Si può vivere senza bere acqua? Per quanto tempo?

Perdiamo una lattina di acqua ogni ora quanta acqua bere d'estate per evitare la disidratazioneL’acqua, insieme al cibo ed all’aria, è il bene più prezioso per l’uomo: il suo corpo, infatti, è composto per gran parte di acqua, che viene assunta durante la giornata tramite l’introduzione di liquidi con bevande e cibi; a tal proposito leggi anche: Quanti litri e percentuale di acqua sono presenti nel nostro corpo?

L’acqua è veramente importante per il corretto funzionamento del corpo, tanto che è importante l’assumerne almeno 1,5/2 litri al giorno, che possono salire fino al doppio o oltre in casi eccezionali, come ad esempio:

  • una sudorazione troppo intensa, tipica in estate e con elevata umidità;
  • una perdita elevata di liquidi a causa di varie condizioni e patologie (ad esempio diarrea/ vomito prolungati; ustioni importanti…)
  • durante attività fisiche intense e prolungate;
  • in individui con elevati % di massa magra e metabolismo basale (ad esempio nei body builder).

Ma quanto può resistere un uomo senza bere?
Una risposta esatta non esiste, perché dipende da una grande quantità di fattori, principalmente:

  • sesso del soggetto;
  • metabolismo basale;
  • età del soggetto;
  • la corporatura del soggetto;
  • stato di salute generale.

Vi fornisco alcuni esempi. A parità di temperatura, umidità e condizioni di salute generali:

  • un bambino appena nato resisterebbe per un terzo del tempo di un uomo adulto;
  • un ottantenne resisterebbe molto meno di un soggetto con la metà degli anni;
  • un body builder resisterebbe meno di un individuo con massa muscolare “normale”, dal momento che il suo metabolismo basale (e quindi il suo fabbisogno idrico giornaliero, valori che sono direttamente proporzionati) è più elevato del normale;
  • una donna ha potenzialmente la possibilità di resistere più a lungo di un maschio, perché ha un metabolismo basale mediamente più basse e tende ad avere maggiori risorse di liquidi a causa della superiore ritenzione idrica;
  • una donna incinta resiste meno senza bere rispetto ad una donna non in gravidanza;
  • un soggetto molto ansioso ha una resistenza alla disidratazione prolungata, minore di un soggetto calmo;
  • un atleta professionista di sport di resistenza (quindi che non possiede elevata massa muscolare, come avviene invece in atleti di sport di potenza) ha una resistenza alla disidratazione maggiore rispetto ad un individuo sedentario e ad un atleta di sport di potenza;
  • un fumatore ha una resistenza alla disidratazione minore rispetto ad un non fumatore;
  • un soggetto in salute resiste di più senza idratazione, piuttosto di uno che soffre di vomito, diarrea, diabete, cardiopatie ed ustioni gravi: la salute generale è importantissima per assicurare la più elevata resistenza possibile.

La resistenza dipende inoltre da vari fattori esterni, come il tipo di ambiente (e quindi temperatura ed umidità) in cui ci si trova: a parità di soggetto, nel deserto servirebbero quattro litri di acqua al giorno per una corretta idratazione, mentre a temperature miti ne basterebbero meno della metà. Il fabbisogno idrico giornaliero dipende anche fortemente dal tipo di attività che si compie: quando si dorme, per esempio, si riduce la perdita di liquidi, mentre quando si svolge un lavoro faticoso – effettuato magari sotto il sole estivo – può ovviamente far perdere una grandissima quantità acqua e minerali.

Leggi anche: Perdiamo una lattina di acqua ogni ora: quanta acqua bere d’estate per evitare la disidratazione?

In linea generale, con una temperatura ambientale attorno ai 15°C e senza sforzi eccessivi, un essere umano adulto di 40 anni in salute può resistere mediamente una settimana intera senza bere, purché si nutra almeno dei liquidi contenuti nei cibi freschi (specie frutta e verdura). A ogni modo, la disidratazione porta conseguenze in poco tempo, spesso anche gravi: senza acqua la volemia (cioè il nostro volume sanguigno circolante) diminuisce gradatamente e quando si passa da un livello normale di circa 5 litri, da un livello inferiore ai 3,5 litri, si assiste alla comparsa dei seguenti sintomi:

  • astenia (debolezza);
  • sete;
  • ansia;
  • malessere generale;
  • aumento della frequenza respiratoria;
  • tachicardia;
  • ipotensione arteriosa;
  • vertigini;
  • allucinazioni visive/uditive;
  • confusione.

Successivamente si può assistere ad una progressiva perdita di coscienza ed infine alla morte del soggetto, in modo simile a quello che avviene in una morte da dissanguamento.

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Femore: anatomia, funzioni e muscoli in sintesi

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma FEMORE NATOMIA FUNZIONI SINTESI Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgIl femore (dal latino “femur” che significa “coscia”; in inglese “femur“) è un osso dell’arto inferiore che costituisce lo scheletro della coscia ed anche parte dell’anca e del ginocchio. È l’osso più lungo, voluminoso e resistente dello scheletro umano.

Funzioni
Il femore ha varie funzioni:

  • rappresenta lo scheletro della coscia, che unisce l’anca al ginocchio;
  • insieme alle altre ossa e muscoli del bacino e dell’arto inferiore, permette la deambulazione umana;
  • è fondamentale per la ripartizione del peso corporeo lungo tutto l’arto inferiore;
  • entra nella costituzione delle articolazioni dell’anca e del ginocchio;
  • è sede di inserzione per molti muscoli della coscia e della gamba.

Anatomia
Il femore è formato da:

  • un corpo (diafisi);
  • 2 estremità (epifisi), delle quali quella prossimale si articola con l’osso dell’anca formando l’articolazione coxofemorale, mentre quella distale si articola con la rotula e la tibia, formando l’articolazione del ginocchio. Ciascuna porzione ha una particolare anatomia e possiede alcune zone specifiche, che fungono sia da punto d’origine sia da punto d’inserzione per muscoli e legamenti.

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Epifisi prossimale
L’estremità prossimale del femore è la porzione ossea più vicino al tronco. Del resto, nel linguaggio medico-anatomico, il termine prossimale significa “più vicino al centro del corpo” o “più vicino al punto d’origine” (N.B: per convenzione, il punto d’origine di qualsiasi osso che diparte dal tronco è il tronco stesso).
L’estremità prossimale presenta una morfologia tale, che le permette di unirsi perfettamente all’acetabolo del bacino (l’acetabolo è una concavità, simile a una ciotola) e formare l’articolazione dell’anca.
Le componenti strutturali rilevanti dell’estremità prossimale sono 6:

  • La testa: è la parte più prossimale del femore. Proiettata in direzione mediale, ha le sembianze di una sfera, precisamente di un 2/3 di sfera. Possiede una superficie liscia e una piccola depressione (fovea capitis), che funge da punto d’inserzione per il legamento rotondo. Il legamento rotondo è uno dei legamenti più importanti dell’articolazione dell’anca: un suo capo è legato alla testa del femore e l’altro suo capo all’acetabolo.
  • L’acetabolo è un incavo di natura ossea, con sede nel bacino, il cui ruolo è accogliere la testa del femore.
  • Il collo: è la breve sezione di osso femorale che collega la testa al corpo del femore. Dall’aspetto molto simile a un cilindro, è leggermente piegato in direzione mediale: questa piegatura, nell’essere umano adulto, forma un angolo di circa 130° con il collo.
    L’angolo in questione è particolarmente importante, in quanto permette all’articolazione dell’anca di godere di un notevole range di movimento.
  • Il grande trocantere: è un processo osseo (o proiezione ossea) che origina dal corpo e si colloca lateralmente, rispetto al collo. Ha forma quadrangolare e un’anatomia particolare, che gli permette di accogliere i capi terminali di numerosi muscoli, coinvolti nel movimento dell’anca e della coscia (muscolo piriforme, muscolo otturatore esterno, muscolo otturatore interno, muscoli gemelli, muscolo piccolo gluteo e muscolo medio gluteo).
  • Il grande trocantere è palpabile: il lettore può apprezzarne la presenza al tatto, toccando il lato esterno-alto di una delle sue due cosce.
    Il piccolo trocantere: è un processo osseo di dimensioni inferiori al grande trocantere, che ha origine sul corpo del femore, in una zona con posizionamento postero-laterale. Dalla forma conica e tozza, sporge appena sotto il collo e ha un orientamento opposto a quello del grande trocantere (quindi “punta” verso l’interno, cioè in direzione mediale).
    Il piccolo trocantere serve come punto d’inserzione per le porzioni terminali dei tendini dei muscoli grande psoas e iliaco (che combinati insieme prendono il nome di ileo-psoas).
  • La linea intertrocanterica anteriore: situata sulla superficie anteriore del femore, è una cresta ossea con orientamento infero-mediale (cioè va verso il basso e verso l’interno), che unisce tra loro i due grandi trocanteri.
  • La linea intertrocanterica anteriore rappresenta il punto d’inserzione per il legamento iliofemorale, uno dei legamenti più importanti e resistenti dell’articolazione dell’anca.
    La cresta intertrocanterica posteriore: situata sulla superficie posteriore del femore, è una cresta ossea con orientamento infero-mediale, che collega tra loro i due trocanteri.
    Lungo il suo breve percorso, presenta un tubercolo arrotondato, chiamato tubercolo quadrato, che accoglie il capo terminale del muscolo quadrato del femore.

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Diafisi
La diafisi, o corpo del femore, risulta caratterizzata da tre facce: una faccia anteriore, una postero-mediale e una postero-laterale. Le due facce posteriori sono divise da una linea sporgente, la linea aspra. Questa, in corrispondenza della metafisi prossimale si biforca, dando origine alla tuberosità glutea (vi si inserisce il muscolo grande gluteo) e alla linea pettinea (vi si inserisce il muscolo pettineo). La biforcazione in prossimità della metafisi distale dà origine ad una regione depressa, chiamata faccia poplitea. In prossimità di questa faccia scorrono i vasi poplitei, che hanno la caratteristica di avere le arterie più superficiali rispetto alle vene.

Epifisi distale
L’epifisi distale del femore presenta, posteriormente, due grosse superfici ossee convesse, i condili femorali (uno mediale, l’altro laterale). I condili, rivestiti di cartilagine articolare, fanno parte della complessa articolazione del ginocchio. Tra i due condili vi è uno spazio, la fossa intercondiloidea. Anteriormente, i due condili convergono nel formare la superficie patellare, per l’articolazione con la patella. Sui condili prendono inserzione i due legamenti crociati (anteriore e posteriore), e due menischi (mediale e laterale), in quanto non vi è perfetta corrispondenza tra i condili del femore e le superfici condiloidee della tibia. I menischi si dispongono a contornare i due condili, mentre i legamenti crociati si incrociano all’interno dello spazio intercondiloideo.

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Muscoli relativi al femore
La tabella sottostante riporta l’elenco dei 22 muscoli che originano o terminano in corrispondenza del femore.

Muscolo Capo terminale o capo iniziale Sede di contatto sul femore
Muscolo iliaco Capo terminale Piccolo trocantere
Muscolo grande psoas Capo terminale Piccolo trocantere
Muscolo grande gluteo Capo terminale Tuberosità glutea
Muscolo medio gluteo Capo terminale Superficie laterale del grande trocantere
Muscolo piccolo gluteo Capo terminale Parte anteriore del grande trocantere
Muscolo piriforme Capo terminale Margine superiore del grande trocantere
Muscolo gemello superiore Capo terminale Grande trocantere
Muscolo otturatore interno Capo terminale Superficie mediale del grande trocantere
Muscolo gemello inferiore Capo terminale Grande trocantere
Muscolo quadrato femorale Capo terminale Cresta intertrocanterica posteriore
Muscolo otturatore esterno Capo terminale Fossa trocanterica (piccola depressione in prossimità del grande trocantere; si veda la figura del grande trocantere).
Muscolo pettineo Capo terminale Linea pettinea
Muscolo adduttore lungo Capo terminale Parte mediale della linea aspra
Muscolo adduttore breve Capo terminale Parte mediale della linea aspra
Muscolo grande adduttore Capo terminale Parte mediale della linea aspra e tubercolo adduttore
Muscolo vasto laterale Capo iniziale Grande trocantere e parte laterale della linea aspra
Muscolo vasto intermedio Capo iniziale Superficie frontale e laterale del femore
Muscolo vasto mediale Capo iniziale Sezione distale della linea intertrocanterica e parte mediale della linea aspra
Bicipite femorale Capo iniziale Parte laterale della linea aspra
Muscolo popliteo Capo iniziale Sotto l’epicondilo laterale
Muscolo gastrocnemio Capo iniziale Dietro il tubercolo adduttore, sopra l’epicondilo laterale.
Muscolo plantare Capo iniziale Sopra il condilo laterale

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Disturbo da somatizzazione: caratteristiche, diagnosi e decorso

MEDICINA ONLINE CERVELLO TELENCEFALO MEMORIA EMOZIONI CARATTERE ORMONI EPILESSIA STRESS RABBIA PAURA FOBIA SONNAMBULO ATTACCHI PANICO ANSIA VERTIGINE LIPOTIMIA IPOCONDRIA PSICOLOGIA DEPRESSIONE TRISTE STANCHEZZA PSICOSOMAIl Disturbo da somatizzazione è un disturbo polisintomatico la cui caratteristica essenziale consiste nella massima estremizzazione degli aspetti presenti nel disturbo somatoforme. La definizione odierna di questa patologia è simile alla sindrome di Briquet, il quale nel 1859 fu il primo a distaccarla dall’isteriaper i non discontinui, ma cronici disturbi sul piano fisico, che coinvolgono più organi e non possono essere collegabili a cause conosciute.

Psichiatria (organicista, somatopsichica)

Secondo il DSM-IV-TR (text revision), pubblicato nel 2000 dall’American Psychiatric Association (APA), il Disturbo da somatizzazione va considerato come un tipico esempio di classificazione nosografica residuale, ossia per esclusione: quando i medici organicisti non sono in grado d’approdare ad alcuna diagnosi e terapia efficaci, allora riconducono il soggetto e il suo caso clinico all’interno di quest’etichetta. Ma gli stessi psichiatri brancolano nel buio riguardo a eziologia e cura. Pertanto di regola ci si limita a un trattamento solo sintomatico e palliativo. A volte persino la somministrazione di antidolorifici, blandi come il paracetamolo oppure piuttosto forti come il ketorolac o certi oppiodi-mimetici, per es. il tramadolo, altrimenti usati nei decorsi post-operatori e in oncologia, sortisce soltanto un rebound, vale a dire un effetto boomerang.

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Caratteristiche diagnostiche

Tale sindrome si presenta spesso come caso misto, in quanto consente il verificarsi di tutte le combinazioni possibili fra sintomi dolorosi soggettivi e segni oggettivi confermabili attraverso una qualche analisi clinica (reperti di laboratorio ed esame fisico). Perciò il sussistere di un qualche tipo di riscontro oggettivo può costituire anche solo una semplice coincidenza: il paziente può accusare lamentele indipendentemente dalla loro accertabilità obiettiva e dalla remissione e guarigione degli eventuali segni anatomopatologici.

Diagnosi differenziale

La sintomatologia è di natura vaga, spesso mal definibile però comunque molto grave: disfagia, perdita della voce, dolore addominale o in qualsiasi altra parte del corpo, nausea, vomito, convulsioni, nevralgie, sonnolenza, paralisi, mancamenti, squilibri della pressione arteriosa, dispareunia, vari difetti dell’organo visivo, arrivando alla cecità.

Questo quadro può essere confuso con patologie mediche dove sono presenti segni somatici altrettanto poco chiari quanto molteplici e seri, dall’emocromatosi al lupus eritematoso sistemico, dalla sclerosi multipla all’iperparatiroidismo.

La diagnosi differenziale dev’essere compiuta anche rispetto a tutta una serie di psicopatologie apparentemente familiari ed elencate nel DSM e nell’ICD-10dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), dalla schizofrenia all’ipocondria.

Decorso

Il Disturbo da somatizzazione è una patologia cronica e fluttuante, che si risolve in una guarigione completa solo di rado. Con una ciclicità periodica il paziente accusa nuove crisi sintomatiche acute che lo spingono a richiedere ulteriore attenzione medica. Viene consigliato il solo rapporto di sostegno con un medico di fiducia. Una rilevante quota di malati, rifiutando l’idea che i suoi disturbi possano avere un’origine psicologica, evita un aiuto in tale direzione e si rivolge a molti dottori e specialisti cercando nuovi esami clinici e un trattamento che lo soddisfi sul piano fisico.

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Epidemiologia

La sua incidenza la rende non molto comune e varia a seconda degli studi effettuati dallo 0,2% al 2,0%. Molto rara la sua comparsa negli uomini, colpisce prevalentemente le donne.

Legislazione

Per la quantità e qualità dei sintomi, questa patologia è paragonabile ai disturbi organici della summenzionata portata, poiché anch’essa provoca un’invalidità totale. Tuttavia la commissione del Ministero della Salute ritiene che una sindrome del genere, per quanto riscontrabile empiricamente e descritta fin dalla metà del 1800, siccome non è ancora comprensibile e spiegabile dalla scienza, di conseguenza vada esclusa dalla lista pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. Così a tutt’oggi tale malattia non dispone d’alcun riconoscimento legale. L’assenza d’un sussidio pubblico lede non solo la dignità e l’autonomia del paziente, ma il mancato riconoscimento giuridico diventa per ciò stesso anche mancato riconoscimento sociale.

Psicosomatica (PsicoNeuroEndocrinoImmunologia=PNEI)

La PsicoNeuroEndocrinoImmunologia (PNEI) prende atto del triplice ponte fra mente/psiche-cervello e corpo: il legame mediato dal sistema nervoso periferico, autonomo-vegetativo e non, il legame mediato dal sistema ormonale e infine da quello immunitario. Ogni problematica ansiogena-angosciante, detta anche stress, ha delle ricadute sull’organismo attraverso i tre collegamenti anatomofisiologici. I quali, però, sembrano ancora non consentire o legittimare alcuna spiegazione specifica per una somatizzazione altrettanto specifica, poiché i tre ponti in questione sono dei sistemi cervello-corpo privi d’una simile caratteristica.

Prospettiva intermedia: psicoanalisi interpretativa del “linguaggio d’organo”

La psicoanalisi del “linguaggio d’organo” propone una semiosi delle somatosi. Se la PNEI incontra già delle difficoltà a dare senso allo sfogo patogeno d’una problematica psichica pure in un solo organo bersaglio che sia semanticamente connesso al contenuto mentale angoscioso, questa difficoltà aumenta davanti a una sindrome algica polisintomatica. Studi sulla selettività del biofeedback, dell’effetto placebo e degli effetti dell’ipnosi confermerebbero empiricamente ciò che non è ancora descrivibile secondo i rapporti causali presi finora in considerazione dalla scienza: esisterebbe fra psiche/cervello e soma/corpo un qualche ulteriore ponte grazie al quale la mirata interpretazione psicoanalitica dei sintomi ha una tangibile ricaduta terapeutica.

Una medicina che sia e si dica davvero basata sull’evidenza (Evidence Based Medicine, EBM) non potrebbe e dovrebbe permettersi di rigettare a priori quei dati empirici che non sa ancora come gestire all’interno del proprio attuale paradigma epistemico: in sostanza, la definizione di psicosomatico lega soltanto un dato sintomo ad un dato paziente affermando l’incapacità delle conoscenze attuali a spiegare la relativa patogenesi. Jung e Hillman hanno cercato d’interpretare il Disturbo da somatizzazione nella prospettiva orientale del kundalinismo chakrico.

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Ricomposizione corporea e rapporto tra massa grassa e magra

MEDICINA ONLINE PALESTRA MUSCOLI IPERTROFIA ALLENAMENTO FIBRE MUSCOLARI ROSSE BIANCHE POTENZIALE GENETICO PESI PESISTICA WORKOUT PRE POST INTEGRATORI PROTEINE AMINOACIDI RAMIFICATI BCAA WHEY CASEINE CREATINA CARNITINA FISICOLa ricomposizione corporea a grandi linee si presenta come una strategia dietetica e di allenamento volta al miglioramento della forma fisica. Andiamo a vedere più nel dettaglio cos’è.

Solitamente quando si affronta l’argomento “dieta” si pensa sempre ad un tot di “chili in meno” quindi ad una perdita netta di peso. Questo è il messaggio che arriva maggiormente: cominciare una dieta è l’inizio di un percorso che vede come meta un miglioramento della propria forma fisica, raggiunto principalmente attraverso la perdita di grasso in eccesso. L’errore comune a tante persone meno esperte è rappresentato dal ritenere la stessa cosa la perdita di peso sulla bilancia e il dimagrimento. Se dovesse essere sorta qualche perplessità alcuni esempi numerici ci aiuteranno a dirimerla. Un ragazzo sulla ventina entra in palestra con un peso di 65kg e una percentuale di massa grassa di circa il 15%, che riflette un fisico non grasso, ma allo stesso tempo neanche molto muscoloso. Dopo un anno di allenamento affiancato da un piano nutrizionale vede il suo peso salire a 75kg e le misurazioni antropometriche per la stima della massa grassa ora gli assegnano un 13% (di grasso corporeo), cos’è successo?

Nonostante la massa grassa espressa in chilogrammi sia rimasta alla fine la stessa dall’inizio del percorso (0.15 x 65 = 9.75 kg) e dopo un anno (0.13 x 75 = 9.75 kg), il ragazzo è dimagrito. Questo è un classico esempio di ricomposizione e se ancora qualche dubbio persiste si può far ricorso alla matematica, rifacendoci alle misure dell’esempio, per notare come la stessa quantità di grasso corporeo assoluta risulti in percentuale, sulla massa corporea totale, diminuita di due punti percentuali (da 15% a 13%). L’aumento ponderale è stato dato dall’aumento della sola massa magra.

Allo stesso modo un ragazzo sovrappeso dopo aver seguito un piano di dieta ed esercizio fisico raggiunge un peso inferiore, ma solo di poco. Una delusione?  Solo se ci si ferma alla bilancia perché il ragazzo potrebbe mostrare una percentuale di massa grassa molto inferiore al punto di partenza il che sullo stesso peso ci indicherebbe un aumento di massa muscolare che, affiancata ad un’abbondante perdita di tessuto adiposo, risulta in un dimagrimento accentuato: ecco perché al posto della bilancia, bisognerebbe effettuare una bioimpedenziometria!

Con l’aiuto della fantasia abbiamo osservato due classici esempi ricomposizione corporea. Essa pertanto si realizza con una variazione relativa e reciproca della quantità di massa grassa e massa magra (a favore di quest’ultima), che risulta funzionale al raggiungimento di un livello prestativo sportivo superiore o semplicemente ad un benessere maggiore.

Rivediamo alcuni punti chiave dell’argomentazione per un’ulteriore delucidazione. La perdita di peso si osserva quando il nostro organismo, in seguito ad opportuni input (dieta e/o allenamento), mobilita le sue scorte energetiche che una volta perse produrranno il calo ponderale. Il dimagrimento invece si manifesta quando, indipendentemente dal peso, si ha un aumento della massa magra o una diminuzione del tessuto adiposo o entrambe le cose contemporaneamente. La ricomposizione corporea significa ottenere un miglioramento della forma fisica attraverso un cambiamento delle proporzioni tra massa muscolare e tessuto adiposo.

La differenza tra dimagrimento e ricomposizione può essere definita come segue: mentre il primo si riferisce ad un aumento relativo del tessuto muscolare, sia che il peso aumenti, sia che il peso diminuisca, la seconda si riferisce ad un aumento relativo del tessuto muscolare (che si cerca di mantenere il più possibile) tramite una riduzione in termini assoluti del tessuto adiposo (che si cerca di ridurre il più possibile).

Come procedere alla ricomposizione corporea?

Sebbene la ricomposizione corporea possa non sembrare una novità ai neofiti della palestra (per ragioni che ora non approfondiamo), la maggior parte di chi si trova ad intraprendere una dieta può trovare utopico raggiungere due obiettivi così ambiti (la perdita di grasso e l’acquisto o il risparmio di massa muscolare) nello stesso momento. Eppure è possibile. Diversi testi espongono consigli e strategie sul come procedere alla ricomposizione corporea Ottimi in tal senso sono i testi di Lyle McDonald The Ultimate Diet 2.0. Advanced Cyclical Dieting for Achieving Super Leanness e The Ketogenic Diet. A Complete Guide for the Dieter and Practitioner, in cui vengono illustrati dei protocolli ad hoc per ottenere il massimo dimagrimento con la minor perdita di tessuto muscolare possibile.

Alla base della ricomposizione corporea c’è la diversa ripartizione dei nutrienti (quindi delle calorie) nei vari distretti corporei (massa magra e massa grassa) che si realizza con un’opportuna scelta del timing di assunzione dei macronutrienti e della tipologia di allenamento. Questo approccio, insieme anche ad un piano di integrazione mirata, è volto al tentativo di modulare la risposta ormonale alla dieta e all’esercizio in modo tale da favorire la massa magra e sfavorire il tessuto adiposo per l’ottenimento della tanto agognata ricomposizione corporea.

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Le tue unghie dicono molto sulla tua salute: ecco come leggerle

MEDICINA ONLINE UNGHIA UNGHIE DICONO SALUTE RIVELANO LEGGERLE INTERPRETARLE SEGNI.jpgL’aspetto delle unghie, la loro struttura, forma e colore sono importanti indicatori dello stato di salute della persona. Ma cominciamo col farci una semplice ma importante domanda:

Com’è fatta una unghia sana di una persona in salute?

Un’unghia sana è resistente, di colore rosato ed è caratterizzata da una superficie uniforme e levigata. Il fatto che le unghie cambino colore e assumano forme strane può significare che ci sia qualcosa che non va nell’organismo. Spesso le cause del cambiamento di aspetto di queste sottili lamine che ricoprono le piccole falangi delle dita risiedono in abitudini sbagliate: ad esempio una manicure troppo aggressiva, l’utilizzo di smalti di qualità scadente, il mancato utilizzo di guanti quando si lavano i piatti o si fa il bucato a mano. A volte, invece, all’origine del cattivo stato di salute delle unghie ci sono traumi o malattie della pelle, come la psoriasi o una micosi, o disturbi interni, ad esempio a carico dell’apparato cardiocircolatorio.

Leggi anche: I dieci comandamenti delle unghie sane, forti e belle: mai più unghie fragili e che si spezzano

Le unghie sono lo specchio della nostra salute

Se solo un’unghia o due presentano un’anomalia, è probabile che il problema sia esterno, mentre se sono tutte le unghie a cambiare colore o forma, è ragionevole sospettare la presenza di un deficit nutrizionale, di un problema del nostro corpo o addirittura di una malattia interna. Ecco alcune caratteristiche che possono essere un campanello  d’allarme da non sottovalutare:

1) Se l’unghia presenta un’esagerata curvatura o convessità verso l’alto e ondulazioni diffuse, può indicare una colite ulcerativa o cirrosi, malattie cardiovascolari, tubercolosi, enfisema; se essa ha delle righe verticali vi sarà carenza di ferro; oppure le unghie sono deboli, è un’indicazione di disfunzioni tiroidee.

2) Una tinta bluastra sulla “lunula” (la mezzaluna alla base dell’unghia) può indicare: cattiva circolazione sanguigna, malattie di cuore, sindrome di Raynaud, spasmi alle arterie nelle mani e nei piedi, dovuti solitamente all’esposizione al freddo intenso, ma a volte associati ad artriti reumatoidi o a malattia autoimmunitaria.

Leggi anche: Di cosa sono fatte le unghie?

3) Se le unghie sono a cucchiaio, sono abbassate ed appaiono piatte o incavate come appunto un cucchiaio, possono essere indice di anemia dovuta a carenza di ferro, sifilide, alterazioni della tiroide o febbre reumatica.

4) Se la metà dell’unghia superiore vicino alla punta del dito appare rosea o bruna mentre l’altra vicina alla cuticola è bianca, ciò può indicare una malattia renale cronica.

5) Profondi solchi orizzontali che vanno da parte a parte dell’unghia sono dovuti a malnutrizione o malattia grave che ostacola temporaneamente la crescita dell’unghia: parotite; morbillo, cardiopatite acuta o compressione di un nervo dell’avambraccio all’altezza del polso.

Leggi anche: Hai voglia di un cibo in particolare? E’ il tuo corpo che ti rivela le carenze nutrizionali che hai

6) Le unghie molto pallide, quasi bianche, possono essere sintomo di anemia, di disfunzioni ai reni oppure di problemi al fegato.

7) Le unghie gialle possono essere spie di problemi respiratori oppure di diabete o, infine, di disfunzioni epatiche. Le unghie sono spesso ingiallite dal contatto con particolari sostanze, come ad esempio la nicotina per i fumatori, se questo non è il tuo caso allora dovresti prendere dei provvedimenti.

8) La crescita rallenta, le unghie diventano più spesse e molto dure, assumono colore giallo o giallo verde, indicano disturbi cronici della tiroide, delle vie respiratorie o del sistema linfatico.

Leggi anche: Le tue unghie sono fragili? Rinforzale e falle crescere più velocemente con gli integratori giusti

9) Strisce rosse longitudinali indicano un sanguinamento dei capillari; se sono molte possono essere un segnale di ipertensione arteriosa stabilizzata, psoriasi o infezione del tessuto che tappezza le cavità cardiache.

10) Chiazze scure, potrebbero indicare un probabile melanoma maligno, specie quando si estendono dall’unghia al tessuto del dito; a volte è una sola macchia grande altre volte un insieme di lentiggini, di solito appaiono più frequentemente sui pollici o sugli alluci.

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11) Se le unghie appaiono picchiettate, cioè la loro superficie presenta depressioni puntiformi che possono essere disposte irregolarmente, potrebbero indicare psoriasi, oppure creano linee regolari che fanno assomigliare l’unghia ad ottone picchiettato, poterbbero indicare alopecia aerata, che è una malattia auto immune poco nota, che dà luogo a perdita parziale o totale dei capelli.

12) Dalla punta delle dita si può capire in anticipo che soffre o soffrirà di malattie al cuore. Il test usato si chiama in termine tecnico “tonometria dell’iperemia reattiva delle arterie periferiche” e misura il modo in cui cambia il volume (forma) della punta delle dita al variare della pressione sanguigna; ciò è sufficiente per mettere in luce le disfunzioni dell’endotelio che riveste internamente le arterie, che sono le prime fasi e precoci dell’aterosclerosi.

I migliori prodotti per la cura delle unghie

Qui di seguito trovate una lista di prodotti di varie marche per la cura ed il benessere di mani e piedi, in grado di migliorare forza, salute e bellezza delle tue unghie e della tua pelle:

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Che cosa succede e che fare se il nostro ascensore precipita?

MEDICINA ONLINE ELEVATOR ASCENSORE MORTE IMPATTO CAVI ROTTURA PRECIPITA TERRORE TERROR FEAR FOBIA SCALE SALIRE SCENDERECavi che si spezzano, cabina in caduta libera, schianto finale: è una sequenza tipica dei film catastrofici e uno dei peggiori incubi di tanti, specie di chi ha la fobia dell’ascensore. Nella realtà è, però, un’ipotesi remota. Per nostra fortuna, gli ascensori sono dotati di molti sistemi di sicurezza: l’ascensore è infatti uno dei mezzi di trasporto più sicuri al mondo (21 volte più delle scale mobili) e ha dotazioni di sicurezza (per esempio, da 6 a 12 cavi di sollevamento di acciaio) tali da prevenire cadute fatali. Ma se per cause imprevedibili (come un terremoto o un attentato terroristico) l’incubo si materializzasse e noi stessimo precipitando, cosa fare?

Accovacciarsi o saltare?

Nessuno dei due. Secondo l’esperto Eliot H. Frank del Centro di Ingegneria Biomedica del Massachusetts Institute of Technology (Mit) di Boston, il gesto più istintivo, cioè accovacciarsi a terra, è sconsigliabile: rischia di provocare gravi lesioni alle ginocchia e alla colonna vertebrale. Altrettanto da scartare è il tentativo di saltare in alto prima dell’impatto per compensare la velocità di caduta: ammesso di avere un perfetto tempismo ed essere abbastanza lucidi ed atletici per riuscirci, cose quasi impossibili, l’unico risultato sarebbe sbattere la testa al soffitto e procurarsi lesioni alla testa.

Sdraiarsi

La migliore strategia scientifica di sopravvivenza è quella sicuramente meno istintiva: è sdraiarsi sul pavimento dell’ascensore a pancia in su, coprendosi la testa per proteggersi dai detriti e aderendo al suolo con la massima superficie possibile. In questo modo la forza dell’impatto (proporzionale alla massa e alla velocità) sarebbe distribuita sull’intero corpo, diminuendo così i rischi di fratture e di lesioni interne, anche se difficilmente ci lascerebbe scampo se la caduta avvenisse da decine di piani di altezza. Meglio farsela a piedi?

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo
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Scapola: dove si trova ed a che serve?

MEDICINA ONLINE Dott Emilio Alessio Loiacono Medico Chirurgo Roma SCAPOLA DOVE SI TROVA FUNZIONI SERVE Riabilitazione Nutrizionista Infrarossi Accompagno Commissioni Cavitazione Radiofrequenza Ecografia Pulsata  Macchie Capillari Ano Pene.jpgLa scapola, anche chiamata omoplata dal greco: ὦμος, che significa “spalla”, e πλατύς, che vuol dire “largo”, (in inglese “scapula” o “shoulder blade”) è un osso piatto, pari (cioè il corpo umano ne contiene due) e simmetrico della spalla; la scapola articola il tronco all’arto superiore di ciascun lato del corpo umano.

Dove si trova la scapola?
La scapola è situata sulla superficie dorsale del torace e si estende dalla seconda alla settima costa.

Forma ed anatomia
Ha una forma triangolare, con l’apice rivolto in basso: presenta quindi due facce e tre margini. Le due facce sono:

  • La faccia anteriore (faccia costale) è rivolta verso la gabbia toracica. Presenta un’ampia concavità, detta fossa sottoscapolare (o subscapolare), che ne ricalca la forma e sulla cui superficie si trovano delle creste trasversali che danno inserzione al muscolo sottoscapolare.
  • La faccia posteriore è divisa da un rilievo (la spina scapolare) in due fosse: la sovraspinata (o sovraspinosa), che occupa il terzo superiore, e la sottospinata o infraspinata (o infraspinosa), che occupa i 2/3 inferiori. Queste 2 fosse danno origine agli omonimi muscoli.

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Funzioni delle scapole
Le scapole hanno tre funzioni principali:

  • agganciare la testa dell’omero alla loro cavità glenoidea, formando così la cosiddetta articolazione gleno-omerale (o articolazione della spalla);
  • dare inserzione alle estremità iniziali dei muscoli costituenti la cuffia dei rotatori;
  • permettere i movimenti della spalla.

Movimenti delle scapole
Grazie ai numerosi muscoli che la scapola ospita, essa può compiere svariati movimenti:

  • Elevazione. È il gesto di elevare le scapole.
  • Depressione. È il movimento di abbassamento delle scapole.
  • Adduzione. È il gesto per cui le due scapole tendono ad avvicinarsi il più possibile al piano sagittale.
  • Abduzione. È il movimento opposto all’adduzione, quindi quello in cui le scapole tendono ad allontanarsi il più possibile dal piano sagittale.
  • Rotazione verso l’alto. È il movimento che compiono le scapole, quando si alzano le braccia verso il cielo.
  • Rotazione verso il basso. È il gesto che eseguono le scapole, quando si portano le braccia dall’alto lungo il corpo.

La scapola si può fratturare?
Certamente si, come un qualsiasi osso dello scheletro umano la scapola può fratturarsi, anche se questo tipo di frattura è piuttosto rara. In genere le fratture della scapola sono determinate da forti traumi al torace od alla spalla, in caso di incidenti stradali, cadute, traumi sportivi.

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Dott. Emilio Alessio Loiacono
Medico Chirurgo

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A che serve la vitamina B12? L’importanza in gravidanza e allattamento

MEDICINA ONLINE BERE LATTE DIABETE BEVANDA CALORIE SODIO MINERALI GASSATA OLIGOMINARALE DISTILLATA INGRASSARE DIMAGRIRE FONTANA MARE PISCINA POTABILE COCA COLA ARANCIATA THE BERE ALCOL DLa vitamina B12 (o cobalamina; in inglese “vitamin B12” o “cobalamin”) è una vitamina essenziale, dal momento che il nostro organismo non è in grado di produrla da solo. E’solubile in acqua e si trova comunemente in una varietà di alimenti come pesce, crostacei, carne e prodotti caseari. La vitamina B12  – unitamente alle altra vitamine del cosiddetto complesso vitaminico B – fisiologicamente aiuta a mantenere sane le cellule nervose ed i globuli rossi – ed è necessaria anche per sintetizzare il DNA, il materiale genetico presente in tutte le cellule. La vitamina B12 è normalmente legata alle proteine del cibo e l’ambiente acido presente nello stomaco ne permette la separazione dalle stesse durante il processo di digestione.

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Cosa avviene alla vitamina B12 dopo averla ingerita?
Nello stomaco, l’ambiente acido e la pepsina staccano la cobalamina dalle proteine cui si trova associata ed essa, poi, si lega alla cobalofillina (o aptocorrina), proteina che viene secreta nella saliva. Nel duodeno, l’azione delle proteasi provenienti dal pancreas determina la degradazione della cobalofillina e la cobalamina, aiutata dall’ambiente alcalino, si lega a una glicoproteina che viene rilasciata dalle cellule parietali dello stomaco: il fattore intrinseco. Il complesso vitamina-fattore intrinseco viene riconosciuto da uno specifico recettore (complesso megalina-cubilina), situato sugli enterociti dell’ileo, che lega il tutto e, tramite un processo di endocitosi, ne permette il trasporto all’interno della cellula.

Fabbisogno nell’adulto, nei bambini, in gravidanza e allattamento
Le linee guida suggeriscono quantità comprese tra 1 e 2 mcg/die come valore medio di fabbisogno per l’adulto normale. Questo fabbisogno, aumenta di almeno il 50%, nel periodo della gravidanza in quanto, oltre al fabbisogno per la madre, c’è quello per il sostenimento della formazione dei globuli rossi del feto in accrescimento, e durante l’allattamento, poiché è attraverso il latte che il neonato assume il suo fabbisogno giornaliero di vitamina B12, Non esistono studi specifici che abbiano analizzato i valori raccomandati per i bambini, e perciò le indicazioni sono basate su quelli degli adulti e proporzionate al dispendio energetico (da 0.4 mcg al giorno per i neonati fono a 6 mesi, fino a 1.8 mcg nei soggetti di 9-13 anni).

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Vitamina B12: in quali cibi trovarla in abbondanza?
La cobalamina si trova in abbondanza nei prodotti di origine animale (carne, pesce, latticini, uova). Gli alimenti che ne contengono di più sono fegato, molluschi e alcuni tipi di pesce. Per questo motivo per chi sceglie una dieta completamente vegetariana o vegana è vivamente consigliabile il ricorso a integratori di vitamina B12. Nell’intestino umano esistono batteri sintetizzanti cobalamina ma sono situati in zone dove il fattore intrinseco (vedi paragrafi precedenti) non arriva per cui l’assorbimento di quest’ultima è irrisorio.

Deficit di vitamina B12
Livelli di vitamina B12 inferiori a 200 pg/ml sono considerati indicativi di un deficit della vitamina. Anche i livelli di omocisteina e di acido metilmalonico possono indirettamente essere indicativi di ipovitaminosi da vitamina B12. L’omocisteina aumenta in caso di bassi livelli di vitamina B12 (> 13 micromoli/L), ma poiché risente anche di altri fattori (vitamina B6 e acido folico) è un marker poco specifico. L’acido metilmalonico è un marker più specifico perché la sua conversione ad acetilCoA dipende direttamente dalla vitamina B12: in caso di carenza della vitamina i livelli sierici di acido metilmalonico aumentano (> 0,4 micromoli/L).

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Quando si verifica una carenza di vitamina B12?
Stati di carenza di vitamina B12 si verificano in caso di:

  •  processi patologici interessanti le cellule parietali dello stomaco o per resezione delle parti di quest’organo che secernono fattore intrinseco (cardias e fondo)
  • uso di contraccettivi orali
  • scarso apporto con la dieta (tipicamente in chi segue una dieta vegana o vegetariana)
  • eccessiva assunzione di alte quantità di vitamina C (> 1 g): ciò può generare stati carenziali di cobalamina dal momento che – ad alte dosi – la vitamina C, in presenza di ferro, si può comportare da ossidante e formare radicali liberi che danneggiano la cobalamina e il fattore intrinseco.

Cosa succede in caso di deficit?
Il deficit di cobalamina provoca la comparsa di anemia perniciosa, malattia caratterizzata da: anemia megaloblastica e disturbi del sistema nervoso. È sempre importante, in questi casi, valutare la concentrazione di cobalamina e acido folico in quanto anche la carenza di quest’ultimo provoca un quadro di anemia megaloblastica però senza interessamento nervoso. L’aggiunta di acido folico in una situazione di anemia perniciosa migliora il quadro anemico ma non ha nessun effetto sui disturbi del sistema nervoso che, anzi, continuano a peggiorare.

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