Morte in culla: cause, sintomi, incidenza, come evitarla

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma COLICHE NEONATI RIMEDI Riabilitazione Nutrizionista Medicina Estetica Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata Macchie Capillari Linfodrenaggio Pene Vagina GluteiE’ la paura che ogni neo-genitore nutre, quando apprende dell’esistenza di una simile sindrome, eppure la morte in culla (nota anche come Sindrome della morte improvvisa del neonato, SIDS) è tra le prime cause di decesso tra i neonati. Una sindrome di cui oggi si conoscono meglio le cause, grazie a uno studio pubblicato dall’autorevole rivista Pediatrics.

Lo studio sulle cause

I ricercatori del Boston Children’s Hospital hanno analizzato campioni del cervello di 71 bambini morti per presunta Sids tra il 1995 e il 2008, sia messi a dormire in condizioni considerate poco sicure sia in posizioni sicure. Nei bimbi sono state riscontrate alterazioni nei livelli di alcuni neurotrasmettitori, dalla serotonina ai cosidetti recettori gaba. “Queste sostanze controllano respirazione, ritmo cardiaco, pressione e temperatura – spiegano gli autori di questa pubblicazione importantissima – e in questo caso impediscono ai bambini di svegliarsi se respirano troppa anidride carbonica o il corpo diventa troppo caldo. Le regole per una corretta messa a letto restano quindi fondamentali, per evitare di mettere i bimbi in situazioni a rischio asfissia da cui non sono in grado di difendersi”. Una notizia che, grazie alla grande generosità di questi ricercatori e dei genitori di questi neonati, segna un notevole passo avanti nella prevenzione di questa sindrome poste le linee guida suggerite per ridurne l’incidenza.

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Incidenza della morte in culla
Non esistono dati nazionali – si apprende consultando il sito ufficiale del dicastero – sull’incidenza del fenomeno, mancando un sistema di rilevazione omogeneo; in Italia, in passato, è stata calcolata nell’ordine del 1-1,5% dei nati vivi, ma è attualmente in netto declino per la maggior attenzione nel coricare i neonati in posizione supina. Ora è stimabile attorno allo 0,5%, ovvero 250 nuovi casi SIDS/anno. Il picco è fra i 2 e 4 mesi di età, soprattutto nel periodo invernale; è più rara dopo i 6 mesi, eccezionale nel primo mese. La prevenzione della SIDS si pone come una assoluta priorità nella salute pubblica.

Morte in culla: sintomi e segni

Le vittime della morte in culla sono bambini sani che non mostrano nessun segno di malattia. Alcuni bambini mostrano dei sintomi qualche giorno prima della morte ed è consigliabile una comunicazione costante col pediatra sulla salute del bambino. Tra questi sintomi ci sono tosse, sibili, vomito, diarrea e scarso appetito. I bambini possono sembrare irrequieti o irritabili o apparire pallidi e svogliati. Progressivamente la pelle del bambino assume un colorito bluastro, le mani e i piedi si raffreddano e sopraggiungono difficoltà respiratorie. Internamente i polmoni e il canale respiratorio diventano gonfi e infiammati. L’acqua e il sangue si depositano nei polmoni e i vasi che collegano i polmoni al flusso sanguigno sono soggetti a spasmi.

Come evitare la morte in culla del neonato o del lattante?

Vi riportiamo di seguito le principali linee guida, l’adozione di queste regole, nei Paesi in cui sono state diffuse attraverso campagne di informazione di massa in larga parte di matrice governativa, hanno comportato una riduzione della percentuale di casi.

  • Il piccolo deve essere messo a dormire in posizione supina, a pancia in su sin dai primi giorni di vita nella propria culletta, preferibilmente nella stanza dei genitori;
  • l’ambiente non deve essere troppo caldo con una temperatura attorno ai 20 gradi, da evitare l’eccesso di vestiti e coperte troppo pesanti;
  • il materasso deve essere della misura esatta della culla e non troppo soffice; no a peluche, paracolpi, giocattoli e altri oggetti in prossimità del bimbo;
  • i piedini devono toccare il fondo della culla o del lettino;
  • da evitare anche la condivione del letto con i genitori;
  • l’ambiente deve essere libero da fumi;
  • l’uso del ciuccio durante il sonno, raccomandato in alcuni Stati, è da consigliarsi solo dopo il mese di vita.

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Differenza tra sciatalgia e finta sciatalgia

 

MEDICINA ONLINE MUSCOLO PIRIFORME SINDROME SCIATICA NERVO SCIATICO DIFFERENZE ANATOMIA FUNZIONI PATOLOGIE INFIAMMAZIONEUna sciatica è tipicamente causata da un’ernia del disco: il nervo sciatico è composto da più radici che hanno origine nel foro tra due vertebre lombari; se una parte del disco fuoriesce e comprime una di queste radici, si proverà dolore o formicolio lungo il percorso del nervo che origina dalla radice compressa.
Le sciatalgie, inoltre, possono essere causate da:

  • problemi metabolici (es. diabete);
  • scompensi nutrizionali;
  • problemi circolatori;
  • molto più raramente, infezioni del nervo, osteofiti (artrosi) o tumori.

Quando la sciatalgia non è sciatalgia

Gli stessi sintomi di una sciatalgia possono essere causati dalla sindrome del piriforme, ovvero una contrattura del muscolo piriforme, situato tra osso sacro e femore, che comprime il vicino nervo sciatico, a tal proposito leggi: Sindrome del piriforme: sintomi, esercizi, cura e recupero

Spesso, invece, vengono diagnosticati come sciatalgie dolori che sono invece da attribuirsi a una postura o deambulazione scorrette, a causa delle quali i muscoli delle gambe devono lavorare in maniera asimmetrica: se una gamba si sforza più dell’altra, i suoi muscoli inizieranno a un certo punto a “lamentarsi”, producendo sintomi simili a quelli di una sciatalgia vera e propria. Anche la tensione della dura madre può produrre una trazione sulle radici nervose, creando sintomi simili. Infine, vi è il fattore iatrogenico: alcuni medicinali (ad esempio le statine contro il colesterolo) danneggiano il metabolismo cellulare dei muscoli, i quali possono diventare dolenti, spesso in un arto, mimando così i sintomi di una sciatalgia.

La sindrome della cauda equina

In rari casi, un’ernia del disco può essere centrale e comprimere quindi non solo i nervi che raggiungono le gambe: questa eventualità si chiama sindrome della cauda equina ed è caratterizzata da sciatalgia in entrambe le gambe con perdita della ritenzione urinaria e intestinale: questa sindrome costituisce un’emergenza chirurgica e in questo caso bisogna rivolgersi immediatamente al pronto soccorso.
Ora sai che quando avverti il tipico dolore da sciatalgia, potrebbe anche trattarsi di un altro tipo di patologia. Per questo, il nostro consiglio è quello di rivolgerti subito al tuo medico o a un esperto di chiropratica, invece di rimanere a letto in compagnia degli antidolorifici.

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Differenza tra malattia, patologia, sindrome, disturbo, disordine, morbo

medicina-online-dott-emilio-alessio-loiacono-medico-chirurgo-roma-differenze-tra-sclerosi-laterale-amiotrofica-sclerosi-multipla-riabilitazione-nutrizionista-infrarossi-accompagno-commissioni-cavitaziDisturbo (o disordine)

Si indica con il termine “disturbo” (o “disordine“, i due termini sono sinonimi) qualunque quadro clinico di sofferenza psichica che rappresenti un’entità medica definita, annoverata nelle classificazioni ufficiali di riferimento. Quando il disturbo deriva da un’alterazione anatomica dell’encefalo, macroscopica o microscopica, si parla di disturbo psichico organico, mentre quando esso si presenta in assenza di qualsiasi lesione organica a carico dell’encefalo, si parla di disturbo psichico funzionale (ad esempio “disturbo post traumatico da stress” o “disturbo ossessivo compulsivo”). Qualsiasi disturbo psichico organico rivela l’avvenuto danneggiamento di una struttura encefalica deputata a svolgere una definita attività fisiologica. Per esempio, l’incapacità di comunicare verbalmente (afasia) rivela un disordine organico grossolano a carico dell’area della corteccia cerebrale deputata all’articolazione e alla comprensione del linguaggio, che è situata nell’emisfero sinistro. Disturbi organici più fini, quasi molecolari (per esempio, alterazioni concernenti le micro-strutture delle cellule nervose che elaborano e rilasciano i cosiddetti “neuro-trasmettitori chimici”) sono responsabili delle più frequenti e gravi malattie della sfera psichica, che sono denominate “psicosi”.

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Malattia (o patologia)

Una malattia è una condizione anormale di un organismo vivente, causata da alterazioni organiche o funzionali, che ne compromettono la salute. La compromissione della salute è una alterazione dello stato fisiologico di un organismo capace di ridurre o modificare negativamente le funzionalità normali di quell’organismo. Una malattia per definizione è transitoria: ogni patologia ha infatti un termine che può essere rappresentato:

  • dalla guarigione dell’organismo;
  • dall’adattamento dell’organismo ad una diversa fisiologia (o ad una diversa condizione di vita);
  • dalla morte dell’organismo.

A differenza dei disturbi funzionali, i disturbi organici (non solo quelli psichici) rientrano nella grande categoria delle malattie: questo vocabolo – per analogia con le altre branche della medicina – riguarda infatti solo entità cliniche sostenute da alterazioni lesionali fisiche. Esempi di malattia sono il Morbo di Alzheimer (o “Malattia di Alzheimer”), il cancro e le malattie autoimmunitarie come l’artrite reumatoide. I termini “malattia” e “patologia” sono sinonimi.

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Sindrome

Il termine sindrome, invece, designa un insieme preciso di sintomi e segni insorti contemporaneamente, che costituisca un quadro clinico definito sebbene aspecifico, in quanto comune a due o più disturbi/malattie. Alcuni esempi: Sindrome di Münchhausen, Sindrome di Lowe, Sindrome di Fanconi. I medici ricorrono a questa etichetta in almeno due situazioni:

  1. nelle fasi iniziali del rapporto clinico-terapeutico con nuovi pazienti, finché non sono stati raccolti tutti gli elementi indispensabili a formulare una diagnosi sicura;
  2. nell’eventualità della comparsa di segni/sintomi nuovi durante un trattamento quando conviene integrare la diagnosi basilare.

Da quanto detto appare chiara la differenza tra sindromemalattia: quando un disturbo ha una causa bene riconoscibile e in qualche modo accertata, si parla di malattia o patologia; quando invece il disturbo è caratterizzato da una costellazione di segni e di sintomi, che si verificano insieme, ma che non è possibile ricondurre in maniera diretta e lineare ad una causa isolabile e univoca, si definisce sindrome. I termini “malattia” e “sindrome” quindi NON sono sinonimi, come non sono sinonimi “patologia” e “sindrome. Una data sindrome può essere causata da diverse patologie, proprio perché diverse patologie possono – pur nella loro diversità – determinare un insieme di sintomi e segni sovrapponibili. Il termine “sindrome” è utilizzato nella classificazione degli innumerevoli disturbi della sfera psichica (riflettendosi su quella fisica) dal momento che queste manifestazioni patologiche non hanno una causa precisa e determinabile in maniera unilaterale, definibile, lineare, bensì le variabili che concorrono a determinare una sindrome sono diverse, molteplici, inserite nel modo specifico in cui il soggetto le acquisisce, le compensa e le esprime nella forma di malessere e disagio di cui si lamenta.

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Morbo

La prima cosa da chiarire è che il termine “morbo” è sinonimo di “malattia” e quindi è anche sinonimo anche di “patologia”. Il termine morbo è più arcaico ed è ormai in disuso tra i medici, sostituito nella maggioranza dei casi da “malattia”. Il termine “morbo” è stato storicamente utilizzato per indicare malattie a decorso fatale, complesse, sconosciute o malcomprese e spesso incurabili. Quando in passato ci si trovava di fronte ad una malattia di questo tipo, spesso – ma non sempre – veniva chiamata con “morbo” seguito dal nome di chi l’aveva scoperta e/o descritta per primo, sia per motivi classificativi che come riconoscimento al primo grande passo verso la comprensione di una malattia di difficile comprensione. Esempi classici di morbo sono:

  • morbo di Alzheimer: descritto per la prima volta nel 1906, dallo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer
  • morbo di Parkinson: descritto per la prima volta nel 1917 dal medico inglese James Parkinson,
  • morbo di Crohn: descritto per la prima volta nel 1932 dal gastroenterologo statunitense Burrill Bernard Crohn;
  • morbo di Pott: descritto per la prima volta dal chirurgo inglese Percival Pott nella metà del ‘700.

Per questo motivo non si potrà mai dire “morbo di alzheimer” col minuscolo, proprio perché Alzheimer è un cognome e deve essere scritto maiuscolo: altrimenti sarebbe un errore.
Il termine “morbo”, pur se corretto, è attualmente un vocabolo in via di abbandono sia per rispetto del malato sia perché di alcuni “morbi” è stata trovata l’origine e la cura, ed in medicina si vuole quindi in un certo senso prendere le distanze dall’iniziale caratteristica di “sconosciuta” della patologia. In tempi moderni un dato “morbo” vede cambiato il suo nome in due modi fondamentali:

  • se la denominazione iniziale prevedeva l’uso del nome dello scopritore, la patologia viene in genere denominata in modo da sostituire il termine “morbo” con “malattia”: ad esempio il “morbo di Alzheimer” adesso si chiama preferibilmente “malattia di Alzheimer”, il “morbo di Pakinson” è ora denominato preferibilmente “malattia di Parkinson”.
  • se la denominazione iniziale NON prevedeva l’uso del nome dello scopritore, la malattia viene in genere denominata in modo da non includere il termine “morbo”: ad esempio il “morbo del legionario” adesso si chiama preferibilmente “legionellosi”.

Ci sono alcune eccezioni: ad esempio il Morbo di Pott, una malattia una volta mortale ed ora trattabile, adesso si chiama preferibilmente spondilite (e non “malattia di Pott”).

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Sindrome del pene piccolo: quando si può parlare di patologia?

MEDICINA ONLINE SESSO ANALE ANO RETTO LUBRIFICANTE FECI PAURA CLISTERE COUPLE AMORE DONNA PENE EREZIONE IMPOTENZA DISFUNZIONE ERETTILE VAGINA SESSULITA SESSO COPPIA JEALOUS LOVE COUPLE FL’organo genitale maschile, nella storia della civiltà occidentale è stato da sempre considerato come un elemento che andava ben al di là di una semplice parte del corpo. Come sottolinea David Friedman (2007) “il pene era un’idea, uno strumento concettuale, ma in carne e ossa, che determinava il posto dell’Uomo nel Cosmo”. Con questa affermazione è chiaro che pur riconoscendo il fatto “scientifico” che gli uomini abbiano un pene, non è altrettanto scontato immaginare l’idea che questi possano averne al riguardo, quello che solitamente arrivano a provarne a livello emotivo e soprattutto l’uso che ne fanno! Ogni cultura ha la sua proiezione giusta o sbagliata dell’organo genitale, quindi la corrispondente immaginativa che, inevitabilmente, solleva elementi psicologici e psicopatologici della sessualità maschile.

Anatomia tutta al maschile

Dando un breve sguardo alla storia è chiaro ad esempio quanto il pene venisse associato al potere. In primis un potere di tipo “divino”, infatti come sottolinea Sarah Dening in The Mythology of Sex quando un re succedeva ad un altro, era consuetudine che il nuovo eletto mangiasse il pene del suo predecessore onde assorbirne la sacra autorità. Ma anche nella Bibbia è facile ritrovare il membro virile, anche se sotto mentite spoglie (la coscia), dove venivano addirittura effettuati giuramenti sacri fra Israeliti. Infatti, come viene narrato dalla Genesi nel momento in cui Giacobbe lottò con Dio quest’ultimo gli toccò la cavità della coscia. Da quel momento sembra che Giacobbe ogni qual volta avesse dovuto fare giurare o promettere qualcosa a qualcuno invocasse l’importanza di mettere la mano sotto la sua coscia. A tale riguardo, la riprova sta nel fatto che molti dei traduttori della Bibbia hanno spesso utilizzato il termine “coscia” come eufemismo di pene.
Sembra abbastanza chiaro quindi che, sin dai tempi dei tempi, l’organo genitale maschile acquisti un significato importantissimo nella sperimentazione e affermazione di sé degli uomini.

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E le dimensioni?

Storicamente si sono osservati importanti passaggi legati al concetto delle dimensioni dell’organo genitale maschile anche se tendenzialmente l’idea di grande e grosso riecheggia fino a nostri giorni. In Grecia infatti, gli artisti erano soliti dipingere schiavi e forestieri con peni particolarmente enormi a segno di disprezzo e disdegno. Per i greci le dimensioni dovevano essere molto simili a quelle di un giovane atleta adolescente; nel pene veniva osservata “la misura della prossimità [dell’individuo greco] al potere divino, alla divina intelligenza…” (Friedman, 2007). Come viene sottolineato anche dagli scritti di Aristotele un pene piccolo era migliore di uno più grande, in quanto “scientificamente” nel secondo caso, lo sperma si raffredda, divenendo meno fecondo. Si ricorda quanto la curiosità della meccanica dell’erezione e dell’orgasmo siano cresciute costantemente con l’intelligenza dell’uomo. Al fine di fare maggiore chiarezza rispetto all’oscillazione dell’importanza del pene come piccolo, ovvero grande si deve arrivare fino ai romani, dove la divinità di Priapo (amato in Grecia, ma considerato nume minore) divenne l’icona più significativa, in quanto rappresentazione di estrema virilità. Priapo con il suo enorme membro poteva penetrare uomini e donne dando estrema prova di forza e potere.
Ecco quindi che un pene grande rappresentava il potere di Roma che si incarnava ed ogni uomo adulto che metteva in mostra la sua “nuda” verità (un esempio erano le terme romane) poteva suscitare negli altri una chiara e forte invidia.
Quindi tra i greci e i romani si osserva una particolare differenza nella concezione di dimensione del membro maschile associabile al concetto di “potere”, pur avendo in comune la rappresentazione mentale di forza associata a procreazione. Ma anche il concetto di “piacere” sembrerebbe essere percepito e vissuto con modalità differenti. Per i romani infatti era usuale, come rilevano alcuni referti importantissimi (un esempio sono gli affreschi rinvenuti nella Casa dei Vettii a Pompei), godere della breve esperienza fornita dalla vita. Un altro esempio può essere ancora più esaustivo: sempre a Pompei i romani erano soliti fare scolpire dei bassorilievi raffiguranti un pene eretto con una particolare effige: “Hic habitat felicitas (Qui abita la felicità).

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Il pene eretto è potere, il pene non eretto è mancata potenza

Quindi, nonostante le divergenze osservate nelle varie forme e soprattutto dimensioni del pene nelle diverse culture, l’organo genitale maschile continua ancora oggi a suscitare attenzioni e preoccupazioni da parte degli stessi uomini. Ciò che sembra essere rimasto ancorato alle idee e ai pensieri dei nostri avi è sicuramente l’associazione dell’organo sessuale maschile al concetto di “potere” e non a caso infatti, qualora in un uomo venissero riscontrate disfunzionalità dell’erezione, quest’ultimo si sentirebbe colpito da “impotenza“, che negli ultimi anni è stata più correttamente definita “disfunzione erettile“. A tale riguardo si ricorda quanto medici e sessuologi continuino ancora oggi ad evidenziare l’importanza nel ridefinire tale esperienza negativa. L’inesattezza del termine impotenza rispetto a quello più corretto di disfunzione erettile, può costantemente causare disagi di natura psicologica procurando nell’uomo una forte componente negativa di tipo ansioso-depressivo, coinvolgendolo in un malessere non più focalizzato solo sull’erezione, bensì generalizzato nell’esperienza di vita (non sono più in grado di fare nulla!). Molti uomini hanno la convinzione che il loro pene non sia collegato al loro cervello, come se avesse una propria autonomia. Spesse volte infatti anche nell’attività clinica viene osservata una forte tendenza a non comprendere l’esatta funzionalità dell’organo genitale, dando per scontato l’esistenza di un “pulsante”, situato ipoteticamente in prossimità del pene, che si è guastato e non risponde più a certi comandi. Tale fantasia è strettamente correlata ad un immaginario maschile che, come già accennato in precedenza, fa fatica a svincolarsi da certi stereotipi che continuano ad essere trasmessi culturalmente soprattutto dagli stessi appartenenti a questo “genere”.

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Dismorfofobia peniena e la sindrome da spogliatoio

Sembra che nel percorso evolutivo di un maschio “sano” la fantasia di non avere una dimensione del proprio organo genitale adeguata, conforme agli standard sociali, sia un passaggio pressoché obbligato. Quello che più colpisce riguarda essenzialmente la paura in tali individui di non sentirsi conformi anatomicamente rispetto alla dimensione del proprio organo genitale nello stato di riposo.
Ecco svelata la sindrome da spogliatoio. Infatti la maggior parte dei giovani adolescenti che iniziano ad entrare in contatto con i propri coetanei, oppure con individui anche più adulti durante l’attività sportiva, tendono a confrontarsi costantemente focalizzando soprattutto l’attenzione sulla zona genitale, rischiando di preoccuparsi ed incastrarsi in pensieri assolutamente impropri.
Lo stato di flaccidità del pene ha una dimensione del tutto variabile e questo dipende essenzialmente da alcuni fattori:

  • la struttura anatomica costituzionale dell’individuo;
  • agenti ambientali come temperature troppo elevate (il pene si distende), ovvero troppo fredde (il pene si restringe);
  • condizioni di “salute” dello stesso individuo.

Inoltre è importante sottolineare quanto la percezione che un uomo può avere del proprio organo genitale sia “visivamente” distorta rispetto al possibile confronto con un altro simile posizionato di fronte. L’auto-osservazione, se non effettuata allo specchio rimanderà costantemente una prospettiva completamente differente (alto-basso) rispetto a quanto osservato frontalmente. Il pene di chi abbiamo di fronte apparirà inevitabilmente più allungato e proporzionato! Spesse volte infatti, nell’attività clinica è possibile intervenire rapidamente su quegli individui che sentono di avere una certa inadeguatezza rispetto al proprio organo genitale, facendoli semplicemente confrontare con se stessi di fronte ad uno specchio. Se non sussistono altre disfunzionalità di tipo psicopatologico, la possibile presa di coscienza permetterà un primo passo importante verso il processo di adeguamento delle proprie sensazioni psico-corporee.
Cosa più pericolosa riguarda invece il disagio vissuto da alcuni uomini rispetto alla convinzione costante e destrutturate di non avere un organo genitale adeguato sia questo nello stato di flaccidità, che in quello di erezione.
La dismorfofobia peniena infatti evidenzia il forte stato stressogeno in un uomo a prescindere dall’età, dalle esperienze vissute e dal contesto sociale di riferimento. Tale stato è alla base di un costante disagio di tipo ansioso con presunti tratti depressivi. Il non riuscire a svincolarsi da pensieri ossessivi oltre ad incastrarlo in un circolo vizioso, portano lo stesso individuo ad isolarsi e chiudersi costantemente in se stesso allontanandolo quindi dal contesto sociale di appartenenza.
Le presunte motivazioni riguardano sia elementi psicologici o psicopatologici, ma anche possibili caratteristiche anatomiche dello stesso organo genitale.

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Qual è la dimensione “normale” dell’organo genitale maschile?

I diversi studi effettuati sulla misurazione del pene, considerando la difficoltà a procedere in un’indagine valutata come invasiva e le varie tecniche di misurazione utilizzate, hanno evidenziato alcune dimensioni standard, ovvero relative alla media della popolazione (normalità statistica). La concordanza dei dati evidenzia una dimensione a riposo pari a 8-10 cm in lunghezza (dalla radice dorsale del pene alla punta). Allo stato di erezione, invece, la lunghezza media varia tra i 12-16 cm con una circonferenza pari a 12 cm
Probabilmente l’uomo che rimane legato al concetto di potenza-virilità non valuterà positivamente tali dati numerici, bensì continuerà a confrontarli con le dimensioni degli organi genitali di uomini più dotati. Ecco che il confronto fatto con la pornografia può rimandare costantemente ad una visione distorta. A tale riguardo è necessario ricordare che un pene per essere definito piccolo, o come viene scientificamente nominato micropene deve avere una dimensione in erezione sotto i 7 cm. Questo è stato definito in base all’impossibilità, di un pene con tali dimensioni in erezione, di riuscire a penetrare la cavità vaginale. Infatti, le dimensioni del canale vaginale a riposo sono di circa 7,5 cm, quindi un pene che in erezione ne misura mediamente il doppio non avrà particolari difficoltà durante il coito. Avendo accennato alle caratteristiche dei genitali femminili è importante ricordare che la dimensione della larghezza vaginale ha invece una particolarità. Infatti, la vagina può essere definita una cavità virtuale, le sue pareti sono normalmente a contatto e quindi si adattano al pene durante il coito. Ha una grande elasticità e si conforma a dimensioni diverse, non perdendo mai il contatto con il pene che la penetra. Spesso alcuni uomini durante la penetrazione hanno la convinzione che il loro pene non sia adatto per quella vagina. Questo viene riportato essenzialmente in alcune sensazioni dove è presente un’abbondante lubrificazione vaginale. Forse sarebbe necessario ricordarsi però che, se la vagina è particolarmente lubrificata, la donna sta vivendo un costante e piacevole stato di eccitazione.

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Quando si può parlare di patologia?

Alcuni dati scientifici evidenziano quanto la richiesta di risoluzione di adeguamento psico-fisico rispetto ad una dismorfofobia peniena sia in aumento. Infatti dagli ultimi convegni di andrologia e sessuologia si evince un incremento di tali richieste. Durante le visite andrologiche il 20% richiede un possibile intervento risolutivo anche di tipo chirurgico, mentre l’80% di uomini che effettua una visita per disagi non inerenti alla possibile micropenia, comunque pone la domanda relativa alla presunta “normalità” della dimensione del loro organo genitale. Questo fa molto riflettere sulla “potenza” del confronto tra gli uomini, come anche sull’ipotesi che “essere migliori (potenti)” significhi avere un pene più grande! L’idea che l’ignoranza in materia e la scarsa educazione socio-affettiva delle persone continui a mantenere alto il grado degli stereotipi e dei pregiudizi, sembra confermare un forte disagio psicologico che risulta essere tendenzialmente invalidante. Esistono diversi quadri clinici, molto rari, che nell’età infantile e in quella adulta osservano una conformazione ridotta delle dimensioni del pene. In queste casistiche è possibile rilevare la vera forma patologica del micropene, quindi un organo genitale con una dimensione in erezione al di sotto dei 7 cm.
Vi sono sindromi genetiche come quella denominata Klinefelter, dove il soggetto nasce con una conformazione anatomica dei genitali esterni essenzialmente poco sviluppata.
Anche disagi di tipo endocrino come l’ipogonadismo-ipogonadotropo evidenziano una particolare difficoltà nello sviluppo dei genitali maschili. Inoltre, alcune forme di anomalie di tipo funzionale, se non risolte chirurgicamente, possono impedire un corretto sviluppo del pene, ovvero una regolare funzionalità erettile. Nello specifico si ricorda l’ipospadia (uno sbocco anomalo del meato uretrale).
Per risolvere alcune delle forme più gravi e pericolose di micropene si ricorre essenzialmente agli interventi chirurgici, ma vista la rarità di tali disfunzioni e la richiesta di allungamento del pene, tale metodica acquista sempre di più un interesse di tipo estetico.
A tale riguardo gli allungamenti del pene che, come sottolineano molti urologi ed andrologi nella maggior parte dei casi non sarebbero “funzionalmente” necessari, riguardano in primis la recisione del legamento sospensore e le innovative tecniche di stiramento ed elongazione dei corpi cavernosi.
Nel primo caso la possibilità di recidere tale legamento, che sostiene l’asta del pene alla base del pube sulla sacca scrotale, consente all’organo genitale di cadere a piombo sopra i testicoli acquistando in media circa 2 cm. Spesse volte tale intervento viene richiesto dagli attori porno per aumentare ulteriormente le loro dimensioni già consistenti.
Per quanto riguarda invece le tecniche di elongazione consistono in sedute definibili fisioterapiche, dove vengono applicati dei tutori all’organo genitale al fine di creare, per mezzo di una costante trazione, un aumento di circa 3 cm.

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Conclusioni

Il fenomeno della sindrome del pene piccolo sembra essere in costante aumento e l’importanza di una chiara diagnosi differenziale utile a comprender il vero stato delle reali dimensioni dell’organo genitale, diventa fondamentale nonché indispensabile.
Non è un caso che alcuni studiosi hanno rilevato quanto la richiesta di eventuali interventi di allungamento non fosse direttamente correlata ad una reale caratteristica di micropene. A tale riguardo il disagio rimanda essenzialmente ad una dismorfofobia peniena, che difficilmente si sarebbe risolta con l’ausilio di tecniche di allungamento chirurgiche e/o fisioterapiche.
Quando il disagio è più di natura psicologica diventa necessario un intervento sessuologico utile a ridimensionare il vissuto catastrofico, che si manifesta nell’espressione di una precisa inadeguatezza fisica.
La possibilità di rieducare e fare riappropriare alcuni uomini della loro sicurezza e stima di sé è alla base di una modificazione e di una migliore percezione di alcune parti del proprio corpo. Per quanto riguarda l’organo genitale, probabilmente si tratta di riappropriarsi di uno status di “potere” necessario al buon funzionamento intimo e soprattutto “relazionale”.

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Muscolo piriforme: anatomia, funzioni e cosa fare se è infiammato

MEDICINA ONLINE MUSCOLO PIRIFORME SINDROME SCIATICA NERVO SCIATICO DIFFERENZE ANATOMIA FUNZIONI PATOLOGIE INFIAMMAZIONE.jpgIl muscolo piriforme (musculus piriformis) presenta una forma triangolare. Unisce la superficie interna (o faccia pelvica) dell’osso sacro al femore ed è classificato tra i muscoli esterni dell’anca. E’ un muscolo abbastanza piccolo del corpo umano, ma svolge un ruolo fondamentale nel mantenimento della una postura corretta in ogni momento del giorno. Oltre a concorrere alla stabilizzazione dell’articolazione dell’anca, è principalmente un abduttore dell’anca. La sua azione è massima a 60° di flessione di anca quando perde le sue componenti di rotazione che sono: rotazione esterna prima dei 60°, rotazione interna dopo i 60° di flessione.

Origine e inserzione

Il musculus piriformis ha una forma triangolare che unisce la faccia interna pelvica dell’osso sacro al femore: in particolare è composto da tre o più fasci che prendono origine nella regione posta a lato del secondo, terzo e quarto foro sacrale anteriore oltre che dal margine della grande incisura ischiatica per andarsi ad inserire in un unico tendine sull’estremità superiore della superficie interna del grande trocantere femorale. Le sue fibre e fasci muscolari si dirigono quindi in modo obliquo verso il basso passando internamento al grande forame ischiatico, foro delimitato dal legamento sacrotuberoso e dal margine osseo compreso tra la spina iliaca postero-inferiore e la spina ischiatica. Suddivide il grande forame ischiatico in due canali sovrapposti, quello sovrapiriforme e quello sottopiriforme. Nella sua interezza il piriforme ha varie corrispondenze:

  • anteriormente con l’intestino retto, i vasi ipogastrici e il plesso sacrale
  • profondamente con l’osso sacro
  • nella parte extrapelvica con il grande gluteo e con l’articolazione dell’anca
  • superiormente con il nervo e i vasi glutei superiori
  • inferiormente con il nervo ischiatico, il nervo e i vasi glutei inferiori, il nervo e i vasi pudendi interni e il nervo cutaneo po­steriore del femore

Innervazione

I rami che innervano il muscolo piriforme sono quelli facenti parte del plesso sacrale L5, S1 e S2.

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Azione e Funzione

Quando facciamo punto fisso sul bacino, il piriforme agisce come un muscolo abduttore dell’anca: questa azione è massima a 60° di flessione dell’anca in quanto in questa posizione è minima e quasi nulla la sua seconda funzione di rotatore. Quest’ultima azione di rotazione è molto importante e cambia in base ai gradi di flessione dell’anca: quando questa è inferiore ai 60° il piriforme risulta essere un extrarotatore, quando è superiore ai 60° invece è un intrarotatore (in alcuni testi sono riportati i 90° di flessione). Con l’arto in carico, inoltre, impedisce anche eventuali brusche rotazioni interne del femore (come quando si appoggia il piede nella corsa). Quando invece il piriforme ha punto fisso sul femore, inclina controlateralmente il bacino portandolo in retroversione: la sua azione è in grado di fornire una rilevante forza di rotazione sull’articolazione sacro-iliaca e di spostare in avanti rispetto alle ali iliache la base del sacro e l’apice indietro. Infine questo muscolo posturale è importantissimo per la stabilizzazione dell’articolazione dell’anca stessa.

Patologie, dolori e postura

Quando parliamo del piriforme parliamo di un muscolo fondamentale per la stabilità e la postura corretta di una persona: per anni la sua importanza è stata trascurata, si pensava infatti che essendo un muscolo tanto piccolo rispetto per esempio ai muscoli addominali o al quadricipite femorale, non avesse molta importanza per l’equilibrio posturale e il benessere fisico del corpo. Il piriforme svolge la sua azione in tranquillità, ma in caso di posture non corrette (specialmente in posizione seduta) e mal posizionamento del bacino, si ritrova a svolgere il lavoro che sarebbero di altri muscoli come il piccolo e medio gluteo (ciò succede ovviamente in altri casi e con altri muscoli come il tensore della fascia lata). Oltre a creare squilibri muscolari e problemi al movimento in caso di mal funzionamento, il muscolo piriforme se contratto e infiammato può provocare dolori alla schiena, lombalgia e sciatalgia molto simili a quelli dati da un’ernia del disco: in questi casi si parla di sindrome del piriforme, la patologia probabilmente più famosa legata a questo muscolo, a tal proposito leggi: Sindrome del piriforme: sintomi, esercizi, cura e recupero

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Differenza tra HIV e AIDS: sono uguali?

MEDICINA ONLINE SISTEMA IMMUNITARIO IMMUNITA INNATA ASPECIFICA SPECIFICA ADATTATIVA PRIMARIA SECONDARIA DIFFERENZA LABORATORIO ANTICORPO AUTO ANTIGENE EPITOPO CARRIER APTENE LINFOCITI BHIV e AIDS non sono affatto la stessa cosa, anche se ovviamente sono termini tra loro legati. Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

Il virus dell’immunodeficienza umana (anche chiamato HIV, acronimo dall’inglese “human immunodeficiency virus”) è un retrovirus del genere lentivirus, caratterizzato dal dare origine a infezioni croniche che sono scarsamente sensibili alla risposta immunitaria ed evolvono lentamente, ma progressivamente e che, se non trattate, possono avere un esito fatale. L’HIV si trasmette in molti modi, ad esempio tramite i rapporti sessuali (80% dei casi), trasfusioni di sangue contaminato e aghi ipodermici e tramite trasmissione verticale tra madre e bambino durante la gravidanza, il parto e l’allattamento al seno.

La sindrome da immunodeficienza acquisita (anche chiamata AIDS, acronimo dall’inglese “acquired immune deficiency syndrome”) è una patologia del sistema immunitario umano. La malattia interferisce con il sistema immunitario limitandone l’efficacia, rendendo le persone colpite più suscettibili alle infezioni, in particolare a quelle opportunistiche, e allo sviluppo di tumori; tale vulnerabilità aumenta con il progredire della malattia.  L’AIDS è causata dal virus dell’immunodeficienza umana (HIV).

Da quanto detto appare chiara la differenza tra HIV e AIDS: il primo è un virus ed è responsabile della seconda.

Per approfondire:

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Articolazione temporo mandibolare (ATM): anatomia, funzioni e patologie

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Anatomia dell’articolazione temporo-mandibolare

L’articolazione temporo-mandibolare (da cui l’acronimo “ATM“), mostrata nel quadrato evidenziato in rosso nella figura in alto, è una diartrosi condiloidea doppia che si occupa di articolare i due condili mandibolari con le fosse mandibolari delle due ossa temporali. L’articolazione viene considerata doppia perché tra il condilo mandibolare e le fosse mandibolari si inserisce un disco che va a suddividere l’articolazione in:

  • temporo-meniscale;
  • mandibolo-meniscale.

Entrambe le superfici articolari sono rivestite da fibrocartilagine composta da 4 strati sovrapposti. Il disco invertebrale invece ha una forma ovolare ed è formato da una parte di tessuto e una parte di cartilagine.

Le ossa presenti nell’articolazione sono:

  • processo condiloideo: ha una forma oivoidale che anteriormente e inferiormente si ristringe;
  • fossa mandibolare: è laterale all’ala dello sfenoide e posteriore al tubercolo articolare; risulta essere inclinata di 25° rispetto al piano occlusale.

I legamenti presenti sono:

  • legamento temporo-mandibolare;
  • legamento collaterale;
  • legamento sfeno-mandibolare;
  • legamento stilo-mandibolare.

Leggi anche: Articolazioni mobili, semimobili, sinoviali e fisse: struttura e funzioni

Funzioni dell’articolazione temporo-mandibolare

L’articolazione temporo-mandibolare si occupa di far muovere la mandibola per favorire la fonazione e la masticazione. In particolare si distinguono i seguenti movimenti:

  • movimenti simmetrici: apertura, chiusura, protusione, retrusione;
  • movimenti asimmetrici: lateralità, masticatori, movimenti automatici;
  • movimenti limite;
  • movimenti di contatto: quelli che prevedono il contatto fra i denti;
  • movimenti liberi.

Leggi anche: Angolo goniaco (angolo goniale): dove si trova e quanto deve misurare per avere un bel profilo?

Patologie dell’articolazione temporo-mandibolare

Come qualsiasi parte del nostro corpo, anche l’articolazione temporo-mandibolare può essere interessata da patologie, traumi e malformazioni che vanno trattate con dei trattamenti specifici, tra queste le più diffuse sono:

  • sindrome temporo-mandibolare;
  • lussazione temporo-mandibolare;
  • dislocazione del menisco;
  • frattura della mandibola;
  • sindrome di Costen.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
Direttore dello Staff di Medicina OnLine

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Apnea ostruttiva del sonno: cause, rischi, trattamenti e prevenzione

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma APNEA OSTRUTTIVA DEL SONNO CAUSE RISCHI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgL’apnea ostruttiva del sonno (anche chiamata apnea notturna di tipo ostruttivo, o OSA) è una condizione medica caratterizzata da interruzioni nella respirazione durante il sonno dovute all’ostruzione – totale o parziale – delle vie aeree superiori. Il disturbo interessa più frequentemente gli uomini delle donne e nelle donne è più frequente dopo la menopausa.
Oltre all’apnea notturna di tipo ostruttivo, esistono altri due tipi di apnea notturna:

  • Apnea notturna di tipo centrale (CSA): consiste in un’assenza di attività respiratoria, dovuta a una perdita transitoria dello stimolo nervoso diretto verso i muscoli respiratori durante il periodo di sonno. Questi casi sono poco frequenti, eccetto che nei bambini prematuri, e sono dovuti, di norma, a problemi neurologici o neuromuscolari.
  • Apnea notturna di tipo misto: si ricade sotto tale definizione quando l’apnea notturna di tipo ostruttivo e l’apnea notturna di tipo centrale si associano nello stesso soggetto.

I tre tipi di apnea notturna possono determinare la comparsa della Sindrome delle apnee nel sonno (OSAS).

Leggi anche: Differenza tra apnea ostruttiva, centrale e mista durante il sonno

Apnee: livelli di gravità

Diversi sono i livelli di gravità della patologia:

  • si ha apnea quando l’interruzione del respiro va dai 10 secondi e meno di 3 minuti;
  • si ha ipopnea quando si ha una riduzione parziale del respiro;
  • si ha il RERA (Respiratory Effort Related Arousal) quando c’è limitazione della respirazione con progressivo aumento dello sforzo respiratorio seguito da un repentino sblocco.

Leggi anche: Dispnea ansiosa, notturna e cardiaca: sintomi, diagnosi e cura

Quali sono le cause ed i fattori di rischio dell’apnea ostruttiva del sonno?

Alcune condizioni favoriscono l’insorgenza delle apnee del sonno:

  • obesità/sovrappeso
  • ostruzione delle vie aeree superiori (naso, bocca, gola)
  • abuso di bevande alcoliche prima di andare a dormire
  • assunzione di sonniferi

Quali sono i sintomi dell’apnea ostruttiva del sonno?

Chi soffre di apnee ostruttive del sonno russa in modo molto evidente fin dalle prime fasi di sonno (il russare diventa via via più forte fino a quando il soggetto non smette di respirare per qualche secondo, per poi riprendere a respirare improvvisamente e dar vita a un nuovo ciclo che si ripete, identico). Diversi i sintomi legati a questo disturbo:

  • eccessiva sonnolenza diurna
  • difficoltà a concentrarsi
  • colpi di sonno
  • cefalea e/o bocca asciutta al risveglio
  • sudorazioni notturne
  • risvegli improvvisi con sensazione di soffocamento
  • necessità di minzione notturna
  • impotenza

Leggi anche: Perché si russa e quali sono i rimedi per smettere di russare? I pericoli dell’apnea ostruttiva del sonno

Come prevenire l’apnea ostruttiva del sonno?

Per prevenire l’insorgenza delle apnee ostruttive del sonno è consigliabile:

  • perdere peso se si è sovrappeso oppure obesi;
  • mangiare in modo sano e fare attività fisica costante, anche moderata;
  • evitare il fumo;
  • evitare gli alcolici, soprattutto prima di andare a dormire.

Diagnosi

Si ha la sindrome delle apnee ostruttive nel sonno quando il numero di apnee è uguale o superiore a 5 episodi per ora, oppure quando si ha almeno un numero di eventi uguale o superiore a 15 accompagnati da evidenti sforzi respiratori. La diagnosi si basa prima di tutto sui sintomi riferiti dal paziente e dal partner. Il medico, in caso di sospetto, può sottoporre il soggetto a misurazioni strumentali di vari parametri attraverso:

  • Polisonnografia: consiste nella misurazione, durante alcune ore di sonno notturno, del flusso aereo, del livello di ossigeno nel sangue, della frequenza cardiaca, della mobilità respiratoria toracica e addominale e della postura nel sonno.
  • Poligrafia respiratoria (o monitoraggio cardio-respiratorio notturno): l’esame consiste nel monitoraggio dei principali segnali cardio-respiratori durante il sonno.
  • Elettroencefalogramma: per esaminare l’attività elettrica del cervello.
  • Elettromiografia degli arti: per esaminare l’attività muscolare.

Leggi anche: Asfissia: sintomi, cure ed in quanto tempo si muore

Trattamenti

In generale la terapia prevede:

  • l’uso del Cpap (Continuous positive air way pressure): è una maschera che si applica su naso e bocca e che forza il passaggio dell’aria, facilitando il respiro.
  • l’impiego della terapia chirurgia: può consistere nella correzione del setto nasale deviato o nell’asportazione delle tonsille ipertrofiche, a seconda del livello e del tipo di ostruzione riscontrato nelle vie aeree superiori.

I trattamenti farmacologici sono volti sia a contrastare i sintomi che a correggere le cause del disturbo.

Consigli

Ai pazienti che soffrono di apnee notturne viene consigliato di:

  • perdere peso, se sono obesi o in sovrappeso;
  • evitare bevande alcoliche e sonniferi;
  • dormire su un fianco;
  • trattare i disturbi eventualmente presenti a carico delle vie aeree superiori.

L’apnea notturna è pericolosa per la vita di chi ne soffre?

No, almeno in modo diretto: non c’è il rischio che sospendendo la respirazione non vi sia più modo di riprenderla; tuttavia la sindrome delle apnee nel sonno, in particolare quelle da cause ostruttive, è un fattore di rischio di aumentata mortalità nella popolazione generale. Se non viene curata l’apnea nel sonno determina indirettamente e cronicamente un aumento del rischio di eventi cerebrovascolari come l’ictus, di problemi cardiaci e di infarti. Inoltre le apnee nel sonno possono anche provocare un peggioramento della qualità della vita del paziente a causa di:

  • maggiore possibilità di incidenti in automobile,
  • sonnolenza durante il giorno,
  • incapacità di concentrazione,
  • scarso rendimento nello studio o sul lavoro,
  • diminuzione di memoria.

Infine se il paziente soffre di diabete o ipertensione, la presenza di apnee rende più difficile il controllo di queste malattie, per questo motivo è importante intervenire in tempo con terapie e prevenzione adeguata.

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