari è un elemento predittivo di eventi avversi e impone quindi una terapia adeguata, come quella ablativa, non significa che l’assenza di sintomi identifichi necessariamente soggetti scevri da eventi avversi. In altre parole i soggetti sintomatici hanno un rischio più elevato di morte cardiaca improvvisa rispetto a quelli asintomatici, ma questi ultimi hanno comunque un rischio maggiore rispetto alla popolazione sana: secondo uno studio del prof. Carlo Pappone presso il Maria Cecilia Hospital di Cotignola e pubblicato su Circulation, anche i pazienti asintomatici sono infatti a rischio di sviluppare aritmie maligne.

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Ematidrosi: la malattia che ti fa sudare sangue

MEDICINA ONLINE EMATOIDROSI SUDARE SANGUE SUDORE PORI PELLE SANGUINARE EMORRAGIA STUDIO LETTERATURA SCIENTIFICA hematohidrosis-describes-the-condition-in-which-blood-comes-out-of-unbroken-pores.jpegE’ una patologia molto rara tanto che è diventato famoso il caso di una donna di 21 anni di Firenze affetta da ematidrosi, una condizione rarissima che porta appunto a sudare sangue, soprattutto in caso di stress molto forti. La paziente fiorentina, la cui vicenda è descritta dai medici dell’Università di Firenze sul Canadian Medical Association Journal, è arrivata all’ospedale quando il sintomo si manifestava già da tre anni.

Roberto Maglie e Marzia Caproni del dipartimento di Dermatologia dell’Università di Firenze: “Non c’era nessuna causa scatenante visibile per il sanguinamento che poteva avvenire mentre la donna dormiva o durante l’attività fisica. La paziente ha dichiarato che il fenomeno era più intenso durante i periodi di maggior stress, con episodi di durata da uno a cinque minuti. La paziente è diventata socialmente isolata a causa dell’imbarazzo provocato dal sanguinamento ed ha riportato sintomi compatibili con un depressione maggiore e un disturbo da panico”.

L’ematoidrosi, (“hematohidrosis syndrome” in lingua inglese) è una condizione descritta raramente in letteratura; fra le cause ipotizzate ci sono problemi di coagulazione o una rottura dei vasi sanguigni che fa finire il sangue nei dotti del sudore. In questo caso alla donna sono stati prescritti degli psicofarmaci per i problemi di ansia e depressione e il propanololo, un medicinale contro l’ipertensione, che ha alleviato il problema principale senza però eliminarlo. Al caso la rivista dedica anche un editoriale di Jacalyn Duffin, esperta di storia della medicina dell’università dell’Ontario.

In letteratura medica moderna sono riportati pochi casi: 28 tra il 2004 e il 2017. Un caso, riguardante un uomo di 72 anni, è stato riportato nel 2009 dall’Indian Journal of Dermatology, che ne ha descritti altri due nel 2010 e nel 2013. Sempre nel 2013 il caso di una ragazza con questa condizione è stato invece descritto dalla rivista specializzata in ematologia Blood.

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Emorragia cerebrale da caduta e trauma cranico: sintomi, diagnosi e cure

MEDICINA ONLINE CERVELLO LOBO LOBI DIVISIONE SNC SISTEMA NERVOSO CENTRALE ENCEFALO

L’emorragia cerebrale (in inglese conosciuta come intracranial hemorrhage, intracranial bleed o ICH), corrisponde ad una fuoriuscita più o meno abbondante di sangue da un vaso arterioso o venoso dell’encefalo. La fuoriuscita di sangue ha la principale conseguenza di un danno alle cellule celebrali, a causa sia della privazione del nutrimento garantito dal flusso sanguigno, che della compressione dell’ematoma sul tessuto cerebrale che si crea all’interno del cranio dal momento che quest’ultimo è inespandibile. Tale fuoriuscita di sangue è provocata dalla rottura di un vaso sanguigno che può essere sia il risultato di un picco ipertensivo che è andato a rompere un vaso cerebrale già dilatato (aneurisma cerebrale), oppure la conseguenza di un trauma, ad esempio una caduta o un incidente stradale in cui la testa viene sottoposta ad una forte decelerazione ed impatto.

Leggi anche: Ictus, emorragia cerebrale cerebrale e TIA: cosa fare e cosa assolutamente NON fare

Tutti i traumi cranici determinano emorragia cerebrale?

Fortunatamente no. Non tutti i traumi cranici hanno come conseguenza una emorragia cerebrale: ciò dipende principalmente dal tipo di trauma e dalla presenza o meno di alcuni fattori di rischio che possono favorire la rottura del vaso sanguigno, come ad esempio la presenza di:

  • malformazioni vascolari (aneurismi, malformazioni artero-venose);
  • depositi di sostanza amiloide all’interno delle pareti vasali (angiopatia amiloide);
  • neoplasiecerebrali.

Inoltre il trauma ha un maggior rischio di determinare un maggior danno emorragico, in caso di:

  • presenza di coagulopatie (malattie della coagulazione del sangue);
  • impiego di alcuni farmaci (come gli anticoagulanti);
  • paziente con pregresso ictus cerebrale o infarto del miocardio;
  • uso cronico di sostanze stupefacenti;
  • presenza di ipertensione arteriosa;
  • paziente già debilitato (anziano, con altre patologie come il diabete).

Leggi anche: Che cos’è un attacco ischemico transitorio (TIA)? Impara a riconoscerlo e potrai salvare una vita, anche la tua

Quali sono i sintomi dell’emorragia cerebrale?

I sintomi di norma compaiono all’improvviso subito dopo il trauma e possono evolvere anche molto rapidamente. Essi sono:

  • cefalea intensa ed improvvisa (descritta spesso come un colpo di pugnale alla nuca);
  • vomito;
  • nausea;
  • compromissione dello stato di coscienza e del controllo degli sfinteri;
  • emiparesi o emiplegia;
  • disturbi del linguaggio (disartria o afasia);
  • disturbi della sensibilità;
  • disturbi della coordinazione.

In alcuni casi tuttavia l’emorragia da traumi può essere lieve e rimanere asintomatica, cioè non determinare alcun sintomo, motivo per cui, in caso di urti alla testa, è comunque importante tenere sotto controllo medico il soggetto.

Il decorso poi può essere complicato da:

  • crisi comiziali
  • irregolarità respiratorie
  • instabilità o aumento della pressione arteriosa
  • anomalie della temperatura corporea che peggiorano la prognosi del paziente.

Vi può poi essere la comparsa di edema cerebrale che determina un peggioramento del quadro neurologico fino al coma.

Leggi anche: Differenza tra afasia di Broca e di Wernicke

Diagnosi

Per la diagnosi di emorragia cerebrale vengono utilizzati – in emergenza – i seguenti esami diagnostici per immagini:

  • tomografia computerizzata (TC) cerebrale, che in fase di urgenza può essere eseguita anche senza mezzo di contrasto, che permette di visualizzare il sanguinamento e permette la diagnosi differenziale nei confronti di un ictus ischemico;
  • la risonanza magnetica dell’encefalo, con gadolinio come mezzo di contrasto, viene utilizzata per escludere la presenza di malformazioni sottostanti, pregresse emorragie e microsanguinamenti (che possono suggerire la presenza di angiopatia amiloide);
  • lo studio angiografico con angio-TCangio-RM permette infine di evidenziare eventuali malformazioni vascolari.

Leggi anche: Emorragia cerebrale: cause, sintomi premonitori, diagnosi e cura

Trattamenti

L’intervento chirurgico di riduzione dell’ematoma è solitamente richiesto per i pazienti con ematoma lombare e deterioramento progressivo delle condizioni neurologiche e per i pazienti con ematoma del cervelletto (cerebellare) di dimensioni superiori ai tre centimetri.
Nei pazienti per i quali non è necessario l’intervento chirurgico è fondamentale un attento e continuo monitoraggio dello stato neurologico e dei parametri vitali: particolare attenzione deve essere rivolta al controllo dell’ipertensione arteriosa. In caso di importante edema cerebrale può essere richiesta la somministrazione di diuretici osmotici. In caso di emorragia cerebrale in concomitanza con una terapia anticoagulante si fa solitamente uso di preparati in grado di ripristinare la normale coagulazione del sangue (vitamina K, protamina, concentrati piastrinici).

Leggi anche: Coma da emorragia cerebrale: quanto può durare?

Conseguenze dell’emorragia cerebrale

L’emorragia cerebrale è un evento grave, in alcuni casi gravissimo, che mette a rischio la sopravvivenza di chi lo subisce e le sue conseguenze possono essere irreversibili o solo lievemente reversibili e rappresentare il motivo di serie disabilità per il resto della vita. In alcuni casi, purtroppo, il paziente colpito da emorragia cerebrale, può entrare in coma e rimanere in stato di incoscienza fino alla morte, che può sopraggiungere in tempi estremamente variabili in base all’età, alla gravità del danno cerebrale ed allo stato di salute generale del paziente. In altri casi il paziente rimane cosciente, ma può avere dei danni molto variabili, che riflettono la zona e la gravità del danno cerebrale, come ad esempio disturbi del linguaggio (afasie), anosognosia, disturbi del movimento, della vista… Sono comunque disponibili dei trattamenti riabilitativi che riducono, per quanto possibile, le invalidità del paziente.

Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

Posizione di Trendelenburg (antishock): cos’è e quando è consigliata

MEDICINA ONLINE posizione di Trendelenburg anti-shock DECUBITO PRONO SUPINO LATERALE SICUREZZA SIGNIFICATO POSIZIONE LETTO STESI TERRA VISITA LETTINO SDRAIATO CHE SIGNIFICA DIFFERENZA PANCIA IN SU IN GIU.jpgLa posizione di Trendelenburg, o posizione anti-shock, è la posizione in cui è posto il paziente in caso di shock o durante l’esecuzione di particolari indagini radiologiche, nonché durante operazioni di chirurgia ginecologica e addominale. Il soggetto è supino, sdraiato in modo che il capo sia situato inferiormente a ginocchia e bacino. Questa posizione prende nome dal chirurgo tedesco Friedrich Trendelenburg, figlio dell’omonimo filosofo.

A che scopo si usa?

Lo scopo principale della posizione di Trendelenburg è quello di sfruttare la gravità per ottenere una migliore perfusione di organi vitali (detti anche nobili) quali encefalo, cuore e reni; quindi risulta utile in tutte quelle situazioni in cui l’afflusso di sangue è reso difficoltoso, ad esempio in alcuni traumi, nell’ipotensione, negli svenimenti, nello shock emorragico… Per tale motivo la posizione di Trendelenburg è definita anche posizione anti-shock. La posizione di Trendelenburg è molto utile anche in molte branche della medicina:

Diagnostica per immagini

Durante lo svolgimento di radiografia con mezzo di contrasto porre il paziente in tale posizione consente di valutare con discreta sensibilità la presenza di reflusso gastroesofageo. La maggior utilità nel far assumere al malato la posizione di Trendelenburg durante l’esame radiografico con mezzo di contrasto si riscontra però nella diagnosi di ernia iatale. Dagli ultimi studi risulta però concettualmente erronea per questo tipo di indagine, perché totalmente antifisiologica.

Chirurgia addominale

L’assunzione della posizione di Trendelenburg aiuta nella manovra di riduzione di ernia addominale.

Ginecologia

L’assunzione della posizione di Trendelenburg è indicata durante il parto complicato da mancata sufficiente dilatazione della cervice uterina, da presentazione podalica del nascituro o da prolasso di funicolo.

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Semeiotica del cuore: i 4 toni cardiaci ed i toni aggiunti

MEDICINA ONLINE MEDICO ESAME OBIETTIVO ANAMNESI PATOLOGICA FISIOLOGICA FAMIGLIARE VISITA MEDICA GENERALE AUSCULTAZIONE ISPEZIONE PERCUSSIONE PALPAZIONE DIFFERENZA FONENDOSCOPIO STETOSCOPIO TORACE ADDOME SUONI SEMEIOTICAI tono

  • Il secondo tono corrisponde alla chiusura delle valvole aortica e polmonare.
  • Il suono è prodotto dalle vibrazioni delle valvole chiuse e rapida decelerazione
    del flusso.
  • E’ composto da una componente aortica ed una successiva polmonare.
  • Segna la fine della sistole e l’inizio della diastole.
  • Si apprezza meglio alla base o aree aortica e polmonare.

II tono

  • Il secondo tono corrisponde alla chiusura delle valvole aortica e polmonare.
  • Il suono è prodotto dalle vibrazioni delle valvole chiuse e rapida decelerazione
    del flusso.
  • E’ composto da una componente aortica ed una successiva polmonare.
  • Segna la fine della sistole e l’inizio della diastole.
  • Si apprezza meglio alla base o aree aortica e polmonare.

III tono

  • Il terzo tono subito dopo il II tono, corrisponde alla fine del riempimento rapido del
    ventricolo.
  • Il “suono” è prodotto dalla vibrazione dell’apparato valvolare mitralico e tricuspidale.
    a causa della brusca decelerazione del flusso sanguigno all’interno dei ventricoli.
  • E’ apprezzabile meglio alla punta o mesocardio con il paziente in decubito laterale
    sinistro.
  • E’ Fisiologico nei bambini e giovani adulti (raro sopra i 40 anni).
  • Spesso presente in gravidanza dopo la 13° settimana.

IV tono

  • Il quarto tono detto anche tono atriale precede immediatamente il I tono e
    corrisponde appunto ad una forte contrazione atriale.
  • Il “suono” è prodotto dalla improvvisa tensione dei lembi valvolari, dalle corde,
    dai muscoli papillari, mitralici e tricuspidali a causa della rapida e anomala
    contrazione atriale.
  • E’ apprezzabile meglio alla punta e con il paziente in decubito laterale sinistro.
  • Non è mai udibile nel cuore normale.

Toni aggiunti

  • Knock pericardico: si verifica in protodiastole. Si sente nella pericardite
    costrittiva ed è dovuto a vibrazioni delle pareti ventricolari ristrette dal
    pericardio ispessito all’atto in cui avviene il rapido riempimento. Si
    apprezza soprattutto alla punta o sul mesocardio.
  • Toni di eiezione (Click da eiezione): sono toni aggiunti secchi e brevi,
    ad alta tonalità che si sentono in protosistole. Sono schiocchi d’apertura
    delle semilunari aortiche (o polmonari), oppure rumori di distensione di
    un’aorta (o polmonare) dilatata che si distende all’arrivo del sangue del
    ventricolo sottostante.
  • Toni meso-telesistolici non da eiezione (click sistolici non da eiezione):
    più tardivi dei toni da eiezione, spesso multipli, derivano soprattutto da
    improvvisa messa in tensione di corde tendinee mitraliche di lunghezza
    funzionalmente ineguale alle altre.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Si muore di AIDS? Qual è l’aspettativa di vita?

MEDICINA ONLINE SISTEMA IMMUNITARIO IMMUNITA INNATA ASPECIFICA SPECIFICA ADATTATIVA PRIMARIA SECONDARIA DIFFERENZA LABORATORIO ANTICORPO AUTO ANTIGENE EPITOPO CARRIER APTENE LINFOCITI BL’AIDS, cioè Acquired Immune Deficiency Syndrome la Sindrome da Immunodeficienza Acquisita, è una malattia del sistema immunitario umano causata dal virus dell’immunodeficienza umana (HIV). L’HIV danneggia il sistema immunitario delle persone che lo hanno contratto, rendendole vulnerabili a degli agenti patogeni normalmente innocui, che si trovano nell’ambiente o che, addirittura, sono ospiti abituali dell’organismo umano, cioè microrganismi generalmente inoffensivi che però diventano pericolosi nel paziente con sistema immunitario compromesso.

AIDS come causa indiretta di morte

Le persone che hanno contratto l’HIV possono rimanere senza sintomi per lungo tempo, anche per diversi anni, e accorgersi dell’avvenuta trasmissione solamente quando i danni al sistema immunitario sono di tale entità da far comparire le infezioni opportunistiche, quando cioè si ha già l’AIDS. Riguardo ai tempi di insorgenza dei primi sintomi, leggi: HIV: sintomi iniziali in donne e uomini
Anche se né il virus HIV, né l’AIDS, sono direttamente cause di morte, l’AIDS determina – come prima accennato – un grave danno al sistema immunitario del soggetto, rendendolo vulnerabile a degli agenti patogeni normalmente innocui che portano a varie patologie che purtroppo possono potenzialmente condurre a morte.

Quali malattie si possono contrarre?

L’elenco di tutte le malattie che possono sopraggiungere a causa dell’AIDS è molto lungo, alcuni esempi delle più diffuse sono: le patologie polmonari (polmonite, tubercolosi), le patologie del tratto gastro-intestinale e quelle neurologiche. Ci sono poi una serie di malattie neoplastiche come il sarcoma di Kaposi, i linfomi e il carcinoma invasivo della cervice uterina, che sono più ricorrenti nelle perone sieropositive perché l’HIV ne costituisce l’elemento patogenetico iniziale.

Sopravvivenza del paziente HIV positivo

In assenza di trattamento, la sopravvivenza media dopo l’infezione da HIV è stimata da 9 a 11 anni, a seconda del sottotipo HIV. Dopo la diagnosi di AIDS, se il trattamento non è disponibile, la sopravvivenza varia tra i 6 e 19 mesi. La disponibilità di farmaci antiretrovirali e l’adeguata prevenzione dalle infezioni opportunistiche riduce il tasso di mortalità dell’80% e aumenta la speranza di vita a 20-50 anni. Questo valore è di circa i due terzi della popolazione generale.Se il trattamento viene iniziato in ritardo, la prognosi può non essere così buona, per esempio, se il trattamento inizia in seguito alla diagnosi di AIDS l’aspettativa di vita sarà tra i 10 e i 40 anni. La metà dei bambini nati con l’HIV muore prima dei due anni di età, se non riceve un trattamento.

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Differenza tra prolasso e insufficienza mitralica

Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Ecografia Vascolare Articolare Medicina Estetica Mappatura Nei Posturale Dietologo Roma COME FUNZIONA IL CUORE ECG ONDE2 Radiofrequenza Rughe Cavitazione Cellulite Pressoterapia Linfodrenante DermatologiaLa valvola mitrale (anche chiamata valvola bicuspide) è una delle quattro valvole cardiache che mettono in comunicazione, tra loro e con l’esterno, atri e ventricoli del cuore. La valvola mitrale ha un diametro di oltre 30 mm ed unisce l’atrio sinistro al ventricolo sinistro ed ha un orifizio di 4–6 cm2. Insufficienza mitralica e prolasso mitralico, indicano due patologie che interessano questa valvola.

Con insufficienza mitralica o rigurgito mitralico, si intende il reflusso di sangue dal ventricolo sinistro all’atrio sinistro, dovuto ad un’anomalia che determina un’imperfetta coaptazione dei lembi mitralici durante la sistole ventricolare; ciò è causato da danni reumatici a corde tendinee e muscoli papillari, oppure da endocardite, o da prolasso valvolare mitralico. Questa valvulopatia può rimanere asintomatica, fino alla sua evoluzione in scompenso cardiaco, con sintomi tipici che sono principalmente:

  • cardiopalmo, dovuto a fibrillazione atriale o a extrasistoli ventricolari;
  • dispnea;
  • astenia;
  • affaticamento.

Con “prolasso valvolare mitralico” si intende una valvulopatia caratterizzata dallo spostamento di una cuspide (cioè un lembo), anormalmente ispessita, della valvola mitrale nell’atrio sinistro durante la sistole. La sua eziologia può essere di natura degenerativa e abbraccia un ampio spettro di alterazioni infiltrative o displasiche del tessuto mitralico come la fibroelastosi endocardica e la sindrome di Marfan. Può essere asintomatica nei casi più lievi, mentre nei casi più gravi può condurre all’appena descritta insufficienza mitralica. Un prolasso valvolare può in alcuni casi complicarsi con una endocardite, o condurre sino all’arresto cardiaco se innesca una aritmia ventricolare.

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